Il nostro piccolo Mondo

di CHRISTINE e ALDO

IL NOSTRO NOSTRO PICCOLO PICCOLOMONDO MONDO

didiCHRISTINE CHRISTINE e ALDO e ALDO

Panorama di Merano

Siamo genitori e nonni, abitiamo a Merano e viaggiamo da più di 40 anni, prima con lo zaino, poi in tenda, in roulotte, in camper e in seguito in fuoristrada.

Viaggiamo da soli, ma di tanto in tanto incontriamo vecchi amici o nuove conoscenze e con loro facciamo un po’ di strada assieme.

Programmiamo i nostri viaggi a tavolino, ma l'ospitalità della gente, gli enormi spazi, le bellezze naturali e la semplicità del viaggiare in alcuni paesi ci fanno spesso modificare il programma iniziale.

Chissà se basteranno 4 anni per arrivare nella terra di “Zanna Bianca”? In Snshallah…C Viaggio appunto, non spedizione, non vacanza frettolosa. Ci muoviamo copiando dalla natura, quindi come una tartaruga, passo dopo passo, la casa “in spalla” (si fa per dire) senza fretta, attenti al sorriso di un bambino o alla preghiera di un anziano. Non è un’impresa eroica e coraggiosa, solo un lento procedere dove non servono le prenotazioni obbligatorie, dove l’orologio ed il calendario non sono la discriminante, un cammino che chiunque può intraprendere purché dotato di voglia di conoscere, desiderio di confronto e capacità di adattamento.

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Egitto sub

Che viaggiare sia bello è innegabile, ma la fase che precede il viaggio è forse la più emozionante ed avvincente, specialmente se la preparazione si svolge lentamente, quasi passando alla moviola della fantasia tutte le situazioni che potrebbero presentarsi nel corso del nostro viaggio verso Sharm el Sheikh.

Prese le debite precauzioni sanitarie partiamo con una montagna infinita di scatolame vario ed un metro cubo di rullini fotografici.

Attraversiamo velocemente la Jugoslavia, la Grecia e la Turchia. Entriamo quindi in Siria, ma l’impatto con la loro dogana non è dei più felici: ci trattano con sufficienza e dopo due ore di inutili pignolerie ci fanno finalmente passare. Per fortuna da questo momento in poi le cose cambiano: la proverbiale disponibilità e cortesia araba ci accompagna ovunque, negli oscuri labirinti di Aleppo e nella favolosa e magica Palmira. In Giordania, la sola Petra giustifica i 5000 km fatti. L’emozione è grande nel percorrere la profonda gola di rocce coloratissime erose dal tempo. Proseguiamo sulla Desert Road verso il Wadi Rum e scorrazziamo su queste sabbie ora gialle, ora rosa che furono teatro delle gesta di Lawrence d’Arabia.

Ad Aqaba approfittiamo per tuffarci e rituffarci nelle tiepide acque del Mar Rosso. Traghettiamo con destinazione Nuweiba e giungiamo finalmente alla meta del nostro viaggio: il Sinai con le sue meravigliose barriere coralline.

Facciamo campo a 60 km dal primo centro abitato, inventariamo tutto lo scatolame e soprattutto la preziosissima acqua meranese, stabilendo già a priori i menù giornalieri. Restiamo qui 16 giorni senza mai muoverci. I menù non sono entusiasmanti: si passa con disinvoltura dalla carne Simmenthal a ben quattro gusti di Spuntì, il tutto innaffiato dal vino di mio padre che a causa del viaggio ha un gusto indefinibile e si degrada di giorno in giorno.

La cucina è monotona, è vero, ma siamo abbondantemente compensati dall’essere a meno di dodici passi dal più bel mare che un sub possa sognare e da questo momento ha inizio la nostra grande avventura nel Mar Rosso.

Quando si dice "non un filo d'erba"... la nostra baia è letteralmente così.

Abbiamo negli occhi quella tremenda visione di siccità, ma lo spettacolo sott'acqua è impensabile e sembra offerto di proposito dalla natura per riscattare la desolazione della superficie.

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Nelle acque tiepide e immobili di una piscina naturale scavata tra spiaggia e coralli indossiamo la maschera e partiamo alla scoperta di questo mondo.

Nuotiamo tra migliaia di pesci diversi per forme, dimensioni e colori, tra rami di coralli viola, gialli, rossi e policrome forme madreporiche su di un fondale punteggiato da conchiglie.

Ci muoviamo nell'acqua, sospesi senza peso di fronte ad una meravigliosa parete a strapiombo, circondati da squali, da pesci balestra, pappagallo, chirurgo e da tutti gli altri abitanti di questo fantastico mare. Sotto di noi razze di diversa grandezza e colore: le più belle sono quelle maculate dalla lunga coda. Pesci trombetta sfrecciano in pochi centimetri d’acqua e una miriade di minuscoli e coloratissimi pesci si muovono frenetici tra i coralli. Basta indossare una maschera e galleggiare sulla calma superficie di questo incredibile mare per essere rapiti da un mondo fantastico.

Non è necessario essere provetti sub, basta la curiosità ed il tempo perde allora ogni significato. Sotto di noi appare una vita quasi sconosciuta. Innumerevoli pesci indaffarati nuotano nel reef, gigantesche forme madreporiche innalzano i loro pinnacoli formando intricati canyon, delicate attinie agitano i loro tentacoli colorati mentre i pesci pagliaccio fanno capolino con la loro rossa livrea. Il sole crea incredibili giochi di luce nell’acqua azzurra e verde tra praterie di coralli a corna d’alce. Sul fondo, una sabbia finissima e bianchissima. Il fondale degrada ed improvvisamente strapiomba nel blu.

La luce diminuisce, i rossi e i gialli vividi virano lentamente in un indecifrabile grigio / blu. Lo sguardo rapito si perde fra le colonie di idrozoi, di alcionari, nel delicato ondeggiare dei ricamati ventagli delle gorgonie. Branchi di pesci sembrano sospinti dal perenne fluire della corrente. Gli eleganti pterois volitans mettono in bella mostra le loro leggiadre pinne e ammiccanti murene guardano curiose dalle loro tane.

In questo mare tutto è vita: dai grandi pesci pelagici alle testuggini, dalle leggendarie forme e colori dei pesci farfalla, al maestoso incedere delle grandi mante, alla delicata bellezza dei piccoli e coloratissimi nudibranchi.

Ogni anfratto è una potenziale tana e riparo. Grandi grotte ospitano intere colonie di piccoli Rased Fish che si sporgono attraverso le grandi aperture da cui filtra una luce indefinibile, riflessi sfumati di un caleidoscopio di colori.

Un incontro fortunato: abbiamo fatto amicizia con un dugongo femmina di cinque metri. Questo sirenide in via d’estinzione ha giocherellato con noi in quasi tutte le immersioni. L’emozione, lo stupore e l’eccitazione di nuotare a fianco a questo gigante del mare è un sogno e se questo è un sogno, per favore non svegliateci. Un fitto banco di carangidi d’argento ci nuota placidamente a fianco. Alla vista di questa abbondanza di pesce penso tristemente alla nostra misera cena. Sapevo già prima di partire che a causa del nostro isolamento mi sarebbe spettata solamente trippa, Simmenthal o Spuntì. Penso al vino bianco che è in frigo, al grill, al crepitio della carbonella accesa, al trito finissimo di spezie per il pesce portato dall'Italia, alla favolosa serata con gli amici, alle godurie del palato... Titubante sul da farsi, vedo la mia cena allontanarsi e sparire nel blu profondo. Anche se il pasto serale sarà solo scatolette sono contento di non aver disturbato questo meraviglioso spettacolo, per una volta non essere il solito uomo distruttore.

Nell’acqua cristallina la murena, di cui tanto si è detto e fantasticato, fa capolino dalla sua tana.

Il suo aspetto sinistro è accentuato da quel suo continuo ansito. In realtà ogni due o tre secondi deve aprire la bocca per favorire la respirazione e questo suo modo d’essere è spesso scambiato per un atteggiamento minaccioso.

Là vicino una tridacna, la conchiglia più grande di questi mari corallini, si presenta semiaperta come una tagliola sul fondo del mare. Il suo mollusco sporge dai bordi seghettati che sembrano due labbra carnose dai colori vivaci e sempre diversi.

I giorni passano veloci, le nostre ferie sono ormai agli sgoccioli.

Ci resta con un piccolo brivido: il ricordo dei non affamati squali del Mar Rosso che abbiamo più volte incrociato senza mai avvertire aggressività o pericolo.

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Guinea Conakry.

Sei anni in Land Rover 130.

Guinea Conakry.

Sei anni in Land Rover 130.

Dopo centottantamila chilometri, con molto rammarico, Christine ed io decidiamo di vendere il nostro Land 130 e anche la cellula della Modulidea. La vediamo allontanarsi e sparire nella superstrada che la porterà nel Lazio. Sapremo in seguito che donerà gioia e soddisfazioni, oltre che a mamma e papà, anche ai figli, ormai autonomi, Andrea e Maurizio. La nostra Land ci ha portato sempre fedelmente a casa ed è stata con noi in Europa, Asia ed Africa regalandoci soddisfazioni, forti emozioni ed anche qualche momento di panico.

In 180 000 chilometri abbiamo subito i seguenti guasti: - Rottura di un semiasse posteriore tra le sabbie del Sinai trainando un nostro compagno di viaggio - Rottura di un semiasse posteriore sulle dune libiche attorno al lago di Gabron - Rottura del cuscinetto dell’alternatore (Niger), per cui siamo stati trainati per un giorno intero e solo a Tammarrasset (Algeria) riusciamo a risolvere parzialmente il problema - Sostituzione di un cuscinetto e paraolio posteriore a N’Dyamene (Ciad) - Saldatura dei supporti delle due barre che tengono in linea l’assale posteriore (Nepal) - Sostituzione di tre pneumatici a causa di allagamenti monsonici e non trovandoli uguali siamo stati costretti a sostituirli tutti (India) - Sostituzione in garanzia dell’ingranaggio della seconda marcia e di cinque cerchioni, perché risultati difettosi - A 100 000 chilometri è stata sostituita, per precauzione, la frizione completa - Rottura di un ammortizzatore posteriore in Mali e di due anteriori in Camerun (non originali) - Riguardo ai serbatoi inox supplementari per il gasolio (280 litri) e per l’acqua (130 litri) è meglio stendere un velo pietoso perché, un viaggio sì e l’altro anche, sono sempre tornato con i piedi a bagno nel gasolio. Con il senno di poi e a detta degli esperti avrei evitato l’80% delle mie rotture se avessi viaggiato sotto i 35 quintali (limite massimo consentito) e soprattutto non con gli pneumatici da 9 pollici.

Un grosso grazie al nostro Land 130, un elogio alla direzione, alle maestranze e ai meccanici, in seguito diventati preziosissimi amici, delle concessionarie Land Rover di Merano e di Bolzano. Tutti si sono sempre immedesimati nella tipologia dei viaggi da me prospettati considerando il nostro fuoristrada come una propria creatura.

Dieci e lode al generosissimo motore affidabile e parco nei consumi.

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Il dopo Land Rover È il momento di pensare al futuro! Il pick-up Toyota Land-Cruiser ‘79 (4200 cc aspirato 6 cilindri con pochissima elettronica), comunissimo in Asia ed in Africa, è il mezzo per le nostre esigenze. Per la parte abitativa ci rivolgiamo alla ditta “Campertre” che ci costruirà in vetroresina un modulo abitativo su misura, che verrà appoggiato con dei silent bloc sul telaio, eliminando così 220 chilogrammi di cassone: altezza 1,65 metri, più il tetto alzabile, larghezza 2 metri, lunghezza metri 2,55; il peso è di 420 chilogrammi.

Christine ed io lavoriamo per due mesi in un garage, l’arrediamo di sana pianta: un letto matrimoniale, porta Potti chimico, batteria con tre pannelli solari, lavello, cucina a due fuochi, doccia interna ed esterna, serbatoio in vetroresina da 200 litri per l’acqua, uno da 30 litri per quella potabile e uno per il gasolio di 310 litri, tre finestre e un oblò con ventilatore con zanzariere, gavone esterno per la bombola del gas, riscaldamento a gasolio, parabufali e una bagagliera che conterrà la sesta ruota di scorta completa di cerchione.

Parte meccanica: abbiamo aggiunto un foglio di balestra, cambiato gli ammortizzatori, alzando la macchina di 7 centimetri ed abbiamo aggiunto posteriormente due attacchi per la binda.

Ci è stata installata l’aria condizionata e una conduttura di questa l’abbiamo convogliata in una cassaforte, posizionata tra i due sedili di guida, per i rullini fotografici.

Il viaggio Il 28 agosto, davanti ad un tavolo pieno di carte geografiche, in sei amici decidiamo di andare in Guinea Conakry attraversando: Francia, Spagna, Marocco, Mauritania, Senegal e Gambia. Come al solito le mogli, essendo responsabili della navigazione satellitare, curano la cartografia, la tempistica e la cambusa. Noi maschietti pensiamo alla preparazione del mezzo, all’attrezzatura video fotografica e alla parte pubblicitaria del viaggio. Ci riuniamo ancora un paio di volte: siamo gasatissimi, stabiliamo orari, soste e metodologia di viaggio. Dalla cartografia in scala uno- duecentomila constatiamo un unico tratto di 700 chilometri privo di rifornimenti. Questa pista ci porterà dal Senegal alla Guinea attraverso una foresta agibile solo nel periodo secco. Calcoliamo le scorte di gasolio e di acqua. (Quante volte abbiamo fatto i conti? Cinque litri d’acqua a testa al giorno per cinque giorni; raddoppiamo per eventuali emergenze …) Ogni equipaggio si lascia andare a fantasticherie: " T’immagini una pista rossa che attraversa una lussureggiante giungla tropicale che la sovrasta e la ricopre fino a soffocarla, ricca di una fauna da sogno?..."

11 settembre A causa dell’attentato alle Torri Gemelle di N.Y, la situazione in Africa sta diventando sempre più incerta. Ritardiamo la partenza per vedere come evolve la situazione, ma la voglia di provare il nostro nuovo fuoristrada è tanta! Purtroppo i nostri compagni di viaggio si ritirano, ma noi con molta titubanza partiamo da soli il 27 novembre.

A Nimes, in Francia, durante una sosta notturna in una distributore dell’autostrada aperto 24 ore su 24, a quindici metri dalla cassa, con un piede di porco ci scassano la porta della cellula (rovinandoci irreparabilmente la serratura), senza riuscire ad entrare grazie ad un provvidenziale chiavistello che avevo installato all’interno.

Come inizio niente male! Mi fermo a Nimes ed un fabbro gentilissimo (fuoristradista) mi mette a disposizione l’officina: tra un racconto di viaggio suo e uno mio, risolvo il mio problema con tre lucchetti esterni: due alle portiere del nostro Toyotone e uno sulla porta d’ingresso della cellula abitativa. Costo zero, spaghettata in cellula, scambio d’indirizzi, baci e abbracci. Dopo aver guidato ininterrottamente sino a sera usciamo dall’autostrada spagnola e decidiamo di dormire in un piccolo paese di contadini. Ad Algesiras siamo contattati da un simpatico spagnolo senor Josè, che ci propone dei biglietti per il traghetto per Ceuta a prezzi vantaggiosi. Ci consiglia, inoltre, di dare una poderosa limata all’altezza (-34 cm) del nostro camper.

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Così, usufruendo degli sconti riservati ad un’immaginaria comitiva e una pinocchiata sull’altezza del mezzo, entriamo nella vantaggiosissima categoria “fuoristrada” (lire 357 500 con il ritorno aperto per un anno). Il senor Josè è organizzatissimo e ci dà anche una piantina che ci servirà per raggiungere una piazzetta vicino al mare dove camperisti e camionisti trascorrono la notte in sicurezza. E’ uno spettacolo vedere tutte quelle macchine che attendono di imbarcarsi: fuoristrada, moto e camion preparati per tutti i gusti! Qui la fantasia è esplosa: i tigrati, i pluricolorati, i supertecnologici, i”fighi”….e i validi! Un altro spettacolo sono le macchine dei marocchini, piene zeppe all’interno e all’esterno delle cose più incredibili (motocicli, materassi, infissi…)

A Ceuta rimpinguiamo le scorte di gasolio (400 litri x 900 lire) che ci basteranno fino al profondo sud del Marocco. Come al solito facciamo una deviazione per raggiungere Essaouira per una mitica mangiata di pesce: per 200 Dirham siamo travolti da una cascata di scampi cotti alla griglia, granseole, sardine, orate, cefali e pesce fritto a volontà, tutto innaffiato da un fresco Tavernello opportunamente travasato in una bottiglia dell’aranciata che ci passiamo sotto il tavolo per non urtare la sensibilità musulmana. Percorrere il nastro d’asfalto lungo l’Atlantico è una gioia per gli occhi: ampi spazi e viste panoramiche su scogliere a picco sul mare dove nidificano i cormorani.

Quando l’Atlantico s’infuria l’acqua entra in grotte sotterranee con violenza inaudita, per poi essere espulsa all’esterno fino a 60 metri d’altezza. La sosta notturna su queste falesie è una sensazione da non perdere: stupendi panorami di spiagge deserte quasi caraibiche, dei quali non ci si stanca mai.

Il traffico è pressoché inesistente, ma la salsedine portata dal vento rende l’asfalto viscido.

Foschia mista a nebbia, causata dalla fortissima umidità portata dall’oceano, ci accompagna per qualche giorno. Questa zona è l’inizio del territorio Saraoui (ai quali nessuno ha mai chiesto un parere, ma si sono presi un sacco di botte, senza sapere il perché). Nel Polisario, nonostante la guerra sia finita da anni, ci sono ancora spiegamenti non indifferenti di militari e di polizia ed i passaporti sono consumati dai molteplici ed assolutamente inutili controlli per avere un sacco d’informazioni dettagliatissime: padre, madre, professione, caratteristiche del mezzo e così via, che sono sempre trascritte sul primo pezzo di carta che trovano, che è poi il sacchetto dove c’erano i datteri del loro pranzo. Professionalità e serietà encomiabili! Riempiamo i serbatoi (1litro di gasolio = 2,92 DH = 550 lire).

I camperisti in cerca dell’eterna primavera Tornando dalla Guinea Conakry sostiamo alcune settimane lungo il litorale oceanico in compagnia di simpatici camperisti che arrivano a frotte dopo le festività natalizie e ritornano a casa per Pasqua.

Quest’anno (causa Bin Laden) sono un po’ meno, altrimenti se ne contano oltre un migliaio. In maggioranza sono francesi (40%), seguiamo a ruota noi italiani (30%), il resto sono tedeschi, olandesi, pochi inglesi e qualche scandinavo. Età media: 65/70 anni. Sono molto disponibili, come tutti i camperisti, attivi, giovanili, informati ed abbronzatissimi. Hanno un parco macchine che non supera i quattro anni di vita e tutti sono provvisti di biciclette e di antenna satellitare. I più anziani prediligono il campeggio d’Agadir, perché dotato di guardia medica, ma durante il giorno muovono il camper e vanno a trovare gli amici che sostano sul bordo dell’oceano.

Continua intanto alla nostra destra la costa atlantica che ci permette di fare delle foto singolari.

Raramente succede di trovarsi in luoghi altrettanto adatti al turismo itinerante: niente divieti, una quantità infinita e inimmaginabile di spazi idonei alla sosta, spiagge di cui spesso non si vede la fine o baie incantevoli racchiuse tra imponenti speroni rocciosi: tutto facilmente raggiungibile anche con il camper a due ruote motrici. I camperisti hanno a disposizione più di mille chilometri di costa e si spostano pian piano verso sud. A Dakhla i pescatori scelgono il bordo dell’oceano mentre i vacanzieri vanno ad est in un’insenatura dove fanno il bagno e in bassa marea raccolgono mitili e cappe lunghe. L’eccedenza è messa in vasi di vetro, sterilizzata e portata a casa. Alcuni si fanno la marmellata d’arance (tarocchi a 200 lire al kg.), altri si mettono via le acciughe sotto sale (4000 lire a cassa) e c’è anche chi si fa curare i denti: una capsula lire 80 000. Ho visto carrozzieri e meccanici all’opera in campeggio ed anche lungo la costa. Mi è stato presentato il nonno del campeggio: 83 anni, ben portati, fisico asciutto, completamente rasato a zero, pelle scura ed un panama bianco portato sulle ventitré, vedovo da 4 anni. Occupa la stessa piazzola da 24 anni, completamente recintata con steccato di legno, con tanto di cancelletto, cassetta della posta, placca con nome e cognome.

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Il convoglio A Dakhla il convoglio parte il martedì e il venerdì. Christine ed io ci presentiamo al posto di Polizia per la registrazione e ci vengono controllate assicurazione e carta verde.

La Polizia è veloce, disponibile e molto professionale. Poi tutti in fila: i militari ci scorteranno per 345 chilometri fino a Bir-Gouendouz. Il convoglio è composto da una sessantina di mezzi locali, una ventina di “Peugeottari o marchand”.

Consuetudine in Francia è quella di acquistare una vecchia Peugeot, auto cult per l’Africa, e percorrere migliaia di chilometri in terra africana per poi rivenderla a qualche malcapitato indigeno. In seguito, in Germania, si è sviluppato lo stesso fenomeno, però con le Mercedes. Alcune sono troppo nuove e sono convinto che qualche proprietario in Europa stia ancora soffrendo per la dolorosa perdita. C’è chi lo fa per turismo, chi lo fa per lucro e chi lo fa per professione. Si parte con il rottame, si raggiunge il luogo di vendita il più presto possibile, senza dare spazio a interessi turistici vari, si cerca di vendere al miglior prezzo possibile e con i soldi guadagnati si rientra a casa per ricominciar da capo il tour de force.

Mentre aspettiamo il via da ore, c’è chi approfitta per uno spuntino.

Un baldacchino, a metà strada tra una pescheria e un tabacchino, vende delle crepes cotte su piastre spalmate d’olio (Selenia 15/40) ripiene di gamberetti o di pollo o di legumi, di carne tritata di chissà quale povero animale, disponibili anche in versione dolce. Uno spettacolo per il palato e un thriller per il fegato. Noi ci fidiamo invece dei bignè, ripieni di creme dagli indubbi poteri lassativi e devastanti per la flora e per la fauna batterica del nostro intestino. Dopo una notte trascorsa a Bir-Gouendouz i militari ci consegnano i passaporti; espletate in due ore le pratiche doganali, ci lasciano liberi ed entriamo in Mauritania.

Lungo la pista vediamo un immenso cimitero d’auto. Sono le vetture abbandonate dai “marchand” per un insabbiamento profondo o un guasto grave o perché saltate sulle mine. Oramai sono solo scheletri che emergono come zombie dalla sabbia, “ripuliti” di qualsiasi cosa possa essere recuperata o rivenduta; sono smerigliate dal continuo sferzare della sabbia portata dal vento e bruciate dal sole implacabile del Sahara.

Un convoglio di “scassoni”, con i quali nessuno si azzarderebbe neppure ad andare a comprare le sigarette, si divide in tanti piccoli gruppi, tutti capitanati da una guida. Intraprendono piste diverse: un folto gruppo si dirige a Nouadhibou, altri fanno la pista interna più adatta ai camion, alcuni ancora (i Peugeottari) faranno quella del parco “Du Band’Arguin”.

Franco e Stefano (liguri) e il loro Discovery di 13 anni, 270000 chilometri (in vendita) si uniranno a noi fino a Dakar. Sabbia e pietre è quello che rimane della vecchia strada asfaltata: una fettuccia nera impraticabile corrosa dall’azione combinata di sabbia, vento e sole, sminata (così dicono) nel 2001 che dopo pochi chilometri si rivela disastrosa.

Il primo a passare è un Mercedes olandese che dopo tre metri annega nella sabbia.

Una 2 CV anni ’70, multicolore e con “un’accesoristica” non prettamente africana ma più da "gita di Pasquetta", è quella che se la cava meglio; le Peugeot, le altre auto e i furgoni, alla ricerca di una via alternativa, s’insabbieranno tutte intorno al Mercedes nel raggio di duecento metri. È stata l’apoteosi delle piastre da sabbia (cava e metti - cava e metti), delle videocamere, delle macchine fotografiche e dei buoni samaritani italiani che vanno ad aiutare tutti.

Il massimo spettacolo l’ha dato un vecchissimo camion a trazione integrale Mercedes che aveva lo scopo proprio di “scopa”, cioè di racimolare gli insabbiati: partito a razzo, ondeggiando qua e là paurosamente, come una pallina da ping pong impazzita, pareva che dovesse decollare ed è invece naufragato contro una duna. Un’ecatombe di mezzi! La scena è avvolta da una nebbiolina biancastra ed acre dall’inconfondibile puzzo di frizioni bruciate. Ci vuole un’intera mattinata per rimetterli tutti in sesto.

Noi ci congediamo da questo gruppo di “scassoni”. Salutiamo la loro guida mister Salah detto” sfinge o mummia” perché non muove un muscolo e sorride per sbaglio, alto, magro, serio ed elegante nella sua tunica damascata color sabbia con pantaloni, chèche in tinta, dente d’oro e Rayban con etichetta; ai piedi due scarpe da pallacanestro stile anni sessanta.

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La diretta Vediamo il convoglio allontanarsi e sparire verso ovest. Tracciamo una rotta sulle nostre cartine da Bir Gouendouz a Nouakchott, rileviamo i punti, li trasferiamo sul nostro satellitare ed assieme all’equipaggio ligure iniziamo l’attraversata denominata “la diretta” di 460 chilometri. Affrontiamo le dune che lasciano posto ad altre in un susseguirsi di sabbia senza fine. La situazione del terreno migliora: i piccoli corrugamenti dichiarano una discreta compattezza perché il vento ha pulito lo strato di sabbia più soffice.

Con la pressione a 0,8 su un fondo come questo ci si muove quasi senza limiti. Cielo, dune ed un Toyota: "Questa è vita!" continuiamo a ripeterci su e giù sulle dune! L' emozione trabocca alla grande.

Questi valloni screpolati dal sole si alternano a cordoni d' alte dune rossicce. Si presentano scenari particolari: cordoni di dune di sabbia, letti di fiumi in secca in attesa di una improbabile acqua, pietraie da paesaggio lunare. Valicare queste cime è bellissimo e fa pensare alla neve ed allo sci: cercare il passaggio, valutare la consistenza della sabbia, sfruttare le pendenze e giù, verso la prossima salita.

Aiutati dal GPS, è entusiasmante muoversi in ogni direzione, liberi e veloci, anche se ogni tanto c’è qualche insabbiamento, correre giù dalla macchina, arrampicarsi per vedere al di là delle dune, urlare al compagno preziosi suggerimenti su come aggirare l'ostacolo. Ogni giorno passato nel deserto è più bello del precedente; ogni mattina vorrei che le giornate fossero lunghissime.

Attraversiamo i binari della ferrovia Zuarate-Nouadhibou. Su questa linea ferroviaria viaggia il treno più lungo del mondo, un serpentone lunghissimo di cui non si vede la fine, che trasporta i minerali fino a Nouadhibou. Durante il suo lentissimo incedere ti chiedi quanto sia lungo e solo dopo qualche minuto di silenzio totale, in cui il rumore di ferraglia spadroneggia su tutti gli altri suoni, arrivano gli ultimi dei 250 vagoni; solo allora riesci di nuovo a respirare! Puntiamo ad ovest verso l’Atlantico, evitiamo i Ranger e l’entrata del parco “Du Banc d’Arguin”. Il parco si estende su 13.000 chilometri quadrati tra mare, costa e deserto. La pescosità di queste zone garantisce la sussistenza delle popolazioni costiere.

Grandi stormi di gabbiani, cormorani e altri uccelli sorvolano queste zone quasi disabitate, mentre la costa è disseminata di relitti di navi poiché la maggior parte dei pescherecci, in Mauritania, sono fatiscenti e inadatti alla navigazione. Molti cadono a pezzi solo a guardarli ed altri sono lasciati arenare per incassare il premio dalle assicurazioni. La Mauritania è uno dei paesi più poveri dell’Africa e il 60% del suo reddito nazionale è costituito dalla vendita di concessioni per la pesca.

Nel tardo pomeriggio, dopo ore di deserto, superato il crinale dell’ultima duna polverosa, ci appare in lontananza il maestoso e immenso Oceano Atlantico. Uno spettacolo surreale, dove onde possenti s’infrangono direttamente sulle prime propaggini del deserto sahariano. Veniamo rapiti dalla magia e dal fascino di questo binomio inusuale: due distese sterminate, una ocra e l'altra azzurra.

Decidiamo di aspettare qui la bassa marea. Il sole sta calando e tinge la distesa di sabbia di un rosso brillante.

Le curve sinuose e avvolgenti disegnano maestosi festoni e trasmettono un’irrefrenabile voglia di salire a piedi su di esse per poi lasciarsi rotolare giù. Via via la luce si trasforma in oscurità assoluta.

I profili delle dune diventano imperscrutabili e incombono sotto un manto di stelle che solo l’Africa sa regalare.

La luna sembra una torta margherita vista dall’alto con tanto zucchero a velo sopra.

Nella penombra mi accorgo di essere attorniato da sfacciati topini canguro che saltellano vicino ai resti di un panino.

In lontananza si vedono i fari dei pick-up mauri ed il loro carico, legato alla meglio, assomiglia ad una monumentale mongolfiera di sacchi di juta, da dove sporgono miracolosamente a grappolo una decina di passeggeri, che sembrano beneficiare di una legge di gravità diversa da quella in vigore sul resto del pianeta. È il segnale che aspettavamo: la bassa marea! Iniziamo un’estenuante corsa ad ostacoli, dribblando dune, scogli ed onde per ben 165 chilometri sfruttando sempre il bagnasciuga, unico cammino possibile grazie alla bassa marea.

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La capitale Sul bagnasciuga i granchi scappano velocissimi in tutte le direzioni al nostro passaggio e la luna piena ci accompagnerà per quasi tutta la notte. Sono quasi le due del mattino ed entriamo al camping “Tergit vacances” a Nouakchott (1giorno = 2500. AUG = 20 000 lire).

Finalmente sotto una doccia calda sentiamo il nostro corpo schiudersi e uscire dalla crisalide di polvere, sabbia e sudore che si è formata in quattro giorni di assoluta mancanza di igiene personale.

Sbrighiamo le formalità doganali mauritane, stipuliamo un’assicurazione che sarà riconosciuta in tutti i paesi francofoni e sospendiamo per tre mesi la nostra in Italia.

A causa di ripetuti passaggi in acqua marina eliminiamo la salsedine con minuziosi lavaggi.

Rimpinguiamo le scorte di gasolio, facciamo un po’ di calcoli e constatiamo che il nostro Toyotone nelle sabbie si è “ciucciato” 28 litri di gasolio ogni cento chilometri, guadagnandosi sul campo l' appellativo di “l’imbriagona”.

Lasciata la capitale della Mauritania, una strada asfaltata ci sta portando ad Atar. Il Discovery di Franco, scoppiettando un po’, a volte raggiunge i 130 km/ora. Da Atar una pista non difficile ci porterà a Choum.

Un’unica raccomandazione: stare a destra delle rotaie (SX =MINE!). Choum lotta, assieme a Chinguetti, per non essere fagocitata completamente dalle sabbie del deserto. Poi 22 km di gole in alta montagna fanno impazzire le nostre tormentate gomme, seguiti da 60 km di tolè-ondulè che ci mandano in crisi.

Contattiamo una guida, messieur Ahmed, che ci invita anche a cena: cous cous! Non ci metto molto a capire che mangeremo tutti dentro il catino ma siamo affamati e dopo i primi tentennamenti cediamo ai succhi gastrici.

Mangiano direttamente con le mani il cous cous che appallottoliamo fra le dita. Purtroppo l’intestino si sta trasformando lentamente in una betoniera tentando di macinare il tutto sino al mattino seguente (San Vaccino pensaci tu…!) Contrattiamo il prezzo e le modalità: monsieur Ahmed sarà con noi per tre giorni. All’alba siamo già in pista. Il deserto è pietroso ed attraversiamo anche una zona con grandi tronchi di foresta pietrificata. Per pranzo ci fermiamo sotto una parvenza d’ombra creata dalle acacie.

Non lontano pascolano dromedari bianchi.

Ahmed si prepara per il rito del tè e ce ne spiega il significato: i tre tè corrispondono alle tre fasi della vita di un uomo: la giovinezza (il primo tè che ha sapore molto intenso e poco dolce), la maturità (il secondo tè è meno aromatizzato e un po’ più dolce, con un equilibrio delicato fra i due sapori) e la vecchiaia (è il terzo tè che, essendo fatto sempre con le stesse foglie, è meno aromatizzato, ma molto dolce). Quando è pronto e bello schiumoso lo versa dall’alto in minuscoli bicchieri. Nel primo pomeriggio incontriamo un susseguirsi di piccole dune e controdune che ci mettono in difficoltà.

Monsieur Ahmed ci lascia allibiti perché non conosce cos’è una carta geografica, non conosce una direzione se non quella infallibile della sua esperienza.

Abbiamo capito sin da subito che chiedergli le distanze in ore o in chilometri è cosa inutile: per lui esistono come punti di riferimento solo il sole e le stelle. Ci ha guidati alla ricerca di tracce per noi inesistenti, ci ha fatto evitare temutissimi campi minati facendoci rifugiare a cavallo della linea ferrata, ci ha fatto prestare attenzione a rotaie divelte, a pericolose bave taglienti dovute all’usura della rotaia ed infine allo stesso treno dei fosfati, che avendo più locomotori (tre in testa e due in coda) non riesce a coordinare la frenata ed è quindi impossibilitato a fermarsi.

Così con un occhio alle “bave taglienti” e l’altro ai pezzi di rotaie divelte e al treno dei fosfati, giungiamo alla sera indenni a Zouèrat.

Il giorno seguente il paesaggio cambia e ricorda le savane sconfinate dell’Africa australe con le spinose acacie e bassi cespugli piantati nella sabbia rossiccia. Ricordo un insabbiamento bestiale, per il quale abbiamo scavato come tre talpe sotto la macchina per liberare le ruote e muovere così il mezzo verso terreni più duri e sicuri. C’è un accampamento! Sono allevatori seminomadi che vivono molto semplicemente sotto basse tende nere. Quest’ anno è caduta poca pioggia e temono una moria di bestiame, mentre fumano tabacco in corti bocchini ricavati da ossa di capra. Sono uomini rudi e duri.

Qualcuno ha forse la consapevolezza che il fragile guscio

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che circonda il suo mondo immutato da secoli non tarderà ad essere travolto. Nella tenda più grande c’è una scuola coranica, dove il mouallim (maestro) scrive i versi del corano su tavolette di legno e i bambini leggono ad alta voce. È l’unica forma d’ insegnamento che ricevono. Più in là una ragazza inizia a pestare il miglio nel mortaio e dalla perizia, dalla velocità e dalla naturalezza dei movimenti si capisce che è un lavoro che ripete ogni mattina. Alla sera siamo a Bir Moghrein e da qui si può rientrare in Marocco: basterà prendere a bordo un militare marocchino che ci accompagnerà fino a Laàyoune e ci aiuterà gratuitamente nelle pratiche doganali. Teniamo buone queste informazioni, che saranno utili per il ritorno, ed eviteremo così all’imbriagona i ripetuti bagni nell’oceano Atlantico. Tentiamo di ottenere uno sconto da monsieur Ahmed (essendo giunti a destinazione un giorno prima del previsto). Nulla da fare!

Sta Mauritania con il suo islamismo profondo e radicato ci sta un po’stufando: nessuno che ride, fanno tutti la fame e, quando non fanno la fame, fanno Ramadan e non mangiano. Adesso basta, ce ne andiamo!

A conti fatti, questa Mauritania tra bustarelle, ruberie e tasse ci è costata veramente un sacco di soldi.

Decidiamo di entrare in Senegal attraverso la diga di Diama (40 Franchi francesi) evitando la sfigatissima dogana di Rosso.

Il Senegal Attraversata la diga ci ferma la gendarmeria senegalese per alcuni controlli: sono molto cordiali e ci danno il benvenuto in Senegal stringendoci la mano per poi portarsela al cuore. Mi hanno spiegato che tale gesto per loro ha grande valore perché significa che sei il benvenuto e ti portano nel loro cuore.

Dormiamo sul mare al camping "l’Ocean" a St. Louis (lire15 000). L’aria che si respira è diversa.

Qui è più Africa. Non sento più quella tensione che sentivo a pelle, in Mauritania. La gente è diversa.

Adesso di notte non li vedo, sono troppi neri, vedo solo i denti e gli occhi ma li sento da come parlano e da come si comportano che sono più affabili.

Vale sicuramente una deviazione il Parco Djoudj con la possibilità di campeggiare vicino all’hotel (4 000 CFA =12 000 lire) a 70 km da Saint Louis. Il parco è stato creato nel 1973 ed è classificato come la settima riserva mondiale per quanto riguarda gli uccelli e, tra novembre ed aprile, si può assistere in battello alla nidificazione dei pellicani (4000000). Durante tutto l’inverno accoglie in fase migratoria qualcosa come tre milioni di uccelli per oltre 400 specie differenti. Ci fermiamo due giorni (troppo pochi) e gironzoliamo anche con il nostro fuoristrada, cedendo il passo a parecchi facoceri, sciacalli, varani e coccodrilli.

Dakar, la capitale, è un girone dantesco che vale la pena di essere visitato. Una volta è sufficiente e non verrà più la voglia di tornarci. Si tratta di una città caotica, con traffico perennemente paralizzato, dove convivono fianco a fianco edifici fatiscenti e grattaceli modernissimi, uomini d’affari in doppio petto e lebbrosi mendicanti. L’asfalto è pieno di buche e la mia guida è oramai solo uno slalom per evitare le voragini o le altre macchine che, per evitare i crateri, vengono in contromano.

L’Harmattan che soffia da nord-est porta una sabbia giallastra e secca proveniente dalle dune del Sahara.

Il settentrione del Senegal è già in pieno Sahel, parola che vuol dire "al limite del deserto" ma qui il limite è difficile da stabilire. Dove una volta c’erano villaggi più o meno ricchi, oggi ci sono spesso dense dune arancioni alte fino a dodici metri.

Splendida l’isola Gorèe, tanto dolce oggi per i suoi visitatori quanto amara cento o duecento anni fa per i giovani africani catturati tra le tribù dell’interno. Ormai ridotti a schiavi, qui venivano radunati e poi imbarcati sulle navi in rotta per le Americhe. Una tratta che costò al continente “duecento milioni di figli”. Tra cattura e trasporto morivano nove africani su dieci.

Seguendo la Nazionale 1 che da Dakar porta verso sud, visitiamo M’bour. Il suo fascino risiede nel mercato del pesce, dove i filetti di "capitain" (quasi l’emblema della cittadina) vengono essiccati al sole o affumicati; colori e aromi vi porteranno indietro nel tempo. Da qui partono molte pinne di pescecane per i ristoranti di Tokyo. In tutto il paese si notano i coloratissimi "car rapid," furgoncini per trasporto comune, sempre straripanti di gente con il tetto carico di ogni cosa (animali, biciclette, pneumatici ecc.) a testimoniare un piccolo commercio sempre frenetico e diffuso, ma eternamente provvisorio. Siamo sulla ” Petite Còte” considerata la riviera romagnola senegalese, molto turistica, piena di gente, di musica a tutto volume, di pedalò, di vita notturna, di gelaterie e di ristoranti sul mare. Come da noi, con un po’ di palme in più e la gente più abbronzata. È in questa bolgia che conosciamo Flavio e la sua famiglia. Flavio è un friulano che gestisce a Saly il villaggio "TATA": sei nuovissimi bungalow con piscina, ristorante e pizzeria. La cucina è italiana ed è curata dalla moglie Rabby che è originaria di Labè - 16 -

nella Guinea Conakry. Una donna splendida, dai lineamenti dolcissimi, con grandissimi occhi (“… occhi grandi come la fame africana…”), snella, longilinea, avvolta in un velo fiorato dai colori sgargianti.

A tratti si copre il volto con questo, lasciandolo poi cadere e scoprendo così i lineamenti delicati.

Quando sorride sfodera i suoi denti ceramici firmati “Richard Ginori” (il colore della sua pelle è uguale al buio della notte). Questo popolo, oltre ad avere caratteristiche somatiche molto esili ed eleganti, è probabilmente quello che in Africa ha il migliore gusto nell’abbigliamento. È difficile, infatti, vedere una donna, anche nella sua quotidianità, con un vestito poco dignitoso: sarà anche il modo di camminare che la rende così gradevole.

Rabby con molta enfasi ed entusiasmo (caratteristica comune di chi sente la lontananza da casa) ci dà delle dritte sulla Guinea Conakry. Ci consiglia il percorso, lo stato delle piste, la dogana migliore, dove cambiare e cosa cambiare e, per finire, di fare campo base a Labè, in un secondo loro villaggio.

Sostiamo gratuitamente al villaggio Tata per tre giorni. A mezzogiorno cuciniamo in riva al mare i gambas (lire 8 000 al kg), gamberoni giganteschi ed alla sera in cucina faccio la gara con Rabby, tema: “La cucina romagnola” dove ha lavorato per diversi anni come pastaia.

Entriamo poi nella riserva di Bandiaia dove prendiamo a bordo monsieur Ahmin, per fortuna piccolo e magro, per cui Christine sta seduta tra i due sedili, con il freno a mano e gli ancoraggi delle cinghie che ormai sono un tutt’uno con le carni del fondo schiena. M. Ahmin è collegato via radio con le atlre guide e così riceviamo le informazioni su dove vedere da vicino giraffe, facoceri, gazzelle, impala, babbuini, bufali, coccodrilli, ippopotami, rinoceronti e tartarughe. Attraversiamo la più grande foresta di baobab del Senegal. Questi alberi secolari da sempre mi hanno affascinato. Considerati sacri per le loro proprietà, vengono totalmente utilizzati: dalla corteccia, ai frutti, alla cavità del loro tronco e per la riserva d’acqua che contengono.

