IAT Journal 2/2015

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Natanaele, io ti insegnerò il fervore (André Gide, I nutrimenti terrestri)

IAT Journal - I • n. 2 - 2015

Una non breve premessa

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Senza libertà l’uomo è una sincope (Will, Will Hunting – Genio ribelle)

Qualsiasi insegnante che si immerga nel mestiere magistrale con un minimo di cognizione – e non sotto l’impulso di agire la relazione con l’allievo in una condizione di inconsapevolezza di sé1 – sa bene che l’atto educativo è foriero di un paradosso, affascinante quanto pervasivo, che Philippe Meirieu ha ben postulato nel suo Frankenstein Educatore: «desideriamo “farli riuscire” al meglio, ma comprendiamo che questa riuscita li assoggetterebbe, senza dubbio, a limitazioni inconciliabili con la loro libertà, limitazioni che, d’altra parte, il più delle volte non siamo in grado di imporre loro. Abbiamo “fatto” un bambino e vogliamo “farne un uomo libero” … come se la cosa fosse semplice! Poiché se lo si “fa”, non sarà libero, o almeno non lo sarà veramente; e se è libero, non potrà non sottrarsi alla volontà e alla velleità di fabbricazione del suo educatore» (Meirieu, 2007, p. 23). Come Narciso, dunque, notoriamente innamorato della propria immagine riflessa, anche l’insegnante (e l’adulto educatore in genere), corre il rischio di volersi riflettere nell’allievo-educando, di farlo a sua immagine e somiglianza, nella convinzione di agire per il suo bene, di compiere delle scelte per lui. E il rischio più grande l’educatore lo corre nel momento in cui è convinto di farlo non solo per lui ma con lui, ignorando il potere asimmetrico della relazione educativa, il più delle volte celata nella pretesa (quasi mai apertamente dichiarata poiché agente nel paradosso) di essere nel giusto, di agire nel bene lampante delle sue finalità e nel solco del buonsenso. In fin dei conti, ci rammenta ancora Meirieu, l’educatore che non sa bene o, aggiungiamo noi, non ha attentamente problematizzato quello che fa «arriva a dar vita a un essere che gli assomiglia abbastanza da essere considerato riuscito» (Meirieu, 2007, p. 24). La questione, come è facilmente intuibile, ha diversi risvolti ciascuno dei quali rimanda a implicazioni di carattere pedagogico oltre che psicologico. La più evidente è quella inerente il prodotto finale, l’esito. Fare dei nostri allievi uomini e donne davvero liberi, emancipati, autonomi (termine questo più aduso nel lessico pedagogico didattico nostrano) contempla da un lato la volontà dell’educatore di sviluppare il talento di ciascuno (questo nell’ottica irenica di una scuola e di una società realmente e non solo idealmente interessate a far sì che si chieda a ciascuno secondo le sue possibilità e si dia a ciascuno secondo le sue necessità) (Fofi, 2012) e, dall’altro, – se davvero emancipati e liberi – la possibilità degli allievi di rifiutare il loro talento, di scegliersi in una direzione ostinata e contraria (citando Fabrizio De André) financo di perdersi. Rispettare l’altro, in1

Ci riferiamo all’affermazione della insegnante e scrittrice Paola Mastrocola nel libro La scuola raccontata al mio cane, Guanda, Milano, 2004. Abbiamo polemizzato a distanza con l’autrice nel nostro F. Bocci, 2005.


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