Entriamo in Gambia, unico stato attraversato non francofono, dove le formalità doganali sono pressoché inesistenti. Paghiamo una tassa di 2500 CFA (7 000 lire), mentre la moneta locale è il dalasi (1dalasi=130 lire). Sono ben accetti franchi francesi ed anche i CFA. C’è un traghetto ogni due ore e con questo attraversiamo il fiume Gambia (135 dalassi = lire19 000). Sostiamo due giorni nella capitale Banjul, nel famosissimo camping Sukuta. I proprietari, una coppia germanica, organizzano safari con delle jeep ed hanno imbrattato i massi del Sahara con delle bombolette spray, reclamizzando il "Sukuta Camp Gambia". Si trova all’interno di un palmeto. Ci troviamo a dormire in bungalow fatti di foglie di palma legate a mano tra di loro, distesi su letti fatti a loro volta con il legno di palma. Per conferire un tocco di eleganza, alle pareti sono appesi degli arazzi. Non accendiamo luci per evitare di vedere troppo… qualche astuzia sull’igiene africana ormai l’abbiamo imparata. L’asfalto è in condizioni pietose: si procede sempre ai bordi della strada o su percorsi alternativi. Dovremo abituarci a questo nuovo modo di viaggiare perché per cinque giorni viaggeremo sempre inclinati e su una chiappa sola.

Evitiamo la Casamanche perché ritenuta da tutti poco sicura. Toccata Tendaba-George Town e fuggiti a causa delle zanzare, usciamo dal Gambia e rientriamo con molta facilità in Senegal: i doganieri sono gentilissimi e disponibili.

Visitiamo il parco di Niokolo Koba. Stipuliamo un contratto per tre giorni con guida a 45 000 CFA (140 000 lire). Abbiamo visto pochi animali: solo gazzelle, facoceri, babbuini e tanti tafani. La foresta è molto bella, il clima è perfetto e per nostra fortuna la guida ha sempre viaggiato seduto sul cofano, permettendoci così di viaggiare comodamente. Usciamo dal parco delusi e con mezza giornata d’anticipo, ricoperti di punture di tafani e con il cofano motore con impresso il calco delle chiappe della guida. Ripristiniamo le scorte: gasolio, frutta e verdura dovranno risultare sufficienti per 500 km di pista.

Dormiamo al posto di polizia e l’indomani facciamo dogana per entrare nella Guinea Conakry.

In tutti i posti africani di frontiera in cui sono transitato esistono dei personaggi che, secondo la migliore tradizione africana, disbrigano le pratiche doganali dei turisti.

Non ci si deve però immaginare un’agenzia perché l’unico vero lavoro di questa gente è quello di prenderti i moduli da compilare e consegnarli allo sportello giusto. In sostanza un distributore d’informazioni. I nomi di questi personaggi sono sempre i soliti: Abdul, Mohamed, Alì o altri similari, assolutamente falsi, in quanto agiscono nella più totale illegalità. Spesso sono in simbiosi con i doganieri che ti procurano un problema (tipo qualche documento irregolare, assolutamente inventato sul momento) in modo che il “fenomeno della dogana” ti abbordi, te lo risolva e poi sei obbligato a pagarlo.

Così con l’aiuto di Alì entriamo in Guinea. Ricordo che nel salutarci si è infilato tutto l’indice nella narice sinistra, - 17 -

fino alla nocca, mentre con la mano sinistra ci faceva ciao. Sì, ciao! La pista è in terra rossa ed è praticabile solo nella stagione secca. Si vedono ancora i profondi solchi fatti nel tentativo di disincagliare i camion impantanati. I poveretti hanno usato tutti gli stratagemmi per uscirne. Sassi, tronchi, rami, tappetini poi abbandonati in queste profonde voragini d’argilla rossa sono la testimonianza d’aspre e dure battaglie. Ce la prendiamo con comodo e copriamo i 500 km in tre giorni.

Gironzoliamo in questa splendida foresta e visitiamo dei micro villaggi. Vinta la prima timidezza (ci aiutiamo con alcune foto “polaroid”), decine e decine di bambini ci seguono ad ogni nostro passo e hanno come massima aspirazione farsi fotografare. Si ricorderanno per un pezzo di Christine, dispensatrice di giochini e macchinine! Ci prendono per mano e ci accompagnano dal saggio del villaggio. Stanno raccogliendo la manioca, il che ci consente di osservare scene di vita contadina che ormai da noi appartengono all’archeologia. Ci avviciniamo alla regione del “Fouta Djallon“, cuore del territorio dei Peul o Fulbe. In quest’altipiano a 1 000 metri d’altezza nasce il fiume Niger. A detta dei pochi occidentali del posto è una delle zone più belle dell’Africa subsahariana e il clima è uno dei migliori del mondo. Il turismo è pressoché inesistente.

A Labè (capitale del Fouta Djallon) ci appoggiamo al villaggio “Tata”. Sarà la nostra sistemazione base per dieci giorni (cucina italiana con pizzeria annessa e tanto limoncello). Da qui partono le nostre escursioni giornaliere. Arranchiamo con il nostro fuoristrada su piste quasi impossibili: il paesaggio è bellissimo. La pista costeggia la falesia e ci troviamo la parete della montagna a sinistra e a destra lo strapiombo sul letto del fiume. La zona è praticamente quasi disabitata. Attraversiamo diverse valli scavate dall’erosione nelle quali si gettano limpide cascate d’acqua che riempiono piscine naturali scavate fra le rocce. Ci tuffiamo e rituffiamo. Siamo contornati da felci gigantesche che creano suggestivi paesaggi. Ci muoviamo tra profonde gole e precipizi, altissimi pinnacoli di roccia frastagliata, tavolati che si estendono a perdita d’occhio fra campi coltivati, pascoli scorticati da magre capre, boschi d’eucalipto e euforbie a candelabro. Qua e là spuntano villaggi, agglomerati fatti di capanne unite le une all’altre con ponti di liane che le collegano sino al fiume, fulcro del villaggio attorno al quale ruota la vita. Sulle rive del fiume forme femminili a seno scoperto fanno il bucato chine su dei copertoni pieni d’acqua. Per una volta non leggo la guida, non consulto la cartina: mi lascio prendere dalla magia del posto, voglio solo sensazioni, i nomi li leggerò poi.

Visitiamo le cascate di chutes a la saala (70 metri), Kinkon (85 metri), Kambadaga (60 metri), la falesia De Mommise e Dalaba. Mi rendo conto che queste cascate non sono né le più alte né le più lunghe del mondo, ma data la loro ubicazione costituiscono sempre uno spettacolo grandioso.

La Madama Du Mali prende il nome da un’enorme scultura naturale di una roccia alta cento metri raffigurante una donna. Nel ritorno ci fermiamo in una radura senza nome, in mezzo alla foresta, dove c’è una moltitudine di gente vestita con colori sgargianti e con estrose chiome di capelli neri e lucenti.

La gente si muove creando delle vere e proprie onde di movimento, un caos ricco di fascino e carico di straordinaria vitalità. Le donne con cesti sul capo camminano erette come regine. Su bancarelle improvvisate si vendono cose stranissime come pozioni magiche e misteriose: polveri di denti di coccodrillo, radici essiccate, corna d’antilope frammiste a polveri di ranocchio, erbe allucinogene usate nei riti magici, unguenti medicamentosi, misture d’amore afrodisiache e miracolose in grado di risvegliare gli istinti più assopiti o di esaltare ulteriormente quelli più esuberanti. Ci tuffiamo in questa fiumana di gente, sbucata da chissà dove, in cerca di qualche inquadratura. L’atmosfera è piacevole, tutti collaborano, alcuni anche troppo: infatti si accorgono di essere inquadrati e il mirino si affolla di visi e di corpi che si spingono. Lasciamo questo splendido lembo d’Africa, ci giriamo e vediamo da lontano le loro mani alzate in segno di saluto.

Superiamo un polveroso Peugeot 505 familiare con un carico incredibile sul tetto: una lavatrice, un frigorifero, una cucina a gas, uno scooter e due biciclette. All’interno è pieno di balle confezionate con il nylon dal contenuto inimmaginabile; fuori cinque persone sono appese pericolosamente a grappolo!

Questo carico ovviamente pesa e schiaccia il mezzo a terra riducendo inesorabilmente la distanza dal suolo a qualche centimetro. L’ideale, dunque, per una pista in pietre che ha delle irregolarità di circa venti centimetri di dislivello!

Nascere Peugeot in Africa è proprio il massimo della sfiga. Siamo al giro di boa, ma per tornare indietro c’è tempo, sarà un’altra storia, un diverso racconto. Ho ancora davanti agli occhi decine e decine di bimbi che corrono incontro gioiosi, risa, gesti e colloqui fatti di parole incomprensibili, ma tradotti perfettamente con occhi e mani, ci chiedono "un birò" che purtroppo non abbiamo più.

Ringrazio in particolar modo Flavio, Rabby e monsieur Ahmed, una guida dalle capacità eccezionali.

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Intenso é il loro ricordo. Sì, alla fine ci sono stato anch’io nella Guinea Conakry e non smetterò mai di parlarne. Ci tornerò appena posso per smettere un momentino di parlare del poco che ho visto e del tanto che mi ha dato.

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Viaggio in Mauritania e Mali tappa per tappa Tragitto previsto:

Merano, Ventimiglia, Francia, Spagna, Marocco.

Mauritania: Nouadhibou - Noua-kchott – Aleg – Kiffa – Nema -Adel Bagrou.

Mali: Nara –Bamako–Segou -Djenne –Mopti –Bandiagara –Sangha -Hombori.

Documenti richiesti:

Passaporto valido almeno 3 mesi, patente internazionale.

Mauritania:

visti da richiedere all'ambasciata della Mauritania a Roma, via Giovanni Piasiel.lo 25/5 06-8557949 dietro presentazione di 4 foto e un biglietto aereo di andata e ritorno.

Chi viaggia via terra può ottenere il visto presentando una relazione scritta spiegando l'itinerario e motivo del viaggio.

Mali:

In Italia non viene rilasciato il visto, deve essere richiesto all'ambasciata di 75011 Parigi, Rue du Chemin Vert 43 - tel 01-48078585 o al consolato di Monaco con 2 foto e certificato di vaccinazione contro la febbre gialla. Costo del visto Parigi: 100 FF. A Monaco: 60 DM

Vaccinazioni obbligatorie:

febbre gialla.

Consigliate:

meningite, antitifica, antipoliomielitica, anti epatite A, antitetanica

Profilassi antimalarica

Lariam

Farmacia da viaggio:

bende, cerotti, disinfettante ad uso sterno, termometro, antifebbrili, - 22 antidolorifici, repellente cutaneo contro gli insetti, pomata antistaminica per le punture degli insetti e scottature, collirio, antibiotico ad ampio spettro, antidiarroico e/o lassativo, farmaci di uso comune.

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Moneta:

La moneta maura è l’Ouguija. 1 Ouguija = 11 lire In Mali, come in tutto il resto dell’Africa Occidentale, la valuta è il Franco CFA 1 CFA = 3 lire

Lingue:

In Mauritania la lingua ufficiale è l’arabo: negli uffici governativi si parla il francese e anche i documenti sono scritti in questa lingua.

In Mali la lingua ufficiale è il francese, ma le lingue africane parlate sono il bambara, il dioula, il sanghai e vari dialetti dogon.

Costi di viaggio:

Carburante (Diesel )

Autostrade:

Traghetto:

Italia

lire 1490

Francia

FF 5,20

Spagna

Pst 110

Ceuta:

Pst 95

Marocco:

Drh 2,20 – 2,80 = lire 500 - 600

Mauritania:

Oug. 55 – 68

= lire 550 – 700

Mali:

CFA 275

= lire 800

Italia: BZ – Ventimiglia e ritorno

lire 140.000

Francia: frontiera italiana-frontiera spagnola e ritorno

FF 560

Spagna: frontiera – Algesiras e ritorno

Pst 13000

Marocco: Rabatt-Agadir e ritorno

Drh 110

Algeciras – Ceuta andata e ritorno (aperto) Ritorno dalla Mauritania Ufficialmente la frontiera tra Mauritania e Marocco è aperta solo in andata. in Marocco Per il ritorno è obbligatoria una guida contattabile al Camping “Tergit Vacances” di Nouakchott, bisogna avere un’autonomia di gasolio per 850 km di pista, viveri e acqua per 3 giorni di viaggio e 3 giorni di sosta obbligatoria a Bir Gouendouz.

Giovedì 03. 07. Partiamo carichi di entusiasmo, materiale fotografico, viveri e pezzi di ricambio per il nostro viaggio in Mauritania e Mali. A Milano ci incontriamo con Giusi e Ivano.

Attraversiamo la Francia e la Spagna e domenica ci troviamo con Adriana e Luigi ad Algeciras: fatti chilometri 2500. Al porto facciamo il ticket per Ceuta in uno dei tanti uffici viaggio che ci sono. Ogni ora parte un traghetto. La fila è lunga perché è tempo di ferie per tutti e alle ore 23 finalmente ci imbarchiamo. Il mare è molto mosso e ci mettiamo quasi 3 ore per la traversata.

A Ceuta facciamo il pieno di gasolio e poi via per Rabat. Proseguiamo lungo la costa fino ad Essaouira per fare una bella mangiata di pesce. Per 70 Dirham siamo travolti da una cascata di scampi cotti alla griglia, granseole, sardine, orate, cefali e pesce fritto a volontà. Annaffiamo il tutto, anche stavolta, con il Tavernello opportunamente travasato in una bottiglia dell’aranciata che facciamo girare sotto il tavolo.

Sulla vicina spiaggia alcuni ragazzi locali ci invitato a giocare a calcio; dopo alcuni palleggi inizia la mitica sfida in stile “Marrakech Express”. L’inizio ci è favorevole e andiamo in goal quasi subito, ma è solo un fuoco di paglia. Il Marocco si scatena e alla fine 4 a 1 per loro, il tutto nonostante qualche prestito che ci ha messo in superiorità numerica e un rigore dubbio. Ci stravacchiamo in una specie di campeggio a leccarci le ferite per la modica spesa di lire 5000.

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Il giorno dopo proseguiamo per Agadir fino a Laàyoune attraverso un paesaggio molto bello.

Da Laàyoune a Dakhla i controlli dei documenti sono molto frequenti e dopo la quinta fermata ci prepariamo dei fogli dove elenchiamo tutti i nostri dati, così perderemo meno tempo ai posti di blocco successivi.

Giovedì 10.07. Arriviamo a Dakhla verso le ore15. Ci presentiamo subito al posto di polizia per la registrazione. E qui incomincia la prima preoccupazione per il visto della Mauritania che noi non abbiamo.

Pernottiamo al Camping che si trova all'entrata della città. (costo 40 Dirham = lire 8000) Venerdì 11.07. Completiamo le formalità: dogana (passaporto, libretto di circolazione e carta verde), 2 foto e compilazione di moduli.

Ci mettiamo in fila per il convoglio. Dopo 2 ore circa partiamo scortati dai militari che ci hanno ritirato il passaporto. Dopo 360 km arriviamo a Bir Guendouz, pernottiamo su una radura in mezzo al deserto senza aver la possibilità di rifornirci di acqua e gasolio.

Sabato 12.07. I militari ci restituiscono i nostri passaporti e verso le ore 9 partiamo per la Mauritania.

Dopo 15 km di pista non bella c'è il primo posto di controllo mauro e ci vengono ritirati nuovamente i passaporti.

Proseguiamo sempre in fila indiana fino al 2° checkpoint e qui visto che siamo italiani, la prima cosa che ci chiedono come "cadeau" sono spaghetti e maccheroni. Nessuno ci chiede del visto e questo per noi è già una cosa positiva. Credevamo già di averla fatta franca.

Facciamo la dichiarazione della valuta e poi si prosegue. Altro posto di blocco: ci restituiscono il passaporto, ma ci ritirano il libretto di circolazione!

Proseguiamo lungo la pista e attraversiamo i binari della ferrovia. Su questa linea ferroviaria che parte da Zauèrat viaggia il treno più lungo del mondo (più di 50 vagoni) e trasporta i minerali fino a Nouadhibou.

Arrivati a Nouadhibou ci fermiamo al Camping "Du Levrier" in centro. (costo 3000 Oug.) Il giorno dopo, domenica 13 luglio, ci armiamo di tanta pazienza perchè solo adesso si devono fare le "vere" formalità doganali.

Dogana: si trova alla periferia della città, bisogna presentarsi con la macchina, che però nessuno controlla, e compilare dei formulari. Ci viene restituita la dichiarazione della valuta da conservarla molto bene perché ci possono essere dei controlli lungo il tragitto.

Assicurazione: non è valida la nostra assicurazione. Obbligatorio stipulare l'assicurazione nazionale. (costo per 8 giorni 4400 Ouguiya) Commissariato: siamo nei guai. Il capitano vuole il visto. Dopo una sfuriata di circa mezz'ora, minaccia di mandarci di ritorno in Marocco. Gli promettiamo di divulgare in Italia anche tramite giornale (visto che qualcuno di noi si è spacciato per giornalista) l'importanza del visto. Finalmente ci congeda e siamo liberi di continuare il nostro viaggio.

Mohammed, grande signore mauritano di cordialissima compagnia, valida ed efficiente guida per 200 FF a equipaggio, ci accompagna in due giorni da Nouadhibou a Nouakchott. Puntiamo in direzione sud su una pista polverosa. Incrociamo cammellieri silenziosi e solitari che incedono eleganti con i loro dromedari carichi di tutto, dalle masserizie più svariate alle capre vive e belanti ben legate sulla sommità della gobba. Ci fermiamo per la notte in un villaggio di pescatori Imeraguen giunti in questa zona 500 anni fa, distribuiti in sette piccoli villaggi all'interno del parco " Du Banc d'Arguin" che si estende per 13000 km tra mare, costa e deserto. La pescosità di queste coste garantisce l'esistenza di un anello fondamentale della complessa catena biologica di un ecosistema ancora ricco e vitale. La Mauritania è uno dei paesi più poveri dell'Africa e il 60% del suo reddito nazionale è frutto della vendita di concessioni per la pesca. Il parco "Du Banc d'Arguin" è anche la meta di tanti uccelli europei. Qui trovano abbondanza di cibo lungo la striscia di terra tra le dune e il mare blu.

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La linea di demarcazione che separa il Sahara dall'Oceano Atlantico è netta come il filo di una lama.

Mohammed ha deciso: si parte alle 7. Un controllino all'aria e all'acqua, una pulitina al filtro dell'aria, una sgonfiatina alle gomme, la ricerca inutile di un po' di pane fresco e frutta, una chiacchiera al controllo di polizia, il pagamento del ticket al Ranger (3200 OUG), un'informazione alla gendarmeria con immancabile tè seguito da "cadeau" e si imbocca la pista per Nouakchott che sono quasi le 11.

Finalmente nel tardo pomeriggio, dopo ore di deserto sterminato, superato il crinale dell'ultima duna polverosa, appare in lontananza, in un gioco di apparenza e realtà uno spettacolo maestoso ed immenso: l'Oceano Atlantico che infrange le sue onde possenti direttamente sulle prime propaggini del deserto sahariano.

A questo punto tutti hanno fretta, più di tutti la guida e si inizia un'ardita corsa ad ostacoli, dribblando dune, scogli e onde per ben 50 km sfruttando sempre il bagnasciuga, unico cammino possibile e praticabile con la bassa marea.

Sul bagnasciuga granchi giganteschi scappano velocissimi in tutte le direzione al nostro passaggio.

Grandi stormi di gabbiani, cormorani e altri uccelli pullulano in queste zone quasi disabitate.

La costa è disseminata di relitti di navi: in nessun altro luogo al mondo il fenomeno è così diffuso.

Molte navi che pescano qui sono a dir poco fatiscenti, alcune cadono a pezzi, altre vengono lasciate arenare per incassare il premio delle assicurazioni, poche naufragano accidentalmente.

Arriviamo verso le ore 20 al Camping "Tergit Vacances".

Nouakchott, che significa "luogo dei venti" è la capitale della Mauritania. Questa città fu progettata per 200.000 abitanti, ma oggi ne ha quasi il triplo a causa delle masse di nomadi che si sono stabiliti nella città durante la recente siccità.

Continuiamo il nostro viaggio: imbocchiamo la Trans-Mauritana, chiamata anche "la strada della speranza" fino a Nema (1100 km).

Da qui in poi non ci sono più campeggi e così, ogni sera, ci appoggiamo ai vari posti di polizia che troviamo in ogni paese lungo tutto il tragitto.

Il paesaggio fino ad Aleg è affascinante. Dune di sabbia multicolore si estendono all'infinito.

Un mare di dune. Al tramonto il sole che scende le tinge di un rosso brillante. La palla di fuoco che sparisce lancia i suoi ultimi sprazzi di vita, fuoco intenso che s'insinua tra i granelli sottili e li colora.

Che silenzio incredibile! Curve di soffici polveri sinuose ed avvolgenti ed é irrefrenabile la voglia di correre e rotolarsi. Il caldo lascia spazio alla brezza notturna. Via via la luce si trasforma in oscurità penetrante. I profili delle dune diventano imperscrutabili e incombono sotto un manto di stelle.

Da Aleg a Kifa l'asfalto è in pessimo stato e così a tratti viaggiamo su una pista molto polverosa.

Per tutto il giorno ci perseguita una tempesta di sabbia che si calma solo a sera.

Venerdì 18.07. Ultima tappa della Trans-Mauritania da Kiffa a Nema.

Per fortuna il fondo stradale è di nuovo in buono stato e così procediamo abbastanza spediti attraverso un paesaggio che cambia tra dune, montagne e savana.

Arrivati a Nema ci registriamo alla polizia, facciamo il pieno di gasolio e di acqua e poi via lungo la pista che ci porta verso il Mali. 150 km di pista, all'inizio sassosa, poi sabbiosa e a tratti con fango, attraverso la brousse. È bellissimo: tanto verde, pecore, capre, manzi e cammelli che pascolano tranquilli e qualche pastore curioso che ci saluta.

Arriviamo ad Adel Bagrou, ultimo paese in Mauritania e frontiera. Un paese triste, dimenticato da Dio e da tutti. Una marea di bambini ci assale e ci tirano i sassi. L'ufficio doganale è chiuso e dopo 2 ore di tormento circondati da persone che ci chiedono "cadeau" arriva il prefetto che ci offre il cortile di casa sua per il pernottamento.

Finalmente un po’ di pace! Alla sera ci fanno gli onori tutte le autorità: sindaco, capo della polizia ecc. offrendoci il loro aiuto in caso di bisogno.

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Domenica 20. 07. Alle ore 10 usciamo dal nostro " fortino", concludiamo tutte le formalità e proseguiamo verso Nara.

Nara, frontiera del Mali, un paesino insignificante, ma con dei doganieri molto gentili. Le procedure doganali durano solamente 20 min. Rimaniamo sorpresi quando il doganiere ci chiede di Bossi e Berlusconi e scopriamo che è molto ben informato (quasi meglio di noi).

Compiliamo il modulo per l'importazione temporanea della macchina (costo 2000 CFA) che vale per otto giorni e deve essere rinnovato a Bamako o a Sevarè.

L'assicurazione della macchina dev'essere fatta a Bamako. Proseguiamo fino a Mourdiah, paese con un bel mercato tipico africano e la gente gentilissima. Ci fermiamo per la notte fuori dal paese.

Alle 2 veniamo svegliati di soprassalto da tuoni e lampi e subito dopo diluvia e siamo costretti a spostarci frettolosamente in mutande. Dopo questa fuga notturna ci ripromettiamo che pernotteremo sempre in cima a dei dossi.

Al mattino si riparte, ma dopo una curva uno spettacolo inaspettato ci fa sobbalzare: un lago rossastro invade la pista.

Ci si consiglia sul da farsi, consultiamo le carte geografiche, facciamo il punto satellitare e cerchiamo un percorso alternativo. Alla fine decidiamo di sondare la profondità e la consistenza del fondo.

Azzardiamo delle traiettorie. Il clima creatosi è eccitante. Adriana, Giusi e Christine (contrarie) si accaniscono contro noi maschietti. Con una "botta da matto" la Land Rover (essendo la più alta da terra) supera di slancio fra schizzi e urla e passa indenne dall'altra parte.

A questo punto segue il Toyota e il Nissan e poi altri due pulmini locali. Baci e abbracci e gasatissimi ci rimettiamo in pista non sapendo che il peggio doveva ancora arrivare. Alla sera ci fermiamo a dormire in un cantiere italiano che troviamo lungo il tragitto.

Martedì 22.07.

Arriviamo a Kati, 15 km prima di Bamako e siamo di nuovo nei guai. Posto di blocco e subito ci chiedono l'assicurazione della macchina. Spieghiamo loro che a Nara ci hanno detto che bisogna farla a Bamako; il doganiere ci dà ragione, ma ci dice che non possiamo proseguire con le macchi-ne e ci consiglia di prendere un taxi, fare l'assicurazione e solo dopo continuare il nostro viaggio. Dopo mezz'ora di trattative abbiamo capito che anche qui è solo questione di "cadeau" e dopo avere pagato 5000 Cfa è tutto a posto e noi possiamo andare tranquilli.

Giungiamo a Missouk. Il nome di questo villaggio non appare sulle nostre carte geografiche ma si stamperà per sempre nelle nostre memorie, perchè qui alle 16.30 inizia il nostro calvario con la polizia che terminerà solo con il ritorno in Marocco. Un controllo continuo, sfibrante da parte di polizia, dogana e esercito che ci hanno taglieggiato. Sistematicamente ad ogni villaggio, paracadutisti, polizia e soldati si passano mazzette di banconote alla luce del sole in una sceneggiata irreale. Tutti incassano in proprio arrotondando così la magra paga statale. È così che in pochi giorni si sono esauriti vestitini, giocattoli, pennarelli e occhiali da sole che ci eravamo portati per i bambini Dogon.

Ho ancora davanti agli occhi decine e decine di bimbi che ci corrono incontro gioiosi, tra risa, gesti e colloqui fatti di parole incomprensibili, ma tradotti perfettamente con occhi e mani. Nulla delle regalie portate dall'Italia sono giunte nelle mani tese di questi bambini a causa di una miscela di avidità e ingordigia dei militari.

Ci siamo accampati nella brousse e veniamo svegliati da uno strano lamento. Dapprima lo ignoriamo, tentando di riprendere ancora sonno, ma poi non possiamo proprio fare a meno di prestare orecchio a quella cantilena così ostinata e convinta. È il lamento del muezzin. Guardo l'ora: sono le quattro del mattino. Come se tutto ciò non bastasse un gallo si mette a cantare, subito seguito a ruota da un altro; abbaia un cane e subito dopo un altro. Man mano che la luce si alza la vita nella brousse riprende il suo ritmo: rane e uccelli in coro, come un'orchestra che passa da un adagio a un allegro vivace. È il risveglio della natura.

Quasi tutti i giorni piove e la pista è diventata un acquitrino. I ranocchi in coro ci tengono compagnia sia di giorno che di notte. La Land Rover fende come la prua di una nave queste temibili e insidiose acque rossastre.

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Purtroppo la Toyota di Luigi, in un guado profondo, aspira acqua nei cilindri e per questo si spegne nel bel mezzo di un infido fiume. È subito panico generale. Tutti distribuiscono ordini e colpe; le mogli sono le prime a farne le spese. Bisogna agganciare la macchina in panne, buttandosi a nuoto per fissare la corda di traino.

Alla fine si fa l'unica cosa sensata: a piedi nudi e con l'acqua che arriva alla cinta agganciamo la Jeep sfidando gli unici pericoli esistenti cioè salmonella, bilarziosi, vibromi, batteri e germi d'Africa, che sicuramente sono presenti in queste acque limacciose.

Trainata la macchina all'asciutto smontiamo il turbo e la coppa dell'olio constatando nostro malgrado che entrambi sono pieni d'acqua e così pure i cilindri. Aspiriamo con una siringa la torbida acqua, cambiamo filtri e olio e per nostra fortuna, tossicchiando e sputando di tutto, facendo un fumo acre il Toyota si mette in moto.

Da luglio a settembre, durante la stagione delle piogge, una grossa metamorfosi trasforma il paesaggio desolato in un'oasi verde. Alte, flessuose graminacee nascondono le sagome dei contadini che si dedicano attivamente alle colture del miglio, delle arachidi e del cotone.

Arriviamo a Bamako, una città con 600.000 abitanti, caotica e rumorosa e subito rimpiangiamo la tranquillità e la bellezza della brousse.

All'ambasciata della Mauritania chiediamo il visto per il ritorno e ci fermiamo per la notte al Camping "Le Patriot" a 12 km da Bamako. Da qui in poi non ci sono più campeggi, ma è possibile sostare in tutti gli Hôtel "Le Campement".

Giovedì 24.07. Il nostro viaggio continua verso Djennè.

Djennè si trova su un'isola del delta del fiume Niger ed è una delle città più antiche dell'Africa.

L'elegante moschea, costruita nel 1905, è un famoso esempio di edificio in mattoni di fango in stile sudanese. È l'alba. Il sole appare improvvisamente grandissimo e guadagna il suo posto in un cielo infuocato.

Con la nostra Land guadiamo le acque del Niger che ci separano dal traghetto che ci porterà a Djennè.

Dalle rive alcune donne ci raggiungono avanzando immerse nell'acqua fino alla ascelle. Il battello fluviale è invaso da un'incredibile confusione come se i mercati si fossero d'improvviso spostati sul traghetto. Le donne grondanti d'acqua salgono a bordo, con i vestiti incollati al corpo, tenendo sul capo recipienti colmi di latte o sfortunatissimi galletti che strepitano sonoramente. La piroga diventa il solo mezzo di comunicazione da un villaggio all'altro quando da luglio a gennaio la piena inonda il delta centrale del Niger per migliaia di chilometri. Le piroghe sono strumenti fondamentali per i pescatori e sfrecciano silenziosamente mosse da pagaie o da pertiche. Hanno una configurazione stretta e molto filante. Vengono costruite ancora con il sistema primitivo: lo scavo con ascia e coltello di un grosso tronco di albero proveniente della vicina foresta e successivamente trattato a fuoco. Abili pescatori lanciano una rete circolare (giacchio) stando in piedi e in equilibrio sulla punta delle piroghe.

Donne a seno scoperto fanno bucato o s i lavano con grazia il corpo. Incantevoli bellezze che si bagnano con movimenti lenti ed armoniosi. Le gocce d'acqua riflettono la luce sui corpi slanciati color ebano.

Sussultando il traghetto si muove e in cielo un susseguirsi di colori preannuncia un tramonto africano.

L'aria s'infiamma di mille sfumature di rosso, giallo e arancio. Le nuvole all'orizzonte sono complici del sole: lasciandosi trafiggere creano giochi di colore che vengono riflessi nell'ansa del fiume Niger.

Venerdì 25.07.

Dopo 130 km arriviamo a Mopti, la città situata alla confluenza dei fiumi Bani e Niger chiamata anche la "Venezia del Sudan". Il mercato che si svolge lungo il porto è unico nel suo genere: piroghe piene di pesce essiccato o affumicato, stoffe coloratissime, sculture in legno e lastre di sale che arrivano da Timbuktu. Al commissariato chiediamo il permesso per visitare i paesi dei Dogon. A Sevarè (10 km da Mopti) rinnoviamo il permesso della macchina per altre 3 settimane e poi partiamo per Bandiagara una cittadina polverosa situata a 70 km da Mopti. È la capitale dei paesi dei Dogon e qui parte la pista per Sangha. Visitiamo Sangha, Tirelli e Banani. Di tutti i paesi dell'Africa nera il Mali è certamente uno di quelli che possono vantare un passato culturale tra i più ricchi e prestigiosi. Lasciamo le Jeep sul pianoro e a piedi, con acqua e viveri, ci arrampichiamo sulla falesia.

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I villaggi dei Dogon, abbarbicati sulle pareti della falesia di Bandiagara, sono costituiti da costruzioni rettangolari, cucine rotonde e silos dai tetti conici. Ogni villaggio, oltre agli edifici familiari, comprende la casa degli uomini dai pilastri di pietra e quella rotonda destinata alle donne durante il periodo mestruale. Nella parte alta della falesia si susseguono grotte e caverne nelle quali i morti vengono issati per mezzo di corde e dove sono riposte le maschere rituali. Nonostante l'inospitalità del luogo il territorio dogon possiede orticolture tra le più singolari del Mali.

Laboriosi come formiche i maliani trasportano la terra con canestri e costruiscono pietra su pietra dighe e sbarramenti riuscendo così a creare una vera e propria oasi di verde in mezzo a un inferno di sassi, arbusti spinosi e baobab. Entriamo nel villaggio di Banani. Bambini fuggono impauriti e piangenti. Le capanne hanno un'intelaiatura di rami successivamente sigillata da un impasto fatto d'argilla, sterco e acqua.

Notiamo una costruzione rettangolare: è il "toguna". Ha il tetto molto spesso costituito da fascine ed è interdetto alle donne. Il toguna è il fulcro attorno al quale ruota la vita sociale del villaggio dei Dogon. In esso si amministra la giustizia e si prendono decisioni di carattere amministrativo ed organizzativo.

Vinta la prima diffidenza il villaggio torna ad animarsi. Le donne pestano il miglio e allattano i bimbi. Gli uomini vanno e vengono dai campi lavorati con cura e precisione. I bambini ci vengono incontro, ci toccano incuriositi, ci prendono per mano e ci accompagnano dal saggio del villaggio. Visitiamo l'interno delle capanne dove fanno bella mostra di sè semplici oggetti per l'uso quotidiano. La loro gioia di spiegarne l'uso è pari alla nostra di apprendere. Al tramonto raggiungiamo a valle le nostre Jeep, lasciamo i Dogon poveri quanto prima e noi forse un po' più ricchi di scampoli d'Africa d' altri tempi.

I giorni passano tra mercati colorati, tessitori, moschee, anziani in preghiera, carpentieri intenti alla costruzione di piroghe, insabbiamenti e impantanamenti.

Martedì 29.07. Siamo a Hombori. La caratteristica di questo luogo è un' enorme formazione rocciosa chiamata "Hombori Tondo" che si erge nella pianura raggiungendo 1155 m d'altezza. Il villaggio si trova in una posizione pittoresca alla base dell'altura.

Giovedì 31.07. Visitiamo la riserva degli elefanti, purtroppo senza vederne nemmeno uno. A causa della stagione della piogge decidiamo di anticipare di otto giorno il giro di boa, consapevoli che i tempi per il ritorno si sarebbero allungati per le inondazione delle piste.

Mohammed, una guida dalla moralità eccezionale, ci ha condotti attraverso il Sahara per alcuni giorni zigzagando tra i campi minati alla ricerca di tracce apparentemente inesistenti.

Così come Mohammed abbiamo incontrato in questo viaggio altri personaggi che ci hanno aiutato e dei quali non ricordiamo neppure il nome, ma conserviamo intatto e intenso il loro ricordo. Ricordiamo inoltre gli occhi grandi, scuri e luminosi di quei bambini che correndoci incontro festosi chiedevano un "birò" che purtroppo non avevamo più .

1. La cellula "fai da te".

Individuato nel Land Rover 130 il mezzo ideale per le nostre esigenze, abbiamo dovuto trovare una cellula che oltre ad adattarsi alle dimensioni del cassone, fosse il più possibile compatta e garantisse una solidità assoluta. Ci siamo rivolti così alla Modulidea perché conoscevamo le caratteristiche tecniche delle loro cellule e l'esperienza diretta maturata dai titolari. La scelta è caduta sul modello small: solo 195 cm di lunghezza totale per diminuire al massimo lo sbalzo posteriore rispetto alla lunghezza del cassone.

Per permettere alla cellula autoportante e monoscocca, realizzata grazie all'utilizzo di uno stampo, di "calzare" gli ingombri del cassone si è provveduto a realizzare un telaio tubolare che è stato ancorato al pianale di carico del Pick-up.

All'interno di questo telaio sono stati posizionati un serbatoio supplementare di gasolio (l 200) e un serbatoio di recupero per le acque chiare. La cellula è stata alla fine posizionata sopra il telaio e qui ancorata. La progettazione e la realizzazione degli interni è stata effettuata in proprio, anche grazie alla consulenza ottenuta dagli amici di Modulidea. All'interno sono stati ricavati due letti singoli, un blocco cucina, e vari gavoni di sistemazione. A completare l'allestimento un frigorifero a compressore da 50 litri della Indel, un serbatoio da 130 litri in inox e Wc chimico. Per rendere completamente autosufficiente la cellula anche per lunghi periodi, sul tetto sono stati posti due pannelli solari da 55 W l'uno e un oblò con ventilatore incorporato. Il peso complessivo della cellula è risultato di 420 kg.

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La scelta alla fine si è dimostrata azzeccata: le prestazioni della Land Rover 130 non risultano per niente svilite, permettendoci così di affrontare qualsiasi tipo di percorso in completa autonomia e in pieno comfort portando anche con noi un pizzico di "atmosfera casalinga" sotto ogni cielo.

2. "Cellula fai da te" Sempre della Modulidea, similare alla prima con un'unica variante: lunghezza 2,30 m, larghezza 1,95 m montata però su un Nissan King - Cab Gli equipaggi 1. Equipaggio: Giusi e Ivano su Nissan King-Cab. 2500cc. Portata utile 1000 kg. Acqua 60 l. Gasolio 150 l. Velocità 130 km ora. 80 cv. 6 pneumatici della Pirelli Scorpion ST da 205/16.

Rotture: 2 ammortizzatori anteriori 2. Equipaggio: Adriana e Luigi su Toyota HJ 61.4500cc. Turbo 135 cv. Portata utile 700 kg.

Acqua 70 l. Gasolio 200 l. Velocità 145 km ora. 6 pneumatici Michelin S 750/16.

Rotture: 2 fogli balestra, incrinato il parabrezza e purtroppo aspirata acqua nel motore.

3. Equipaggio: Christine e Aldo su Land Rover Defender 130 T.D.I. 2500 cc .Portata utile 1400 kg. Acqua 130 l .

Gasolio 290 l. Velocità 130km ora. 6 pneumatici Michelin S 900/16.

Rotture: 2 ammortizzatori posteriori e un cerchione.

Considerazioni: Le riparazioni sono state eseguite sul posto in modo avventuroso e originale seguite con attenzione dal pubblico locale PAS PROBLEM, C'EST L'AFRIQUE..... INSHALLAH....

Un grosso riconoscimento a tutti i fuoristrada per averci riportati a casa.

Sono rimasto esterrefatto dalla robustezza ed affidabilità della Nissan King-Cab che sulla carta sembrava la meno dotata.

Bravi Giusi e Ivano che per la prima volta in Africa hanno saputo dosare con capacità l'esigua potenza del Nissan: primeggiando poche volte, ma nello stesso tempo giungendo mai ultimi.

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Verso il Camerun Da sempre il “mal d’Africa” ci ha perseguitato. Fu così che otto amici uniti da una sindrome comune, davanti ad un tavolo pieno di carte geografiche decisero di programmare un viaggio di 20.000 km in Africa attraverso Tunisia, Libia, Ciad, Camerun, Niger e Algeria.

Sbarchiamo a Tunisi. Espletiamo le pratiche doganali in un paio d’ore e puntiamo verso il sud.

Chott el Djerid, questo lago salato è il nostro primo bivacco. Coperto da una corazza scintillante che brilla al sole, pare galleggiare a perdita d’occhio. Minuscoli iceberg di sale dalle forme bizzarre emergono dalla superficie. Le ruote del nostro fuoristrada scrocchiano frantumandone la crosta. Si ha la netta sensazione di essere penetrati nel deserto del deserto. Nessun’ombra all’orizzonte inesorabilmente piatto, su cui palpita l’aria calda e nel miraggio si disegnano pozze d’acqua e deludenti lagune.

I datteri di Nefta non hanno nulla in comune con i piccoli frutti appiccicosi che ci vende l’ortolano sotto casa in minuscoli sarcofagi di cartone decorato. Quelli che stiamo mangiando si vendono sfusi, sono secchi e duri e cadendo su un sasso fanno “toc”, ma sono dolcissimi.

Questa è la terza volta che visitiamo la Libia. Ritornarci per 40 giorni è sempre una grande emozione e soprattutto non è mai una ripetizione. Solo ora, nel rileggere il nostro articolo di dodici pagine pubblicato su “Caravan e Camper” di giugno 1998, ci rendiamo conto di aver dedicato poco spazio nel descrivere l’ospitalità, le emozioni e le bellezze della terra di Gheddafi.

Ancora una volta a Tripoli approfittiamo della sincera ospitalità di Paolo e Abdul Azis e facciamo tesoro dei loro consigli. Presentiamo il nostro itinerario di viaggio all’ambasciata del Ciad: ci rilasciano un permesso di transito con un’unica raccomandazione: nei tratti minati ad est del Tibesti avremmo dovuto affidarci a una guida locale. In quattro giorni percorriamo la pista Ghadames – Ghat di 700 km lungo il confine dell’Algeria. Contattiamo Mister Mufta, una guida conosciuta in viaggi precedenti: sarà con noi per nove giorni nell’Acacous e Mathendous.

Il massiccio arenario del Tadrart Acacous è costituito da un’infinita varietà di forme rocciose bizzarre che emergono dalla sabbia. Puntiamo sempre verso sud, serpeggiando tra questi labirinti frastagliati di roccia. Numerose pitture rupestri decorano questi anfratti rocciosi, ottimi ricoveri per i pastori e i cacciatori del Neolitico. L’altopiano roccioso del Messak Settafet è solcato da numerosi Oueds: all’interno dell’Oued Mathendous visitiamo i maggiori siti d’arte rupestre, sicuramente tra i più preziosi e meglio conservati di tutta la preistoria neolitica sahariana.

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Siamo accampati e fa freddo. Accanto al fuoco osservo Vera, Silvana, Marisa, Christine, Nicola, Toni e Stefano: sono tutti ipnotizzati dai guizzi del falò.

Stiamo aspettando che nella sabbia rovente finisca di cuocere il pane che ogni sera Mister Mufta ci serve assieme al tè. L’infuso servito in minuscoli bicchieri è spaventosamente dolce, sciropposo e a volte sa di menta a volte di garofano.

Le stelle scintillano nitide nella notte senza nubi e priva d’umidità. La volta stellata è magnifica. In questo splendido scenario festeggiamo il ritorno in Italia di Vera e Nicola, affidiamo loro le lettere contenenti gli auguri di Natale per parenti e amici.

Siamo a Germa, antica capitale del popolo dei Garamanti. Penetriamo nell’Erg d’Awbari, splendido mare di sabbia all’interno del quale, come miraggi, ci appaiono incassati tra le dune gli incredibili laghi blu di Mandara, Um el Ma e di Gabron, orlati da palme che si riflettono nell’acqua immota.

Chi è stato nel Sahara ci ritorna, chi non c’è stato sicuramente sogna, almeno una volta, di visitarlo attirato da sconfinate distese di dune, morbide onde di sabbia e le luci radenti del tramonto che allungano le ombre e incantano.

A Timsa facciamo il pieno di gasolio e ne portiamo 280 litri di scorta. Acquistiamo verdure fresche e affrontiamo la pista di 270 km per il vulcano di Wau an Namus.

A causa di un fastidiosissimo vento cerchiamo riparo in fondo al cratere.

Siamo rimasti in tre equipaggi: un Iveco 4x4, un Toyota Pick Up e la nostra Land Rover 130. Tutti i mezzi sono corredati di cellula abitativa in vetroresina: due sono della “Moduloidea” e una della “Campertre ”. Tutte e tre si sono dimostrate leggere e robustissime. Interessante è il sistema modulare della Campertre che consente in fase di progetto di modificare lunghezza, altezza, larghezza della cellula abitativa a seconda delle singole esigenze.

Dedichiamo qualche ora alla manutenzione dei nostri fuoristrada, tracciamo una rotta sulla cartina e trasferiamo i punti satellitari nei nostri GPS (Global Positioning System).

Da qui in navigazione satellitare (785 km di fuori pista) giungiamo ad Al Koufra dopo quattro giorni.

La pista costeggia il margine occidentale del grande Erg, dove le dune si trasformano al tramonto in un continuo movimento di forme plasmate dai giochi di luce e ombre del sole cadente. La sabbia portata dal vento si accumula e si somma ad altra, così le dune s’ingigantiscono le une dietro le altre per chilometri e chilometri formando “Rebiana Sand Sea".

Siamo ai margini dell’oasi di Al Coufra. S’ode il cigolio del secchio che sale dalle sorgenti profonde: ecco nascere la vita.

Si ode il fruscio delle palme accarezzate dal vento, il canto delle donne che lavano alla fonte.

Siamo in fila per fare gasolio nell’unico distributore funzionante.

Per nostra fortuna i camionisti libici ci fanno passare avanti, superiamo la chilometrica fila e riempiamo al massimo la nostra Land consapevoli che dovranno essere sufficienti per 780 km di fuori pista che ci porterà in Ciad.

La frontiera tra Libia e Ciad è aperta solo per i locali.

Tracciamo una rotta sulle nostre cartine tenendoci il più lontano possibile dal Tibesti Ciadiano, trasferiamo i punti satellitari nel nostro GPS e incominciamo l’attraversata, aggirando il posto di frontiera per ritornare in pista solo nelle vicinanze di Ounianga Kebir.

I libici al termine del conflitto con il Ciad, vedendosi sconfitti, si ritirarono abbandonando nel deserto ogni genere di materiale bellico: carri armati, postazioni missilistiche, mortai, obici, proiettili e mine inesplose. Questo materiale a distanza di anni affiora dalla sabbia rendendo pericoloso il nostro lento avanzare. Facciamo dogana a Ounianga Kebir. Da qui in poi fino alla capitale N’Djamena che dista otto giorni di fuori strada, non troveremo più né strade, né corrente elettrica, né acqua.

Ci appioppano una costosissima guida: monsieur Laycir che sarà con noi per cinque giorni. È un Tubu, che in lingua kamuri significa abitante del Tibesti.

I Tubu sono nomadi neri che abitano in una sconfinata porzione di Sahara: da Kufra in Libia, al lago Ciad, fino alla città morta di Djado in Niger. Sono duri e orgogliosi, hanno saputo conservare nel tempo la loro indipendenza di usi e costumi e hanno saputo farsi rispettare e temere dai loro vicini.

Le loro regole sono dettate dal deserto e la loro cultura è quella di un mondo senza confini.

Pare discendano dagli Etiopi.

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I Tubu si considerano una etnia superiore e per questo si dedicano all’unica attività nobile, l’allevamento del bestiame, mentre ogni altra occupazione è vista con disprezzo ed è delegata a caste inferiori.

Sapientemente guidati da monsieur Laycir evitiamo i campi minati ed entriamo nel parco dell’Ennedi.

Il paesaggio varia continuamente: s’inseguono altipiani, depressioni sabbiose, verdi oasi con irreali palmeti, wadi profondi che solcano gli sconfinati spazi sahariani. Seguono poi migliaia di chilometri di oceano pietrificato nel quale si susseguono forme bizzarre, magnifici monoliti e imponenti torri di pietra affondate nella sabbia, picchi dalle forme geometriche impossibili, dune e barcane a volte mai calpestate da piede umano. I nostri fuoristrada percorrono fiumi invisibili, da sempre in attesa della prossima improbabile pioggia. Siamo circondati da guglie, torrioni e archi naturali. Nelle ore più calde ci ripariamo all’ombra dei grandi massicci di arenaria. Negli anfratti più segreti mirabili pitture rupestri fanno bella mostra di sé. Seguiamo la via dei pozzi. Uomini e donne tentano invano di tenere in fila il bestiame assetato. Il cigolio della puleggia di legno, issata su una robusta corda, è tirata da un cammello governato da un bambino. Quando la sacca, fatta di camere d’aria, giunge a fine corsa, è versata in un abbeveratoio, attorno al quale si affollano gli animali. Le donne trasportano sulla testa l’acqua fino ai vicini villaggi, dove la faranno decantare. Ora la tipologia del terreno è cambiata: avanziamo su distese d’argilla secca profondamente screpolata in poligoni regolari. Le fessure mettono a dura prova le molle delle nostre sospensioni e delle nostre spine dorsali troppo deboli. L’aria è densa. Il caldo che sale dal terreno e il vento sembrano fare ondeggiare la carovana che avanza come fosse un miraggio. Sui fianchi dei dromedari un assortimento di zucche e ghirbe per l’acqua, pentolame, pelli di animali, pali per le stuoie per montare le tende, varie masserizie ballonzolanti e baldacchini colorati stracolmi di bambini piccolissimi dalla testa “rapata alla moicana” che ci guardano dall’alto dei dromedari. Per nulla intimoriti c’inviano parole incomprensibili frammiste a grida gutturali. Completano la carovana capre e asini stracarichi. Gli adulti a piedi ci vengono incontro e gesticoliamo con loro.

Ci congediamo con una stretta di mano. Si allontanano in fila indiana e, girandosi, di tanto in tanto ci regalano un sorriso.

Siamo alla guelta D’Achei, dove sorgenti d’acqua sgorgano dal nulla e nei luoghi più improbabili.

Queste depressioni ricevono le acque piovane delle zone alte: sul fondo coperto di limo si formano queste pozze perenni, focolai di vita vegetale e animale. Sulle rive fangose si notano numerose tracce a forma di stella: sono le impronte dei coccodrilli. Questi sauri del Ciad sono di piccole dimensioni: difficilmente raggiungono i 2 metri. Sono timorosi e né il bestiame, né gli uomini hanno nulla da temere. In questa stagione lo stagno è grande un centinaio di metri. A un tratto sbucano cammelli, capre e montoni: sono eccitati, assetati, soffiano, starnutiscono, nitriscono.

Siamo impegnati in un tortuoso slalom tra picchi di roccia dalle forme sorprendenti che cambiano continuamente colore nel volgere della giornata.

Spaventiamo una famiglia di babbuini e da un’altura vediamo il lago Yoa, il più grande e forse il più bello dei bacini che ornano i dintorni di Ounianga Kebir. I laghi sono circondati da palmeti e falesie di arenaria multicolore interrotte da dune gialle e arancione.

Lasciamo l’Ennedi e puntiamo verso sud. Il paesaggio diventa monotono: acacie su praterie gialle a perdita d’occhio e dalle nostre cartine costatiamo che non muterà per ben 500 chilometri. Mulinelli di polvere si liberano verso il cielo e ci vengono incontro girando su se stessi per poi svanire nel nulla.

Fec fec: il gran polverone penetra nella cabina, nel naso, negli occhi, per incollarsi infine sulla pelle sudata. Stiamo attraversando un paese senza nome: lo sterrato è uno stretto budello e i banchi del mercato lungo i muri rendono difficoltoso il passaggio dei nostri fuoristrada. Le capanne sono in stile sudanese. Le decorazioni murali, sia interne sia esterne, sono arabeschi color porpora e sono tracciate direttamente con un dito. Le donne mostrano le loro bellezze senza pudore e imbarazzo. Al mercato troviamo solo spezie, patate e cipolle. Il caos è indescrivibile: tutti gridano e si spostano con un apparente non senso. Le magliette bucate, i pantaloni sbrecciati e i berretti consumati sembrano far parte di un’unica possibile uniforme.

Rimpinguiamo le scorte d’acqua, la filtriamo e la medichiamo con il Micropur. I rifornimenti per il gasolio sono lenti e macchinosi dovendoli effettuare con “sbrodolosi” travasi da fusti da 200 litri mezzi vuoti pagati per pieni al mercato nero.

Nel letto di un fiume secco ci cimentiamo in una gara con un branco di gazzelle di Thomson (perdendo ovviamente). La savana punteggiata da euforbie e alberi di acacia, gradatamente lascia il posto al verde cupo della foresta. Milioni d’insetti brulicano nell’aria. Ogni tipo di suono ci avvolge via via che l’oscurità incombe e si compatta sempre più. È notte e i rumori della foresta giungono con insistenza dentro la nostra cellula.

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Il bestiame viene rinchiuso in recinti improvvisati fatti di cespugli spinosi e noi ci accampiamo per la notte nelle vicinanze.

A N’Djamena, dopo 2550 chilometri di pista e fuori pista, i nostri pneumatici mordono l’asfalto della capitale del Ciad. Siamo sballottati da una banca all’altra, tentiamo negli alberghi e solo dopo il quarto tentativo riusciamo a cambiare. Dobbiamo discutere su ogni cosa: dal prezzo del cambio al taglio delle banconote. Subiamo l’ennesimo controllo di polizia. Scambio di battute coi militari su temi calcistici e ci lasciano passare. Sostiamo per una settimana al parcheggio del Novotel.

Lasciamo le nostre jeep al sicuro e visitiamo la capitale con i mezzi pubblici. Individuato il nostro autobus, ci tuffiamo nella calca davanti alle porte, combattiamo aspramente per conquistare l’accesso e riceviamo una buona dose di spinte, urla e gomitate. Cento e più occhi ci osservano divertiti. L’atmosfera nel bus è gradevole e la musica africana a tutto volume riempie l’abitacolo. La carrozzeria è costellata di botte e graffi, i fari anteriori sono completamente ciechi, le frecce sono inesistenti, la tappezzeria, di finta pelle nera, è unta e appiccicosa e i finestrini sono bloccati su quattro posizioni differenti, il cruscotto è spento, le ruote, perduta la loro perfezione geometrica, fanno sobbalzare e vibrare tutta la carrozzeria.

Facciamo un giro nelle ambasciate, otteniamo il visto per il Camerun e il Niger e prenotiamo quello per l’Algeria che troveremo pronto al ritorno dal Camerun.

Le nostre femminucce fanno a gara per il bucato più bianco; noi maschietti giochiamo a fare i meccanici e alla sera piscina e doccia per tutti.

Siamo al mercato: una fiumana di gente ci sospinge. Siamo sballottati come fuscelli. Un oceano di mercanzie strane, profumi penetranti, odori pungenti, musicassette a tutto volume, suoni di clacson e campanelli si alternano alle grida e alle esclamazioni dei venditori.

Usciamo dalla capitale. Vista la ressa davanti alla dogana del Camerun, ci appartiamo aspettando momenti migliori. Pranziamo a base di ananas, papaia, mango e noci di cocco che ci hanno aperto a colpi di machete. La strada asfaltata finisce già in periferia: buche, pozzanghere, piste rosse e foreste tropicali ci faranno compagnia per tutto il Camerun. Il terreno è color porpora, argilloso e traditore.

I profondi solchi sono la testimonianza degli aspri combattimenti sostenuti da camionisti impantanati.

La foresta tropicale ci sovrasta e si chiude sopra di noi, abbassando piacevolmente la temperatura, ma l’umidità è altissima.

Sfiliamo a fianco di termitai a forma di fungo e a mandrie di zebù con maestose corna a forma di lira.

La pista sale su un altipiano ed è ripida e impervia; capanne e granai sono affastellati gli uni sugli altri.

Terrazze di argilla si alternano a tetti in paglia. È il momento magico del tramonto. Una leggera brezza rinfresca l’aria.

Ora la palla di sole ha perso la sua violenza e svanisce nel nulla, donandoci un cielo infuocato che lentamente si spegne. È notte e migliaia di stelle riempiono ogni angolo del cielo.

I “ Koma”, gruppo autoctono, sono relegati nelle zone più impervie nel nord del Camerun. Questa etnia vede minacciata la propria identità e le proprie tradizioni dalla cultura islamica. I loro villaggi sono raggiungibili solo a piedi. I trekking per i monti Atlantica li organizza il “Lamido” (capo villaggio), persona capace e responsabile che gode di una certa autorità presso i portatori, è ben accetto dai Koma e parla la loro lingua. I Koma occupano una fascia di montagne lungo il confine della Nigeria. Grazie al loro isolamento e alla difficoltà d’accesso hanno saputo mantenere intatte le loro tradizioni.

Essi vivono completamente nudi, usano del fogliame legato attorno alla vita per coprire le parti intime.

Questa nudità non è vista di buon occhio dal governo centrale ed è considerata indecente dalla religione musulmana.

In fila indiana con portatori e guida entriamo nella foresta e superiamo villaggi ben mimetizzati dalla vegetazione. Le donne e i bambini ci sorridono compiaciuti. Notiamo che a tutte mancano due denti davanti. Solo in seguito sapremo che, raggiunta la pubertà, ai maschietti è praticata la circoncisione mentre alle femminucce vengono tolti due denti superiori, gli incisivi. La vita nel villaggio sembra scorrere come 1000 anni fa e si ha l’impressione di entrare in un mondo fuori dal tempo.

Doniamo al capo villaggio sale, zucchero, tè, tabacco e fiammiferi.

Lasciamo questo lembo d’Africa d’altri tempi e ritorniamo nella foresta: l’umidità è altissima, ci giriamo e vediamo da lontano le loro mani alzate in segno di saluto.

In Camerun ci sono sette parchi naturali. Visitiamo il parco di Waza. Si estende per ben 1700 chilometri quadrati ed è stato istituito nel 1934 per proteggere soprattutto antilopi, giraffe ed elefanti. Carichiamo sulla nostra Land Rover una guida indigena, monsieur Amonat, esperto conoscitore degli animali e del loro ambiente. Il parco è diviso in due zone, una di foreste e una di pianure erbose.

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La stagione delle piogge è terminata e la savana sta incominciando a ridiventare secca. Una giraffa ci guarda letteralmente dall’alto. Un tempo diffusa in tutta l’Africa, dal sud del Sahara fino a Città del Capo, oggi è completamente scomparsa in alcune zone. Anche nel parco di Waza, il problema del bracconaggio non è sconfitto. Durante il nostro lento girovagare ne vediamo le conseguenze.

Le antilopi equine sono in piena attività: i maschi tentano nuove conquiste: è tempo di corteggiamenti, di amori e di sfide. La loro presenza costituisce la conferma che la catena alimentare di Waza è ben equilibrata. Verso sera avvistiamo un gruppo di elefanti: comprende almeno 50 adulti e nascosti tra la selva delle enormi zampe, notiamo anche diversi piccoli. Il branco punta deciso verso lo stagno, probabilmente i pachidermi sono assetati. Il gruppo è composto soprattutto di femmine, una delle quali ostenta la propria autorità e imponenza,puntandoci.

Il parco ospita ben 300 specie di volatili. Stormi di uccelli, dal volo rapido e leggero, disegnano nell’aria danze sonore prima di scendere in picchiata sull’acqua.

Lo stagno è ricoperto da anitre, oche dalle zampe color corallo e ibis con livrea bianca e nera.

Il cielo è disegnato da voli di aironi. Bande di merli metallici cantano fra le mimose cariche dei nidi sospesi degli uccelli tessitori.

Un batter d’ali scuote l’aria: sono le garzette intente a nidificare. Per terra innumerevoli linee gemelle, vere e proprie strade ferrate in miniatura, rivelano il passaggio di mille piedi giganti. Gli “eritrocedi” piccole scimmie terricole, che a differenza delle altre, non amano starsene sugli alberi e in caso di pericolo preferiscono fuggire correndo all’impazzata piuttosto che arrampicarsi.

Il sole è tramontato e una semioscurità scende all’improvviso come un velo grigio che avvolge ogni cosa. Siamo di nuovo su una pista di terra rossa, la foresta tropicale ci sovrasta e dall’intricatissima vegetazione del sottobosco emergono altissimi ebani. Nuvole bianche, il vento le spinge e le ammassa sul fianco della montagna. È un continuo mutare di forme, accavallamenti, vortici fugaci.

L’aria è satura di umidità e la bruma ci avvolge. È giorno, ma dobbiamo accendere i fari. Sono ore che la foresta ci scorre lateralmente e a volte ci sovrasta. Ora il sole ammalato filtra appena. Queste lame di luce mettono in evidenza tutte le tonalità del verde e del giallo e l’effetto è di grande suggestione. In Camerun la vendita del legname pregiato sta inesorabilmente dilapidando il patrimonio verde, un vero gioiello botanico incastonato nella zona centrale del paese. Incrociamo nuovissimi autotreni, appartenenti alle multinazionali, carichi di tronchi di teck. Una lunga processione di alberi secolari, brandelli interi di foresta sfilano a fianco a noi che inermi assistiamo a questo funerale della natura.

“Pigmei”, nome magico, nome che da sempre mi ha fatto sognare. Ho visto decine e decine di fotografie e finalmente ci stiamo avvicinando al loro territorio. Sono due ore che risaliamo il fiume con una canoa, unico modo per penetrare questa giungla. Questa piccola piroga di assi malconce, scafo piatto, instabile e insicura, si apre un varco attraverso le fronde delle canne di bambù cariche di nidi di uccelli.

A causa delle forti mescolanze con tribù limitrofe, i pigmei hanno perso di purezza. Hanno tratti negroidi. Vivevano completamente nudi e sotto la pressione del governo centrale e del cristianesimo questa usanza è in via di sparizione. Sono famosi per la loro bassa statura, vivono nella foresta, senza fissa dimora, in capanne fatte di foglie. Abili cacciatori, usano archi, reti e lance.

Siamo a Kribi, al mare. Onde gigantesche ci rendono difficoltosa l’entrata in acqua. Alla fine della giornata siamo stanchissimi, con il corpo arrossato dalle strisciate sulla sabbia causate dalla risacca del mare. Sulla spiaggia vediamo i pescatori con reti lunghissime, aiutati da decine di persone, che pescano da terra usando le palme del litorale come carrucole.

A Yaounde otteniamo il visto del Ciad. Al mercato una marea di gente ci investe creando delle vere e proprie onde di movimento: un caos ricco di fascino e carico di straordinaria vitalità. Le donne con cesti sul capo camminano erette come regine. Sulle bancarelle si vedono cose stranissime, come pozioni magiche e misteriose, polvere di dente di coccodrillo, radici essiccate, corna di antilope frammiste a polveri di ranocchio, erbe allucinogene usate nei riti magici, unguenti medicamentosi, misture per l’amore, afrodisiache e miracolose in grado di risvegliare gli istinti più assopiti o di esaltare ulteriormente quelli più esuberanti.

Le case di culto sono affollate, le persone sono ben vestite. Uno spettacolo multicolore: vestiti dai colori sgargianti, estrose chiome di capelli neri e lucenti. Ci tuffiamo in questa fiumana di gente in cerca di qualche inquadratura. L’atmosfera è piacevole, tutti collaborano, alcuni troppo. Infatti appena si accorgono di essere inquadrati, il mirino di affolla di visi e corpi.

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A causa di un ponte rotto non possiamo proseguire oltre. ATibati invertiamo la rotta, risaliamo verso nord e lasciamo il Camerun costeggiando il lago Ciad. A causa della desertificazione, il lago si ritira.

Le impronte degli zoccoli del bestiame restano impresse nell’argilla e quest superficie gibbosa rende lento e difficile il nostro avanzare.

I Bororo, tribù di pastori nomadi per eccellenza, si muovono in tutta la zona di savana dal Senegal al Sudan. Originarie dall’incrocio di popolazioni berbere di pelle bianca, con africani di pelle nera hanno lineamenti caucasici e corporatura alta e slanciata. Amano acconciarsi e farsi belli. Uomini e donne hanno una venerazione per la bellezza: per loro è bello chi ha la carnagione chiara, struttura sottile, naso fine, dritto e lungo e ampio sorriso. Credo che siano una delle popolazioni più fotogeniche di tutta l’Africa. Raggiunta la pubertà, le giovani si sottopongono alla dolorosa pratica della “scarnificazione”, una serie di tagli sottili sull’addome e sul viso. Cospargono della cenere sulle ferite, queste si cicatrizzano formando un elaboratissimo disegno a rilievo. A detta degli uomini, ciò rende le ragazze più desiderabili. Completato il raccolto del grano, del miglio e del sorgo, comincia la stagione dei corteggiamenti. I Bororo addobbati in tutto il loro splendore con braccialetti, pitture e ninnoli vari, si riuniscono in danze impetuose ricche di rituali tesi a risvegliare tutti i sensi.

Stiamo per lasciare il Ciad per entrare in Niger. Fra l’andata e il ritorno abbiamo trascorso quaranta giorni tra sabbie, sassi, acacie spinose, laghi salati e tanto “fech fech”.

Pur avendo subito un’aggressione da gente armata di kalashnikov, un furto perpetrato da bambini e un taglieggiamento ad opera dei militari, a noi il Ciad è piaciuto, specialmente il nord. Un viaggio fatto di panorami mozzafiato, orizzonti senza limiti, notti sotto le stelle. Un viaggio privo del superfluo, difficile da descrivere, ma nel quale si riconoscerà chi l’ha a sua volta provato.

Facciamo dogana a Assamka e entriamo in Niger. Agadez è nota per la sua moschea con un minareto alto trenta metri, irto di travi dove si appollaiano i corvi. La polvere portata dal vento oscura l’orizzonte: montoni pezzati, vacche, cammelli, asini si mescolano alla moltitudine umana.

L’Air, grande massiccio montuoso di origine vulcanica è terreno di elezione del popolo nomade Tuareg del Niger. I Tuareg con la spada che batte sulla coscia, due occhi neri dai contorni ripassati con la polvere di antimonio, il tutto incorniciato da un velo tinto con l’indaco.

Ingaggiamo una guida: monsieur Moussa sarà con noi per quattro giorni nell’Air. Monsieur Muossa, dall’età indefinibile, ha la testa coronata da un turbante ad anello, a sua volta sormontato da una folta zazzera, eccellente camminatore porta con sé un pesante randello a forma di mazza da golf.

Una piacevole vegetazione fiancheggia il letto di sabbia grossolana degli “wadi”. Il vento agita palme e acacie. Un cammello, con un incessante avanti e indietro, tira su dal pozzo grosse otri ricavate da camere d’aria dismesse, il cui contenuto scorre lungo i canali di deflusso fino ai campi coltivati a grano, orzo e pomodori d’inverno e miglio e sorgo d’estate. Si ode il cinguettio e il frullare di ali degli stormi d’uccelli.

Dopo aver attraversato il Sahara, l’Air appare come un miracolo di vita e siamo circondati da tenera erba verde. Picchi montuosi, monoliti arrotondati e colonne levigate dall’erosione si stagliano contro l’azzurro del cielo. Il massiccio dell’Air è un piccolo mondo isolato di difficile accesso dove si trovano laghi, cascate, dune di sabbia e boschi di acacie che formano interminabili gallerie d’ombra. I nostri fuoristrada avanzano in stretti corridoi di pareti verticali di roccia, dai colori cupi, dove il sole filtra appena.

Incontriamo carovane provenienti dal sud del Niger cariche di cereali, carne secca e tessuti che durante il percorso saranno barattati in cambio di sale e datteri.

A Timia ci accolgono gli abitanti con in testa il capo villaggio. Visitiamo un fortino coloniale francese, situato su un’isola di granito nero. Dall’alto si vedono giardini, palmeti in straordinaria successione e in contrasto con le morbide tonalità delle sabbie invadenti del Tènèrè.

Ci congediamo dalla nostra guida monsieur Moussa con un’ennesima spaghettata: si è dimostrato capace e cordiale. Abbiamo capito sin da subito che chiedergli le distanze in ore o in chilometri era cosa inutile.

Non dava valore al tempo, il suo riferimento erano il sole e le stelle. Il resto erano dettagli insignificanti.

Monsieur Moussa è ritornato nel suo deserto, alla sua normalità fatta da una solitudine infinita, all’acqua centellinata, al rito del tè, al pane cotto nella sabbia che sono il piacere del suo vivere.

Dopo duecento chilometri di pista entriamo in Algeria a Inguezan.

Attraversiamo il Sahara, che da sempre stimola la fantasia di tutti coloro che amano gli spazi aperti e le sconfinate estensioni desertiche. Il Sahara ha una superficie pari a venticinque volte l’Italia. Proseguiamo sempre verso nord.

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Prima delle dune di Laouni, gironzoliamo in fuori pista per una giornata. Corriamo paralleli ad innumerevoli picchi a forma di torri, funghi, cattedrali affioranti da sabbie multicolori e lungo infiniti cordoni di dune. Incrociamo una carovana tuareg proveniente da Bilma, notiamo che il pomo delle selle è a forma di croce, vanto dei fabbri dell’Air. Siamo nella mitica Tamanrasset. Ci prepariamo per la notte nelle vicinanze del “Picco di Tamm”, poco lontani da un accampamento tuareg. Ai bordi di una pozza, forme femminili fanno bucato chine su dei copertoni pieni d’acqua. Un Tuareg con il suo turbante, lucido come la carta carbone, lascia intravedere soltanto gli occhi e la radice del naso. Tiene per mano il figlio dai capelli finemente intrecciati. Le donne, a differenza degli uomini, possono mostrarsi a viso scoperto e offrono a noi fotografi il loro sorriso.

Il fuoco è stato acceso in una cavità della sabbia. C’invitano. Il tè verde passa dalla teiera al bicchiere e viceversa prima di essere versato in minuscoli bicchierini posati sulla sabbia.

Ci stiamo dirigendo all’Assekrem. La pista è molto sconnessa. Spegniamo la radio e prestiamo attenzione ai rumori del nostro fuoristrada: gemiti e scricchiolii sinistri. Purtroppo cede il supporto di un ammortizzatore. Risolviamo il problema portando a 3 atmosfere le provvidenziali sospensioni ad aria della Bitop. Così facendo possiamo proseguire e di sera giungiamo all’eremo di padre Foucauld a 2870 metri. Ci alziamo prima dell’alba. S’intravedono i contorni ancora sfumati dell’Hoggar.

Il debole sole dell’alba tinge le punte del Tahat (2918 metri). I suoi profili si fanno sempre più netti man mano che il sole si alza all’orizzonte e vediamo uscire dall’ombra guglie, canyon e un continuo susseguirsi di catene montuose.

Siamo in pista e ne avremo ancora per tre giorni; passiamo per In Ecker, Anguid, Bordj Omar Driss, Hassi Mmessaoud e da qui in poi una strada asfaltata ci porterà a casa dopo 22 000 chilometri percorsi in 135 giorni.

Il traghetto “Carthage” ci sta riportando a Genova. Siamo tutti spaparanzati al sole ed è un momento di riflessione: bravi Silvana e Toni e il loro Iveco 4 x 4. Per essere stata la loro prima volta in Africa, se la sono cavata egregiamente. Dieci e lode alla cellula in vetroresina della Campertre.

La mia fantasia vola sulle dune del deserto, al silenzio assoluto, alle savane del Camerun, al bagno degli elefanti, ai voli d’uccelli al tramonto, all’emozione della navigazione satellitare, ai 15 000 chilometri di pista, alle tribù Bororo, Komba, Pigmoidi e Tuareg.

Non dimenticherò i cieli blu cobalto, le notti stellate, i tramonti infuocati, il nulla, l’infinito, gli abbracci di gioia e le risate con gli amici attorno al fuoco.

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VISTI Libia

Ambasciata libica a Milano Occorre: timbro bilingue (italiano – arabo) dalla Questura di Milano, invito di un' agenzia libica, 1 foto. Per queste pratiche ci si può rivolgere al Sig. ACHIM (Tour operator) – Tel 0339 / 2533373 costo £ 220.000

Ciad

Ambasciata del Tschad a Bonn 53173, Bastaistr . 80 tel. 0049 0228 356026 Fax 0049 0228 355887

Camerun:

costo: £ 70.000

Ambasciata del Camerun, via Siracusa 4/6 00161 Roma tel. 06 44291285 - Fax 06 44291323

Niger: Algeria:

costo: lire 110 000 oppure: all’Ambasciata del Camerun in N’Djamena (Ciad) Ambasciata del Niger a Roma tel. 06 3729013 costo: lire 90.000 Ambasciata dell’Algeria a Roma tel. 06 8084141 costo: lire 60. 000

ALTRI DOCUMENTI: patente internazionale, Car net du Passage per il Ciad, Camerun e Niger VACCINAZIONI:

febbre gialla, epatite A/B, meningite, vaiolo, anticolera, profilassi antimalarica

MONETA: Libia:

Dinaro libico: 1$ = 2 Dinari

Ciad:

CFA

100 FF = 10.000 CFA = ( 1 CFA = 3 £ )

Camerun

CFA

Niger:

CFA

Algeria

Dinaro 1 Dinaro = 30 lire

ALTRI COSTI: Traghetto: Genova – Tunisi lire 1.800 000 andata e ritorno Gasolio: Tunisia: lire 500 x litro ; Libia: lire 100 ; Ciad: lire 1200; Camerun: lire 1050; Niger: lire 900; Algeria: lire 360

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Il SOGNO DI UNA VITA DIVENTA REALTA' Dopo 35 anni di duro lavoro Christine ed io ci troviamo a realizzare quello che è sempre stato il "light motiv" della nostra esistenza, ovvero effettuare un viaggio di almeno sette mesi in India.

Con entusiasmo partiamo assieme a Carola e Carmelo (nostri cari amici), tutti e quattro ci troviamo d'accordo sulla durata del viaggio e sulla destinazione.

Amici e parenti non ci hanno certo risparmiato le consuete battute sul ritrovamento di noi stessi, sulla ricerca di paradisi perduti che erano così di moda negli anni passati. A queste frecciate ribattiamo che oltre al piacere dell'avventura, rincorriamo al massimo il miraggio di un dimagrimento di 20 kg, cosa che purtroppo si è verificata solo in parte. Ci troviamo a Brindisi con Carola e Carmelo ed il loro Unimog che in seguito battezzeremo il "Bel Eldorado" per via dei suoi due condizionatori d'aria: uno sito in cabina e l'altro nella cellula abitativa.

Viaggiamo veloci. Un bagno nel mare Egeo, superiamo Istanbul, una sosta ad Ankara. Visitiamo il museo degli Ittiti immergendoci così nell'affascinante clima d'Oriente. Entriamo nella zona (reputata poco sicura) dei Curdi. Le strade e le città sono presidiate dai militari, ma non incontriamo la minima difficoltà ed ancora una volta possiamo affermare di avere incontrato gente simpatica ed ospitale.

Passiamo vicino al biblico Monte Ararat: è innevato e parzialmente coperto di nuvole.

Il confine iraniano è vicino. All'ultimo momento ci autocensuriamo facendo sparire qualche rivista perchè "la solita voce" dice che i controlli saranno rigidi, severi e non saranno accettate immagini che non rispetti- no i costumi islamici. Nascondiamo il poco vino rimastoci e il 19 giugno, dopo 4.000 km, entriamo in dogana. La porta della dogana è come lo sbarramento di una diga. Quando finalmente viene spalancata, un'ondata urlante di corpi, gambe, braccia, mani e barbe si riversa nell'ufficio occupando ogni angolo vuoto. Sono i camionisti! Ci vorranno tre ore per espletare le pratiche doganali.

L'Iran si sta lentamente aprendo al turismo. Fin dal primo giorno notiamo che la gente ci accoglie con calore e simpatia ed ha una gran voglia di comunicare. I camionisti che incrociamo ci salutano lampeggiando e con ampi gesti delle braccia. Siamo felici di scoprire il noto detto "iraniani – italiani una faccia una razza". Gli iraniani nella loro semplicità sono rispettosi e generosi. Il lavoro dei campi in molti casi viene eseguito a mano, ripetendo antichi gesti e con l’ausilio degli stessi attrezzi di secoli fa.

Qui, dopo la mietitura, il grano viene separato dalla pula ancora sfruttando la brezza del mattino.

Il dromedario però ha ormai perso d’importanza e quei pochi, che ancora vediamo, suscitano in noi un certo fascino.

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Villaggi sperduti sono protetti da fatiscenti mura costruite con mattoni di argilla cotti al sole. Ci troviamo a viaggiare su un esteso altipiano posto ad una quota di 1.500m. Notiamo dei cumuli di formelle fatte a mano composte da sterco e paglia ed essiccate al sole costituiranno un prezioso combustibile per affrontare il rigido inverno.

Esfahan: un mercato lungo tre chilometri A Esfahan ci mescoliamo timidamente al traffico caotico e passiamo davanti alla piazza dell'Imam, grandiosa e impressionante per le sue dimensioni (m 500 x150). Il suo perimetro è costituito da un porticato che ospita artigiani, artisti e commercianti con le relative botteghe in cui fa sfoggio un raffinato artigianato. Nella piazza sorgono diversi monumenti: osserviamo la moschea dell'Imam con la sua cupola alta 50 m ed un portale d'ingresso a nicchia nel quale fanno bella mostra di sé due pavoni di assoluto pregio. Alla maestosità di questo edificio preferiamo i delicati contrasti di tinte della moschea Masyid-I-Scheik- Lofftollah. A nord della piazza attraversiamo il portale detto “Qasaraya” che conduce al più bel bazar dell'Iran.

Veniamo a conoscenza di mister Hossain Paygam Bary titolare dell'Export "Nomad Shop" che ci aiuterà a trovare un parcheggio per la notte, facilitandoci poi nel rinnovo del visto. Il mercato si snoda sinuosamente per tre km fino alla moschea del venerdì: il soffitto è sorretto da volte arcuate in mattoni.

Qui c'è solo l'imbarazzo della scelta: tappeti in lana o seta sono esposti a profusione accanto a tovaglie stampate, scatolette laccate, miniature, vasellame in ferro finemente smaltato e decorato a mano, inoltre monili in ferro e rame battuto. Le donne sono vestite di nero, ci lanciano fuggevoli sguardi attraverso la fessura dei loro chador. Frittelle sfrigolano nell'olio color melassa, carne cruda tappezzata di mosche e spezie a volontà. Sostiamo davanti a ciotole di zafferano, di polvere di peperoncino, sacchi di pistacchi e di tè, vecchie radio ed elettrodomestici seminuovi.

L'aria è pesante, soffocante e contiene di tutto: odore di antico, di polvere, di muffa, di pollame, di granaglie, di sudore e di cuoio vecchio. Alla sera, quando il canto del muezzin si diffonde nella piazza, uomini e donne si girano all'unisono verso il sole e si inginocchiano per recitare l'eterna invocazione "Allah akbar" (Dio è grande). La preghiera del tramonto ha un che di magico, sembra una danza rituale o meglio un balletto lentissimo. I fedeli sollevano le braccia al cielo, si inchinano, si rialzano, poi si inginocchiano poggiando la fronte sul terreno, sedendosi sui talloni ed alzandosi di nuovo in piedi.

Non si ode altro rumore che un fruscio di vesti. Anche alle donne occidentali è imposto l'uso del velo sul capo. Carola e Christine sono alle prese con il loro chador, o meglio con alcune ciocche di capelli ribelli che sfuggono all'odiatissimo foulard. Lasciamo Esfahan. Le strade brulicano di umanità, dribbliamo pullman antiquati di fabbricazione incerta e stracolmi di gente. Come nelle moschee anche qui vige la rigorosa separazione dei sessi voluta dalla morale islamica sciita. Facciamo il pieno di gasolio dal costo irrisorio e via, verso Yazd, è solo grazie ai CB che riusciamo a non perderci. Tocchiamo Na'in, dove in laboratori scavati sottoterra si tessono tappeti utilizzando il pelo dei dromedari.

I camini del vento e i fasti dell'impero persiano Catturano la nostra attenzione i "camini del vento": costruiti in modo ingegnoso sono in grado di raccoglie- re la pur minima quantità di aria per convogliarla nei locali sottostanti, rinfrescandoli.

I tetti delle case sono a forma di cupola realizzati con mattoni d'argilla cotti al sole che conferiscono all'insieme un caldo color ocra. Shiraz e la mitica Persepoli ci riportano ai fasti ed alla grandezza dell'impero persiano. Scaloni enormi, terrazze, ingressi e passaggi contornati da marmi scolpiti in bassorilievo raffiguranti figure bellissime, statue che tramandano leggende, avvenimenti, battaglie e miti.

In particolare alcuni rilievi mostrano la guardia di palazzo composta da 10.000 soldati, detti gli "immortali", perché i caduti venivano immediatamente sostituiti attingendo a riserve inesauribili.

A Naqhsh e Rostam su pareti di roccia a grande altezza da terra ed in posizione inaccessibile si trovano, contornate da statue e bassorilievi, le grandi tombe nelle quali sono state poste le salme di Dario I, Serse, Artaserse e Dario II. Lasciamo questo tempio funerario ed attraversiamo un paesaggio interessante e vario composto di laghi salati, deserti infuocati e enormi piantagioni di fichi. Sostiamo a Kerman e notiamo che i lavori più umili vengono affidati agli afghani che qui sono numerosissimi.

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“Il deserto dei Tartari“ A Bam visitiamo la cittadella fortificata, imponente e ben conservata, dove tra l'altro è stato girato parte del film "Il deserto dei Tartari". Fa molto caldo: si superano i 50 gradi. Numerose sono le tende nere dei pastori nomadi. Ci stiamo avvicinando al confine pakistano. Gli iraniani sono gente semplice e cordiale, desiderosa di un contatto con il mondo esterno e pronta a ricambiare con calore un gesto d'amicizia.

Le donne sono sicuramente le più sacrificate e considerate solo nell'ambito della famiglia.

Per noi occidentali è assai difficile comprendere l'imposizione di portare il "chador" sotto il sole cocente ed il divieto assoluto di mostrare superfici di pelle che non siano le mani e gli occhi. Per poter apprezzare al meglio le bellezze naturali, la storia e l'arte, bisognerebbe ritornarci con più tempo a disposizione ed in una stagione con un clima più favorevole.

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PAKISTAN a corrente alternata: storia e magia di un popolo Facciamo dogana a Mirgave ed entriamo in Pakistan. I nostri passaporti vengono timbrati a lume di candela perché è consuetudine l'interruzione della corrente elettrica. Ci viene spontaneo pensare che sarebbe meglio investire nelle linee elettriche anziché in bombe atomiche. Il legno della scrivania dei doganieri è inspessito da decenni di pennellate di colore, da inchiostro di timbri andati a vuoto, gomme da masticare essiccate che recano ancora l'impronta digitale del proprietario e tramandate alla storia come fossili. Le pratiche si esauriscono in due ore. Passiamo la notte in dogana vicino alla polizia.

Partiamo all'alba sfruttando le ore fresche del mattino. Incrociamo camion e autobus, tutti dotati di freni dalla dubbia affidabilità e ciò garantisce loro la precedenza agli incroci e nei sorpassi. Le loro balestre scricchiolano come catene arrugginite sotto il peso del carico dieci volte superiore a quello consentito.

Da ammirare sono i meccanici, questi maghi che, con quattro attrezzi lisi e lucidi per l'uso quotidiano, sono in grado di riparare e ricostruire tutto.

Su un tratto di sabbia molle troviamo un camion insabbiato.

Diamo un aiuto: venti mani rigide fino alle falangi si appoggiano alla parete posteriore del cassone, le braccia tese pronte a spingere. L'autista dà il via e poggia il piede sull'acceleratore. Dieci volti si contraggono dallo sforzo, venti gambe si tendono, s’irrigidiscono, affondano nella sabbia.

Distrutti, sudati e coperti di sabbia spingiamo e spingiamo. Lo sforzo di spingere si somma a quello di sollevare le gambe affondate nella sabbia. Alla fine vediamo il cassone, finalmente animato di vita propria, che si stacca al rallentatore dalle nostre mani e si allontana.

Il paese delle armi Siamo a Darrà posta a 40 km da Peshawar. In questo paese l'economia è totalmente basata sulla costruzione di armi leggere. Da lontano sembrano giocattoli, ma quando ci avviciniamo ci accorgiamo che sono vere come le relative pallottole. Nel nord del Pakistan sono quasi tutti armati e mostrano le armi con orgoglio e fierezza specialmente se sono kalashnikov. Il paesino è pieno di piccole botteghe dove si fabbricano pallottole, foderi, cartucciere, cinturoni, tute mimetiche... insomma tutto l'occorrente per vestire ed adornare un Rambo del 2000. Finalmente ci serviamo di un "rikshas" che è un triciclo a motore decorato con disegni naif e cromature. Entriamo quindi a piedi nella città vecchia. I bazar sono intrecciati gli uni agli altri in un reticolo di strade, vicoli, passaggi coperti: il tutto appare come un affascinante labirinto. Il Khyber Bazaar è definito il “Piccadilly” dell'Asia Centrale. C'è una folla incredibile! Cerchiamo di non farci investire dai molti "rikshas", dai carretti tirati da cavalli, dai taxi, dai facchini piegati sotto pesi enormi e ci infiliamo in una viuzza avvolta dal fumo dei ristoranti.

Entriamo in uno dei più decenti, il "Salateen". La sala è piena di clienti rumorosi con gli immancabili kalashnikov. Solo in seguito verremo a sapere che gli uomini armati provengono da una zona tribale sul confine, dove il governo pakistano esercita un'autorità molto relativa. Sono i "Pathan" stupendi nei loro copricapi e con le armi intarsiate d'argento. Di fronte a loro bisogna abbassare gli occhi.

Il paesaggio delle grandi invasioni Il Pakistan è da sempre terra di guerre e battaglie, ma territorio mai conquistato veramente da nessuno.

Terra magica per le sue genti e per la sua storia. Lasciamo Peshawar e ci inoltriamo nelle gole profonde del Khyber Pass che ci condurranno fino al confine Afghano. È attraverso questa breccia che sono passate tutte le grandi invasioni, dai grandi commerci dall'Asia Centrale alla pianura indogangetica, agli eserciti di Dario e di Alessandro Magno, la cavalleria di Tamerlano e più tardi quella dei Turchi e dei Persiani. Oggi come ieri e come sempre su questa via si incrociano il traffico d'armi e di droga.

La strada si snoda fra terrazzamenti scavati sui fianchi delle colline. Le rare donne che conducono al pascolo greggi di pecore, quando ci vedono, si avvolgono il capo e ci voltano la schiena.

A Mingora, dopo 15 giorni di antibiotici, la povera Christine si sottopone all’estrazione di un molare.

Lo studio dentistico è poco rassicurante, ma l'igiene e la professionalità del dottore si sono dimostrati all'altezza e come si suol dire "via il dente, via il dolore". A Mingora saliamo nella valle di Swat fino a Ka-lam. Finalmente fa fresco ed i nostri ventilatori riposano. La pista è accidentata, polverosa e devastata dalla stagione delle piogge. Il pulviscolo forma una luce grigia che copre ogni cosa, la colorazione è uniforme come in una foto in bianco e nero sovraesposta.

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Davanti a noi una vecchia Land Rover ormai in stato di putrefazione, con 18 persone a bordo, arranca sugli stretti tornanti urlando tutto il suo dolore. L'autista sta con il busto fuori del finestrino per occupare meno posto possibile all'interno. Sembra un ferroviere di un’antica locomotiva a vapore. Non potendolo superare ci fermiamo per documentare con fotografie e video la stretta valle. Continuiamo a salire, entriamo nella nebbia, a volte veniamo investiti dagli abbaglianti imperiosi di camion "kamikaze" lanciati in discesa. Prima ti puntano facendoti uscire di pista e solo allora ti evitano con un urlo isterico di clacson. Incontriamo nuovamente la vecchia Land Rover: è ferma. L'autista è già sdraiato sotto la sua creatura asfittica e tenta la rianimazione colpendo i meccanismi dell'albero di trasmissione con cacciavite e martello. Con nostra meraviglia, la tosse catarrosa del motorino d'avviamento ridà vita ai pistoni addormentati che ripartono senza un perché. Dormiamo in quota e torniamo a Mingora giusto in tempo per imboccare la valle di Chitral che corre lungo il confine afghano.

La pista è stretta e tormentata da innumerevoli tornanti che ci obbligano a pericolose manovre in curva.

Si sale sino al Lavarai Pass di 3.118 m. Costeggiamo il ghiacciaio, dove una moltitudine di persone è intenta a tagliare a pezzi il ghiaccio che raggiungerà, dopo 22 ore di camion, la capitale Islamabad e qui verrà consumato sotto forma di granatine. Fra queste nevi perenni facciamo la conoscenza degli uomini "cuneo" che stanno appesi allo sportello posteriore del cassone, un piede appoggiato sul predellino e l'altro penzolante nel vuoto. Quando il camion si arrende di fronte alle impietose salite di fango viscido e le ruote iniziano a slittare all'indietro, il loro compito è quello di saltare giù con un balzo felino per piazzare sotto gli pneumatici due grossi cunei di legno per arrestare il retrocedere del mezzo.

I Kalash, un popolo a rischio estinzione A Chitral lasciamo i nostri ingombranti fuoristrada, noleggiamo una Jeep e ci addentriamo nelle montagne del Hindu Kush dove vivono i Kalash. Le agenzie della capitale portano i turisti a visitare queste popola- zioni. I poveretti in costume ripetono la solita farsa per la gioia del "tutto compreso", ma non è questo che noi cerchiamo. Tentiamo di comunicare, ma parlano inglese e il mio è molto maccheronico, si crea comunque una grande intesa fatta di sguardi e di gesti. Il mistero delle loro origini ha suscitato le fantasie più sfrenate. Si dice siano discendenti da antichissime popolazioni indoeuropee e lo dimostrerebbero i loro caratteri somatici, i capelli biondi, la carnagione rosea, gli occhi blu ed il modo di vestire. Questo straordinario popolo rischia l'estinzione. L'Islam si sta diffondendo inesorabilmente e li sta accerchiando. Il governo centrale non ama questi "pagani" e le fanciulle non coperte dal velo che si esibiscono in danze con gli antichi costumi. Altro pericolo per le genti Kalash è il turismo ed è un peccato che un altro pezzo dell'Oriente romantico e fiabesco venga spazzato via per sempre dal fanatismo religioso o dai turisti poco sensibili. La strada è ormai diventata una mulattiera dissestata e pericolosa.

Il nostro autista Mr. Hossain quarantenne, dice lui, sessantenne diciamo noi, occhi profondi, un sorriso sdentato e un gozzo grande quanto una palla da tennis, fa sfoggio di grande disinvoltura e solo a tratti le urla di Carola e Christine lo fanno rallentare. Ci fermiamo a Drosh. Arrivano tutti, ma proprio tutti gli uomini del paese. Siamo attorniati da una folla eterogenea dai 3 ai 60 anni d'età, una cinquantina tra uomini e bambini silenziosi che spiano ogni nostro movimento. Se ne stanno seduti sui talloni immobili senza mai staccarci gli occhi di dosso. È una sensazione strana essere osservati così. Immaginavo che queste cose accadessero solo agli esploratori del secolo scorso. Ci dovremo abituare! L'autista, grazie a Dio, esperto e sicuro, è una di quelle persone che potrebbe mangiarsi i vincitori del "Camel Trophy" per colazione. Il tempo sta cambiando, inizia a piovere, una pioggia leggera ed insistente che gocciola nell'abitacolo attraverso le fessure scavate dalla ruggine e le guarnizioni marce. Un rivolo d'acqua impetuoso corre nell'interno; come un piccolo torrente di montagna scende lungo il parabrezza incrinato, gira attorno al tachimetro che segna da sempre 40 all'ora e finisce la sua corsa sulle mie ginocchia.

Stiamo attraversando un tratto molto impegnativo. La pista è tortuosa e gioca a nascondino con le montagne. A volte lambisce paesaggi da sogno, fiumi, cascate e laghetti, a volte sparisce in una leggera foschia azzurrina. Continuiamo il nostro viaggio sulla strada Karakorum Highway, uno dei più grandi progetti ingegneristici della storia. È stata inaugurata venti anni fa, ma sembra ancora in costruzione: frane, smottamenti e fango la ostruiscono di continuo. Possono passare ore, giorni ed a volte settimane prima che i tratti danneggiati vengano riaperti, per questo consigliano di avere sempre a bordo una buona scorta di acqua, cibo e gasolio.

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K2 la montagna delle grandi sfide Dopo Chilas, e precisamente a Janglot, ci inoltriamo in una valle parallela che ci conduce a Skardù.

La vegetazione si dirada fino quasi a scomparire: sopravvivono soltanto pochi cespugli battuti dal vento.

La nostra Land arranca su pendii sempre più ripidi, in bilico fra burroni a strapiombo sul fiume e montagne che sono sempre sul punto di franare. A Skardù la valle si apre, da qui partono le spedizioni alpinistiche dirette al K2. Proseguiamo ancora per un centinaio di chilometri. La strada diventa una minuscola "cosa" aggrappata alle montagne, sospesa su un fiume che lungo la sua corsa urla, ribolle e si contorce fra migliaia di massi rocciosi. Le acque sono dense, scure e inghiottono voracemente i torrenti azzurri che scendono dai monti. Villaggi senza nome abbarbicati sui rilievi hanno la dimensione di presepi. Le montagne attorno a noi sono colossi che raggiungono gli 8.000 m. In lontananza il K2 sembra vegliare su tutti. A sera quando il sole si abbassa all'orizzonte, la luce dorata e radente allunga le ombre inondando il paesaggio di colori spettacolari. Queste immagini si imprimono nella memoria e le rivivremo ogni volta che la mente vagherà in questi luoghi.

La tragica impresa dei fratelli Messner Ritorniamo sulla Karakorum Highway: pochi incontri e tutti maschili. Le donne sembrano non esistere e questa quasi totale assenza rende questa società maschilista molto triste e grigia. La strada è sterrata e non segue più il corso del fiume Indo. Il grande fiume è sparito in una gola senza nome. Al suo posto scorre l'Astor, meno imponente ma altrettanto furioso. I piccoli villaggi lungo le sue rive sopravvivono solo grazie a queste acque grigie che nutrono una terra avara di vita. Le donne che lavorano questi piccoli campi sono lontane, minuscole schiene ricurve nel verde. È un angolo di Himalaya quieto e silenzioso, selvaggio e primitivo. Siamo a Hunza, il panorama è di una bellezza e nitidezza sconvolgenti. Dall'alto dei suoi 7.888 m il Rakaposhi è lì a portata di mano e diventa impossibile distogliere lo sguardo, è come se esercitasse un effetto magnetico … Penso a Messner che nel 1970, con il fratello Gunther, salì per primo questa parete disumana e per la quale tutti gli aggettivi sembrano inadeguati. Fu un'impresa tragica e dolorosa perché Gunther, di ritorno dalla cima, fu travolto da una valanga e Reinhold si consumò l'anima ed il corpo nel tentativo di ritrovarlo.

Manca poco al tramonto Carmelo, con la sua Hasselblad ed io con la mia Nikon, entrambe su cavalletto, puntiamo gli obiettivi sul Rakaposki. Il silenzio totale viene interrotto solo dal clac meccanico dell'Hasselblad seguito dal clic della mia macchina fotografica… clic …clac …clic …clac…"Carmè! Giuro che questa è l'ultima che scatto!"

Intanto le nuvole rosee ammantano la cima della montagna e la velano ai nostri sguardi. " Aldo! Io faccio ancora questa e poi ho chiuso." Clac… seguito da clic…Ora le ombre lunghe della sera evidenziano tutti i crepacci conferendo tridimensionalità all'inquadratura."Carmè! ancora un clic."

Clac… Il vento d'alta quota spazza via tutte le nuvole ed ora c'è una luce particolare specialmente sul ghiacciaio che appare come un tentacolo che si muove lentamente. Non scattare ora è proprio impossibile… clic… clac… clic… clac… e questi clic e clac vengono interrotti solo dal buio che inghiotte ogni cosa .

Il compleanno di Christine Il 21 agosto siamo in un ristorantino e stiamo festeggiando il compleanno di Christine.

Dal nostro tavolo si vede la cucina, un antro buio, piccolissimo e nero. Dalla penombra compare il cuoco, è vecchio, il più vecchio che abbia mai visto. La faccia piena di rughe, se ne sta seduto sui talloni, quasi ricurvo su se stesso, come una canna sottile piegata per sempre dagli anni. Con le mani nodose e nere di fuliggine mescola lentamente in un pentolone nero, nero come i suoi occhi. I muri e le panche sono nere come ogni cosa di questo ristorante. Ci viene servita una zuppa di carne che mi richiama il sapore della minestra riscaldata della refezione scolastica della mia scuola elementare.

Mangiamo con un iniziale imbarazzo, essendo sprovvisti di posate. Più tardi continuiamo la festa nei nostri camper affidandoci alle capaci mani di Carola e Christine. Giungiamo al confine cinese, il Khunjerab Pass (4.602 m). Non ci fanno proseguire. Il tempo sta cambiando e le montagne circostanti scompaiono inghiottite da nuvoloni neri, il che non promette nulla di buono.

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Fa freddo, ritorniamo sui nostri passi e dopo 800 km giungiamo ad Islamabad, dove prolunghiamo il nostro visto. Il traffico nella capitale è caotico. Gli autobus sono addobbati come altarini con versi e scritte del Corano. Parte della carrozzeria è in legno intarsiato da dove penzolano catenelle e ciondoli vari. L'uomo “cuneo”, in questo caso, fa anche da bigliettaio e dà il via all'autista picchiando più volte sulla carrozzeria.

INDIA: fascino e mistero Facciamo dogana a Lahore. Lasciamo il Pakistan, le sue superbe montagne, le sue genti cordiali, riservate, di indole calma e dotata d’infinita pazienza a volte mista a rassegnazione. I doganieri indiani ci perquisisco- no da cima a fondo facendoci scaricare tutto (cercano armi e droga) perfino sotto la macchina. Ci portano sulla pesa e smontano il copertone della ruota di scorta. È già trascorso un giorno ed una notte quando finalmente possiamo proseguire per Amritsar nella regione del Punjab. Visitiamo il tempio d'oro dei Sikh fondato dal guru Ram Das nel 1577. Il tempio d'oro sorge al centro di un'enorme piscina. L'entrata è consentita a tutti senza distinzione di razza, religione o sesso. I pellegrini sfilano lungo i bordi della piscina e si bagnano nelle acque purificatrici. Il colonnato è in marmo bianco, l'interno e l'esterno del tempio è totalmente ricoperto di lamine d'oro e pietre preziose. Si leva una nenia esasperante e ipnotizzante. La gente e la musica danno al posto un'atmosfera magica e mistica che coinvolge sino al punto di fare accapponare la pelle, rendendoci protagonisti e non solo spettatori.

Essere Sikh vuol dire rispettare le cinque regole inizianti per K. Gli obblighi cui ciascun Sikh di sesso maschile deve attenersi sono: "Kesha": i capelli e la barba non vengono mai tagliati e saranno raccolti con una sottile reticella.

"Kangha":

il pettine, da portare sempre con sé, perché pettinar si vuol dire pulir si sia fisicamente che psicologicamente.

"Kara":

il braccialetto di ferro, al polso destro, che indica il dovere di mutuo soccorso tra gli appartenenti alla comunità.

"Kirpan":

la spada dai due tagli, identifica l' origine guerriera, pronti a sacrificarsi per la giustizia religiosa e sociale.

(inconsueto nel resto dell' India) l'uso di portare le mutande. .

"Kacchara": I simboli più vistosi sono il portamento personale dei Sikh ed il voluminoso turbante di seta o cotone dai colori vivaci. Giungiamo a Delhi e parcheggiamo al mitico "Tourist Camp" dove abbiamo modo di attingere preziose ed attuali informazioni sull'India da quattro equipaggi camperizzati. Chiediamo il visto per il Nepal e lo otteniamo in tre giorni. Viaggiare in India vuol dire confrontarsi con carte geografiche incomplete ed imprecise, con una segnaletica incomprensibile, strade difficili e con traffico caotico.

Vedo le prime mucche sacre sdraiate sullo spartitraffico ruminare adagio fogli di giornale e cannucce di plastica delle bibite. Una mucca al posto del vigile, nel centro di un incrocio pazzesco, lecca flemmaticamente il suo vitellino. Vi sono greggi e cammelli sparsi, stormi di cicogne, scrofe e porcellini, cani senza padrone, magri, dall'incedere sempre obliquo. Vedo donne esili, con le caviglie sottili adorne di monili, incedere nella polve- re come regine in lunghe processioni ed eserciti di bambini scalzi con le divise scolastiche di un blu color copertina di quaderno di scuola.

Il cielo si riannuvola improvvisamente: lampi e scrosci d'acqua si susseguono rapidi ed il monsone ci investe in pieno costringendoci a fare una sosta. Dopo un'ora le piogge si quietano ed è tutto allagato.

L'umidità è altissima e sommata al calore rendono affannosa la respirazione. La popolazione contadina ormai vive da settimane sulla strada dove ha trasportato letti, mandrie e foraggio. Il passaggio del nostro fuoristrada a volte è difficoltoso e bisogna aspettare che spostino le masserizie e le granaglie stese ad asciugare sul nastro d'asfalto. Gli uomini hanno le labbra color del sangue ed i denti anneriti. Masticano il "betel" (la droga dei poveri), ottenendo un effetto soporifero ma tonico e un’abbondante salivazione rossa con i cui sputi costellano tutto il sud est asiatico.

NEPAL: uno sguardo dal tetto del mondo Dopo diverse deviazioni, dovute alle inondazioni, arriviamo al confine nepalese a Sanauli. Sbianchiamo dallo stupore quando il doganiere non ci lascia passare perché nel nostro Carnet du passage ou Douane non è incluso il Nepal. Amareggiati e delusi passiamo la notte nelle vicinanze sperando nel cambio dei doganieri.

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È il mattino seguente quando ritentiamo di passare, ma niente da fare! A questo punto osiamo il tutto per tutto, prendo con me alcune riviste di Caravan & Camper contenenti alcuni nostri articoli, vado dal capitano e mi presento spacciandomi per giornalista: “Devo scrivere un articolo sull'India ed il Nepal”. Il risultato è immediato. Il capitano ci accompagna dai doganieri che ci salutano a mani giunte "Namaste"; così entriamo trionfalmente in Nepal. Colgo l'occasione per ringraziare la redazione di "Caravan & Camper" e nello stesso tempo chiedo pubblicamente scusa ai veri giornalisti per questa mia "boutade".

Percorriamo il Terrai che è la parte pianeggiante coltivata a riso e tè del Nepal. Il monsone proveniente dal golfo del Bengala si preannuncia con nuvoloni neri. Le strade diventano presto fiumiciattoli, le fognature all'aperto si mescolano sulla strada formando un unico acquitrino. A causa della non trasparenza dell'acqua non riusciamo ad evitare sassi, tronchi e quant'altro. In pochi giorni squarciamo irreparabilmente tre pneumatici e, non trovandoli della stessa misura, siamo obbligati a sostituirli tutti.

Il Terrai è un mosaico di piccoli appezzamenti. Come formiche laboriose uomini e donne vanno e vengono dai campi, alcuni mietono il prezioso cereale con una piccola falce, altri lo accumulano, altri ancora lo trasportano in grossi fasci sul capo fino alle aree di battitura.

Osservandoli attentamente si nota come uomini e donne diano molta importanza al proprio aspetto esteriore: portano collane, braccialetti di vetro, conchiglie, spille d'argento, grandi orecchini incastonati di turchesi a profusione. Donne e bambini immersi nell'acqua sino alla cintola pescano con rudimentali reti a bilancia, altri lanciano con maestria reti circolari. Il pescato è costituito da minuscoli pesciolini; così piccoli da scivolare e passare tra le dita, ma non tra le maglie della rete. Incontriamo spesso dei posti di controllo dove esibiamo a militari assonnati e demotivati i nostri documenti. Con molta fatica cerchiamo di decifrare l'ambiguo movimento ondeggiante della testa che può significare: si, no, forse!

La parola "problem" l'abbiamo sentita anche in altri viaggi, ma abbiamo anche imparato a risolvere il "problema" facendo vedere una banconota di giusto taglio. La strada ora sale e viene rapidamente inghiottita da una fitta vegetazione costituita da manghi, cocchi, banani, canne di bambù e da gigantesche ed antichissime conifere. La foresta ora dirada e lascia posto a terrazzamenti coltivati a riso interamente scolpiti sui fianchi della montagna.

Oltrepassiamo con cautela numerose frane. Il panorama è incredibilmente verde. La strada prosegue con i suoi zigzag, supera rocce a strapiombo, sparisce e riappare più in alto come se non dovesse finire mai.

A Kathmandu, parcheggiamo con difficoltà, entriamo in un negozio di generi alimentari, ci concediamo una baguette imbottita di salame (purtroppo il pane aveva la consistenza della gommapiuma) ed innaffiamo il tutto con una birra gelata. La sorseggio, la faccio ballare in bocca come un sommelier, pregusto il momento in cui scenderà lungo l'esofago e ne rinfrescherà le pareti. Presto attenzione ad ogni sfumatura, aroma e sapore: sono tre mesi che non gusto simili delizie! L'unica nota stonata è costituita da una radio che diffonde musica a tutto volume. Entriamo a Thamel , un quartiere di Kathmandu, evitiamo con difficoltà i molti "vu comprà" che offrono con troppa insistenza sculture, tamburi, flauti in legno, cesti, maschere, tappeti, sgabelli intagliati, cartoline, oggetti in osso venduti per avorio, collanine in pietre dure, animaletti di finto ebano anneriti con lucido da scarpe, uova di malachite, tovaglie tessute a mano, diapositive scolorite per fotografi insicuri, nomi di alberghetti, di ristoranti, indirizzi di cambio valute o di agenzie viaggio che propongono rafting su canotti di gomma a forma di salsiccia, in canoa o escursioni in alta montagna e safari a dorso d'elefante ecc. … ecc. …Il gruppo si divide per ritrovarsi successivamente. Infatti qui ci separiamo dai nostri compagni di viaggio. Loro faranno un volo nel Tibet per una decina di giorni e ci rivedremo dopo circa un mese a Calcutta. A Thamel contattiamo il connazionale Navyo dell'agenzia viaggi "Sun Rise" e ci facciamo organizzare un rafting di tre giorni, molto personalizzato, sul "Risul River". Sundar, un dodicenne molto sveglio, farà da guida a Christine, che mi seguirà durante il rafting con la nostra Land filmando i passaggi più significativi.

Il " Risul River" scorre impetuoso nella stretta valle che ha scavato in milioni di anni creandosi uno spazio tra le ripide pareti. Il nostro gommone passa sotto esili ponti sospesi che si lanciano nel vuoto.

Sulle rive la foresta è fitta e lussureggiante e dalle mille sfumature di verde. L'apparente immobilità del paesaggio nasconde l'attività incessante delle scimmie che lanciano grida rauche ed insistenti e si rincorrono indaffarate alla continua ricerca di frutti maturi. Banani e canne di bambù lambiscono il fiume. L'emozione di fare rafting è magica, indescrivibile. Superata una rapida, il rischio e l'appagamento sono tali da farmi sentire con un piede all'inferno e l'altro in paradiso.

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La dea bambina In Nepal le feste si susseguono, si intrecciano, si sovrappongono, è perciò impossibile non incontrarne una. In un anno se ne contano più di 50. Noi abbiamo assistito all'incoronazione e benedizione della piccola dea vivente, la "Kumari". La dea viene scelta tra un gran numero di bambine del gruppo etnico "Sakya" (orafi). Il suo corpo deve essere perfetto con 32 segni fisici particolari (occhi neri, denti regolari, ciglia lunghe come quelle di una mucca ecc…). Verrà riconosciuta come dea solo se gli astrologi garantiranno che il suo oroscopo è in sintonia con quello del Re. Al primo cenno di pubertà viene immediatamente sostituita, perchè il suo sangue non può essere versato. Nonostante la sua ricchezza, difficilmente troverà marito, poiché si crede che chi la sposa sia destinato a morire entro sei mesi dal matrimonio. La sua benedizione è uno spettacolo strano, esoterico e di grande pathos, che si ripete da centinaia d'anni.

Sacro e profano, elementi di una stessa religiosità Nei riti nepalesi la religiosità si fonde con elementi magici. Fin dal mattino per le vie di Bhaktapur, sfilano carri addobbati, mucche infiocchettate, venditori di flauti e palloncini, turisti pronti a fotografare, ragazzini con maschere di demoni e l'immancabile banda stonata.

Visitiamo i templi Monkey, Narayon- hitye, Pashupatinath, il palazzo reale e lo stupa di Swayambunath.

Per guidare in Nepal si deve usare la massima prudenza poiché i nepalesi non hanno ancora una grande familiarità con gli automezzi ed il codice della strada è pressoché inesistente. Nelle città ci sono semafori e passaggi pedonali, ma nonostante gli sforzi degli agenti, la gente continua ad attraversare quando le pare. Non si dimentichi che le vacche sono sacre e la loro uccisione può essere punita con un massimo di 14 anni di prigione.

Entriamo in un tempio buddhista e nella semioscurità i monaci stanno pregando. Mi fanno tenerezza i monaci bambini dall'espressione timida e curiosa, seduti di fronte alle loro lunghe trombe, ci scrutano ripetendo ritmicamente il mantra buddhista "OM MANI PADME HUM", una nenia esasperante e ipnotizzante. Il coro è ossessivo in un crescendo assordante. Con il trascorrere delle ore i fedeli assecondano il ritmo impercettibilmente con il corpo, poi con la testa e con gli occhi fissi nel vuoto.

Il monaco, scandendo ritmicamente la preghiera, batte sul grosso tamburo che pende dal soffitto.

I suoni rimbombano nel piccolo locale profumato da incensi che stanno bruciando in un angolo.

Proseguiamo la visita del monastero ed entriamo in cucina, uno scuro locale dove il fumo proviene dal focolare posto al centro della stanza. Una vecchietta incartapecorita soffia sulle ceneri aggiungendo pani di sterco essiccato, unico combustibile disponibile. Ci capiamo solo a gesti per cui il nostro incontro si tramuta in lunghi silenzi durante i quali gli sguardi si incrociano pieni di curiosità insoddisfatta.

Visitiamo Pokhara. Questa cittadina è il punto di partenza delle escursioni e ascensioni verso la catena dell'Anapurna che, con i suoi 8.091m si erge senza soluzione di continuità sopra la valle. Stiamo viaggiando velocemente verso il parco di Chitwan. Il vento è carico di umidità e nubi minacciose si addensano alle nostre spalle. Ora piove a dirotto, la visibilità è scarsa e decidiamo di fermarci.

Giungiamo all'approdo zuppi di pioggia, entriamo in una capanna dove ci accolgono come naufraghi e ci invitano a pranzare con loro. Il companatico si trova tutto in una pentola posta al centro, un po’ troppo piccola per ospitare 10 mani che vi si tuffano avide. Il "chapati" (tipico pane piatto, non lievitato che viene cotto sulle pareti verticali di forni d'argilla) è l'unica cosa che viene divisa in parti uguali tra tutti.

Dopo i primi minuti di imbarazzo capiamo subito le regole del gioco: se vuoi riempirti lo stomaco a sufficienza, devi ingozzarti in fretta. Se ci si sofferma troppo con il primo boccone è facile trovare il fondo della pentola pulita e lucidata dagli altri. Ci adattiamo ed intrecciando le mani con gli altri commensali, ci tuffiamo sul cibo, che è proprietà comune. Stiamo vivendo un antico rituale che, oltre a sfamare, rende fratelli gli sconosciuti ospiti. Fraternizziamo subito, l'atmosfera è allegra e chiassosa, siamo tra amici anche quando i compagni di viaggio diventano concorrenti di fronte alla pentola fumante.

Durante la stagione delle piogge non si può visitare il parco di Chitwan con la propria macchina.

Entriamo nel parco a piedi su di un esile ponte sospeso nel vuoto che oscilla paurosamente al nostro passaggio. Proseguiamo la visita a dorso d'elefante, attraversiamo un fiume sulle cui rive sonnecchiano coccodrilli e tartarughe d'acqua dolce. Aironi spaventati al nostro passaggio spiccano il volo. L'acqua del fiume lambisce le orecchie dell'elefante che sventolano come grandi lenzuola. Entriamo nella foresta, il terreno è coperto da fitti strati sovrapposti di foglie marce che nascondono la vita complessa ed affascinante degli insetti.

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Facciamo attenzione alle "tsuga" (fastidiosissime sanguisughe lunghe 3cm). L'erba è molto alta e sfiora il dorso dell'elefante. Il pachiderma è come la prua di una nave che si crea un varco nel sottobosco.

Il sole filtra appena tra i rami ed in questa penombra, con tempi d'otturazione lentissimi, fotografiamo alcuni rinoceronti ed un paio di cerbiatti. Con il passare dei giorni e con le migliaia di km accumulati, la febbre del viaggio non accenna a diminuire, anzi la curiosità di vedere cosa c'è oltre la prossima curva o al di là delle montagne aumenta di giorno in giorno e con questo spirito giungiamo alla dogana nepalese di Nepalganj: superiamo le formalità doganali in una mezz'ora. Lasciamo quindi il Nepal e le sue genti ospitali alle nostre spalle. Superiamo colonne di camion con il loro carico legato alla meglio che assomigliano a monumentali mongolfiere di sacchi di juta e sembrano beneficiare di una legge di gravità diversa da quella in vigore nel resto del pianeta. La strada diventa una trincea d'asfalto, bus e camion giacciono semi rovesciati, immobili ed abbandonati come monumenti alla velocità.

INDIA: il rientro verso le acque del sacro fiume Qui in India veri e propri rottami tornano come nuovi grazie alle esperte mani dei meccanici del posto.

Visitiamo il centro buddista di Bodhgaya e proseguiamo per Varanasi. Qui il "sacro" fiume Gange ha il potere di lavare i peccati. Morire a Varanasi ed essere arsi davanti al sacro fiume dà la garanzia della salvezza eterna. Sulle rive s'intravedono pire di legna su cui si consumano i riti della cremazione.

I pellegrini giungono da tutta l'India, si immergono nelle acque fangose e dalle condizioni igieniche incerte, offrono fiori e lumicini che lasceranno trasportare dalla corrente del fiume ed esprimono dei desideri. I ghat, gradinate degradanti sul fiume, sono frequentatissime all'alba.

Mi mescolo ai pellegrini: c'è chi parla ad alta voce, chi bisbiglia, chi prega in religioso silenzio e chi rimane per ore ed ore seduto sui talloni lungo la riva a meditare o a leggere versetti sacri. La luce tenue dona al luogo un aspetto incantato e ci appare come un corale atto di serenità. Lasciamo Varanasi , ma è Varanasi che non ci lascerà mai, qualche cosa dentro di noi non sarà più la stessa.

Miseria e fame ai bordi delle strade Siamo alla periferia di Calcutta e pare che i suoi 12.000.000 di abitanti siano tutti per strada tra un ammasso fatiscente di negozi fatti in cartone e legno. Siamo fermi a causa dell'ingorgo del traffico. Decine e decine di persone, tassisti, guide improvvisate, ragazzi e venditori vogliono offrirci qualcosa. In un attimo mani e braccia ossute penetrano nel nostro abitacolo attraverso i finestrini, ci arrivano sulle ginocchia caschi di banane, biscotti secchi resi gommosi dell'umidità, sacchetti d'acqua coloratissima. Tutti ci sono addosso e gridano: "My friend, my friend", per un attimo ci sentiamo in balia di questa folla, siamo confusi, tutti toccano tutto, si spingono e litigano per guadagnarsi la prima fila. Per fortuna si riparte ed usciamo da questa situazione angosciosa. Sostiamo per tre giorni vicino al museo ed alla cattedrale protestante “Weseleyan". Dopo ripetute offerte di rupie, più o meno impostaci dal pastore, ci rendiamo conto di esserci comprati un bel pezzo di paradiso. Siamo al centro di Calcutta e ci avviamo a piedi verso la stazione dei bus. Questi mezzi sono dei veri e propri relitti su quattro ruote: i parabrezza sono una ragnatela d’incrinature. Qualche ruota è storta al punto che il bus, visto dal davanti, pare impietosamente inginocchiato. Improvvisamente la folla si tramuta in una mischia di rugby.

I passeggeri si lanciano contro le porte ancora prima che il veicolo si fermi cercando di aprirle, infilando le unghie nelle fessure delle porte, alcuni salgono sul tetto, altri sporgono lateralmente e pericolosamente a grappolo. I venditori ci prendono di mira e diventano una persecuzione costante. Faccio da scudo a Christine e ci rifugiamo su un'ape taxi. Il taxista Mr. Chandra ha il viso nascosto da una folta barba grigia, parte a razzo creandosi un varco tra i venditori urlanti. Per strada è un continuo concerto di clacson. Tutto è avvolto da uno smog così opprimente che lo sentiamo raschiare in gola. Respiriamo a fatica, i polmoni sono oppressi dall'infuocato calore e dall'umidità dell'aria.

In cerca di refrigerio Ci dirigiamo con la nostra Land verso sud, nello stato dell'Orissa e cerchiamo refrigerio con frequenti bagni in mare. L'umidità incolla i vestiti alla pelle in tal misura che per sfilarli bisogna praticamente srotolarli. Il 27 ottobre sconfitti dalla calura, rinunciamo a proseguire verso Madras. Puntiamo a ovest verso le grotte di Ajanta. Furono scoperte nel 1819 da un inglese durante una battuta di caccia.

Impressionante la grande parete di roccia nella quale si aprono a semicerchio gli ingressi di un centinaio di grotte! Ne visitiamo alcune. Passiamo dalla luce accecante del sole al fresco umido dell'oscurità sinistra delle grotte. Corridoi, rampe di scale, sale di adunanza, celle, templi tutti scavati nella roccia.

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Bombay: bomba pestilenziale Il Bodhissattva (un illuminato che ha preferito tornare sulla terra per aiutare la redenzione di tutti, piuttosto che annullarsi nel Nirvana) è attorniato da dipinti risalenti al V secolo raffiguranti complicatissime scene erotiche.

Bombay langue in un calore insopportabile. Dal mare salgono odori nauseabondi che avvolgono la città come un alito pestilenziale. I venditori espongono la loro merce per terra, ai lati della strada. Il mercato si dirama in una decina di budelli larghi quanto un uomo. Siamo risucchiati dalla gente che ci costringe a seguire la corrente umana. Sgomitiamo per farci largo nel muro impenetrabile fatto di esili corpi.

Passiamo in mezzo a nuvole di vapori acri che si levano da ceste colme di pesce essiccato. Monaci dalle vesti giallo zafferano, con un sorriso umile e semplice, vedendoci in difficoltà ci aiutano ad uscire da questo labirinto. Riprendiamo fiato all'ombra di un "Banjan" (albero sacro eterno). Dai suoi rami una selva di radici aeree formano nuovi tronchi, così quando quello centrale muore l'albero resta in vita (forse) eternamente.

Grondiamo di sudore e decidiamo di scappare verso il nord dell'India, attraversiamo lo stato del Gujarat e finalmente giungiamo nel fresco Rajasthan. Per strada incontriamo un uomo con un orso che balla, un altro ha quattro scimmie che battono dei tamburelli. Più tardi incrociamo cinque fedeli Jainisti vestiti di un bianco immacolato in cammino verso il Monte Abu sito a 800 km da qui. Sempre ai bordi della strada vediamo due uomini completamente nudi cosparsi di cenere: sono dei pellegrini in viaggio e nessuno lungo il percorso sembra notarli. In questa regione sembra esserci una grande concentrazione di maghi, giocolieri e fachiri. Al centro di un grappolo di gente notiamo due di questi fachiri che esibiscono volontarie ferite, mutilazioni e altre diavolerie. Si avvicina a noi un indiano, si comprende subito dalla barba, dai capelli annodati sulla nuca, dal bracciale e dal portamento che è un Sikh.

Con un inglese dall’accento misterioso ci spiega che i fachiri sono degli asceti mancati e che usano impropriamente i poteri di autocontrollo sul corpo.

Scendiamo dal Monte Abu e sostiamo al tempio janista di Ranakpur. Qui 1.444 colonne in marmo bianco, tutte scolpite e diverse tra loro, sono disposte su tre piani. Ricami in marmo trasformano ogni nicchia in un confessionale con la grata fitta come un pizzo. Il tempio è aperto a tutti. I fedeli Jainisti lo considerano la loro casa e vi vanno in visita come ad una vecchia zia da cui ci si aspetta protezione e a cui si deve rispetto. Esco dal tempio (ove si accede scalzi), mi sfilo le calze, che abbandono sul bordo della strada. Due bambini mi rincorrono portandomi i due salsicciotti informi di cotone, un tempo bianch. Li rifiuto, i loro volti si illuminano di gioia e fuggono via strillando ciascuno con un braccio infilato dove, fino a pochi minuti prima, c'era il mio piede.

Visitiamo Udaipur, Jodhpur ed Amber. A Jaipur posiamo per la foto ricordo davanti al palazzo dei venti, edificato con la pietra rossa del deserto del Thar. Le cortigiane attraverso le cento finestre intarsiate e traforate potevano osservare le feste in strada senza essere viste. Il cielo si tinge di sfumature rosse.

Gli ultimi raggi di sole di una giornata non ancora finita giocano con la nube di polvere sollevata dalla nostra Land ed in lontananza la città di Agra si intravede appena. La luna è sorta . Il Taj Mahal si specchia in una piscina rettangolare, si raddoppia in un tremolio d'immagine bianca in questa luce, non luce: è una apparizione da favola.

A 50 km da Agra visitiamo il parco nazionale Keoladeo di Barathpura. Entriamo in questo santuario della natura in bicicletta e poi proseguiamo in barca. Aironi, spatole, gru, cicogne, pappagalli e civette sono intenti a nidificare. La nostra barca, spinta da una lunga pertica, procede silenziosamente e ci avviciniamo a famiglie di cervi, daini e gazzelle. Su isolotti di erbe galleggianti spaventiamo una grossa iguana, ovunque aquile e barbagianni. Una strada a quattro corsie ci riporta a Delhi. Un gallonato portiere d'albergo ci indica la circonvallazione della città. Questa metropoli si è allargata a dismisura.

Uno scenario allucinante: milioni di infelici, fuggiti dalle campagne, dalle boscaglie cercano qui scampo dalla miseria, dopo alluvioni e siccità. Tentano invano la sorte nella grande città, rendendo sempre più ampio il dislivello tra la gente ricca e quella meno che miserabile. Campeggiamo nuovamente al "Tourist Camp", ritiriamo in portineria la rivista di giugno "Caravan & Camper" speditaci dall'amico Stefano Feci e contenente il nostro ultimo articolo su un viaggio effettuato in Libia. Torniamo a tappe forzate verso casa. Prima di entrare in Turchia, con molta delusione ed amarezza, eliminiamo le scritte in italiano dei nostri “sponsor” ed anche la bandiera a causa del contenzioso italo turco: "Ocalan".

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Attraversiamo la Turchia senza avvertire mai né ostilità né pericolo. Così finisce il nostro viaggio durato 202 giorni. Abbiamo gironzolato attraverso Grecia, Turchia, Iran, Pakistan, India e Nepal. Giungiamo infine a casa dopo aver percorso 33.700 km .

L'India del giorno dopo Siamo a casa. Amici e parenti ci chiedono in che cosa consisteva l'avventura vissuta. I nostri interlocutori pensavano forse ad un fuoristrada estremo, a tigri feroci, a scontri con gente ostile. Nulla di tutto questo ovviamente è accaduto, né potrebbe accadere mai ad un viaggiatore nell'India di oggi. Eppure l'avventura esiste in un itinerario indiano, essa è segreta, intima, molto difficile se non impossibile da narrare, è un avventura spirituale che si svolge all'interno dell'anima. Ricordo milioni di occhi neri e baffetti sottili, spalle magre, corpi asciutti ed ancora occhi neri dappertutto. Sì, alla fine ci sono stato anch'io in India e non smetterò mai di parlarne. Ci tornerò appena possibile smettendo un attimo di raccontare del poco che ho visto e del molto che mi ha dato.

CONSIGLI UTILI PER LA FOTOGRAFIA Si dia preferenza ad un' attrezzatura poco ingombrante da sistemare in una borsa semi rigida, possibilmente ermetica, al cui interno vanno messi alcuni sacchetti di sale contro l'umidità. I paesi visitati costituiscono una ghiotta occasione per fotografare paesaggi e scene di vita quotidiana. Data l'originalità e disponibilità della gente a farsi fotografare si eviti di esagerare nel riprendere i primi piani, evitando così di collezionare una marea di fototessera. Noi siamo riusciti, con successo a far riparare la Hasselblad ed un corpo macchina Nikon in un laboratorio nel centro di Lahore.

Per la caccia fotografica (abbiamo tenuto conto della poca luce del mattino e l'ondeggiare della barca e del ciondolare dell'elefante) abbiamo scelto una pellicola 200 Asa. Per i paesaggi ed i primi piani la scelta è caduta sulla Velvia 50 Asa , per il bianco e nero la T. Max e per le diapositive in bianco e nero la Scala 200 Asa, come obiettivo non ci siamo mai spinti oltre i 200 mm f 2.8.

Abbiamo cercato di salvaguardare le pellicole dal caldo e dall'umidità, anche dopo essere state impressionate, mantenendole in cassaforte dove abbiamo convogliato un condotto dell'aria condizionata.

Per il video ci siamo serviti di una telecamera tropicalizzata Hi 8. Data la delicatezza della telecamera digitale l'abbiamo usata con parsimonia solo in occasione di animazione delle nuvole, tramonti ed in interni con poca luce.

CONSIGLI UTILI VISTI Il visto dell'Iran si ottiene a Milano, è d’obbligo la dimostrazione di un certo numero di pernottamenti prenotati tramite l'agenzia A.I.T.O. di Teheran, tel. 0098-21-8732191-3-5, fax 0098-21- 8732195, contattare il Sig. Hossein Memapuri (parla italiano).

Pakistan:

Ambasciata del Pakistan a Roma, Via della Camilluccia 682, tel. 06- 36301775

India:

Ambasciata dell'India a Roma, via XX settembre 5, tel. 06- 4884642

Nepal:

richiesto a Delhi

DOCUMENTI:

passaporto valido e Carnet du Passage per la macchina (Nepal)

VACCINAZIONI:

antitetanica, poliomielite, antitifica, anticolerica, epatite A e B

PROFILASSI: CARTA DI CREDITO:

antimalarica (Paludrine e Clorochina) viene accettata in India, Pakistan e Nepal.

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CAMPEGGI: Iran:

campeggiare negli alberghi indicati dall'agenzia A.I.T.O oppure liberamente.

Pakistan:

alberghi statali P.T.D.C., campeggio a Hunza e a Islamabad, a Lahore unica possibilità al centro cattolico Y.W.C.A. , a Quetta Hotel Lourdes Delhi: Tourist Camp. Agra: Hotel Akbar Inn. Barathpur: Hotel Eagle Nest. Varanasi: Hotel Surya. Calcutta: Weseleyan Church (paradiso). Puri: Hotel Ashok Nila Cachal.

Konarak: Panthaniwas Tourist Bungalow. Aurangabad: Hotel Ashok Internazional. Bombay: Hotel Horizon. Amritsar: Guest House Mrs. Bandahari (con piscina) e campeggio libero dappertutto.

India:

Nepal:

a Kathmandu: Hotel Hill Side, Pokhar a, Camping IL VIAGGIO IN CIFRE

Gasolio x litro:

Grecia lire 1.000, Turchia lire 800, Iran lire 20, Pakistan lire 350, India lire 400, Nepal lire 430 Traghetto: Italia - Grecia A/R in

Visti: Campeggi:

open deck lire 450.000 lire 700.000, organizzazione A.I.T.O $ 200 a persona da lire 3.000 – 15.000 per equipaggio, Ristoranti: da lire 3.000 – 10.000 a persona Assicurazione auto: Pakistan, durata 6 mesi , costo lire 60.000.

India e Nepal, durata 3 mesi, costo lire 25.000 TIBET di Carola e Carmelo

Perché scrivere sul Tibet? È un tuffo nel passato. Un passato che, pur recente, (sembra ormai lontano centinaia di anni) ti galvanizza e ti fa riflettere sulla nostra attuale dimensione; ti lascia perplesso sul nostro essere alle soglie del 2000. Avrei voluto lasciare il piacere di scrivere sul Tibet all'amico di viaggio Aldo, ma ha voluto coinvolgermi affinché esprimessi i miei sentimenti su parte dell'avventura condivisa durante sette "lunghi …corti" mesi.

TIBET Un mondo che si rischia di sognare solo per il senso folcloristico, coloratissimo ed architettonico. Ma al viaggiatore attento, riflessivo, non in cerca di sole emozioni forti, lascia nell'animo un cumulo di dubbi che certamente non sarà facile cancellare. La misticità che si respira nell'aria, la compassata venerazione di moltitudini plurirazziali è cosa non facile da dimenticare e merita rispetto al di sopra delle proprie convinzioni culturali. Perché tanti occidentali dall'aspetto colto e distinto anelano e intraprendono un così lungo viaggio per avere la gioia di porre la fronte laddove milioni di persone l'hanno posta prima di loro, oppure di chinarsi in adorazione con una lunga sciarpa bianca di seta pura innanzi a tale immensa cultura, che pur rimanendo a noi estranea, ingenera timore e rispetto?

Non voglio approfondire questi perché. Sono un turista Un turista attento che, solitario ed in camion, ha compiuto con l'aiuto della moglie, il giro del mondo: dalla Terra del Fuoco all'Alaska, da Tunisi sino in Australia ed in Estremo Oriente. Il mio modo di vedere il mondo è permeato di preteso rispetto per me, ma PRIMA ancora di profondo rispetto per varie culture incontrate durante tanti anni di peregrinazione. Non pretendo di essere il solo in possesso della verità; ho la mia verità come le altre culture hanno la loro. Il Tibet entusiasma per il contrasto violento che contrappone l'aria mistica dei suoi templi e monasteri alla violenza della natura. La natura in assenza di "pollution" si manifesta con colori forti, cieli color indaco come la tanzanite, vette e montagne dalle forme sempre nuove che ti lasciano senza fiato, laghi color turchese e smeraldo che riflettono le cime innevate, la dolcezza nello sguardo degli Jak (Jak maschi, dri le femmine)

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a cui si contrappone il fare selvaggio di animali non del tutto resi docili dal loro addomesticamento.

I villaggi adagiati nelle valli o impalcati sulle montagne denotano la necessità dell'uomo di difendersi dagli agenti inclementi dell'inverno himalayano ponendo in atto ogni astuzia, ogni attenzione e non lasciandosi sollecitare da soli desideri di estetica. Pongo in ultimo, e non perché sia meno importante, il rapporto con i Tibetani. Persone fiere, fantastiche, dolci, "friendly". La modernità ancora non gli ha irretiti: sorridono come sempre sorridono gli Africani e, come gli Africani sprizzano gioia di vivere, nel vivere quella loro vita semplice, fiera, mistica. La mescolanza con popolazioni Cinesi (37 cinesi oggi per ogni singolo tibetano) non li ha distolti dall'essere una fantastica parentesi in questo pazzo mondo del 2000….

NOTIZIE PRATICHE:

Si può accedere al Tibet con il proprio automezzo, ma vi sono alcuni "picchetti" che sconsigliano attualmente tale viaggio. Giunti a Kathmandu si può tranquillamente parcheggiare presso il garage "Pabrita in Mahaarajgunj" (vicino all'Ambasciata Russa). Esattamente nel cortile dell'Hotel Kathmandu Guest House in Thamel vi è un' ottima agenzia di viaggi che organizza il Tour come tu desideri.

Non vi sono difficoltà per il visto (12 ore). Il costo è contenuto anche se in Cina non regalano nulla.

Si può scegliere di fare il viaggio in fuoristrada, in minibus o in aereo. Io consiglio il minibus (15 posti) poiché vi sono ampie vetrate e puoi usare continuamente e con facilità la tua attrezzatura video/fotografica. Si ha libertà nei movimenti che manca se stivato con altre 5 persone sul fuoristrada.

Le tappe, le soste e i tempi di percorrenza sono simili.

HOTEL

A Lhasa vi sono ottimi alberghi e così a Gyantse o a Shigatse, puliti e confortevoli al pari dei nostri.

Nelle tappe di Nyalam, Lhatse, Laotingri, Robuk di albergo non si può parlare: una stanza che dà su di un'aia con vari animali e con porte senza chiusura: è tutto. Ma ovunque puoi disporre di thermos con 2 litri di acqua bollente per fare il tè e che invece può essere utile per lavarti i denti e il viso (attenti alle scottature). Se lo spirito è alto, pari alle abitudini che ti circondano è una situazione che ti mette allegria.

TEMPERATURE Adeguate all'altitudine. È utile portarsi dietro il sacco a pelo o 2 lenzuola, una lampadina tascabile, un impermeabile (data la mutevolezza del tempo). Consiglio anche un flacone di Micoren per chi non sopporta i 5500 m di altitudine (tale mia precauzione ha tolto dai guai più di un compagno di viaggio).

Le autorità cinesi alle frontiere nonché all'interno sono state sempre cordiali, attente e sorridenti.

MONETA Lo Yuan (circa 200 lire). Puoi cambiare al mercato oppure in banca, il cambio è simile. Attenzione però agli orari delle banche ed ai giorni di apertura, non sempre sono conformi ai nostri standard a causa di molte e strane festività. Al mercato cambi banconote (U$) e solo in banca i Travel Chèque.

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CIBO Ottimo ed economico. Ristorantini da scoprire, puliti, simpatici e allegri gestiti generalmente da Tibetani. Si può anche mangiare alla cinese dato l'incalzare dei cinesi alla continua ricerca di "Business".

ACQUISTI La solita paccottiglia consimile a tutti i viaggi. Ma, se stai attento, nei mercatini e sulle bancarelle puoi trovare qualche "cineseria" simpatica e forse autentica. Se hai spirito stakonovista puoi comprare mobili vecchi e nuovi dagli intagli, intarsi e pitture fantastici. Poi dovrai trasportarteli.

Questo articolo non vuole essere una guida turistica ma un consiglio per chi vuole vedere un angolo di mondo in retrospettiva. Ma SICURAMENTE ancora per poco!

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Bloccati in Marocco Quotidiano ALTO ADIGE del 13.01.2010 Christine e Aldo sono partiti il 15 dicembre, a bordo del loro fuoristrada, per un nuovo viaggio attraverso l'Africa e con un carico di medicinali per le missioni del GMM in Benin. I meranesi Aldo Pellati e Christine Burkia sono bloccati al confine tra Marocco e Mauritania: i pericoli legati alla presenza di bande che prima di Natale hanno rapito due italiani, potrebbero costringerli ad interrompere il loro viaggio. Un itinerario già fatto nel 1989. "Così dopo 20 anni torneremo in: Francia, Spagna, Marocco, Mauritania, Senegal, Burkina Faso, Malì, Togo, Benin, Ghana".

Durante la prima fase del loro viaggio, in Mauritania, ai confini col Mali, un commando armato ha rapito il siciliano Sergio Cicala e sua moglie, la burkinabè Philomene Kabouree, fatto che ha costretto i due meranesi ad una riflessione. Il 30 dicembre erano ad Agadir in Marocco: "Il nostro programma hanno scritto è di scendere sempre verso sud attraversando i paesi dell’Africa Occidentale. Purtroppo le notizie non sono molto confortanti: tra la Mauritania e il Mali operano diverse bande che i mezzi d’informazione definiscono terroriste. Pochi giorni prima di Natale hanno rapito due viaggiatori italiani e prima di loro tre spagnoli e un francese". Nei giorni scorsi sono arrivati vicino al confine con la Mauritania. Ecco le loro riflessioni inviate sempre via email:" Il coraggio di interrompere il nostro viaggio".

Siamo a Dakhla e ancora non abbiamo preso nessuna decisione riguardo al prosieguo del nostro viaggio.

Mercoledì 06.01 rimpinguiamo le scorte alimentari e di gasolio e alla fine concludiamo che andremo verso il confine della Mauritania e lì decideremo il da farsi.

Troppe cose ci portano a proseguire il viaggio. Le visite alle missioni di Albidio Balbo, i medicinali che trasportiamo e che vorremmo arrivassero a destinazione, prelevare e riportare in Italia dei campioni di terra del Benin che saranno analizzati per determinare quale tipo di coltura sia più adatta. Abbiamo comunque deciso che se proseguiremo non ci aggregheremo ad altri mezzi perché la cosa diventerebbe troppo appariscente. Se varcheremo il confine del Marocco, la prima notte in Mauritania sappiamo dove trascorrerla al sicuro, la seconda è un po’ più problematica, bisognerà come sempre nascondersi dietro una duna cancellando le tracce ed evitando di usare di notte le nostre luci.

In Senegal la sicurezza migliorerà".

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Ricordo che dieci anni fa a Dakar abbiamo conosciuto Alì.

In dialetto trentino ci raccontava che ogni anno raccoglie le mele in Val di Non. Indossava una maglietta nera con la foto di Bin Laden con la scritta “Re del mondo”. Inshallah!!

Oggi abbiamo pernottato a Koungheul in una missione, un’esperienza unica.

Abbiamo conosciuto tre suore "Francescane dei poveri": tre eroiche signore che, con pochissimi mezzi e tanto entusiasmo, accompagnano e istruiscono la gioventù dai 5 anni fino alle superiori.

Negli ultimi due anni inseriscono alcune ore di economia domestica, dove spadroneggiano cucina e pasticceria. A questo punto ho donato loro il nostro DVD "Biscotteria natalizia".

Il video ricettario è stato graditissimo, sarà tradotto in francese e proposto al vescovo come materiale didattico (fortuna mia, avevo il file del ricettario cartaceo in Publisher).

Ora l’interesse della serata si è spostato sulla pasticceria e sono mitragliato da una miriade di domande su come sostituire gli ingredienti europei con quelli africani.

La serata si è conclusa con una cena “tutta italiana” con prodotti italiani: crostoni provadura (fetta di pane spalmata con un burro composto, aglio e acciughe tritate, coprire con una fetta di mozzarella, infornare a 180°). Purtroppo la porta del forno non rimaneva chiusa ed era puntellata con un palo che divideva la cucina in due.

(Si può sostituire la fetta di pane con fetta di melanzana o zucchina precedentemente grigliata ).

Poi spaghetti al pesto ( nell’orto hanno un prato di basilico). La cena è iniziata solennemente con una preghiera di ringraziamento al Signore ed è terminata con un caffè (Lavazza) corretto con una lacrima di grappa (senza etichetta) omaggiata da F.M. di Merano. La serata è stata bellissima.

Ci hanno regalato un'atmosfera casalinga di una serenità unica che ci mancava da 40 giorni. Tiziano ha fatto mezzanotte per insegnare come inserire la spiegazione del procedimento in francese con il programma di Publisher.

Ora siamo nel nostro camper e con Christine ricordiamo la serata piena di sensazioni che ci hanno regalato. Pur non avendo fatto quasi nulla per loro ci hanno reso felici nel farci sentire utili.

Ci sentiamo soddisfatti e paghi e un pochino più buoni e questo non ha prezzo; con il sottofondo di "Sole mio" di Bocelli tentiamo di addormentarci.

Personalmente provo rabbia nel pensare a quel palo che tiene ferma la porta del forno. Domani vedrò cosa posso fare per ripararlo.

Questa missione non ha bisogno di consigli sulla pasticceria, ma di aiuti concreti, basti pensare che il pesto è stato fatto a mano (non hanno un frullatore!)

Due amici mi hanno consegnato degli euro in una busta da dare a dei casi bisognosi, vorrei che fossero qui e mi dessero un consiglio nella decisione di dove lasciarli. Anche qui è possibile fare delle adozioni a distanza. Mi auguro di interpretare il pensiero dei due benefattori e decido di non lasciarli qui, perché con la nuova strada asfaltata che attraversa il paese, sicuramente le cose miglioreranno anche per la missione.

"Colpito dalle condizioni di precarietà di una missione senegalese nella località Koungheul, Aldo Pellati, nel corso del suo viaggio africano, tuttora in corso, ha pensato di offrire un suo contributo, coinvolgendo amici e conoscenti meranesi con l’intento di offrire un aiuto alla missione delle “Suore Francescane dei Poveri”, con casa madre negli Stati Uniti, a New York e con sede italiana a Roma, in Largo Berchet, 2.

Lo scopo della missione da lui visitata è di aiutare i poveri e più bisognosi del territorio senegalese.

La missione opera in Senegal da circa 40 anni con diversi dispensari medici, una scuola elementare, asili, una scuola di cucina e una di economia domestica.

Anche nella località visitata da Aldo Pellati, le scuole sono aperte a giovani provenienti dalle campagne, senza distinzione di religione, e a tutti è offerto il pasto e la merenda, inoltre parte dei giovani (i più bisognosi) risiedono permanentemente nel convitto. Ora sono circa 230 scolari che arrivano a studiare sino alle scuole medie in classi di non più di 30 - 35 alunni con maestri locali. A tutti, inoltre, viene insegnata la lingua francese. I più meritevoli, dopo gli esami di ammissione, sono accompagnati sino al termine dell'università a Dakar.

Le spese sono coperte dalla missione stessa che riceve aiuti dalla casa madre americana grazie anche a un programma di adozioni a distanza.

Le suore presenti sul posto, da parte loro, si industriano in mille modi pur di trovare piccole fonti di reddito.

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Le esigenze sono tante e continue. L'impiego di mezzi pesanti per la sistemazione della strada asfaltata, ad esempio, ha danneggiato alcuni muri della scuola che urgentemente andranno ristrutturati. L’idea del globetrotter meranese, conosciuto anche per la sua professione di cuoco, sarebbe anche quella di puntare al rifacimento della cucina, con una particolare attenzione alla realizzazione di un forno che, finalmente, possa soddisfare i bisogni dei giovani frequentatori la missione. A tale scopo si è affidato a “Libera Associazione Volontaria Amici nel Mondo Onlus” (Codice IBAN IT 53K 08115 58711 0000 8111 8337) alla quale versare, attraverso la Raiffeisenkasse di Lana, un contributo con la seguente causale “Senegal 2 – Allestiamo una cucina”.

Quando guardare vuol dire “vedere col cuore” Una breve, ma bella storia vera ce la regalano i signori Christine Burkia e Aldo Pellati durante uno dei loro numerosi viaggi in giro per il mondo. Incontrano sul loro cammino una missione in Senegal.

Presso le suore dell’Ordine "Francescane dei Poveri", durante la visita alla missione, si accorgono che nella cucina sta funzionando un forno grazie ad un palo che lo tiene chiuso. A questo punto anziché passare oltre, i due globetrotter senza averci pensato poi tanto, inviano a tutti gli amici in Italia, un appello affinché si possa raccogliere quanto basta per l’acquisto di un nuovo forno. La risposta non si fa attendere e in pochi mesi viene raccolta la cifra di 1.900 euro attraverso la ONLUS Amici nel Mondo. Questa cifra che va ben oltre il valore del forno servirà anche per sostituire alcune vecchie attrezzature della cucina come spiegherà poi suor Francesca Atorino rientrata per un breve periodo in Italia che riceve il contributo nel mese di settembre a Castelfranco Veneto dove una rappresentanza dei benefattori composta da quattro persone si è recata per portare personalmente i soldi raccolti.

Suor Francesca riceve il contributo dal sig. Pellati

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VADO VERSO IL CAPO

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60. 000 chilometri attraverso l’Africa in 374 giorni In un epoca in cui il rapido volo di un aereo accorcia ogni distanza questo tipo di viaggio può apparire anacronistico.

Ci vorrà più di un anno per percorrere i sessantamila chilometri preventivati a bordo di un fuoristrada Toyota camperizzato. Il nostro sarà un viaggio e non una spedizione in senso lato: nessun record da battere, niente da dimostrare. Quello che ci ha spinti a partire è la curiosità, la voglia di conoscere, di capire, d’incontrare genti che abitano in terre lontane, affascinanti e misteriose. Perché in fuoristrada camperizzato? A nostro avviso questo veicolo è l’evoluzione moderna del carro dei pionieri e ci permetterà di macinare chilometro dopo chilometro a un’andatura tale da permetterci di "assorbire" ciò che ci circonda: un paesaggio, un viso, un gesto, un profumo... E poi è un po’ come tirarci dietro un piccolo angolo di casa, in cui è piacevole fermarsi e riposare dalle fatiche del viaggio. Questo è un andare senza fretta, senza orari nè prenotazioni obbligatorie, alla portata di chiunque abbia curiosità, rispetto per il diverso e spirito d’avventura.

In fondo, l’unica cosa veramente importante è poter essere padroni del proprio tempo, uno dei più grandi lussi della nostra epoca frenetica.

Questo è il Viaggiare che pian piano entra dentro, si insinua fra la piega della mente e forma i tuoi ricordi.

Ricordi di colori, di sorrisi e immagini che appena ne sei lontano già ti mancano. Ricordi che ci mettono in viaggio per ritrovarli, riviverli e farli nuovamente nostri.

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Andiamo verso il capo Come diceva un grande scrittore: "Le cose belle della vita capitano a volte per caso". Ed è quasi per caso che Christine, io, Lia e Luciano ci incontriamo e, davanti a un tavolo pieno di carte geografiche, decidiamo di raggiungere Cape Town attraversando l’Africa. Due Toyota Land Cruiser dotati di cellula abitativa saranno la nostra casa per circa un anno. Si affiancheranno a noi, ma solo per il primo tratto, Silvana e Tony con il loro Iveco 4x4, anch’esso attrezzato dalla Campertre. Grazie all’intervento di Abdul e Paolo, i nostri amici di Tripoli, otteniamo il visto della Libia, aggirando così le costosissime pratiche di agenzia ed evitando lo spauracchio della guida obbligatoria. Contiamo di richiedere al Cairo il visto per il Sudan; ottenerlo in Italia è un miraggio che pochi fortunati riescono a concretizzare. E così in una tiepida serata di novembre, pieni di entusiasmo e di ottimismo, ci imbarchiamo a Trapani.

Attraversiamo frettolosamente la Tunisia e in 2 giorni arriviamo al confine libico. Già in dogana, e così per circa due mesi nei vari posti di blocco, ci viene sempre richiesto quale sia la nostra “agensia”. E noi, in un inglese molto maccheronico e in un arabo improvvisato continuiamo a negare di averne una, oppure ad affermare che non ne ricordiamo il nome. Solo uscendo dalla Libia scopriremo che la richiesta di “agensia” altro non era che la richiesta della nostra “nazionalità”!

Di buon’ora partiamo alla volta di Ghadames. Ha piovuto durante la notte e un vento freddo ci obbliga a mettere un maglione. Sulla strada pochissime macchine e la sabbia laterale cerca di sopraffare l’asfalto.

Man mano che procediamo verso sud la temperatura si fa più mite e, finalmente, il deserto! Tanto atteso, sospirato, immaginato. Non ancora quello delle grandi dune e della sabbia dell’Erg, ma solo quello di una spianata di ciottoli e sabbia senza confini dell’Ham-madah. Ci dirigiamo verso Ghat dove incontriamo Moussa, la nostra guida di sempre.

Negli ultimi chilometri il paesaggio è cambiato rapidamente: dune sabbiose prendono il posto della polvere e dei sassi dell’Hammadah e si affiancano ai contrafforti del Jabal Akakus. (24 46 97 N – 010 12 94 E) Akakus, nome mitico tra i viaggiatori del Sahara: ouadi, canyon, dune e panorami da ricordare per una vita. Con le nostre potenti Toyota possiamo percorrere distanze che solo qualche decennio fa erano impensabili. Radio e satellitari permettono anche a “ turisti “ come noi di addentrarsi in tranquillità in questo mare di sabbia, anche senza l’atavica esperienza dei Tuareg. Anche Moussa ha abbandonato il cammello per il moderno Toyota, ma rimane in lui l’anima del nomade e l’arte di arrangiarsi: e così l’astina dell’olio e l’antenna radio si trasformano in spiedini improvvisati per la carne, un capretto acquistato da un pastore nomade e scelto con cura nel gregge diventa un’ottima grigliata e il pane viene impastato al momento e cotto direttamente nella sabbia. Spesso il deserto è sinonimo di nulla, vivendolo ci rendiamo invece conto che non è solo sabbia, dune e panorami mozzafiato, ma anche pozzi e oasi, gente , animali e legna per l’immancabile fuoco serale.

Ci raggiungono Joana e Paolo. Saranno i nostri apripista (26 22 23 N – 013 06 75 E) nell’ Idhan Murzuk.

Perdersi in un mare di sabbia. È questa la sensazione che si prova addentrandosi in questo smisurato deserto grande due volte la Sicilia. Unico riferimento la freccia che si sposta sul GPS e quei “ numeretti” quasi in- comprensibili che continuano a variare sul display. All’inizio sfiliamo un po’ timorosi dietro le tracce del Nissan di Paolo. Tutto ci sembra molto arduo e impegnativo, forse troppo. Ma poi, piano piano, il timore si trasforma in fiducia e allora su e giù dalle dune per addentrarci in paesaggi sempre più grandi ed emozionanti. L’attraversamento delle dune non è sempre facile. In mezzo a queste sabbie semoventi, sempre più alte e apparentemente invalicabili noi ci sentiamo impotenti e infinitamente piccoli. Spesso dobbiamo salire a piedi sulle creste, spianarle e cercare il passaggio successivo.

Anche noi siamo colpiti dalla “saharite” e solo alla sera sotto un cielo stellato e davanti al crepitio del fuoco, con i nostri racconti scarichiamo tutta la tensione rivivendo i momenti salienti della giornata.

A volte si procede lentamente o si ritorna sulle proprie tracce, a volte si corre a 60 Km all’ora sul fondo di laghi fossilizzati. Tutt’intorno i resti di antichi focolari un tempo ricchi di reperti preistorici: amigdale, punte di frecce, frammenti di vasi. Solo le grosse macine grazie al loro peso hanno evitato lo sciacallaggio. Spesso, all’improvviso, affondiamo in tratti di fech- fech bianco o nero sollevando un enorme polverone che ci avvolge completamente e penetra ovunque. Purtroppo in alcune zone le recenti ricerche petrolifere hanno deturpato il paesaggio: rottami, rifiuti e scatolame sono sparsi ovunque.

Dobbiamo costatare che anche la bellezza del Murzuk è stata sfregiata in nome del “dio petrolio”.

Sono troppe e confuse le tracce che portano ai laghi di Mandahara. Dobbiamo quindi fin dall’inizio affidarci ai dati dei nostri satellitari avanzando così per oltre 120 Km nell’Idhan Awabari.

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Man mano che procediamo ci sembra di volteggiare su queste dune con sabbia sempre diversa: sinuosa, crespata, liscia, dura come pietra o soffice come talco. Il sole penetra tra i granelli di sabbia, li colora e disegna con le ombre maestosi festoni. Nelle salite più impegnative il nostro generosissimo sei cilindri si affievolisce sempre più: di fronte a noi solo cielo. Sulla cresta un attimo di ”panico” quando il muso del Toyota punta deciso verso il basso e poi finalmente si “frana” a valle in una discesa da urlo.

Raggiungiamo i laghi. Alcuni sono completamente asciutti, in altri invece le palme tutt’intorno si rispecchiano nelle immote acque salmastre. I datteri, assieme ai piccoli crostacei che vivono numerosissimi in queste acque, rappresentavano l’unico alimento per le popolazioni che da sempre abitano in queste zone: i Duada’ neri. La sensazione di libertà è forte: puoi spaziare ovunque con lo sguardo e solo le tue tracce sono il filo di Arianna che ti riporta al campo. È Natale e decidiamo di trascorrerlo al lago di Um–el –Ma (26 42 70 N – 013 20 21 E). Le nostre donne ci sorprendono con la loro fantasia. Ed ecco che un thermos metallico diventa mattarello e subito dopo le piastre da sabbia saranno ricoperte da invitanti tagliatelle. Con le candele al piretro improvvisano sul declivio di una duna un luminoso albero di Natale e con le poche cose a disposizione impreziosiscono una tavolata per un sontuoso menu. Davanti al fuoco ci scambiamo piccoli regali mentre un CD diffonde le note di canti natalizi. In questa atmosfera il pensiero va alle nostre figlie, ai nipoti e a tutti i nostri cari a casa.

(25 39 32 N – 09 56 17 E): Wadi Maridet nel Tassili libico. È uno dei luoghi meno conosciuti e a detta di tutti noi il “più migliorissimo!!!” Merita sicuramente di essere visto: torrioni di arenaria plasmati dalle erosioni eoliche si ergono ovunque dalle sabbie dorate. Zigzaghiamo in uno slalom tra pinnacoli e canyon fino a raggiungere una sommità e da qui lo sguardo spazia a perdita d’occhio sulle migliaia di guglie e archi dalle forme impossibili. Decidiamo di fare qui il campo e già pregustiamo la giornata che ci aspetta.

Riceviamo la visita di Omar, un ragazzo Tuareg di un vicino campo nomade. Barattiamo con lui un uromantice (lucertolone nero) che doveva essere la sua cena, con un pezzo di carne di cammello.

Il lucertolone è salvo e andrà ad arricchire, assieme ad un piccolo muflone che viaggia con noi da due giorni, l’improvvisato zoo del Camping di Moussa (24 58 18 N – 10 12 43 E). Sono solo tre i colori che ci circondano: il blu intenso del cielo, l’ocra della sabbia con tutte le sue sfumature e il marrone degli “scogli” affioranti da questo mare. Il vento insinuandosi fra queste rocce traforate come un pizzo crea il suono di un insolito organo. Si odono gli incessanti clic delle nostre macchine fotografiche che hanno tregua solo al calar della sera quando le ombre inghiottono ogni cosa. Dopo cinque giorni ci congediamo con un’ennesima spaghettata dall’amico Moussa che ha saputo trasmetterci anche qui un grande entusiasmo per la sua terra.

Ritorniamo a Tripoli in tempo per festeggiare a casa di Paolo e Joana l’ultimo dell’anno. Abdul, Paolo e il loro “innominabile amico” (collocato appena due gradini sotto il loro dio) fanno a gara nel viziarci con i piatti libici. E così gustiamo: bordin – chorba – rhisda – macaruna ‘mbacmbucca’. Senza quasi accorgerci sono passati 54 giorni ed è ora di lasciare la Libia. Zilla ci regala le ultime emozioni con la “Monument Valley “, da noi così denominata per le sue imponenti formazioni di arenaria, i suoi canyon e i suoi archi (29 10 18 N – 18 10 92 E). Le pratiche doganali non presentano eccessive difficoltà e “solo” dopo quattro ore siamo a Soloum in Egitto. La cordialità del popolo libico ci è rimasta nel cuore, si sentono molto vicini agli italiani, ovunque saluti e mafish muskilà (nessun problema) ci hanno accompagnato. In ognuno di noi c’è l’intimo desiderio di tornare quanto prima in Libia per rivivere questa grande esperienza.

Giorni permanenza 54 Km. totali percorsi 9.700

LIBIA IN CIFRE

Km. pista e fuoripista

2.400

Valuta

1 dinaro = € 0,714

Prezzo gasolio

1 litro

= € 0,0863

Visto e timbro bilingue

€ 28 + € 10

Pratiche doganali

60 (€ 35 rimborsati in uscita)

Invito obbligatorio

Dipende dall’agenzia

Traghetto Trapani-Tunisi (2pax+auto) Costo giornaliero guida con auto - -74 74- -

euro 194 da € 70 a € 120

I nostri costi 0 Guida Akakus e Tassili

10 gg

Litri gasolio consumato

1.800

Costo medio giornaliero (2 persone+auto)

€ 12,6 + visto e traghetto

Egitto-Sudan Salutiamo Silvana e Tony, gli amici che ci hanno accompagnato fino qui e che ora si dirigono verso casa.

Noi invece puntiamo verso sud. Siamo stati più volte nella terra dei Faraoni e quest’anno l’Egitto sarà per noi solo di attesa. Non tralasciamo però una visita ai sacrari di Tobruk (Libia) e di El Alamein, nome che rievoca in noi tristi ricordi di morte e di guerra. Pensieri contrastanti, ma la consapevolezza comune che le guerre non risolvono i problemi. Al Cairo arriviamo di giovedì ma, trattandosi di paese islamico, dobbiamo aspettare fino alla domenica per andare ai Consolati. Siamo gentilmente ospitati nel cortile di una scuola missionaria francescana, a pochi passi dal Museo Egizio e ne approfittiamo per una visita culturale. Un tè al Fishawi’s del souk di Khan Al-Khalili ci fa rivivere il fascino del Cairo del passato.

Ci rechiamo all’Ambasciata Italiana per le lettere di presentazione, necessarie all’ottenimento dei visti.

Con amarezza costatiamo che unico referente nella nostra ambasciata è il portiere egiziano.

I nostri connazionali sono tutti ”molto impegnati”!….Riusciamo a vederli di sfuggita, durante le tre ore di attesa in portineria, solo quando un venditore ambulante viene a offrire cuori di carciofi già puliti.

Non c’è che dire, anche all’estero per gli italiani la cucina è di primaria importanza!!! Il visto del Sudan, quasi inottenibile in Italia, ci viene rilasciato in soli 2 giorni e, cosa ancora più sorprendente, quello dell’Etiopia in sole 4 ore durante le quali, in un comodo salotto, visioniamo materiale illustrativo sul paese. Per andare ad Aswan scegliamo la via delle oasi. A Farafra ci inoltriamo nel Deserto Bianco (27 21 60 N - 028 09 90 E).

Sgonfiamo un po’ le gomme e ci buttiamo nella “caccia al tesoro” seguendo i punti satellitari che abbiamo a disposizione. Per tre giorni “ci perdiamo” in un susseguirsi di forme bizzarre che ci riportano alla mente le similitudini più strane: cammelli, elefanti, ballerine, guglie, funghi, scogli, onde di un mare in tempesta... Il bianco regna sovrano sul blu del cielo e l’ocra della sabbia. Con un tè servito con la raffinatezza di un salotto inglese, rigorosamente alle 17, sopra un improvvisato tavolino di calcare bianco, festeggiamo semplicemente di essere qui. Dopo un bagno ristoratore nelle acque termali del Pozzo N. 6 ci dirigiamo verso l’oasi di Dakkla, la cui porta di accesso El Qasr è, a ragione, sotto il patrocinio dell’Unesco. La vecchia città è costruita quasi interamente in mattoncini di fango.

Ci addentriamo nelle viuzze coperte, visitiamo i resti della vecchia madrasa (scuola coranica), della moschea e le antiche porte sormontate da architravi in legno scolpito con i nomi del proprietario, del carpentiere o di una sura del Corano. Acquistiamo un pollo ruspante per la cena. Qui li vendono ancora vivi e dopo averlo accuratamente scelto e pesato, in pochi minuti, con l’aiuto di una “infernale” macchina centrifuga, ci viene consegnato perfettamente pronto per la brace.

Raggiungiamo Luxor e da qui con un convoglio “di facciata”, che serve solo alla tranquillità psicologica del turista, proseguiamo per Aswan a velocità sostenuta. Man mano che ci allontaniamo dal caos di Luxor ecco la vita semplice della gente dei villaggi. Tutto intorno andirivieni di carretti trainati da asini.

A destra e a sinistra della strada scorre la striscia verde di terra coltivata e innumerevoli palme da dattero.

Con disappunto constatiamo che il campeggio, da noi utilizzato nei precedenti viaggi, è chiuso.

Non ci rimane altro che 15 giorni di “Camping strada” (Piazza stazione), tanti sono i giorni di attesa per la chiatta che ci porterà in Sudan. Infatti sono solo due alla settimana i posti macchina disponibili!!

Dopo qualche giorno siamo già di casa ad Aswan: nel mercato alcuni ci salutano per nome, altri dimostrano di essere bene informati, mettendoci in difficoltà, sul nuovo corso della politica estera italiana. Conoscono per nome il nostro primo ministro e ci apostrofano con frasi tipo “viva l’Italia senza Padania”. Noi dribbliamo l’argomento sui soliti temi calcistici! Dalla posizione privilegiata del nostro “Camping strada” riusciamo a fare il pieno dell’acqua, la ricarica del gas e una telefonata, grazie alla gentilezza del tecnico che riparava la vicina centralina. Sul Nilo contiamo 58 delle 130 navi crociera che ormai lo navigano costantemente. Non a caso la voce "Turismo" è la seconda entrata del Paese, dopo il canale di Suez. Otteniamo il permesso di unirci al convoglio obbligatorio con i nostri fuoristrada per raggiungere i templi di Abu Simbel. Belli, maestosi, imponenti. La raffinatezza dei bassorilievi interni è addirittura stupefacente.

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Il lavoro di sezionamento e ricostruzione 60 metri più in alto, per evitare che le acque del lago Nasser li ricoprissero, è colossale. Riusciamo a cogliere in pieno la magica atmosfera che qui si può ancora respirare solo quando le ”orde dei turisti” del tutto compreso lasciano il posto per il pranzo, da consumare rigorosamente in hotel. Sulla riva sinistra del Nilo visitiamo alcuni villaggi nubiani. La zona è fuori dai percorsi turistici tradizionali ed il nostro passaggio desta ancora molto interesse. Ci invitano per un chai senza chiedere alcun bakshish: anche questo è Egitto.

Dopo un ennesimo rinvio di 3 giorni, per una festività religiosa musulmana, ecco il giorno tanto atteso.

Raggiungiamo Sadilari, il porto di Aswan. È alquanto pittoresco: merci, sacchi, scatoloni, ceste con ogni genere di cose e mercanzie vengono stipate sulla chiatta che affiancherà la nave passeggeri e sulla quale saranno caricati anche i nostri 2 Toyota. L’imbarco non è tra i più agevoli. Dopo uno slalom tra cocci di vetro, pezzi di ferro e rifiuti vari che attentano pericolosamente all’integrità dei nostri pneumatici, ci mettiamo in posizione per la salita. La rampa è improvvisata con pezzi di lamiera trovati a terra ed il bloccaggio è assicurato da mattoni, sassi, travi di legno e quant’altro sia disponibile allo scopo.

Tutti solerti e attenti ti danno indicazioni per le manovre: peccato che siano in contraddizione una con l’altra! E così dopo non poca apprensione riusciamo a parcheggiare tra il cassero di poppa e la buca della stiva: non più di 10 centimetri per parte! Il servizio di bordo è carente. Convinciamo il capitano a farci rimanere sulle nostre macchine per la notte. Dopo qualche dubbio, con una piccola mancia, acconsente alla nostra richiesta: è la prima volta che ci capita di dover pagare per “non” utilizzare le nostre cabine di prima classe! Attendiamo che la chiatta venga saldamente ancorata alla nave passeggeri e finalmente il suono della sirena ci indica che ce l’abbiamo fatta: stiamo navigando verso il Sudan. Durante la notte delle urla concitate ci svegliano e dal beccheggio intuiamo che ci sono dei problemi. Il tempo è cambiato e c’è un forte vento. Chiudiamo salda- mente oblò e finestre per evitare gli spruzzi delle alte onde di prua.

Usciamo dalle cellule per verificare gli ancoraggi delle macchine; le sciabolate di luce delle nostre pile illuminano gellabe bianche bagnate che fasciano i corpi dei marinai sudanesi. Ci tranquillizzano e torniamo a dormire. Udiamo più volte le loro voci fare l’appello per assicurarsi di essere ancora tutti a bordo. E così Mohammed- Alì- Ibrahim…fanno da sfondo al nostro lento riaddormentarci.

Lo sbarco a Wadi Halfa è meno difficoltoso. Ci viene subito incontro un “premuroso” mister Osman che con una “tassa” di 35 dollari (ovviamente senza ricevuta) in 4 ore sbriga per noi le complesse pratiche doganali. Si fa perdonare invitandoci a casa sua e ad un “party” per un matrimonio sudanese, che si terrà alla sera nel villaggio. Non sapendo della differenza di orario con l’Egitto arriviamo alla festa con un’ora di ritardo. Centinaia di persone sono già raccolte in uno spiazzo polveroso illuminato solo da due semplici fari e da una generosa luna. L’ospitalità si rivela subito eccellente e dopo innumerevoli strette di mano ci fanno accomodare a fianco degli sposi. Ci appare subito evidente il contrasto tra la felicità esuberante dello sposo e la profonda tristezza sul volto della giovanissima sposa, quasi piangente: qualcuno di noi (malelingue!) lo attribuisce alla grande differenza di età. La festa si svolge davanti alla sposa che sta seduta, immobile, nel suo bell’abito bianco, con le mani adornate di pizzo traforato e perfettamente decorate con l’hennè. Sembra un manichino impreziosito da gioielli di filigrana d’oro. Belle ragazze nubiane, avvolte nei loro abiti migliori, sono schierate di fronte agli uomini in gellaba bianca.

Tutti si tengono per mano e danzano con movimenti semplici e ripetitivi al ritmo incalzante dei tamburi.

Di tanto in tanto, in segno augurale, si sente il tipico urlo gutturale delle donne anziane mentre al centro un uomo scoraggia, simulando poderose frusta- te, ogni timido tentativo di avvicinamento fra ragazzi e ragazze. Ci coinvolgono nella festa e partecipiamo anche noi alle loro danze: unica assente è la sposa che deve rimanere seduta, confortata dalle amiche più care. Solo a tarda sera, pochi istanti prima della fine, maschi e femmine si mischiano e dai loro sguardi ci sembra già di intravedere le prossime coppie.

Parcheggiamo per la notte davanti alla casa di Osman. Al mattino ci portano un piccolo braciere di incenso fumante e ci esortano a passarlo intorno alle macchine per “scacciare gli spiriti maligni”. È tutto diverso qui in Sudan: non ci sono strade, pali della luce o cartelli pubblicitari.

Non c’è demarcazione nei villaggi: sembra che tutto non abbia confini. Unica recinzione i muri delle case, dello stesso colore della sabbia, che nascondono rigogliosi giardini colmi di piante, fiori e frutta.

Tutto viene coltivato a scopo personale e in giro non si vedono negozi. Solo nei villaggi più grandi riusciremo a fare provviste: i mercati sembrano pieni di tutto, ma alla fine ci sono solo pomodori, spezie e tante cipolle. Tutto appare desertico, fuori dalle case non c’è nulla: animali, alberi o panni stesi, tutto quello che in genere siamo abituati a vedere. Anche i mucchi di immondizia, che tanto ci hanno angustiato nei paesi visti prima, qui sono inesistenti.

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Usciamo dal villaggio e imbocchiamo la pista per Dongola. Incontriamo lo sposo che ci riconosce e in segno di amicizia ci offre pane e carne per il viaggio. La pista si presenta subito dura: tratti di toule ondulè si alternano a sabbia soffice e ogni tanto sprofondiamo in zone di fech-fech. Fortunatamente l’esperienza fatta sulle sabbie libiche, su queste strade si sta rivelando veramente utile. A volte sembra che la macchina si sconquassi tante sono le vibrazioni. Nei villaggi tutti ci salutano e ci regalano ampi sorrisi, incuranti dell’enorme polverone che solleviamo al nostro passaggio.

Ci fermiamo spesso. La gente è cordiale e disponibile, scambiamo qualche parola e ci invitano ad entrare nelle loro case, permettendoci così di conoscere più a fondo le loro abitudini. Proseguiamo costeggiando il Nilo: è un dedalo di "ruotate" tra cui non sempre è facile scegliere. Solo in prossimità dei villaggi ci rendiamo conto che tutte le tracce si riuniscono in un’unica pista. Ad Argo con una chiatta ci portiamo sull’altra sponda del Nilo. Ancora deserto interrotto solo da vivacissimi souk. Uomini nubiani, nelle loro immacolate gellaba bianche, seduti in cerchio stanno contrattando la compravendita dei cammelli.

Ci mostrano con orgoglio i loro “capi” migliori: un cammello maschio, particolarmente dotato, riesce a liberarsi dal tronco a cui era stato legato e si avventa sulle femmine della mandria. Con difficoltà e la collaborazione di tutti viene riportato al centro e legato più saldamente. Anche il nostro arrivo, con la presenza delle uniche due donne, crea un po’di scompiglio e per un po’ diventiamo il centro della loro attenzione. Visitiamo la necropoli di Nuri con le sue 54 piramidi. Sembrano in stato di abbandono se non fosse per il guardiano che ci richiede un non ben specificato permesso per fotografare, forse rilasciato solo nella capitale! A Kartum ci fermiamo per l’obbligatoria registrazione del nostro passaggio presso le autorità di polizia. Mitighiamo il caldo torrido di questi giorni (43°!) bevendo dai baracchini lungo la strada enormi spremute di pompelmo rosa e chiudendo un occhio, per una volta, sul ghiaccio di “dubbia” provenienza. Stiamo per lasciare il Sudan, l’Etiopia ci aspetta. L’ultima notte la trascorriamo a Gadaref, prima della pista che ci condurrà al confine. Si avvicinano due giovani uomini. A gesti ci chiedono qualcosa…si tratta del sacchetto della spazzatura appeso alle nostre macchine. Diamo loro pane, pomodori, tonno e biscotti: sono felici! Ci ringraziano calorosamente e contenti si allontanano voltandosi di tanto in tanto. Rimane in noi un senso di vuoto e di smarrimento. Purtroppo anche questa è Africa.

IL VIAGGIO IN CIFRE

Giorni permanenza

EGITTO 30

SUDAN 10

Km. totali percorsi

3.600

1.800

330

1.750

Valuta

1 pound = € 0.217

1 dinaro = € 0,00384

Prezzo gasolio

1 litro

Km. pista e fuoripista

= € 0,082

1 litro

= € 0,277

Visto ingresso

€ 21

€ 56

Pratiche doganali + importazione auto

€ 241

€ 73

Traghetto Aswan- Wadi Halfa

€ 485

//

2 pax + auto I nostri costi Campeggi Guide

3 gg 0

2 gg € 4 0

Litri gasolio consumato

570

220

Costo medio giornaliero

€ 18,6

€ 18,1

(2 persone + auto)

+ visto e traghetto

+ visto

77- - -77

€ 24

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3 Etiopia Dopo tanto deserto ecco l’Etiopia: terra rossa e colline verdeggianti hanno preso il posto delle dune e della sabbia. Le formalità di uscita dal Sudan sono pressoché inesistenti. Subito ci colpisce l’aria dimessa di questa nazione: la dogana è in una capanna circolare di fango e paglia. Mosche e caldo.

Abbiamo subito una brutta sorpresa: una balestra ha ceduto. Ragazzini solerti ci accompagnano in un’altra capanna: è l’officina. Qui tentano a fatica la riparazione saldando il foglio rotto e uno scoppiettante generatore ci regala la corrente di cui il villaggio è sprovvisto. È già buio e la dogana è ormai chiusa. Ci dicono che gli uffici apriranno all’una. Ci guardiamo increduli ma poi scopriremo che la loro “una” altro non è che le nostre sette, un’ora dopo l’alba. La tassa di importazione della macchina è di 1 US $, pagabile solo in moneta americana! Siamo di nuovo in pista. I 180 chilometri che ci separano da Gondar li percorriamo lentamente, tante sono le cose da vedere e fotografare. Frotte di bambini sorridenti ci salutano dai bordi delle strade e ci apostrofano con ripetuti yuh– yuh e farangi che ci accompagneranno per tutta l’Etiopia. La povertà di questa nazione è impressionante: i vestiti sono solo stracci pieni di buchi.

Visitiamo Gondar: ovunque mendicanti, storpi e ciechi. I marciapiedi sono spesso dormitori di povera gente dello stesso colore della polvere che li ricopre al passaggio di ogni veicolo. Tutti chiedono qualcosa e anche una semplice bottiglia di plastica vuota diventa un bene prezioso. Ci rendiamo conto che il singolo può fare poco se non c’è un programma istituzionale a risolvere questi enormi problemi.

Andiamo verso il lago Tana. Sole alto, natura maestosa, piste sconnesse e polverose e ovunque gente, gente che cammina. Un fiume interminabile di persone che vanno e vengono incessantemente. Sembra non sappiano dove andare ma tutti portano qualcosa sulla testa: un fascio di canne, una calabassa, un contenitore per la injera, alimento base nella semplice cucina etiope. Tutto sparisce nella nuvola di polvere che rimane a mezz’aria al nostro passaggio. Lasciamo dietro a noi questo “mondo” che va a piedi.

Da Bahir Dar con una barca raggiungiamo i monasteri copti che sorgono sulle isole del lago. Sono tutti in legno, di forma circolare sormontati da un tetto di paglia. All’interno una costruzione quadrata interamente ricoperta da teli dipinti a colori vivaci e raffiguranti scene della Bibbia. Qua e là monaci e monache in preghiera o intenti ai lavori della vita quotidiana creano ancora un’atmosfera mistica e suggestiva, nonostante la grande affluenza turistica e la mercificazione del luogo ne abbiano sminuito il fascino di un tempo. È venerdì e come ogni venerdì da sempre si tiene il mercato della legna sulle rive del lago. Vigorose pagaiate sospingono sulle acque decine di piroghe, completamente realizzate in papiro, stracolme di legna. Ci vogliono oltre 5 ore per arrivare fin qui ed altrettante per ritornare ai propri villaggi. È una vita dura questa, immutata nel corso del tempo e che non lascia intravedere nessuna possibilità di cambiamento. Dopo una pista di 32 chilometri e una camminata di 45 minuti, davanti a noi le cascate del Nilo Azzurro. Purtroppo anche qui l’opera dell’uomo ha tolto bellezza all’opera della natura. Un imponente sbarramento di una centrale elettrica ne ha ridotto la portata di oltre il 75% svilendole e riducendone drasticamente il fronte di caduta.

La strada, anzi la pista che da Bahir Dar conduce a Lalibela la ricorderemo per sempre. E non per la sua altitudine (tocchiamo i 3260 m.) e neanche per il suo fondo dissestato né per i suoi superbi panorami.

La ricorderemo per la sua gente. La moltitudine in cammino è quasi da esodo biblico. Tutti a piedi, tutti con il loro pesante fardello. Ovunque bambini con i loro smaglianti sorrisi. Ti fermi e subito sei attorniato da questi occhioni che ti chiedono qualcosa, qualsiasi cosa. Tutti vorrebbero ottenere qualche briciola per alleviare la fame, tutti vorrebbero una maglietta per sostituire quella che portano da una vita. Come fare?

Come fare a distribuire la ricchezza in modo equo? Questa è la grande domanda del nostro secolo. È tutto un susseguirsi di curve e saliscendi. Boschi di eucalipti, campi lavorati ancora con buoi e aratri in legno, piccoli villaggi di capanne in fango e paglia ci regalano immagini d’altri tempi. Abbarbicata sulle montagne ecco Lalibela, nome mitico nella storia d’Etiopia. Le sue chiese rupestri, ancora oggi meta di culto, sono l’attrazione di questo luogo considerato la “Petra africana”. Ingaggiamo quattro “piccole” guide che ci accompagneranno per tutto il giorno: una semplice t-shirt e 10 birr li rendono felici.

Contrariamente alle altre architetture rupestri le innumerevoli chiese di Lalibela sembrano letteralmente estratte dalla roccia che è stata scavata tutt’intorno formando così un unico monolito. Alcune colpiscono per la raffinatezza dei loro interni e altre per la loro maestosità. Tra le gallerie e i corridoi che le collegano si incontrano ancora sacerdoti con i loro preziosi paramenti e ci giungono i canti dei monaci in preghiera nelle cripte. Si ha veramente l’impressione di essere in un regno del medioevo.

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Andando verso Addis Abeba il paesaggio si fa ancora BUNNA’ più bello. Tocchiamo i 3.660 metri. Le nostre Toyota La cerimonia del caffè “sputacchiano” ed emettono un fumo denso e maleodorante ma ci portano fino in vetta. E poi giù In Etiopia il caffè è una cosa seria. Non si può dire nei tornanti della discesa. Ad ogni curva un nuovo facilmente “ti offro un caffè” se non si ha molto spettacolo: una famiglia di gelada (grosse scimmie tempo a disposizione. dal pelo fulvo), un mercato di cammelli, enormi Su di un vassoio di legno appoggiato a terra sono euforbie con i loro fiori rossi e gialli. Gli incontri in bella mostra le tazzine. Tutt’attorno viene steso sulle strade d’Etiopia sono sempre interessanti. un letto di foglie di eucalipto. Di fronte un Spesso ci capita di vedere uomini che al posto braciere emana fumi d’incenso ed aromatizza dell’immancabile bastone portano con disinvoltura l’aria. Su di un altro braciere l’addetto al caffè un fucile, un vecchio moschetto o un più recente tosta sapientemente i chicchi color caffellatte, rimestandoli continuamente con un cucchiaio di kalashnikov. Non se ne capisce bene la funzione ma ferro. Il segreto è tutto qui. L’arte secolare della sicuramente viene ostentato come segno di potere o di tostatura al momento. La macinatura poi nel benessere. Addis Abeba, terza città d’Africa, ci mortaio a mano dà giusta consistenza alla polvere. appare più come un “paesone” che una vera Bolle intanto l’acqua nel bricco in ceramica. La metropoli. Costruita su verdi colline ci sorprende per polvere viene aggiunta all’acqua, dolcificata e il traffico poco caotico, dovuto alla quasi mancanza di lasciata decantare. Il caffè è finalmente pronto a auto private. Ne approfittiamo per cambiare i filtri del regalarci, con il suo aroma intenso ed il suo sapore gasolio: fumo e puzza ci hanno fatto capire che ne è forte e rotondo, un momento di piacere. giunto il momento. Per un’intera giornata visitiamo il Centro Romagna, istituzione missionaria dei Frati Cappuccini (vedi riquadro). Il mercato di Addis Abeba, definito il più grande d’Africa, ha perso molto del fascino del classico mercato africano. Moderne costruzioni in cemento hanno sostituito le bancarelle di un tempo. Nonostante gli avvertimenti e le nostre attenzioni subiamo un furto di pochi birr che ci fa capire quanto siamo indifesi davanti alla destrezza di certi ladruncoli. Una strada finalmente asfaltata e liscia come un tavolo da biliardo ci porta a sud, nel territorio delle etnie Dorzè e Konso. Una moltitudine di persone, accalcate sotto un sole cocente, attira la nostra curiosità: si tratta della distribuzione razionata della preziosa acqua. A fatica raggiungiamo un recinto al centro del quale una fila di taniche aspetta di essere riempita con l’unica pompa a mano.

Il nostro arrivo crea confusione e interesse e per un attimo li distogliamo dal loro quotidiano problema.

Raggiungiamo Arba Minch, punto di partenza per il “Crocodile Market”. In realtà si tratta di una spiaggia sul lago Chamo sulla quale sembra si trovino i più grandi coccodrilli d’Africa…e così è!

Con un’instabile canoa ricavata da un tronco scivoliamo sulle limacciose acque del lago, dal colore indefinito tra il caffellatte e la sciacquatura dei piatti. Davanti a noi bestie immense che sembrano uscite da un film di Spielberg: decine e decine di coccodrilli riposano al sole con le possenti mascelle spalancate e poi pigramente entrano in acqua. È l’8 marzo e alla sera ci regaliamo una deliziosa cenetta a base di pesce per ricordare la festa della donna. Essere donna in Africa, e in Etiopia in particolare, non è certo cosa facile. Qui i diritti sono lontani anni luce. Le ragazze ai primi cenni della pubertà vengono già promesse in sposa: criterio di scelta primario è la forza fisica. Tante e tali sono infatti le fatiche disumane che dovranno sopportare.

Le portatrici d’acqua che incontriamo sulle colline ci ricordano gli sherpa dell’Himalaya: graziose ragazze con le gonne a volant tutti i giorni trasportano per chilometri enormi carichi d’acqua. Le schiene ricurve, le gambe tese per lo sforzo della salita e il volto madido di sudore, ma al nostro passaggio ci regalano sempre un cenno di saluto e un sorriso. Lo sfruttamento della donna va oltre le fatiche fisiche: qui la prostituzione, soprattutto minorile, è un’altra amara realtà. Lungo le piste si vedono solo cartelli relativi al programma di contenimento demografico e lotta all’AIDS. Si stima che circa il 50% della popolazione ne sia infetta. La quasi totale mancanza di strutture sanitarie rende il problema drammatico: impossibile curare, difficilissimo prevenire. Entriamo nella regione dell’Omo River. Qui le piste, trasformate in pericolosi pantani, ci ricordano che la stagione delle piogge è vicina. La mancanza di un ponte ci costringe a guadare un fiume ingrossato dalle recenti piogge. Sulle rive numerosissime donne e bambini: chi fa il bagno, chi lava i vestiti, chi raccoglie acqua. Al nostro passaggio tutto si ferma e ci guardano incuriositi. Ci ritroviamo spesso a scrutare il cielo con le sue nere nubi minacciose.

Nostro spauracchio sono i famigerati 500 km della pista di Marsabit, in Kenia, inagibile durante la stagione delle piogge.

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La zona dell’Omo River è un concentrato di etnie: Karo, Dorzè, Mursi, Konso, Hamer e Tzanè sono solo alcune di esse. Vivono nei villaggi sparsi sulle colline, ognuno con le proprie caratteristiche e le proprie usanze. In giorni prestabiliti si ritrovano per scambiarsi le poche cose che hanno: una manciata di tabacco, un po’ di latte, una tazza di miele e l’immancabile farina di miglio. Fra i vari mercati che visitiamo quelli di Key Afar e Dimeka ci colpiscono maggiormente: la piazza è in pieno fermento, protagonisti sono uomini e donne nei loro pittoreschi costumi. Tutto diventa ornamento anche le cose più strane: un contenitore vuoto di una pellicola, perline, conchiglie, piume, placche e pendagli. Le donne sul dorso e sotto il seno portano i segni delle scarnificazioni “ornamentali” inflitte loro da ragazze.

I gonnellini di pelle, ornati da piccoli anelli di metallo, emettono un gradevole tintinnio ad ogni loro movimento. Alcune con disinvoltura portano una mezza calabassa come copricapo. Siamo attratti dalle estrose acconciature maschili: sui capelli ricoperti di argilla color ocra spicca un vistoso pon pon nero sormontato da una piuma bianca.

In mano l’immancabile Borkota, piccolo sgabellino in legno dalla duplice funzione di sedile o poggiatesta, ora diventato ambito souvenir per turisti.

La discesa al Mago National Park si presenta subito come un fuoripista difficile e pericoloso. I primi 10 chilometri sono un susseguirsi di voragini, buche e solchi; il fango formatosi dopo le recenti piogge è un’insidia continua. Ci rendiamo conto che è impossibile guadare le impetuose acque del fiume.

Purtroppo dobbiamo tornare sui nostri passi e rinunciare così a raggiungere il villaggio dei Mursi, famosi per il loro piattello labiale.

Il paesaggio che si incontra percorrendo le piste dell’Omo River è emozionante. Foreste di acacie si alternano a montagne e vallate; qua e là spicca il rosa dei fiori dei Foot Elephant, tra baobab nani la cui linfa tossica un tempo veniva usata per avvelenare le punte delle frecce. L’aria è densa di coleotteri e farfalle che ci investono letteralmente. Incontriamo piccoli villaggi senza nome. La gente dimostra disponibilità e gentilezza inusuale e così gli obiettivi delle nostre macchine fotografiche si riempiono di visi e corpi color ebano. Siamo attratti dal ritmo dei tamburi proveniente dalla vicina foresta. Uomini e donne agghindati a festa sfilano separatamente in fila indiana cantando e ballando. Alcuni imbracciano fucili con le canne adornate di fiori. Si tratta di un matrimonio locale: lo sposo ci permette di partecipare e noi ricambiamo con un piccolo regalo. Non ci è permesso però vedere la sposa: le amiche la proteggono gelosamente con ombrelli e foulard colorati. Ne intravediamo solo le mani cariche di anelli e le caviglie adorne di sonagli tintinnanti.

Con una barchetta a remi, in realtà sono solo due bastoni senza pala, raggiungiamo Kelem, aldilà del fiume Omo. La visita al villaggio è deludente: tutti si accalcano a chiedere birr (possibilmente nuovi!) in cambio di una foto. Le ragazze più giovani e carine ostentano i loro seni acerbi sapendo di fare cosa gradita ai turisti. Le capanne, a forma di igloo, sono fatte di pelli e rami intrecciati. Sono alte poco più di un metro e per entrare bisogna quasi strisciare. Al centro del villaggio piccoli granai su palafitte.

Qui vivono i Galeb, gli stessi che ritroveremo sul Lago Turkana.

Lasciamo la valle del Basso Omo e le sue etnie sotto un’acqua battente. Ormai siamo in piena stagione delle piogge e dobbiamo affrettarci verso sud. Il panorama, specialmente dopo la pioggia, è di grande impatto visivo: terra rossa, alberi verdi e acacie in fiore, macchie di colore sparse qua e là dalla mano sapiente della Natura. A perdita d’occhio i pinnacoli dei termitai, alti anche 3 metri, si ergono come candeline su una torta .

A Yabelo visitiamo i “pozzi cantanti”. I ragazzi che si offrono di accompagnarci sono numerosissimi: è una calca fastidiosa che a stento riusciamo a contenere e che ci procura anche un po’ di apprensione.

Dalla profondità del pozzo l’acqua viene portata agli abbeveratoi in superficie da una catena umana, a volte anche 15 persone, che si passano di mano in mano i secchi al ritmo di una cantilena Ela-Ela-Ela… da cui i pozzi hanno preso il nome.

Nelle vicinanze si trova El Sod, un cratere spento da cui ancora oggi si estrae a mano il sale. Con una guida, dopo una lunga trattativa, su una ripida mulattiera di 5 chilometri, in un’ora e mezza discendiamo i 350 metri di dislivello. Sul fondo del cratere la scena che si presenta ai nostri occhi è da “girone dantesco”: uomini completamente nudi sono immersi in un’acqua nera e satura di sale. Aiutandosi con un bastone scavano il fondo con i piedi e con le mani estraggono una scura fanghiglia che viene messa ad asciugare al sole. Anche i loro corpi neri, una volta fuori dall’acqua, ci appaiono come statue di sale .

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Più volte al giorno, a piedi e sotto un sole cocente, alcuni di loro risalgono faticosamente fino al bordo del cratere per accompagnare gli asini carichi delle bisacce con la preziosa merce. Rimaniamo increduli davanti all’immane e assurda fatica che ancora oggi questa gente è costretta a sopportare per poter sopravvivere.

A Moyale, dove facciamo dogana, siamo ancora una volta attorniati da uno stuolo di vocianti ragazzini.

Al suono di you you e farangi ci assillano con le loro continue e insistenti richieste di regali: dopo un mese siamo veramente stanchi ed esausti. Ciao Etiopia, nonostante tutto ci sei entrata nel cuore. Tanto ci hai dato con i tuoi panorami da Africa Nera, con la tua gente e le tue etnie che sembrano uscite da un’antologia d’altri tempi. Ci rivedremo!

ETIOPIA IN CIFRE Giorni permanenza

27

Km. totali percorsi

3.300

Km. pista e fuoripista

2.600

Valuta

1 birr = € 0,1166

Prezzo gasolio

1 litro = € 0,330

Visto

€ 63

Pratiche doganali

1$

Campeggi e parcheggi

26 gg € 112

Litri gasolio consumato

485 € 15,9 + Visto

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CENTRO ROMAGNA: UN PUNTO PER LA VITA 09° 00. 680 N 038° 47. 021 E Il Centro Romagna è un’istituzione voluta soprattutto da Padre Bernardo, un Padre Cappuccino romagnolo di Misano Monte.

Egli crede fermamente che la scolarizzazione sia il primo passo per portare un contributo allo sviluppo dell’Etiopia, paese in fondo alla lista della povertà mondiale. E così in poco più di 10 anni con un buon progetto di “Adozione a distanza”, sostenuto da molti benefattori, è riuscito nel suo intento, quello di facilitare l’istruzione dei bambini perché essi sono il futuro di ogni paese.

Dal container iniziale si è passati a un edificio di 3 piani, quasi completamente operativo. Due piani della struttura ospitano le aule dell’asilo e della scuola elementare. Grazie anche al generoso contributo della Provincia di Bolzano sono stati acquistati i banchi e l’arredamento delle aule. Sono circa 5.000 i bambini che vengono aiutati col programma di Adozione a distanza, di cui 400 usufruiscono della struttura. I bambini che hanno diritto di accesso sono i più bisognosi. Quasi tutti sono orfani di uno o entrambi i genitori o appartenenti a famiglie considerate povere. Qui la soglia di povertà è di soli 13 euro al mese!!

Il Centro è composto inoltre da una biblioteca, una sala audio-video, un’aula computer, un laboratorio di scienze, un laboratorio di falegnameria dove i bambini imparano a costruirsi dei giocattoli utilizzando materiali semplici e di recupero e un’aula giochi.

Quello del gioco è un aspetto particolarmente curato da Padre Bernardo. Facendo nostre le sue parole possiamo dire che: “Il gioco deve essere il primo libro che i bambini imparano a leggere”.

Entriamo in alcune classi dell’asilo e delle elementari. In ognuna ci sono dai 60 ai 70 bambini e tutti con la voglia di imparare, seguiti da solo 2 insegnati. Ci accolgono con calore e sorrisi, ci cantano canzoncine anche in italiano e ci fanno un po’ commuovere. All’ora di pranzo li seguiamo in mensa e tutti ci prendono per mano quasi a cercare un contatto fisico. È evidente la gioia che traspare dai loro piccoli visi.

L’Adozione a Distanza fa sì che i bambini e le loro famiglie abbiano il vantaggio di costruire il loro futuro senza che debbano emigrare, rinunciando alla loro cultura e senza essere sradicati dal loro ambiente e dalla loro religione.

Per Informazioni sul Centro e le sue attività: in Italia tel. 0541/ 606819 (mamma di Padre Bernardo) 0541/ 605095 (Anna Biagini- Centro Missionario Riccione) in Etiopia Fax 00251 1 610377 tel 00251 1 625741 (casa Padre Bernardo ore pasti) 00251 1 625742 (Ufficio) e-mail: ced@telecom.net.e

C.E.D. P.O. Box Addis Abeba - Etiopia

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4 Kenia Uganda Tanzania La pista che da Moyale, sul confine etiope, porta a Isiolo è terribile: 500 km di toule- ondulè, buchi e pietre. Tronchi, rami e sassi affiorano dai profondi solchi: sono la testimonianza delle dure lotte sostenute da chi ci ha preceduto ed è rimasto imprigionato nel fango. Noi siamo fortunati. Nonostante sia piena stagione delle piogge il Kenia ci regala un bel sole, risparmiandoci almeno queste fatiche. A Moyale si è unita a noi una simpatica coppia di francesi che vive in Zimbabwe, per percorrere insieme la difficile pista e condividere la scorta armata obbligatoria che ci viene assegnata da Marsabit a Isiolo.

Vivere oggi nello Zimbabwe per i bianchi non è cosa facile. Pierre e Antoinette ci confidano amareggiati che non sanno se, al loro ritorno, ritroveranno ancora la farm (grande quanto Parigi!) o se è già stata loro espropriata. Non sarebbe comunque la prima volta. Ma, nonostante tutto, ci dicono che per niente al mondo lascerebbero l’Africa e la sua gente.

I panorami sono subito spettacolari. La pista di terra rossa si snoda tra praterie di erba bruciata dal sole e distese desertiche di lava. Rade acacie si stagliano contro il blu intenso del cielo, appena screziato da nubi bianche. Incontriamo mandrie di bovini e carovane di cammelli, che forse si stanno spostando in cerca di acqua. In prossimità della meta un rosso tramonto ci accoglie ai margini del cratere. È quasi buio quando arriviamo a Marsabit. La dogana etiope, lenta e farraginosa, e una foratura ci hanno fatto ritardare. Quando finalmente arriviamo a Isiolo siamo scossi, frullati e “shakerati”.

Anche le macchine sono state messe a dura prova ma l’hanno superata egregiamente. Siamo stanchi e affamati. Dopo una doccia calda, sfidando le più elementari norme igieniche e affidandoci alla protezione di “San Vaccino”, ci avventiamo su un piatto fumante di Goat Meat con una birra gelata: ci sentiamo riconciliati col mondo.

Il Kenia è sinonimo di parchi e di grandi animali. Dalla Tanzania arrivano fino qui le sconfinate pianure del Serengeti e del Masai Mara. Questa è da sempre terra dei Masai. Belli, alti, slanciati si adornano di perline, lance, pennacchi e l’immancabile rungu (bastone di difesa) e sono dediti alla pastorizia.

I pastori vivono ancora oggi nelle manyatte, capanne circolari di sterco e fango. Avvolti nel loro tradizionale abbigliamento, una semplice coperta rossa a quadri, sono macchie di colore nella uniformità della savana. L’ingresso ai Parchi è caro per gli stranieri, ma grazie alle poche frasi di swahili, imparate da Lia in un precedente viaggio a Zanzibar, otteniamo la tariffa da residenti, di gran lunga inferiore.

Facciamo lo slalom tra scalpitanti zebre e barbuti gnu. Dall’acqua affiorano enormi teste dalle orecchiette tremolanti: sono gli ippopotami. Improvvisi movimenti e grugniti ci fanno capire che uno dei coccodrilli, che sonnecchiava pigramente a riva, si è avvicinato un po’ troppo. Rischiamo una multa, tanta è la voglia di ammirare da vicino un cheetah (ghepardo) disteso al sole con la sua eleganza felina. Ma l’incontro con i Big Five ( elefanti, bufali, rinoceronti, leopardi, leoni) è sempre molto emozionante. Chi non ha sognato di incontrarli, almeno una volta nella vita, nel loro habitat naturale?

Un polverone in lontananza ed ecco una numerosa famiglia di elefanti che va ad abbeverarsi. Tra le zampe questi enormi pachidermi proteggono amorevolmente i loro cuccioli indifesi. La matriarca con un barrito e uno sventolio delle grandi orecchie ci dissuade dall’avvicinarci oltre. Una macchia nera: centinaia di irascibili e pericolosi bufali ci attraversano la pista e dobbiamo cedere loro il passo.

Davanti a noi alti colli di giraffe reticolate ci guardano da sopra le acacie, ovunque maschi di gazzelle attorniati dal numeroso harem e buffi facoceri inginocchiati in cerca di radici. Non è facile invece incontrare i rinoceronti: sono pochi, timidi e si nascondono tra i cespugli, ma le rare volte che li vediamo fuori dal bush la gioia è grande. Dai rami di un grosso albero penzolano le quattro zampe maculate di un leopardo. Incurante della nostra presenza continua imperterrito la sua siesta, degnandoci ogni tanto di una languida occhiata. Se non fosse per la sua mole (può raggiungere i 90 kg) verrebbe voglia di accarezzarlo come un gattone di casa. Il Re Leone invece si fa desiderare. Spendiamo tutta una giornata alla sua ricerca e quando ormai stiamo per desistere…eccoli! Sono quattro, immobili e perfettamente mimetizzati con il giallo della savana. Li credevamo aggressivi invece sbadigliano e, per nulla intimoriti, si lasciano avvicinare e ci permettono di fotografare in tutta tranquillità.

I rumori della notte nella savana per noi sono inconsueti. Spegniamo il fuoco e con l’aiuto delle torce elettriche scrutiamo il buio dall’interno delle nostre cellule. Vediamo occhietti verdi fosforescenti: sono degli sciacalli. Poco distante un caracal punta una coppia di maschi di gazzelle che lottano per il possesso delle femmine. Non vediamo invece gli elefanti, ma ne intuiamo la presenza dai rumori dei rami spezzati. Sulle Higth Hill si susseguono coltivazioni di ananas e vaste piantagioni di tè, che hanno fatto la fortuna dei colonizzatori bianchi del secolo scorso.

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Tra le nuvole, per qualche istante, intravediamo i ghiacciai del monte Kenia con la sua cima di oltre 5.000 m illuminata dal sole. Attraversiamo l’Equatore, per la prima volta con le nostre macchine e raggiungiamo Nairobi. Città caotica e disordinata, dal traffico convulso anche se “disciplinato”.

Senza troppa fatica troviamo l’Upper Hill Campsite, una piacevole oasi fuori dal caos cittadino.

Risolviamo definitivamente il problema delle balestre, che ci trascinavamo dal lontano Sudan.

Visto il costo contenuto optiamo per la sostituzione integrale dei 2 pacchi balestra, aumentandone inoltre il numero di fogli da 7 a 10. E poi la carica del gas, internet, l’assicurazione, il bucato, la spesa e un po’ di organizzazione sul proseguo del viaggio... Insomma, pur non spostando mai le macchine, non siamo fermi un momento. Andando in giro è facile incontrare tipi particolari. Conosciamo uno studente universitario di Roma. Ci racconta che è in Kenia per preparare la tesi in Scienze Naturali. Ha vissuto per tre mesi in una capanna, all’interno di un Parco Nazionale. Alla nostra richiesta di quale sia l’argomento della tesi, ci sorride un po’ imbarazzato e ci dice: "I micro mammiferi del Parco, insomma in parole povere, i sorci del Kakamega"!

Il confine con l’Uganda è vicino e, anche se non era in programma, decidiamo di visitarlo.

Percorriamo la Rift V alley in una bella giornata di sole che ci permette di godere appieno delle splendide vedute che si snodano davanti ai nostri occhi. Dall’alto ammiriamo la macchia rosa dei fenicotteri sulle acque salmastre del lago Elmenteita. Sulla strada per Webuye, sul confine ugandese, ci viene offerto di tutto: galline ancora vive, manghi e ananas giganteschi in bella mostra su bancarelle improvvisate, carote e piselli già sgusciati pronti per un’ottima pasta serale.

Parcheggiamo le macchine per la notte nel giardino dell’accogliente Metropolitan Hotel. Facciamo la conoscenza di John, un dentista scozzese quasi ottantenne che qui ha trovato la sua nuova ragione di vita.

Vive in Kenia da qualche anno, ha sposato una donna del posto e ne ha adottato i due figli, mantenendoli agli studi universitari. Mentre ci parla con orgoglio delle attenzioni che i ragazzi hanno per lui, gli brillano gli occhi e si commuove. Ci confida che in patria sarebbe un vecchio solo e inutile, forse già morto. Qui invece ha ancora molto da ricevere e da dare.

La dogana è il solito assalto: venditori ambulanti, cambiavalute improvvisati, guardamacchine abusivi attorniano i nostri mezzi cercando di attirare la nostra attenzione per offrirci i loro servigi.

Non sappiamo molto dell’Uganda se non per i soliti stereotipi negativi sui paesi africani. Dobbiamo subito ricrederci. Foresta lussureggiante, strade asfaltate e perfettamente tenute, capanne pulite e ordinate: è la prima immagine che ci appare. Da Jnja, sul lago Vittoria, attraverso una pista di terra resa ancor più rossa dalle piogge battenti di questi giorni, raggiungiamo le splendide cascate di Bujagali.

Dalla terrazza panoramica del ristorante, davanti ad una gustosa Talapia (pesce tipico del lago) assistiamo alla discesa degli spericolati gommoni sulle rapide del Nilo. Fanno da cornice aquile pescatrici, cormorani e uccelli di ogni genere: è un posto idilliaco! Alla sera però, improvvisamente, siamo invasi da milioni di strani insetti volanti, verdi, quasi trasparenti e con la coda a rondine. Sono ovunque, entrano dappertutto. Cerchiamo di difenderci con ogni mezzo, spruzziamo di tutto ma senza risultato.

Le cellule, irriconoscibili, ne sono completamente tappezzate.

Se dovessimo definire con un colore l’Uganda questo è senz’altro il verde. Foreste, coltivazioni di canna da zucchero, piantagioni di tè e poi banane… banane verdi ovunque. Sulle piante, nei mercati, ammonticchiate ai bordi delle strade, vengono trasportate con ogni mezzo: sulla testa delle donne, con i camion, spinte sulle biciclette traboccanti: su una ne contiamo ben 10 caschi!.

Sulla strada verso la capitale vediamo uscire dall’acqua di un fiume, dopo l’abbeverata, una numerosa mandria di bovini. Si differenziano dalle mucche nostrane per le enormi corna bianche a forma di lira che li sovrastano.

Superata Kampala ci dirigiamo verso il confine con il Ruanda, con l’intima speranza di vedere i famosi gorilla di montagna. Purtroppo la nostra rimarrà solo una speranza. I tempi di attesa sono di mesi e il costo è elevatissimo (US $ 250 a persona).

La strada per il lago Bunyonyi è molto suggestiva, intercalata da un susseguirsi di bancarelle di artigianato. A Kobale vediamo pelli di capra stese ad essiccare al sole. Saranno usate per i famosi tamburi il cui suono accompagnerà tutta la musicalità africana. Siamo in prossimità della Pasqua e rientriamo a Nairobi in tempo per incontrarci con Cristina, la figlia dei nostri compagni Lia e Luciano, che arriva dall’Italia per passare con noi un po’ di giorni. Durante l’attesa in aeroporto improvvisiamo la costruzione di un terzo letto che troverà posto nella loro “magica” cellula. Trascorriamo qualche giorno di completo relax sulle coste dell’Oceano Indiano: sabbia bianca, palme e sole ci fanno compagnia.

Finalmente il pesce entra nella nostra dieta: è freschissimo, appena pescato e venduto sulla spiaggia direttamente dai pescatori.

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Malindi è piena di italiani: i locali di pizza, pasta, caffè e cappuccino si sprecano. Ci fermiamo 20 chilometri a nord, al Che -Shale Club dove possiamo assaporare una deliziosa zuppa di granchio e ostriche della vicina barriera. Il tempo passa velocemente e Cristina deve già rientrare a Milano. All’aeroporto di Mombasa assistiamo a scene di addio “strappalacrime”: panzuti nonni bianchi sono accompagnati al check-in da graziose fanciulle nere. Abbiamo qualche dubbio sul rapporto di parentela e ci vengono alla mente scene analoghe già viste in alcuni aeroporti d’Oriente, frutto di un turismo non proprio culturale. Stiamo leggendo La Masai Bianca di Corinne Hofmann, una storia vera ambientata in Kenia. È strano essere negli stessi luoghi e vivere le stesse situazioni descritte nel libro. Anche noi sul traghetto Likoni, che unisce Mombasa alla costa meridionale, ci guardiamo attorno per vedere se incontriamo Lketinga, il Masai protagonista del libro. Percorriamo gli ultimi chilometri di strada asfaltata fino a Horohoro al confine con la Tanzania. Le pratiche doganali quasi inesistenti ci fanno subito apprezzare questo nuovo Paese.

Una pista di terra Una pista di terra Una pista di terra rossa attraversa la foresta di palme da cocco rossa attraversa la foresta di palme da cocco. .Alberi di mango, quasi sempre in coppia, creano Donne italiane in Kenia vaste zone d’ombra, luogo di incontro comune per la A Diani Beach, a sud di Mombasa, vive e gente del villaggio. Superata Tanga ci fermiamo al lavora una signora di Bolzano, proprietaria Peponi Lodge. Sono quasi sei mesi che siamo in dell’agenzia Gibran Safaris specializzata nella viaggio e ci accorgiamo di quanto siamo cambiati. visita ai Parchi. Nel lavoro si inspira alla Cose che fino a poco tempo fa davamo per scontate filosofia che vede la felicità della vita nella oggi ci sembrano delle conquiste: un parcheggio completa armonia del proprio io con sicuro e una doccia calda è tutto quello che l’ambiente circostante. Per questo, prima di chiediamo. Le giornate trascorrono tranquillamente: pensare al profitto, si preoccupa che ogni safari una visita al vicino villaggio di pescatori, una nuotata sia per i suoi clienti un'esperienza unica e sul reef e una cernia ancora viva che diventa indimenticabile. Riassume così, in due parole, la subito un ottimo sashimi. sua positiva esperienza di vita in Africa:" Nelle pozze di acqua trasparente che si formano con Dalle mele alle banane". Marzia viene da la bassa marea è facile intravedere polpi, grosse Milano. Con grande talento e capacità ha cipree tigris e qualche rara aragosta. saputo dare un tocco di eleganza e raffinatezza al Il tratto che da Tanga porta alla capitale è una delle Che-Shale Resort, a nord di Malindi. La più belle strade percorse fin qui. 350 km di puro cucina del ristorante è completamente a legna e piacere per la schiena, per i mezzi e per gli occhi. ogni giorno, da un insolito “scrigno Numerosi villaggetti senza nome attorniati da metallico” a forma di valigia, completamente palme, baobab, vegetazione e foresta. E poi ricoperto di braci, vengono sfornati pane e coltivazioni di sisal, perfettamente simmetriche dolci fragranti. Ma la sua creatività si esprime nella loro geometria di filari e sentieri. Dar as soprattutto nella creazione di originali gioielli, Salam è una graziosa città, vivace e piena di ora apprezzati anche in Italia, realizzati con vita. Lasciamo al sicuro le macchine e con un pietre semipreziose e materiali poveri riciclati, dalladalla (tipico trasporto locale) andiamo in sono confezionati dalle abili mani delle donne centro. Quando il pulmino arriva è già stracolmo di gente. Alcuni, a grappolo, sporgono pericolosamente Masai. all’esterno.

Siamo titubanti se salire, ma dalla calca, con un sorriso ci invitano ad entrare stringendosi per farci posto. Siamo gli unici mzungu (bianchi) e subito diventiamo l’attrazione di tutti. Preso il visto per il Mozambico, prima di rientrare in campeggio visitiamo al porto il mercato del pesce. Dai banchi puliti e ordinati ci offrono con orgoglio tutte le prelibatezze di questo ricco mare: gamberoni, aragoste, granchi, tonni e cernie freschissime, il tutto a prezzi irrisori. Dall’altro lato ci giunge un fumo denso e acre: è la “fucina” della frittura. Decine di padelloni neri sono appoggiati su altrettanti fuochi, alimentati da grossi tronchi. Le fiamme si alzano alte e scaldano l’olio color melassa. Sono ben organizzati, è quasi una catena di montaggio: chi pulisce il pesce, chi lo infarina, chi lo frigge e chi lo scola mettendolo a mucchietti a raffreddare sul banco. Andiamo sulle spiagge del nord alla ricerca dell’ “Isola che non c’è”. Noi l’abbiamo definita così. Si tratta di banchi di sabbia affioranti con la bassa marea, attorno ai quali abbonda una ricca fauna marina: alcionarie, madrepore e coralli di ogni specie e colore.

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La pericolosità di Dar as Salam, come di tutte le grandi città, è risaputa. Ne abbiamo una riprova quando siamo al Silver Sand Camp. Altissime recinzioni di filo spinato e ovunque cartelli che avvertono che la security è strettamente legata ai confini del Resort. Sconsigliano di allontanarsi se non con una scorta armata. Ci sembra eccessivo! In due nel pomeriggio andiamo sulla spiaggia per una passeggiata.

Ma è qui che subiamo la prima aggressione della nostra vita. Un ragazzo giovane e tarchiato, armato di coltello, ci intima di consegnargli l’orologio. È spaventato più lui di noi, ma decidiamo lo stesso di non reagire. Si tratta di un vecchio orologio di plastica da poche lire, ma sono troppi gli episodi di violenza in questi luoghi dove spesso la vita umana non ha alcun valore. Lasciamo la prigione a pagamento del Silver Sand diretti a sud. L’Africa non è solo violenza e restrizioni, ma anche libertà e spazi immensi.

Ad un tratto dal bush ecco spuntare, con il loro lento incedere, uno, due, tre…sei elefanti.

Sono le emozioni che questa generosa terra ti sa regalare e ti ricorda come doveva essere un tempo tutto il continente. Emozioni uguali a quelle che ti dà la vista di quegli enormi baobab che si ergono possenti ai bordi della strada. Immobili, tarchiati, con i “capelli” canuti sono lì come vecchi saggi a sfidare il tempo.

Migliaia, decine di migliaia, sono sparsi ovunque: sulle colline, in riva al fiume, lungo la pista che serpeggia tra loro quasi a scansarli. I tronchi grigi e lucidi ci sovrastano e incutono rispetto. Ai loro piedi scorre lenta e tranquilla la vita del villaggio.

Mbeya è la tipica città di confine. Tutti in movimento e decine e decine di piccoli negozi che vendono di tutto all’ingrosso. Percorriamo la pista di fango che da Ipinda conduce a Tukuyu, dopo aver tentato invano di raggiungere Matema sul lago Malawi. Ricordo grosse foglie di banano e taro usate dai bambini come ombrello, il verde tenue dei germogli delle piante di tè, il verde brillante e fresco delle foglie di banano ... E poi i colori sgargianti dei kanga, indossati dalle donne con naturale eleganza: con il loro portamento fiero sembrano regine accanto alle dignitose dimore, nascoste tra le piante di caffè e cacao.

Sembra che tutto d’un tratto sia arrivata la stagione delle piogge. Dense nubi nere cariche d’acqua ci fanno desistere dall’andare avanti. La macchina a tratti scivola nel fango, ma la trazione integrale ci facilita non poco. Fiumi di acqua rendono viscida la strada. Decine di biciclette, in precario equilibrio, avanzano disegnando nel fango continue serpentine per non cadere. Ma il fascino di questa strada ci ripaga ampiamente dalle fatiche fatte per arrivare fin qui.

IL VIAGGIO IN CIFRE

Giorni permanenza

KENIA 31

UGANDA 9

Km. totali percorsi

3.770

1.950

1.710

Km. pista e fuoripista

1.100

250

630

Valuta

1shK = € 0.0133

1 shU = € 0,0005

Prezzo gasolio

1 litro = € 0,66

1 litro

Visto ingresso

€ 50

€ 30

€ 20

//

€ 20

€ 25

Pratiche doganali

= € 0,75

TANZANIA 15

1 shT = € 0,000913 1 litro

= € 0,60

I nostri costi Campeggi Litri gasolio consumato

27 gg 494

7 gg 251

15 gg 216

Costo medio giornaliero

€ 28,9

€ 18,0

€ 15,2

(2 persone+auto)

+ visto e assicurazione

+ visto

+ visto

- -90 90- -

91- - -91

- -92 92- -

5 Malawi, Mozambico, Swaziland La dogana del Malawi è come dovrebbero essere tutte le dogane: semplice, veloce e a costo zero.

In questo primo tratto notiamo la grande differenza con la nazione appena lasciata: poche coltivazioni, pochi banani e poche mercanzie in vendita lungo la strada. Ci scontriamo subito con la difficoltà della lingua, il cicewa, per noi incomprensibile. Ma non ci perdiamo d’animo e prendiamo “lezioni” da un gruppo di ragazzi appena usciti da scuola. Ripetiamo a pappagallo mazukabuangi- mazukabuino e subito ridono divertiti per la nostra pronuncia.

Ad un tratto ecco il “mare” dal blu intenso con onde che si frangono sulla spiaggia di sabbia bianca.

Ma non è mare, bensì lago, un lago immenso di cui non si vedono i confini e che costeggeremo fin quasi al Mozambico. La strada che sale fino a Livingstonia, a 1.200 m di altitudine, è una pietraia unica con stretti tornanti che ci obbligano a pericolose manovre. Impieghiamo più di un’ora e mezza a percorrere i 15 km di sterrato per arrivare all’antica missione, ancora in funzione. Sull’altopiano è tutto un fiorire di case in mattoncini rossi, scuole e convitti. Il luogo era stato scelto dall’esploratore inglese Livingston (da cui poi il villaggio ha preso il nome) per il suo clima salubre e perché indenne da malaria.

Qui sorgono i più prestigiosi istituti tecnici, frequentati da ragazzi provenienti da tutto il Malawi.

Uno di loro si offre come cicerone e ci porta a visitare le aule: sono spoglie, disadorne e completamente prive di qualsiasi attrezzatura didattica. Ciononostante gli studenti ci appaiono pieni di entusiasmo e con una grande voglia di apprendere. Il panorama è superbo. Sotto di noi il lago, in lontananza le montagne della Tanzania e le verdi vallate che degradano fino all’acqua. “Cuore verde dell’Africa”. È così che il Malawi, ex Nyasa-land, viene definito dai suoi abitanti.

Ne abbiamo conferma al famoso Nyika National Park, grandioso nella sua bellezza scenica.

Ci inerpichiamo fino a quota 2.600 metri su di una bella pista. Ai lati morbidi ciuffi di pampas di un viola tenue, appena mossi dal vento, le fanno da bordura. Il sole filtra attraverso le nubi creando giochi di luci ed ombre sui verdi pianori. Una fitta foresta di larici ci avvolge completamente. I loro tronchi alti e dritti sembrano colonne di una cattedrale. Sul sentiero funghi e pigne, si stenta a credere che siamo nel centro dell’Africa. Solo la presenza delle zebre, ai bordi della foresta, ci risveglia da questo sogno alpino.

Dopo il violento temporale del pomeriggio, una volta al campo accendiamo il fuoco per scaldarci, con la vana illusione di tenere lontane le iene. Al mattino, aperta la porta della cellula, davanti a noi zebre, antilopi e gazzelle pascolano tranquillamente. Ci accorgiamo che durante la notte abbiamo avuto “visite”. Le nostre patate, lasciate a cuocere sotto la cenere, sono scomparse e il bidone dell’acqua è sventrato: la iena ha compiuto il suo misfatto!

La strada verso Nkata Bay è un trionfo di verde. Coltivazioni di tabacco, canna da zucchero e arachidi.

Piante e manghi enormi in alcuni tratti fanno letteralmente da volta al nastro d’asfalto. Modeste capanne sono ricoperte di paglia sfilacciata, quasi a formare una “parrucca”. Per chilometri attraversiamo una piantagione di caucciù, in piena produzione. Dai profondi solchi incisi sulla corteccia stilla il prezioso lattice, raccolto in piccoli contenitori di terracotta legati alla base del tronco. “Ingegnosi” bambini realizzano simpatiche palle in filamenti di caucciù, da vendere sulla strada ai pochi e sprovveduti turisti.

Noi ne acquistiamo quattro da regalare ai nipotini, ma dopo pochi giorni le troviamo afflosciate e completa- mente sgonfie. Una delle cose che più colpisce in Malawi è l’allegria e la cordialità della gente. È bello vederli salutare al nostro passaggio con gesti ben auguranti e il pollice alzato.

Due parole in cicewa, e sono subito grandi risate. Ci fanno sentire a casa. Se fosse possibile dirlo, qui la gente ha la pelle ancora più nera. Si può dire che l’ebano ha preso il posto del mogano.

Ritornati sul lago constatiamo gli ingenti danni che le abbondanti piogge della stagione appena passata hanno provocato. Il livello dell’acqua è cresciuto di oltre 2 metri cancellando e spazzando via molte delle strutture turistiche faticosamente costruite. I campeggi sono quasi tutti belli e di alto livello.

Ci fermiamo allo Steps Campsite di Senga Bay. Il prato arriva fino alla spiaggia, enormi macigni di granito dalle forme tondeggianti sono disseminati lungo il bagnasciuga. Le palme sono inclinate fino a sfiorare l’acqua: sembra proprio di essere alle Seychelles …(mai viste!) Verrebbe voglia di fare il bagno, ma non cediamo alla tentazione a causa della bilharzia degli ippopotami e dei coccodrilli presenti in queste acque. Non riusciamo invece a resistere all’artigianato del Malawi: sculture, cornici e sedie in legno in stile africano vengono abilmente intagliate con motivi di animali.

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Sono espertissimi anche nell'arte di lavorare la paglia. Macchinine, barche, elicotteri, valigie e cesti sono solo un piccolo esempio di quello che questi artisti della rafia riescono a realizzare. Sulla strada uomini a torso nudo con in mano i kuangia (tipo di falce africana) liberano i bordi dalla invadente vegetazione.

Snelle figure femminili, fasciate nei loro coloratissimi abiti, sfilano come modelle con in testa l’immancabile cesto.

A pochi chilometri dalla strada principale, all’ombra di alte e fitte canne di bambù, sorge Mua, una missione fondata dai Padri Bianchi. In cento anni di attività hanno saputo trasformare questo angolo di Africa da una intricata foresta ad un luogo di studio, lavoro ed arte. Sì, di arte, perché le sculture in legno che qui si producono sono veramente degne di nota. Incoraggiata dai missionari è stata creata una scuola di intaglio che riceve commesse di arte sacra anche da altri paesi africani. A Mua, sorge anche una scuola per sordomuti ed è sede di un importante museo etnografico, gioiello unico nel suo genere. Oggetti, riproduzioni, foto e didascalie danno un’ampia spiegazione degli usi e costumi locali. Simbolo del museo è il camaleonte perché come questo, che guarda con un occhio avanti e uno indietro, anche l’uomo deve saper guardare al futuro senza dimenticare le proprie radici e come il camaleonte che cambia colore deve sapersi adattare alle nuove esigenze.

Sono già le 15 quando lasciamo la missione, ma dobbiamo percorrere solo 70 chilometri.

Inaspettatamente però la strada per Monkey Bay si trasforma subito in una brutta pista. Dopo le grandi piogge sono crollati i ponti e siamo obbligati a tortuose deviazioni. Il buio ci sorprende, non conosciamo la strada e non abbiamo ancora trovato dove dormire. Sono le 19.30 e qui in Africa è già notte fonda..

Finalmente, illuminato dai fari, il cartello del Fat Monkey. Pensiamo di aver risolto i nostri problemi, ma improvvisa- mente ci troviamo dentro un villaggio, accerchiati da un numeroso gruppo di persone gesticolanti. Vediamo solo occhi e denti. Tutti gridano, si aggrappano alle portiere e ci danno indicazioni discordanti. Sono momenti di grande tensione e non è piacevole trovarsi in queste situazioni. Siamo quasi presi dal panico ma in qualche modo riusciamo a raggiungere il sospirato campeggio. Solo quando i cancelli si chiudono dietro di noi ci sentiamo sicuri e tiriamo un respiro di sollievo.

Al mattino ci rendiamo però conto che effettivamente la gente del villaggio voleva solo aiutarci!

Comunque tutti noi ci ripromettiamo di non partire più così tardi se non si conosce la strada. E che questo ci serva da lezione! L’ultima sera la passiamo a Blantyre, prima del confine. Una coppia di canadesi, con una macchina acquistata in Sud Africa, sta viaggiando in senso contrario al nostro. Ci scambiamo preziose informazioni e ci mettono in guardia sulla polizia del Mozambico: è molto assillante, ferma per un non nulla e inventa infrazioni… forse per arrotondare il magro stipendio. Con molta solerzia acquistiamo subito i 2 triangoli rossi obbligatori “omologati per il Mozambico”.

Appena varcata la dogana diventiamo degli autisti molto disciplinati, guidiamo in modo esemplare e rispettiamo tutta la segnaletica. Superiamo il ponte sospeso sullo Zambesi ed entriamo a Tete.

Due camion sono fermi ai lati della strada per qualche guasto. Vedendoli ci sorge qualche dubbio se abbiamo comprato i triangoli giusti. Quelli usati da loro sono verdi e non proprio geometrici: frasche, sassi e tronchi…i soliti triangoli africani! Incontriamo spesso la polizia. Solo in una occasione però ci intimano l’ALT. Noi fingiamo di scambiare il loro gesto per un saluto e, dopo esserci assicurati con una veloce occhiata che sono a piedi, ci allontaniamo ricambiando con ampi sorrisi e gesti della mano, guardando nello specchietto che non ci rincorrano.

La prima impressione che si ricava una volta entrati in Mozambico, ex colonia portoghese, è di grandezza e vastità. È meno abitata delle nazioni limitrofe con grandi distese verdi senza insediamenti umani. Le abitazioni sono poche e modeste: capanne circolari, tutte in paglia, hanno preso il posto delle case in muratura. Anche i vestiti sono logori e dimessi, in generale si denota subito un tenore di vita inferiore.

Ci imbattiamo in due campi di artificieri sminatori. Bisogna ricordare che fino a pochi anni fa in Mozambico si è combattuta una delle guerre civili che più hanno insanguinato l’Africa, paragonabile per atrocità e crimini a quella combattuta in Cambogia. Lavoro encomiabile e pericoloso quello degli sminatori. Pur- troppo gran parte del loro operato è stato vanificato e l’economia ha subito un duro colpo quando la terribile inondazione del 2000 ha riportato mine inesplose su terreni già bonificati, sottraendoli così nuova- mente all’agricoltura. La strada è bella, anche se spesso interrotta da lavori per il rifacimento del precario manto stradale. Facciamo sosta a Casa Msika, un gradevole campeggio in riva a una Dam, frequentato da pescatori sudafricani in cerca di grosse prede.

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Ci dirigiamo al mare. I primi 150 km di asfalto sono “a gruviera”: tante e tali sono le buche che ci fanno rimpiangere le piste di sabbia! Sfoggiamo tutto il nostro portoghese per contrattare un dow a motore che ci porterà sull’arcipelago di Barzaruto, nel canale di Mozambico. Con qualche obrigado e me desculpa riusciamo ad ottenere il prezzo desiderato. Il blu del mare è intervallato da strisce dorate delle sabbie emergenti. Dobbiamo navigare a zig-zag tra le secche perché solo con l’alta marea si può effettuare un percorso rettilineo. Poco più di un’ora e mezza di barca e siamo su una spiaggia bianca di origine corallina. Nella baia davanti a noi un branco di carangidi salta più volte fuori dall’acqua inseguito da un delfino e da altri predatori che intravediamo appena. Finalmente un po’ di snorkeling nella pass della barriera. Non sono certo i fondali del Mar Rosso ma è comunque sempre piacevole nuotare in un mare tropicale. Nel pomeriggio l’orizzonte si riempie di vele colorate, sono i dow dei pescatori che tornano.

Anche noi rientriamo a vela e fendiamo le onde senza sforzo. Il nostro skipper ingaggia una piccola gara con una delle barche. Ad un tratto un crac: si è rotto il timone! Ammainata velocemente la vela ci guardiamo con apprensione, mentre la barca oscilla pericolosamente. Per fortuna nel serbatoio c’è ancora un po’ di benzina (era stata calcolata solo per l’andata), e così raggiungiamo la costa con l’ausilio del motore.

Pomene, lembo di terra tra mare e fiume, è lontana e SAPORI D’AFRICA particolare. L’ultimo tratto dei 54 chilometri che servono a raggiungerla è una pista di sabbia attraverso una fitta foresta tropicale. La ricca vegetazione in La conoscenza di un Paese non può alcuni tratti forma veri e propri tunnel. Al nostro prescindere dalla conoscenza della sua cucina, passaggio miriadi di farfalle prendono il volo. Sono che ne è parte integrante e ne esprime abitudini e tante le farfalle in Mozambico e meritano attenzione. tradizioni. Per questo accantoniamo parte delle Ce ne sono di bellissime: piccole o grandi, ma tutte nostre riserve “in scatola” e ci addentriamo molto colorate. spesso nei mercati locali. Girare nei mercati in Un grande cartello avverte che la pista è solo per 4x4 Africa è sempre molto piacevole, è un tripudio e consiglia di ridurre la pressione delle gomme a 1,4 di colori, profumi e gente e permette di bar. Ma noi, dopo l’apprendistato sulle sabbie libiche conoscere meglio il loro stile di vita. del Murzuk, non ci facciamo impressionare e “senza sgonfiare” raggiungiamo con facilità il campeggio.

Gironzoliamo curiosi fra i banchi spesso Il bosco di larici è stato fortemente violentato attratti da prodotti a noi sconosciuti. dall’uragano del 2000. Enormi tronchi sono caduti in Chiediamo spiegazioni, assaggiamo un po’ mare e ora giacciono sradicati sulla spiaggia, dando titubanti ma quasi sempre rimaniamo soddisfatti alla costa un fascino “spettrale”. A piedi costeggiamo dai nuovi sapori. È d’obbligo la contrattazione, il fiume fino al suo sfociare in mare. Qui si apre arte nella quale dopo un po’ ci affiniamo. un’ampia distesa di sabbia, ricoperta di conchiglie I prodotti sono sempre stagionali, freschissimi e spiaggiate, dove vengono a infrangersi le alte onde di produzione locale. E così: in Libia ottimi oceaniche. Rimaniamo sorpresi quando ci viene spezzatini di cammello e bordin, falafen e kofta richiesto il pagamento del soggiorno in Rand di montone in Egitto, ‘njera in Etiopia, (moneta del Sud Africa). Ma poi guardandoci in giro saporitissimi ananas, papaie e manghi in Kenia ci rendiamo conto che il posto è frequentato solo da e Tanzania, game meat in Africa australe una clientela sudafricana. Lunghissime canne da diventano il nostro abituale menù. Per non pesca svettano su enormi imbarcazioni, trainate da parlare poi dei prezzi: un intero casco di banane potenti fuoristrada superaccessoriati. I pescatori, tutti in Uganda a solo mezzo euro; vongole di taglia extra large e di carnagione bianca, si grandiose, per dimensioni e gusto (introvabili da aggirano strafottenti a piedi nudi, con il cappello alla noi), e aragostine a un euro al chilo in texana, il telefonino e l’immancabile lattina di birra.

Proseguiamo lungo la costa e sostiamo a Morrungulo, Mozambico; gamberoni e filetto di manzo a sogno tropicale di ogni viaggiatore: mare, spiagge e meno di tre euro al chilo! La cucina come tutta palme da “cartolina”. Al pomeriggio i pescatori locali la vita in Africa è un momento comunitario e di torna- no a riva e, come d’abitudine, improvvisano aggregazione. All’aperto, su un fuoco di legna o l’asta del pescato direttamente sulla sabbia. La gente, sulle braci, i cibi vengono cotti alla griglia o fatti con le baci- nelle in mano, si chiude a cerchio attorno bollire lentamente nel tradizionale potjie ai mucchietti di pesce e inizia la contrattazione. (pentola di ghisa). Anche noi, adeguandoci alle Timidamente ci intrufoliamo anche noi e, con nostra usanze locali, ne acquistiamo uno e trascorriamo sorpresa, tutto si interrompe e ci aiutano a scegliere, le nostre serate davanti a questo. per primi, il pesce migliore.

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Raggiungiamo Inhambane percorrendo la bella strada litoranea fiancheggiata da estese piantagioni di palme. Ovunque mucchi di noci di cocco da cui viene estratta la copra. Tutto varia mentre andiamo al sud, gli standard qualitativi calano mentre i prezzi crescono. Anche i giovani sono diversi, più aggressivi e meno dolci dei loro coetanei del nord, frutto dell’influsso del benessere del vicino Sudafrica.

A Maputo, la capitale, siamo ospiti per alcuni giorni a casa di Stefania e Sandro, nostri amici italiani, “africani” da sempre. Alla sera attorno al tavolo ci fanno rivivere un po’ di calore familiare che ci manca ormai da parecchi mesi. La prima impressione della città è triste, appare sporca e degradata, ma visitando il centro, è piacevole e graziosa. Ha viali grandi e alberati, giardini e resti dell’architettura dell’antica colonia. In vendita sui marciapiedi splendide sculture in legno dalle forme bizzarre e particolari.

Il visto è di sole due settimane, che sono passate velocemente, e dobbiamo lasciare il Mozambico.

Lo Swaziland ha ben poco di Africa, se non per il colore della pelle dei suoi abitanti. È tutto un susseguirsi di colline e vallate, strade perfettamente asfaltate in mezzo a foreste di eucalipti e larici.

Nella Ezulwini Valley, la valle dei re, andiamo alla Riserva Naturale Mlilwane: un eden. Non ci sono animali pericolosi all’interno della riserva e questo ci permette di fare belle passeggiate tra giraffe, gazzelle e zebre. Nello Swaziland, contrariamente che nelle altre nazioni, è più conveniente fermarsi nei campeggi all’interno delle riserve. Questo grazie al programma governativo sui Parchi che cerca di scoraggiare, con la presenza dei turisti, il bracconaggio. La Signora in grigio, così viene battezzata da me la “struzza” dalle ciglia accattivanti che, ormai abituata alla presenza umana, trovi ovunque, "sculetta" altezzosa con la sua buffa andatura ed è interessata a qualsiasi cosa commestibile possa trovare; un rumore alla finestra ed il suo becco, privo di denti, te lo ritrovi se non stai attento anche in cellula.

Quando è in cerca di cibo inscena una specie di danza, muovendo collo e becco, quasi a dire: "Allora, mi dai qualcosa o no?" Anche il Hlane National Park ci riserva una grande sorpresa.

La presenza rassicurante di un ranger armato che ci accompagna ci permette di scendere dalle macchine ed avere un incontro davvero “ravvicinato” con una chita (ghepardo). Sembra in posa, ci avviciniamo guardinghi e scattiamo tranquillamente innumerevoli foto ricordo. Ma la nostra presenza la infastidisce e appena il felino si muove, mostrandoci i denti e gli artigli, è un fuggi fuggi generale.

Riguadagniamo velocemente le macchine, dimenticando il nostro ranger, che ritroviamo… già seduto in macchina! L’artigianato è bello e vario: sculture in soap stone, batik, vetri soffiati e candele…e che candele!. Realizzate completamente a mano, a forma di animali o geometriche con motivi e colori africani sono uniche e delle vere opere d’arte. Le Swazi Candles per noi donne sono una vera droga.

Ne compriamo a decine anche se le nostre cellule sono già straripanti di souvenirs. È quasi ora di pensare al rientro. Scartiamo l’ipotesi di tornare via terra (sarebbe troppo lungo e faticoso) e optiamo per imbarcare i mezzi sulla nave. Puntiamo verso il Sudafrica con destinazione il porto di Durban.

IL VIAGGIO IN CIFRE Giorni permanenza

MALAWI 12

MOZAMBICO 15

SWAZILAND 7

Km totali percorsi

1.550

2.350

1.100

520

450

130

1 Chwangia =

1 Metical =

1Emalangene =1Rand

Prezzo gasolio

€ 0.00934 1 litro = € 0,58

€ 0,0000357 1 litro = € 0,445

€ 0,13 1 litro = € 0,45

Visto ingresso

//

€ 35

//

Assicurazione

€ 20,5

€ 21,5

A discrezione

Pratiche doganali

€ 2,00

€ 3,75

//

Campeggi Litri gasolio consumato

11 gg 200

11 gg 315

6 gg 140

Costo medio giornaliero

€ 26,6

€ 23,3

€ 21,5

Km pista e fuoripista Valuta

(2 persone + auto)

+ visto

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6 Sudafrica - Lesotho Il Sudafrica è terra di grandi contrasti e di grandi uomini che con il loro operato hanno influenzato non poco il corso della storia. Sudafricano era Christian Barnard, autore del primo trapianto di cuore.

Ghandi, dopo essersi laureato in Legge a Londra, ha esercitato la professione di avvocato a Durban e qui, vittima dei pregiudizi razziali, è nata la sua vocazione politica. Che dire di Nelson Mandela che è una pietra miliare nella storia dell’apartheid.

L’impatto con questa vasta nazione è soft. È un Paese comodo e facile, non sembra neppure di essere in Africa: tutto pulito, tutto curato, tutto abbondante. Lasciati i mandarini del Mozambico (tajarinas) venduti a terra lungo la strada, qui sembra di essere nel paese del bengodi. Nei supermercati si trova di tutto: gli scaffali sono stracolmi di ogni ben di dio e con “avidità” riempiamo i nostri carrelli di prodotti che per mesi sono stati solo un sogno.

Anche il modo di fare la spesa è cambiata. La contrattazione, quasi d’obbligo negli altri paesi africani, qui non esiste; i prezzi sono fissi e si paga con la carta di credito. Solo nei campeggi riusciamo a ottenere qualche sconto: ci applicano….la tariffa da pensionati. Forse siamo davvero invecchiati! Il Kruger National Park è uno dei più importanti ed estesi Parchi dell’Africa. È bello e ricco di fauna, anche se le strade asfaltate e la segnaletica quasi autostradale anche sui sentieri ne fanno perdere un po’ lo spirito wild. La vegetazione è fitta e si fa fatica a vedere gli animali di cui il Parco è ricco. Noi siamo fortunati e vediamo in abbondanza “comuni” gnu, gazzelle e facoceri. Una iena che amorevolmente allatta i suoi piccoli ai bordi della tana ci fa dimenticare la sua triste fama. Girando per tre giorni all’interno del Kruger incontriamo anche i grandi animali: giraffe, ippopotami, elefanti e ben sei leoni che avevano appena catturato un bufalo. E poi rinoceronti che si aggirano tranquillamente fuori dal bush.

Lasciamo quest’oasi della natura e costeggiamo per lunghi tratti ampie distese di piante grasse dai vistosi fiori rossi a candelabro. Sono le Aloe Ferox, piante indigene e protette usate anche in campo medicinale e cosmetico.

“Piccolo regno del cielo” così è definito il Lesotho, grande quanto il Belgio, incastonato come un gioiello tra alte montagne e completamente circondato dal Sudafrica. Da Maseru, la capitale, le strade, per la maggior parte piste, si snodano tutte tra i 1.200 e i 3.000 metri. È un continuo saliscendi con curve strette e tornanti. Dobbiamo superare numerosi passi in cima ai quali cumuli di neve ancora ghiacciata ci obbligano a inserire le ridotte. Dall’alto del Blue Mountain Pass si apre la vista spettacolare sulle Maluti Mountains. Nelle ampie vallate sottostanti, ancora in veste quasi invernale, domina il rosa intenso dei peschi in fiore. Qua e là spuntano i tetti di paglia delle capanne in pietra di forma circolare. Nonostante le difficoltà ogni lembo di terra possibile viene terrazzato e coltivato con grande fatica. A queste altitudini le temperature sono molto rigide. Le poche persone che incontriamo sono tutte avvolte in coperte di lana, dai passamontagna si intravedono solo gli occhi. Si muovono prevalentemente a cavallo, unico mezzo di locomozione possibile in questo territorio impervio. La povertà è tangibile, tutti chiedono qualcosa, ma con una dignità e gentilezza sconosciuta in altre nazioni. L’industria del turismo è ancora agli esordi.

Solo negli ultimi anni, il miglioramento delle strade per la realizzazione del grande Progetto Idrico (di notevole importanza per l'economia del Lesotho), ha dato un nuovo sviluppo al nord del paese.

Anche l’artigianato è semplice e modesto. Direttamente da una cooperativa di donne acquistiamo un tipico cappello basotho, dalla forma particolare e bizzarra, che farebbe la gioia di qualsiasi collezionista.

La diga che forma la Dam di Katse, con i suoi 180 metri di altezza, è una grande opera di ingegneria, nella cui costruzione gli Italiani hanno avuto un ruolo molto importante. Qui il ricordo lasciato dai nostri connazionali è ottimo, e forse anche per questo ci riservano una calorosa accoglienza. Ci invitano a visitare la diga (per noi fino ad oggi solo un muro di cemento) e invece al suo interno scopriamo chilometri di cunicoli e gallerie, disseminate di sensori e strumenti elettronici per il monitoraggio continuo della sua "salute”.

Dormiamo a 3.000 metri nel parcheggio della Bokong Nature Reserve, affacciato a strapiombo su una profonda falesia. Il cielo sembra più vicino qui e la luminosità delle stelle, per la totale assenza di inquina- mento, è altissima. Su queste montagne cresce un raro tipo di Aloa, pianta grassa endemica dalla forma insolita e particolare: le foglie dal centro verso l’esterno si aprono a formare una perfetta spirale.

Ci inerpichiamo a fatica, rimanendo a lungo in quota, su di un tratto che ha fama di essere il luogo più freddo, arido e sperduto del Lesotho. Sembra di rivedere le immagini degli altipiani del Nepal e del Pakistan.

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Costeggiando il fiume Senqu dalle acque limpide e trasparenti, attraverso uno scenario aspro e spettacola- re, arriviamo al Sani Pass (2.874 m). Passiamo la notte in cima al passo mentre forti raffiche di vento scuotono violentemente le nostre cellule. Al mattino è tutto avvolto da una fitta nebbia.

Facciamo dogana per rientrare in Sudafrica e iniziamo la ripidissima discesa sulla pista permessa solo ai 4x4. Come d’incanto le nubi si dissolvono e lasciano intravedere un panorama selvaggio ed emozionante.

Contro il cielo blu, illuminate dal sole, si stagliano le catene montuose del Drakensberg, interamente ricoperte da un tappeto verde. Sotto di noi la pista si snoda tortuosa fino al fondovalle.

"Sawubona". È con questo saluto che ci accoglie il “ Popolo del Paradiso” nello Zululand, terra di folklore, costumi e tradizioni. Siamo a Nongoma per assistere alla tradizionale Reed Dance, che ha luogo nella residenza reale. Nonostante la giornata sia fredda e piovosa la cerimonia si svolge regolarmente.

Rimaniamo stupiti e sconcertati nel vedere migliaia di ragazze vestite di sole perline - praticamente nude che, intirizzite e tremanti di freddo durante l’attesa, si esibiscono poi radiose e sorridenti in onore del loro re, addobbato solo con pelli di leopardo.

Siamo gli unici turisti e, accordandoci i favori riservati ai VIP, ci introducono a corte come “inviati speciali” (…non ce ne voglia la categoria!) e ci presentano a ben due re contemporaneamente.

Per l’occasione infatti è presente anche il re dell’Uganda.

Le ragazze si avvicinano alle macchine e ci chiedono di essere fotografate. Al nostro consenso, con disinvoltura ed estrema naturalezza si spogliano davanti a noi per indossare il costume “di perline”: il senso del pudore qui è molto diverso che da noi! L’artigianato nello Zululand merita un discorso a parte.

Le perline nella cultura Zulu sono sempre state oltre che motivo di ornamento anche forma artistica.

Con disegni e colori esprimono un linguaggio completo spesso legato all’amore. Il talento degli artisti Zulu si esprime appieno anche nella realizzazione dei tradizionali cesti. Sono diversi per forme e dimensioni e destinati a molteplici usi. La geometria dei disegni, l’accostamento dei colori e la raffinatezza dell’esecuzione danno significato all’oggetto rendendolo unico. In ogni cesto è possibile leggere la storia di chi lo ha realizzato. Durban con le sue strade, le sue banche e i suoi grattacieli non dà più l’idea dell’Africa vista fin qui, sembra piuttosto il simbolo di una nazione avanzata che tende allo sviluppo sui modelli dei paesi occidentali.

Parcheggiamo in centro davanti all’ex stazione ferroviaria, ora sede dell’Ufficio Turistico: marmi, documentazione e gentilezza da fare invidia a qualsiasi ufficio similare europeo.

Una delle nuove occupazioni qui in Sudafrica è il “parcheggiatore abusivo”. Robert per pochi spiccioli ci guarda la macchina e ci assicura che, se dovesse arrivare la polizia, inserirà la monetina nel parchimetro. Saputo da dove veniamo con estrema ingenuità domanda quante ore ci abbiamo impiegato e, alla nostra risposta che siamo turisti in giro da mesi, ci chiede interessato come si fa a “diventare turisti”.

La pesca è uno degli hobby più diffusi in tutto il Paese. Pescatori di tutte le età, armati di canne, lenze e mulinelli già dal primo mattino riempiono le spiagge.

Royal Reed Dance Una delle più animate e festose ricorrenze nel calendario della cultura Zulu è la Royal Reed Dance che si svolge annualmente a Nongoma alla residenza del re Goodwill Zwelithini.

Più di 5.000 ragazze, tutte di età fra i 13 e i 18 anni, sono invitate da ogni angolo della regione ad unirsi alla cerimonia che celebra il loro ingresso nell’età adulta.

Vestite solo di un succinto perizoma di perline colorate e con la principessa in prima fila, avanzano cantando e ballando. Reggono in mano lunghe canne, tagliate per l’occasione, che ondeggiano al ritmo della danza .

Gli uomini, vestiti di pelli di leopardo, addobbati con penne, piume e collane di artigli di leone, alla presenza del re mimano, con lance e scudi, rituali di guerra.

Una volta giunta al cortile reale, la principessa si inginocchia davanti al re e gli consegna il suo bambù che andrà a sostituire quello ormai secco dell’anno precedente.

Intanto anche le ragazze depongono i loro bastoni, che saranno poi utilizzati nella costruzione di una nuova dimora.

Sono due giornate di grande festa, alla presenza di tutte le autorità: banchetti, musiche e danze a cui tutti sono invitati.

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Tutti, sardine all'amo, si danno un gran da fare a…"dar da mangiare ai pesci": infatti ci sembra che siano più i chili di pesce usati come esca, che non quelli realmente pescati! Ci dicono che qui al sud ogni anno, tra i mesi di giugno e luglio, ha luogo la sardine run. La corrente calda di Agulhas che va verso il Mozambico porta con sé milioni di sardine che dalle profondità oceaniche, a banchi risalgono in superficie. Al loro seguito, attratti da questa “manna del mare”, arrivano numerosi anche delfini, balene, squali e predatori di ogni genere mentre dall’alto, oscurando completamente il cielo, interi stormi di uccelli si tuffano nell’acqua per unirsi alla mattanza. È un vero spettacolo che ogni anno attira sulla costa gente da tutto il paese. Le sardine, per sfuggire ai predatori, si buttano a riva dove vengono raccolte con ogni mezzo: reti, cassette, secchi, mestoli e persino con le mani. Nella frenesia generale anche grossi pesci e squali, per inseguire le sardine, finiscono arenati sulla spiaggia. È una febbre che contagia tutti; con chiunque si parli l’unico argomento sono le sardine. Anche noi ci fermiamo ad aspettarle per una settimana. Purtroppo quest’anno, per la prima volta, a causa della temperatura troppo elevata dell’acqua, il fenomeno non si è verificato.

Andiamo verso l’interno per salire allo Swartberg Pass. La giornata è radiosa e bianche nubi ristagnano sulle cime più alte. Forme bizzarre di sedimentazioni geologiche hanno disegnato gli strapiombi e le val- late circostanti. Una ricca varietà di fynbos è radicata alle pareti rocciose. La strada panoramica T1 che va verso Alexandria è un susseguirsi di fiumi, baie e splendide insenature. A Malgas attraversiamo un corso d’acqua sull’ultimo traghetto a trazione umana ancora esistente.

Intorno colline verdi, tutte a pascolo, de- gradanti verso il mare. Qui sono concentrate numerose farm che allevano bovini. Sembra un paesaggio irlandese o della Nuova Zelanda.

(34° 49. 980 S 19° 59. 990 E): Cape Agulhas, denominato anche Diaz Point, punto di incontro dei due oceani, Atlantico e Indiano. È qui che nel 1488, il navigatore portoghese Bartolomeo Diaz coronò il sogno di raggiungere e scoprire il punto più meridionale dell’Africa. Ed è qui che anche noi coroniamo il sogno di aver attraversato con i nostri mezzi tutto il continente africano.

Attraverso verdi praterie e campi in fiore, eccoci ad Hermanus. Il Sudafrica è uno dei pochi paesi al mondo dove è ancora possibile ammirare le balene da riva.

L’emozione è forte quando, passeggiando sulla spiaggia, una grossa sagoma nera attira la nostra attenzione: è il dorso Gli struzzi di Oudtshoorn di una balena venuta in queste acque ad allevare il suo piccolo. Ammiriamo a lungo le evoluzioni dei due cetacei. Ne Oudtshoorn, nel Little Karoo, è stata la capitale mondiale seguiamo l’affioramento, gli spruzzi, i salti e ne vediamo a lungo degli struzzi.

Dopo la I guerra le enormi dimensioni. Un’alta colonna d’acqua ed ecco che mondiale qui ne venivano allevati la possente coda si arcua, si innalza, rimane a lungo più di 700.000. Grazie agli ingenti sospesa per poi inabissarsi con una perfetta armonia. profitti gli allevatori erano definiti La litoranea che costeggia False Bay è spettacolare: fiori e pareti a picco sul mare. Dall’altra parte della baia si intravede la penisola del Capo. L’ingresso a Cape Town è moderno e avveniristico: un intreccio di autostrade a più livelli, alti palazzi e centri commerciali. L’ingresso a Cape Town è anche un pugno nello stomaco: una palizzata di cemento, lunga chilometri, fiancheggia la nazionale nr 2.

Racchiude la township (bidonville): un agglomerato di povere baracche di lamiera e cartone, ammassate una all’altra. Non vi sono strade tracciate ma solo stretti sentieri fangosi che attraversano questo mondo di povertà, di violenza e di miseria. È deprimente vedere come oggi, nel 2003, possano esistere ancora queste condizioni di vita.

“baroni delle piume”. Ancora oggi nella zona gli allevamenti sono fiorenti e l’attività è redditizia.

Dello struzzo viene utilizzato tutto: uova, carne, pelli e piume. Un solo uovo equivale a 24 uova di gallina ma il suo contenuto in colesterolo è il 70% in più, mentre le sue carni ne sono quasi completamente prive. Sono velocissimi nella corsa, possono raggiungere anche i 70 km/h e per questo vengono organizzate vere e proprie gare.

Nonostante la parità dei diritti, e nonostante la differenza razziale sia stata definitivamente abolita (almeno dalle leggi), permane ancora l’enorme differenza di potere economico. È una nazione a due velocità e a due colori: i bianchi detengono denaro e ricchezza, i neri solo braccia per lavorare.

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Ma non si può parlare di apartheid senza ricordare Nelson Mandela, premio Nobel per la pace nel 1993.

Nella tristemente nota Robben Island (al largo di Città del Capo) ha trascorso i suoi 26 anni di prigionia.

L’isola è stata per molti uomini luogo di segregazione e di umiliazione, ma anche fucina di pensieri, voglia di vivere e di libertà. È qui che è continuato il movimento per l’uguaglianza tra le razze che ha portato Mandela, all’età di 76 anni, dalla prigione alla presidenza della nazione.

Il “vino” è una voce importante nell’economia del Paese, di qualità e concorrenziale anche sul mercato mondiale. Stellenbosch, sulla strada del vino, è molto graziosa con le sue case antiche in stile olandese.

Attorno prolificano vigneti e cantine gestite da una attenta conduzione manageriale, probabilmente facilitata anche da una manodopera nera, numerosa e a basso costo. La Penisola del Capo, con i suoi panorami e la sua rigogliosa vegetazione, ci incanta e merita forse da sola un viaggio in Sudafrica.

Il fynbos del Capo è il più ricco e vario del mondo: fiori, cespugli, piante e su tutto spicca la Protea , fiore emblema del Sudafrica. A Boulder’s Beach in una baia prospiciente il mare cristallino, delimitata da enormi massi di granito rosa, vive la numerosa colonia dei pinguini del Capo. Come tanti piccoli ”camerieri in frac” si muovono con la loro buffa andatura ciondolante, richiamandosi con un verso che ricorda il raglio dell’asino. (34° 21’ 25” S 18° 28’ 26” E) Good Hope Cape – Capo di Buona Speranza: pareti a picco sul mare, uccelli di ogni specie e onde gigantesche che si frangono.

Finalmente dopo 8 mesi ecco davanti a noi il Capo: cin cin… 4 calici si alzano!! Otto mesi difficili da descrivere e anche, a tratti, da ricordare. Tante sono state le emozioni, tanti gli incontri e le domande che ci siamo poste. Impossibile fare un’analisi di tutto il “visto e il vissuto” di questo viaggio, ma sicuramente è un’esperienza che rimarrà in modo indelebile dentro di noi.

CapeTown ha fama, e a ragione, di essere una delle città più belle del mondo. Ampie spiagge, niente smog, poco traffico e tante zone verdi: in centro c’è persino un campo da golf! Città vivibile e tranquilla dove, come del resto in tutto il Sudafrica da noi visitato, non si percepisce quella tensione che pensavamo di trovare.

In una calda e tersa giornata di sole, degna di un inverno sudafricano, saliamo sulla Table Mountain.

Da questa altezza di oltre 1.000 metri la vista spazia da Robben Island a False Bay e giù fino al faro del Capo. La funivia è piena di turisti e di gente locale. A fatica e con “furbizia latina”, con le nostre macchine fotografiche guadagniamo la postazione migliore davanti all’unica finestra aperta. Appena la funivia parte inquadriamo e nel mirino il panorama si trasforma in una maniglia e in un palo!

Ci guardiamo increduli: la finestra scorre lateralmente. Macché, siamo noi che giriamo! Con una risata generale scopriamo che la cabina ha il “pavimento rotante” per permettere una visuale a 360°. Eh sì, il “diritto alla finestra” qui è proprio uguale per tutti.

Una volta doppiato il Capo il paesaggio muta radicalmente. Per l’influenza della corrente fredda del Benguela la costa ovest è più arida, desertica e meno abitata. Anche la fauna marina è cambiata e a queste temperature sopravvivono solo pesci e molluschi di grossa taglia. Mossel Bay (il nome è proprio azzeccato) è interamente ricoperta da cozze lunghe anche una spanna!

Ogni anno nel Namaqualand, o “giardino degli dei” come viene chiamato, in primavera si rinnova il miracolo della fioritura. Un tappeto di milioni di piccoli fiori variopinti ricopre, per 200 km da nord a sud, il paesaggio altrimenti desertico. È un’esplosione di profumi e colori che non ha eguali al mondo.

Quest’anno le precipitazioni sono state scarse e purtroppo questo grandioso evento si è verificato solo in parte. In compenso abbiamo potuto ammirare in tutta la loro bellezza la varietà delle succulente (piante grasse), che qui sono in grande concentrazione durante i periodi di siccità.

Il deserto del Kalahari si estende tra Sudafrica, Namibia e Botswana. La pista di sabbia che conduce al Parco, grande due volte il Kruger, é scorrevole, veloce ma insidiosa: ti induce a correre per poi tradirti alla prima curva. Avevamo grandi aspettative sul mitico Kalahari, sia per i documentari visti che per le letture fatte. Le sabbie rosse sono cosparse di bassi arbusti e grandi acacie sono un po’ ovunque.

Ci aspettavamo un deserto invece troviamo la savana. Costeggiamo il lungo wadi asciutto, disseminato di pozze artificiali, alla ricerca di animali. Vediamo prevalentemente l’onnipresente orice, qualche gnu e poche gazzelle. Il famoso leone nero, presente solo qui, per noi rimane un miraggio.

L’insieme è sicuramente suggestivo ma, da “viaggiatori viziati” quali siamo, ci saremmo aspettati qualcosa di più spettacolare. Abbiamo viaggiato per mesi e raggiunto la meta, ma è ancora tanta in noi la voglia di andare avanti e di scoprire cosa c’è “dietro l'angolo”. Decidiamo di proseguire. La Namibia ci attende.

103- - -103

Giorni permanenza

SUDAFRICA 80

LESOTHO 5

Km. Totali percorsi

10.400

630

2.000

240

Km. Pista e fuoripista Valuta Prezzo gasolio Visto ingresso Assicurazione Pratiche doganali

1 Rand = € 0,13 1 litro = € 0,47 // // //

1 Maloto = 1 Rand € 0,13 1 litro = € 0,47 // // //

I nostri costi Campeggi Litri gasolio consumato

80 gg 1.340

3 gg 98

Costo medio giornaliero

€ 26,9

€ 17,4

(2 persone + auto)

- 104 -

105- - -105

- -106 106- -

7 Namibia - Botswana - Zimbabwe La pista che dal confine sudafricano conduce a Keetmanshoop la percorriamo tutta d’un fiato. Sono 200 km quasi privi di toule che ci permettono velocità sostenute. In tutto il tragitto incontriamo solo 3 macchine! Il paesaggio è desertico con enormi cumuli di massi. Questo è il regno della Aloe di Chotoma, detta anche “albero faretra”. I popoli San un tempo usavano infatti i suoi rami, robusti e leggeri, come contenitori per le frecce. Col nome di Giant’s Playground è indicata una delle bizzarrie della Namibia: migliaia di macigni in bilico uno sull’altro, esempio degli sconvolgimenti geologici che ha subito questa terra.

Con una pista tra montagne da una parte e il Fish River Canyon dall’altra raggiungiamo Ai–Ais, in lingua nama “caldo che scotta”. L’oasi è incastonata sotto le vette del canyon, contornata da palme e tamerici. Piscina calda all’aperto e terme, luogo ideale per due giorni di relax. Non ci sembra vero, nella cucina comune ci sono ben tre forni. Non ci lasciamo sfuggire l’occasione e, utilizzandoli tutti e tre, alla sera sforniamo pizzette, pasta gratinata e agnello con patate: un menù da leccarsi i baffi! Il panorama è davvero superbo: cielo blu brillante, strada bianca e montagne rosse. Un altro quadro da incasellare nella memoria. Lüderitz, cittadina in stile bavarese, si affaccia sulle gelide acque dell’oceano. Nelle vicinanze la città fantasma di Kolmanskop che ha visto il suo splendore agli inizi della corsa ai diamanti. Da qui si estende lo Sperrgebiet, zona rigorosamente inaccessibile perché diamantifera. È domenica ed entriamo in una chiesa cattolica per una breve preghiera. Sull’altare il sacerdote, vestito con paramenti verdi, sta “recitando” l’omelia, con una gestualità e una mimica che ci rapiscono. Come un attore consumato usa toni di voce alti e bassi o addirittura in falsetto, fa pause ben dosate e si muove avanti e indietro come sul palco. Un vero istrione. Non capiamo neanche una parola, ma restiamo a lungo incantati a guardarlo, mentre i fedeli non riescono a trattenersi dalle risate. Qui anche la funzione religiosa è vissuta con grande allegria in stile africano. Kaiser Wilhelmstrasse – Gasthof – Würstel e Brezel....sembra di essere nella “ grande” Germania! Ancora oggi in Namibia c’è l’impronta dell’ex colonia tedesca. Christine con disinvoltura ci dà subito prova del suo fluente tedesco. Ma la lingua degli ex colonizzatori qui è stata quasi completamente dimenticata, la sentiamo parlare solo a Windhoek, la capitale, e in poche occasioni.

Riceviamo “visita parenti”. Silvana e Tiziano, arrivati dall’Italia, con un Toyota pick-up camperizzato preso a nolo viaggeranno con noi per un mese. Affidandoci alla indubbia capacità organizzativa di Luciano e alla sua insaziabile sete d’avventura (il look di questi giorni gli dà l’aspetto di un grande esploratore dell’800!) prepariamo il giro di Namibia – Botswana – Zimbabwe. Con i tre Toyota in fila, distanziati per l’enorme polverone che si solleva dalla pista, attraverso un panorama spettacolare raggiungiamo il deserto del Namib, uno dei più antichi e aridi del mondo.

Al mattino presto attraversiamo il gate del Parco e su una strada asfaltata ci inoltriamo verso l’interno.

A seconda dell’inclinazione del sole nelle varie ore del giorno, le dune assumono colorazioni diverse con sfumature che vanno dal rosa, al giallo, all’albicocca, fino al rosso intenso del tramonto.

Sono dune mobili che si spostano e si modellano a seconda del capriccio del vento. Non sono però le smisurate dune della Libia, sulle quali si può spaziare e correre a piacimento. Queste sono dune inavvicinabili in macchina, raggiungibili solo dopo una lunga marcia a piedi. Ad eccezione di Dune 45, a 45 km appunto (…che fantasia) da Sesriem, ai piedi della quale si può almeno parcheggiare!

Camminiamo per oltre due chilometri su piccole dune fino ad arrivare alla depressione asciutta di Hidden Vlei. Il fondo è di un bianco abbagliante circondato da dune di sabbia arancione. Pezzi di tronchi contorti emergono come fantasmi dando al luogo un aspetto surreale. Sono i resti di una foresta ultracentenaria.

Qui finisce l’asfalto e i 5 km di pista che vanno a Sossusvlei mettono a dura prova chi ha poca dimestichezza con la sabbia. Noi la percorriamo in velocità e siamo obbligati a fare slalom per evitare le macchine insabbiate.

Dopo una breve sosta a Dune 7 ( a”7 km” da Swakopmund ) ci dirigiamo verso la Welwitschia Drive.

Costeggia la valle della luna ed è affascinante con le sue distese di campi di licheni. Quasi invisibili ad occhio nudo, sembrano concrezioni o residui legnosi e invece basta bagnarli con poche gocce d’acqua e, nel giro di pochi secondi quasi per miracolo, si rivitalizzano e cambiano colore, trasformandosi da neri stecchi a morbide foglie verdi.

107- - -107

Qui cresce anche la welwitschia mirabilis, una rarità botanica ritenuta la pianta più antica della terra.

Ne vediamo un esemplare di oltre 2.000 anni. Spitzkoppe: un nome, un luogo, una montagna.

Tra dedali di pietre, Calciti, quarzi, ametiste, tormaline, cristalli trasparenti e puri, perfetti nella loro cristallizzazione. La montagna è famosa anche per i suoi minerali.

Magia delle forme, dei colori e delle ombre. Una grotta, usata un tempo come riparo dalle popolazioni San, con resti di pitture rupestri ci richiama alla mente gli antichi Boscimani. Ai piedi della rupe due notti, due fuochi sotto una grande volta stellata: questo è lo Spitzkoppe. A Cape Cross, intabarrati nei nostri piumini e sotto un cielo plumbeo, ci avviciniamo alla colonia di oltre 80.000 otarie. Le sentiamo prima ancora di vederle, sia per il loro “puzzo” che per i loro versi. Buffe, simpatiche con i loro musi baffuti, stanno pigramente sdraiate sulla spiaggia o giocano tra le onde. Qui dal 1° aprile al 15 novembre tutte le mattine uomini vanno sulla spiaggia e, armati di coltello da macellaio, uccidono quasi 200 otarie.

Le pelli vanno a rifornire il mercato europeo, le carni vengono spedite a Taiwan mentre i genitali, dal dubbio potere afrodisiaco, vengono esportati verso i mercati asiatici.

Vento e desolazione: è il Miglio 108, porta di accesso alla Skeleton Coast. Dopo il parabrezza scheggiato da un sasso, oggi ben due forature. Le gomme sono ormai “alla frutta!”. D'altra parte dopo 82.000 km non potremmo pretendere di più. Con un pallido sole offuscato dalla nebbia questo tratto di costa è affascinante: c’è un’aria da fine del mondo che fa apparire “unica” anche una semplice spianata di sabbia e sassi. Non ci è consentito andare oltre Torra Bay, nella parte più remota della costa, dove è ancora possibile vedere i relitti degli antichi naufragi.

La macchia verde di Twyfelfontein è un’oasi nel deserto. Facciamo una piacevole passeggiata nel bush a caccia di immagini, quando avvistiamo una numerosa famiglia di elefanti. Ottima occasione per fotografarli da vicino. Inquadriamo per un primo piano ma … ci sembrano “troppo vicini”! Il capo branco non ha gradito e ci sta caricando. Incuranti della preziosa attrezzatura, che sbatacchia da tutte le parti, scappiamo a gambe levate. Meta di oggi è Opuwo, nel Kaokoland, la zona più remota e primitiva della Namibia. Gli incontri con le etnie sono sempre interessanti. Nonostante siano popolazioni con usi e costumi diversi condividono lo stesso territorio e a volte persino lo stesso villaggio. Sembrano dimenticate dal tempo e dal progresso. Incontriamo prima un gruppo di Okaukeyo e poi gli Himba.

Si distinguono subito per il colore della pelle. Pur essendo entrambi seminudi i primi sono neri mentre gli Himba, dal corpo color ocra per l’impasto di terra e grasso animale con cui si ricoprono, ci ricordano tanto gli Hamer dell’Etiopia. Diamo loro fiammiferi, tabacco, riso e zucchero e riceviamo in cambio un braccialetto, smaglianti sorrisi e tanta gratitudine. Possiamo fotografarli senza l’assillo dell’”obolo” obbligatorio. È difficile comunicare, ma un sorriso e lo sforzo di capirsi valgono più di mille parole.

Questa è anche terra degli Herero. Le donne nei loro ampi costumi colorati e con gli esagerati copricapo a due punte ci appaiono come tante dame del‘700. Dopo 200 chilometri di terra e polvere si arriva a Epupa Falls in mezzo a un fitto palmeto di makalane. Dai loro semi, detti anche avorio vegetale, vengono realizzati simpatici ciondoli. In questo punto il fiume Kunene, che segna il confine con l’Angola, si getta in un profondo crepaccio sulle cui pareti crescono enormi baobab, formando una cascata bella e suggestiva, alta 60 m. La strada che da Opuwo va a Oshakati si può riassume con le prime tre lettere dell’alfabeto: ABC A

per la smisurata quantità di Asini che incontriamo.

B

per il grande numero di Bar e Bottle store dai nomi fantasiosi che fiancheggiano la strada

C

per l’enorme dimensione dei Cesti che vengono intrecciati, ci vogliono 3 persone per cingerne uno

L’Etosha (letteralmente “grande luogo bianco dell’acqua asciutta”) è un grande Parco ricco di animali.

A fine giornata contiamo più di 100 giraffe, 45 elefanti e innumerevoli orici e gazzelle.

Alla sera punto di attrazione sono le pozze illuminate. Nella penombra vediamo arrivare all’abbeverata prima 7 elefanti e poi 4 rinoceronti. Due di loro si appartano e si scambiano effusioni muso contro muso, anzi corno contro corno, nel tentativo di compiere l’atto più antico del mondo… “l’amore”.

- -108 108- -

Purtroppo per loro il tutto si conclude con un nulla di fatto. Sul più bello vengono disturbati: quattro iene sbucando dal buio si avvicinano a bere e i rinoceronti rimangono a bocca asciutta e…scornati!

Lasciamo la Namibia con le sue sconfinate distese che dovrebbero dare un senso di infinito e di libertà, invece tutto è "obbligato", "costretto", "delimitato". Migliaia di chilometri di recinzioni di filo spinato, che racchiudono apparentemente il nulla, percorrono tutto il paese e ti fanno sentire come avviluppato in una grande ragnatela. Entriamo solo per due giorni nello Zimbabwe. La situazione critica del paese e la difficoltà di reperire il carburante ci sconsigliano dal fermarci più a lungo.(…chissà se i francesi incontrati in Etiopia hanno ancora la loro farm?)

Visitiamo le Victoria Falls sul fiume Zambesi che divide lo Zambia dallo Zimbabwe. Imponenti e grandiose, le cascate Vittoria non potrebbero essere definite diversamente. Con un fronte di caduta di 1.700 metri e un’altezza di 110 sono sicuramente le cascate più spettacolari di tutta l’Africa e forse del mondo. L’enorme massa d’acqua che precipita nello strapiombo solleva una nube di goccioline vaporizzate attraverso cui filtrano i raggi del sole che, scomponendosi in tutti i colori dell’iride, formano luminosi arcobaleni. Qui nelle notti di luna piena si verifica il raro fenomeno “dell’arcobaleno di luna”, che solo pochi fortunati riescono però ad ammirare.

Una visita nel Botswana non può certo definirsi a buon mercato. È privilegiato il turismo d’elite e tutto è a prezzi proibitivi, ma i parchi che visitiamo sono unici e sanno offrirci sensazioni da vera Africa.

Il Chobe è l’autentico regno degli elefanti. Se ne incontrano a centinaia, nella savana, all’abbeverata al fiume o mentre si rotolano nel fango. Qui sono loro i veri padroni: li trovi dappertutto e non hanno paura di niente. Le aree di campeggio non sono recintate e spesso bisogna dividere la piazzola con…gli abitanti della savana! Agguerriti babbuini sono capaci di aprire e distruggere qualsiasi contenitore se sentono odore di cibo. “Attila” si presenta da solo. Il fulvo facocero, incurante di urla, pedate e bastonate si aggira arrogante nel campeggio facendo razzia di ogni cosa commestibile. E gli elefanti…hanno diritto di precedenza al rubinetto dell’acqua!

I profondi solchi nella sabbia che attraversano il Savuti come due binari ci guidano per 400 km fino a Riserva Moremi e a Maun. La guida è impegnativa anche per gli esperti. Nonostante gli avvallamenti e le profonde buche, sulla sabbia molle è necessario tenere velocità sostenute e questo ti porta a frequenti derapate. È facile rimanere insabbiati quando per cedere il passo devi buttarti lateralmente e sei costretto a uscire dai “binari”. Dormire nella Riserva Moremi è stata per tutti noi un’esperienza wild e indimenticabile, ma per il nostro vicino di tenda è stata qualcosa di più. Stefano uscendo dalla toilette con la torcia illumina strane sagome …. una famiglia di ben 7 leoni ha preso letteralmente possesso del campeggio e si aggira tra macchine e tende. Che fare?!…torna indietro precipitosamente e con un urlo dà l’allarme generale. Tutti si rinchiudono nelle proprie macchine tranne il malcapitato che dovrà attendere due ore, col fiato sospeso, prima di poter tornare a dormire.

Siamo all’Audi Camp di Maun. Da qui si possono organizzare, a un prezzo ragionevole, le visite al Delta. Il Delta dell’Okavango non è la semplice foce di un fiume ma molto di più. La vista dall’alto è un colpo d’occhio che non ha eguali. Con un piccolo Cesna a 6 posti sorvoliamo la lunga serpentina blu in mezzo a un’ampia distesa verde. L’Okavango, che non ha sbocco in mare ma si perde nelle sabbie del Kalahari, forma con i suoi mille rivoli un dedalo di canali e anse. Al suo interno si creano una miriade di isolotti popolati da animali di ogni specie. Ma è dal mokoro che si può godere appieno la maestosità e il silenzio di questo luogo. La stretta canoa, sospinta dal pooler con una lunga pertica, attraverso un muro di canne scivola lentamente sul fiume. All’improvviso uno slargo e migliaia di ninfee multicolori ricoprono completamente l’acqua.

Andando verso il confine sulla strada asfaltata, decine di famiglie di elefanti ci costringono ancora a indietreggiare e a cedere loro il passo. Per la via più breve rientriamo in Sudafrica e raggiungiamo Durban. Con 15 giorni di ritardo imbarcheremo le macchine sulla Jolly Argento della Messina Line: destinazione Genova.

18 ottobre 2003: il volo SA 244 della Suoth African Airline ci sta riportando a casa. Sotto di noi scorrono savane, deserti, villaggi e in sole 10 ore rifaremo a ritroso la strada che abbiamo percorso in quasi un anno. Fra di noi quella che era una semplice conoscenza si è trasformata in una salda amicizia che ci ha permesso di condividere appieno questa esperienza e ci fa già sognare nuove mete comuni. Siamo combattuti tra il desiderio di riabbracciare Angelica, Irene e Cristina, le figlie che non vediamo da troppo tempo e la voglia di restare ancora tra questa gente che abbiamo imparato a conoscere, ad apprezzare e ad amare 109- - -109

IL VIAGGIO IN CIFRE NAMIBIA

BOTSWANA

ZIMBABWE

Giorni permanenza

30

5

2

Km. Totali percorsi

7.200

850

200

Km. Pista e fuoripista

6.000

460

0

1 $N= 1 Rand € 0,13 1 litro = € 0,5 // //

1 Pula = € 0,50 Non acquistato // € 2,5

//

//

//

Valuta Prezzo gasolio Visto ingresso Assicurazione Pratiche doganali

utilizzati solo US $ Non acquistato € 30 € 30

I nostri costi Campeggi

28gg

5 gg

2

Litri gasolio consumato

900

110

27

€ 27,4

€ 40,0

€ 25,0

Costo medio giornaliero (2 persone + auto)

+ visto e assicurazione

DI CHRISTINE, LIA, LUCIANO E ALDO

- -110 110- -

111- - -111

- -112 112- -

IL VIAGGIO IN CIFRE gg

Km

Totali

di cui Km Litri gasolio Pista e fuoripista

giorni

Visto

camping

€ (p.p.)

Pratiche Dogana e/o assic.

Valuta 1 € =

Prezzo gasolio 1 lt =€

Costo medio/gg 2 persone + auto €

€

TUNISIA LIBIA

2

620

//

85

//

//

//

Din. 1,35

0.307

19.0

54

9.700

2.400

1.800

//

38

25

Din. 0,714

0,0863

12.6 + visto

EGITTO SUDAN

30 10

3.600 1.800

330 1.750

570 220

3 2

21 56

241 73

Pound 0,217 Din. 0,00384

0,082 0,277

18,6 + visto 18,1 + visto

ETIOPIA KENIA

27 31

3.300 3.770

2.600 1.100

485 494

26 27

63 50

1 //

Birr 0,1166 ShK. 0,0133

0,330 0,660

15,9 + visto 28,9 + visto

UGANDA TANZANIA

9 15

1.950 1.710

250 630

251 216

7 15

30 20

20 25

ShU. 0,0005 ShT. 0,000913

0,750 0,60

18,0 + visto 15,2 + visto

MALAWI 12 MOZAMBICO 15 7 SWAZILAND SUDAFRICA 80 LESOTHO 5

1.550 2.350

520 450

200 315

11 11

// 35

22,5 25,0

Chw. 0,00934 Met. 0,0000357

0,58 0,445

26,6 23,3 + visto

1.100 10.400 630

130 200 240

140 1.340 98

6 80 3

// // //

// // //

Ema. 0,13 Rand 0,13 Maloto 0,13

0,45 0,47 0,47

21.5 26,9 17,4

NAMIBIA ZIMBABWE

30 2

7.200 200

6.000 //

900 27

28 2

// 30

// 30

$N 0,13 usati US$

0,50 ------

BOTSWANA

5

850

460

110

5

//

2,5

Pula 0,5

------

27,4 25,0+ visto + assicurazione 40,0

TOTALI

334

50.730

17.060

7.251

226

343,0

465,0

24.00

Costi aggiuntivi Traghetto Trapani – Tunisi (2 pax + Auto) Traghetto Aswan – Wadi Halfa (2 pax + Auto)

€ €

193,5 494,0

Assicurazione Comesa (valida in Etiopia-Kenia-Uganda)

€

124,6

Spedizione Auto da Durban a Genova con Messina Line

€

1.133,0

Biglietto Aereo Durban- Milano con SouthAfican Airline (2)

€

1.208,0

113- - -113

Viviamo in un’epoca frenetica, è il trionfo della velocità, di internet, dei cellulari, delle televisioni satellitari, dei viaggi last minute, dei rapporti usa e getta.

Sembra tramontato il tempo dei silenzi, dell’avanzare sulla strada della conoscenza passo dopo passo nel rispetto di chi incontri, curiosi solo di condividere per un attimo un’esperienza di arricchimento.

Questa nostra voglia d’incontri con abitanti di terre lontane, di nature affascinanti e non ancora totalmente asserviti al nostro “progresso” ci ha indotti ad organizzare questo viaggio che, con il nostro fuoristrada Toyota attrezzato di cellula abitativa, ci porterà nei prossimi due anni a percorrere circa sessantamila chilometri.

Viaggio appunto, non spedizione, non vacanza frettolosa, ci muoveremo copiando dalla natura, quindi come una tartaruga, passo dopo passo, “la casa in spalla”, (si fa per dire) senza fretta, attenti al sorriso di un bambino o alla preghiera di un anziano....

Lo sforzo di comprendere gli altri renderà me e Christine più tolleranti, più attenti ad apprezzare quanto di bello scopriremo: un tramonto, un batter di ciglio, un timido saluto, il profumo lieve di un fiore.

Non è un’impresa eroica e coraggiosa, solo un lento procedere dove non servono le prenotazioni obbligatorie, dove l’orologio ed il calendario non sono la discriminante, un cammino che chiunque può intraprendere purchè dotato di voglia di conoscere, desiderio di confronto e capacità di adattamento.

Da sempre abbiamo pensato che la nostra unica vera ricchezza sia il poter utilizzare il nostro tempo liberamente e questo è il nostro bene più prezioso…

Vi sono territori dove gli animali sono più veloci del vento e l’orizzonte è una linea senza fine, dove il cuore segue il ritmo della natura selvaggia e la libertà è un’emozione assoluta. Questo è il segreto dei nostri viaggi: la gioia dei ricordi e il desiderio di ripartire per ritrovarli.

- -114 114- -

Dedicato a coloro che abbiamo incontrato.

Non ricordiamo tutti i nomi, ma conserviamo indelebile il ricordo delle tante gentilezze e della simpatia con cui ci hanno accolti ed introdotti alla bellezza di questo meraviglioso continente dai grandi spazi e silenzi

DALLE DOLOMITI ALLE ANDE

Finalmente ci siamo! Dopo lunghi mesi spesi in preparativi di ogni genere, il 1° giugno partiamo da Mera- no e passando per Milano, attraverso il tunnel del Monte Bianco arriviamo a Parigi e dopo 1350 km giungiamo a Le Havre. Nella stiva del cargo “Grande Buenos Aires”, il nostro fuoristrada viene fissato con delle cime all’ottavo ponte.

Ci vorranno ventisei giorni per arrivare in Argentina. È la prima volta che trascorriamo così tanti giorni su una nave. Per non annoiarci ci siamo organizzati con letture, carte geografiche, guide, cassette audio di un corso di lingua spagnola e tutto l’occorrente per montare al computer i film dell’ultimo viaggio in Africa. Il nostro viaggio inizia: la nave alle ore 11 si stacca lentamente dal molo e ci lasciamo alle spalle il vecchio continente. Navigheremo verso sud-ovest, toccheremo Casablanca, Dakar, Cotonou, attraverseremo l’Atlantico, faremo scalo a Salvador, Vitoria, Rio de Janeiro, Santos e in fine giungeremo a Buenos Aires.

Ci viene presentato il “signor comandante”. Usando il dialetto napoletano, condito da gestualità tutta mediterranea e da pause sapientemente dosate, ci spiega la vita di bordo. Siamo gli unici passeggeri e la nave viaggia a metà carico su un oceano piatto come l’olio. Dopo due giorni, per la prima, volta ho ritrovato la mia cabina (n. 335 ponte 12) senza l’ausilio del satellitare o aiuti vari.

Giovedì 10 giugno: abbiamo studiato il nostro percorso. Con l’indice puntato sulla carta geografica e con la nostra fantasia abbiamo visitato Rio de Janeiro, il delta dell’Orinoco, il bacino del Rio delle 115--- 115

Amazzoni, il Mato Grosso, il Pantanal, la Guyana francese, Salar de Uyuni, il lago Titicaca, le isole Galapagos, il Machu Picchu, la Terra del Fuoco, l’Antartide, la penisola di Valdes, il Perito Moreno, le Torri del Paine e il Fitz Roy. Sabato 12 giugno: la partenza da Casablanca è stata ritardata a causa di alcuni clandestini che si sono imbarcati usando il braccio di una gru portacontainer. Erano convinti che la nave fosse diretta in Italia.

Ci sono volute due ore per perquisire tutta l’imbarcazione per avere la certezza di averli trovati tutti.

Lunedì 13 giugno: che delusione! Ancora una volta mi sono “straperso” nel labirinto di corridoi e cabine tutte eguali. “Titti “, il plurianellato piccione viaggiatore che ha viaggiato con noi due giorni, ha preso il volo. Tutti facevamo a gara nell’accudirlo e sfamarlo. Siamo a Dakar e stiamo assistendo, dall’alto del dodicesimo ponte, allo sbarco di 150 vetture nuove. Per scoraggiare i malintenzionati, appena parcheggiate nel piazzale sono state recintate da due file di container sovrapposti. Lunedì 14 giugno attracchiamo a Cotonou (Benin). Siamo attirati da un mercatino di improvvisate bancarelle e scendiamo sulla banchina. Il materiale esposto è vario: i DVD porno la fanno da padrone e questo conferma che il vecchio detto sui marinai “una donna in ogni porto” ormai appartiene al passato.

Oggigiorno, a causa dei costi di gestione di una nave, i ritmi sono diventati così serrati, che si limita la sosta nei porti a poche ore. Dal nostro personalissimo “Titanic” vengono scaricate anche delle auto usate.

Fumo, puzza, sgasate e sgommate ci fanno rivivere l’atmosfera vissuta qualche anno fa in una tappa della Parigi – Dakar. Il frastuono è assordante e di tanto in tanto l’allarme antincendio della nave ci avverte che i ponti sono saturi di monossido di carbonio. Sono vetture di “quinta mano”, alcune incidentate, altre non funzionanti e vengono trainate a gruppi di tre o quattro alla volta. In questo modo la vecchia Europa si è liberata di 1700 inquinanti e arrugginiti rottami. Nel vedere invece alcune lucenti Mercedes, ci pare di sentire fino qui il pianto dei loro proprietari che le stanno ancora cercando. Quando anche l’ultima cima è stata recuperata, ci stacchiamo lentamente dalla terraferma tagliando così il cordone ombelicale che ci teneva affettivamente legati al continente africano. Durante l’attraversata atlantica di 4000 km abbiamo l’opportunità di visitare il cuore della nave: la sala macchine. Il nostro cicerone, Mister Sing, gallonato ufficiale indiano, in un rumore infernale ha tentato di spiegarci, presumo in inglese gridato all’orecchio, tutto ciò che vedevamo.

Christine si è divorata mezza biblioteca di bordo ed io, con oggi, ho finito di montare i filmati Egitto – Sudan (23 min.) e Kenia – Uganda – Tanzania – Mozambico ( 27 min.). Ventiquattresimo giorno: terra in vi- sta! È il Brasile. Alle ore 10.30 scendiamo a terra muniti di un vocabolario in portoghese e, nella manomano ( Cris mi marca stretto), a passo di samba e canticchiando “CACAOMERAVIGLIAO….

CACAO…CACAO…MERAVIGLIAO” ci accingiamo a scoprire in quattro ore Rio de Janeiro e a conoscere i suoi quattordici milioni di carioca che vivono ammassati sul fondo del più bel panorama urbano del mon- do, tra l’oceano e la scarpata dell’altopiano.

Per 26 giorni la "Grande Buenos Aires "è stata la nostra casa, ma ora la navigazione volge al termine.

Ore 7.30: si fermano definitivamente i motori della nave. È arrivato il nostro momento di sbarcare.

I doganieri ci aspettano nella sala ufficiali, ci timbrano il Carnet de Passage e i passaporti. Baci e abbracci a tutto l’equipaggio. Quel freddo mattino, sotto un cielo plumbeo, usciamo dal porto di Buenos Aires senza nessun altro controllo. Abbiamo la sensazione di non essere in regola con gli incartamenti: tutto è stato troppo semplice e troppo veloce. La città ci fa subito una buona impressione: grandiose le vie del centro con edifici costruiti nei primi quarant’anni del ‘900, quando l’Argentina era uno dei paesi più prosperi del mondo.

Dopo tanti giorni di navigazione passati all’ingrasso, ci promettiamo di dare una tregua al nostro colesterolo. Purtroppo i nostri buoni propositi franano miseramente a mezzogiorno davanti a un asado (carne alla griglia) di oltre un chilo, al costo di una nostra pizza Margherita. Diego (madre italiana e padre spagnolo, un classico!) vicino a noi sta lottando con una milanesa che il piatto stenta a contenere.

Sentendoci parlare, ci omaggia del suo quotidiano: è il “Corriere della Sera” in lingua italiana che viene stampato qui a Buenos Aires.

Il cielo si è aperto regalandoci una bella giornata con temperature similari al nostro ottobre meranese.

La Capital, chiamata così dai locali, sfoggia una sofisticata eleganza europea: oggetti di antiquariato, macchine d’epoca e palazzi storici sono la testimonianza di una ricchezza passata.

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ARGENTINA

L’Argentina è una terra fiera e coraggiosa, scenario delle speranze di generazioni di emigranti che hanno saputo influenzarne la cultura, la musica e la danza, in un intreccio di esperienze multiculturali.

La gente di Buenos Aires, detti i portenos (portuali), sono conosciuti in tutto il Sudamerica perché istruiti, eleganti, ironici, calcolatori e anche un po’ snob. Un proverbio li sintetizza così: sono italiani che parlano lo spagnolo, che si comportano come gli inglesi e credono di essere francesi.

La passione per il tango degli argentini si può paragonare a quello che lega i nordamericani con il blues.

Assistiamo a esibizioni di tango ovunque: per strada, tra le bancarelle del mercatino delle pulci di San Telmo, tra i vicoli del quartiere la Boca, nei ristoranti tipici sia di giorno che di notte. L’aristocrazia dell’Argentina, che per anni si era scandalizzata per le umili origini del tango e per la sua aperta sensualità, si arrese solo quando il grande Carlos Gardel rese questo ballo famoso in tutto il mondo.

Forse, nessun altro posto dice di più sull’Argentina e sulla realtà sociale come il cimitero della Recoleta.

Qui nemmeno la morte rende tutti uguali: generazioni di ricchi e potenti argentini riposano nel lusso di fastosi mausolei. Il culto della salma è evidente. Qui si onorano le celebrità nazionali nell’anniversario della morte anziché della nascita. Le spoglie di Evita Peròn, (figlia di un nullatenente) riposano in una cripta sotterranea e questa eccezione ha fatto infuriare non poco l’altezzosa aristocrazia.

A Plazza de Mayo da 18 anni, ogni giovedì alle ore 15, si incontrano le madri dei desaparesidos.

Il gruppo è vario e numeroso: eleganti signore e popolane vestite poveramente portano annodato al collo il fazzoletto bianco, simbolo del loro movimento e, appuntata al petto, la foto del congiunto scomparso.

Questo corteo silenzioso gira intorno all’obelisco della piazza per ricordare la vergogna della mancata punizione dei colpevoli dell’assassinio di oltre 30.000 persone. Dopo cinque giorni lasciamo Buenos Aires e ci dirigiamo verso le terme di Concordia. A causa di un mese di aria condizionata subita sulla nave, ci vorranno tre giorni di bagni a 38° C per riattivare una spalla dolorante. Proseguiamo verso nord-ovest. Il traffico è rallentato dai trattori che trasportano su 4 o 5 rimorchi la canna da zucchero appena tagliata.

Siamo al parco di Talampaya noto per le sue bellezze naturali. Nel corso dei millenni la forza erosiva dell’acqua e del vento hanno scolpito nell’argilla coloratissimi canyon e pinnacoli dalle forme di

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particolare bellezza. Questa area desertica è caratterizzata da caldo feroce di giorno, da notti gelide e da improvvisi e torrenziali acquazzoni. Alla periferia di Rioja ci ferma la polizia: gentilmente controlla il Carnet, i passaporti, l’estintore e il triangolo. Tutto è ok! Bene, ora finalmente siamo tranquilli: abbiamo avuto la conferma di essere in regola.

Stiamo percorrendo la mitica “Ruta 40” El camino real. Ci arrampichiamo su una pista sassosa e dopo avventurose serpentine giungiamo al passo Abra del Acay a 4985 m. Il nostro Toyota sputa un fumo acre e maleodorante e arranca con fatica. Data la rarefazione dell’ossigeno, anche noi abbiamo il “fiato corto” e stiamo pagando gli stravizi argentini. Sono giorni e giorni che ci accompagna un cielo blu e straordinariamente terso. Dopo l’ennesimo tornante, un gruppo di lama e guanachi ci sbarra la strada.

Foto d’obbligo. Ci liberano il passaggio degli indios, discendenti degli indiani Calchaquì. Hanno la carnagione scura, le guance paonazze e i capelli lunghi e corvini. Sono intabarrati in un poncho di lana grezza e indossano il classico berretto andino.

Con un sorriso e una stretta di mano, li ringraziamo per l’aiuto; li vediamo ancora con il braccio alzato in cenno di saluto sparire dietro la nostra nube di fumo bianco. Nei passaggi più esposti, sferzate d’aria improvvise ci fanno ondeggiare paurosamente e le grida di Christine sono soffocate dal sibilo del vento.

Quasi mai riusciamo a rispettare la tabella di marcia, perché spesso ci fermiamo a impreviste feste paesane:la festa del Santo, la festa del poncho, la festa del Gaucho, la sagra del Empanada (raviolo di carne fritto), la festa della Pachamama in onore della madre Terra... Veniamo sempre accolti con sincera gentilezza e con molta curiosità. Quando sentono che veniamo dall’Italia, tutti, con gioia, ci dicono di avere una discendenza italiana: un bisnonno, una nonna o una suoquera (suocera).

Un giorno tra le nuvole. Una delle attrazioni di Salta è El Tren de las Nubes. Dopo un’attesa di quattro giorni riusciamo ad ottenere due posti numerati sul treno delle nuvole. La partenza è alle sette del mattino. Nell’atrio della stazione ci sono i venditori ambulanti che offrono bibite, sandwiches, coca in tutte le versioni: in foglie, the o pastiglie consigliate per il mal d’altura.

Sul treno tutto è molto ben organizzato: hostess, capogruppo, spiegazione in più lingue intervallate da musica andina, carrozza bar, ristorante, vendita souvenir, infermeria e bombola d’ossigeno.

Trascorriamo 15 ore da “turisti tutto compreso”. Assieme a noi ci sono 150 persone tutti in gruppi precostituiti che da giorni viaggiano assieme; sono ben equipaggiati con scarponi, completi da trecking con zaino in tinta, macchina fotografica, binocolo e filmadora.

Destiamo curiosità, e appena sentono che siamo in giro con una “casa rodante”, notiamo che ci guardano con un certo non so che. A questo punto, sfoderiamo tutta la nostra italianità e modifichiamo qualche verità sul nostro viaggio. Con l’aiuto del vocabolario tascabile ripetiamo la nostra filastrocca in lingua “forestiera”: ci siamo ritirati dal mondo lavorativo per raggiunto benessere e stiamo girando il mondo per un periodo illimitato.

Dopo 21 gallerie e 44 ponti saliamo da 1200 m a 4475 m sulla puna vicino al confine cileno.

I punti più ripidi vengono superati invertendo il senso di marcia a zig zag, o con i cosiddetti rulos, una specie di scala a chiocciola su rotaie. I venditori di artigianato locale vengono trasportati con dei Pic-up da stazione a stazione e ci offrono con insistenza le loro povere cose. Il panorama è superbo e il cielo straordinariamente limpido. Siamo di ritorno alle ore 22. Recuperiamo la nostra macchina e finalmente ci sentiamo a casa.

Stiamo viaggiando in direzione nord. Visitiamo il parco umido “ Esteros del Iberà”. Penetriamo nella palude con una lancia spinta da una pertica e vediamo un serpente boa, gatti selvatici, volpi, scimmie e cervi e su isole galleggianti alligatori, capibara e uccelli di ogni tipo.

Il mondo è veramente piccolo. Stiamo godendoci l’ultimo tiepido sole che si specchia nella palude mentre si avvicina un Land Rover 130 camperizzato. Sono Bernd e Baerbel dalla Germania. Li abbiamo conosciuti in Africa e per puro caso li rivediamo in questa sperduta palude. Baci e abbracci.

Alla sera, davanti al fuoco, si parla quasi esclusivamente delle esperienze vissute in Africa e decidiamo di fare un po’ di strada assieme. A Posada cogliamo l’opportunità di far revisionare il nostro mezzo in una grossa concessionaria Toyota. Rivestono il sedile, il volante e il pomello delle marce con una pellicola trasparente. In tre ore, due meccanici con molta professionalità cambiano olio e il filtro (portati dall’Italia), controllano i livelli dei differenziali, puliscono il filtro aria, ingrassano, rabboccano l’acqua batteria e del tergicristallo per la modica spesa di € 14 compresa l’Iva al 21%.

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Le cascate Iguazù sono situate circa 20 km a sud – est del punto di confluenza dei fiumi Paranà e Iguazù che delimita il triplice confine tra Paraguay, Brasile e Argentina. Questo spettacolo della natura ha un fronte di tre chilometri: 275 cascate riversano milioni di litri d’acqua in un canyon profondo 72 metri.

Dedichiamo tre giorni alla visita delle catarates, due dalla parte argentina e uno da quella brasiliana.

Nel lato argentino camminiamo per cinque chilometri lungo comode e panoramiche passerelle sospese.

Dopo venti minuti di trenino elettrico arriviamo al “salto del diablo”.

La vista del precipizio è impressionante e si è totalmente circondati dall’acqua che cade. Pappagalli e falchi veleggiano al di sopra del fitto manto verde della foresta. Per una veduta più ravvicinata delle cascate decidiamo di risalire con dei potenti fuoribordo il fiume fino a Garganta del Diablo. Ci troviamo immersi in una esperienza multisensoriale fatta di cascate ruggenti, giganteschi arcobaleni e nuvole di vapore che ci inzuppano dalla testa ai piedi. Sotto lo scrosciare dell’acqua si leva un grido unanime come una sfida alla forza della natura che ci sovrasta.

Dalla parte brasiliana usufruiamo di bus ecologici poi, a piedi, ammiriamo il fronte delle cascate in tutta la sua ampiezza. Sono giorni densi di emozioni e decidiamo di ammirare le cascate anche dall’alto con un elicottero. È una cosa da sballo!

Concludiamo la giornata in una churrascaria (self service) megagalattico: si pagano 9 € all’entrata e ci si può strafogare a volontà di ogni ben di dio.

In sala otto cuochi, con una divisa impeccabile con tanto di mascherina, disossano e tranciano con maestria gli asadi, la porchetta, il capretto, i tacchini e diversi grossi doradi (pesci pregiati di acqua dolce).

Il buffet si divide in diverse isole: antipasti freddi e caldi, primi piatti (cannelloni, lasagne, ravioli, tortellini, gnocchi, bigoli al torchio, da noi totalmente ignorati), insalate cotte, crude e composte, dolci caldi e freddi e una cascata di frutta tropicale mista (alcuni tipi a noi sconosciuti). Abbiamo pranzato sorseggiando Caipirinha per tutto il pasto (aperitivo locale ammazza cristiani). Invocando San Vaccino io mi sono fiondato su un piatto di ostriche. Il resto ve lo risparmio e per finire, come direbbe qualcuno di mia conoscenza, rutto libero. Dopo le ore venti inizia la musica dal vivo con esibizioni di samba in cui le ballerine ballano indossando solo il “fio dental”. Il cameriere mi bisbiglia in un orecchio che è uno spettacolo solo per veri gringo. L’ho ringraziato, pur non avendo capito a cosa volesse alludere.

Quella sera ho stentato a prendere sonno. Avevo lo stomaco che sembrava una betoniera, continuava imperterrito a mescolare colesterolo, trigliceridi, zuccheri, grassi saturi e insaturi il tutto abbondantemente innaffiato dalla Caipirinha… gronn…gronn…

Purtroppo anche quest’anno si è bruciato il circuito elettronico della plafoniera. La sostituiamo con una che avevamo di scorta. Smontandola mi accorgo che i fili non sono codificati: panico generale!

Mi ripasso la legge di OHM (non solo non so applicarla, ma non so nemmeno come si scrive).

Per vent’anni, alla scuola alberghiera, mi sono sgolato nel ripetere ai miei allievi l’uso corretto per i tagli della carne. Dalla coscia di manzo: arrosti, brasati, bolliti, stracotti, spezzati; dal controfiletto: Roastbeef all’inglese o Entrecôte alla griglia ecc.. QUI in Sudamerica ho dovuto constatare che questo mio predicare non è applicabile ai manzi argentini.

Qui anche le parti bovine meno nobili come spalla, petto, pancia, fracosta, collo, vengono cotte alla griglia (parrilla o Asado) e risultano ugualmente sempre straordinariamente tenere e gustose.

Caipirinha: 2 lime, 12 cubetti di ghiaccio, 4 cucchiaini di zucchero, 300 ml di cachaça ( grappa di canna da zucchero). Tagliare i lime a pezzetti e mescolarli con lo zucchero. Tritare il ghiaccio e aggiungerlo insieme alla cachaça. Shakerare il tutto e versare in un bicchiere raffreddato. Servire con cannuccia.

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e con il mio personalissimo tester scaramantico (reminiscenze dell’asilo) ho canticchiato “an dam des, vielemale bes, vielemale cuculus… chiudendo gli occhi ho unito i fili. Da oggi, ringraziando l’elettronica, Christine ed io mangiamo a lume di candela!!!

BRASILE

Lasciate le cascate di Iguazu entriamo in Brasile dove le pratiche doganali sono semplici e veloci.

I doganieri sono molto pazienti con noi che maldestramente cerchiamo di comunicare in portoghese.

Ci augurano buon viaggio e “veja con Dio”. Visitiamo Itaipù, che in lingua guarana significa “roccia cantante”, che è la più grande diga del mondo costruita in società tra Brasile e Paraguay.

Siamo nello stato del Mato Grosso dove non ci aspettavamo di trovare tutto così ordinato, organizzato, quasi teutonico. La nostra idea del Brasile è quella che ci viene proposta dai mass media: cacao meravigliao, morositas, samba, caffè Kimbo e carnevale. In questo stato del Brasile, invece, la gente che incontriamo è biondiccia e pallida, perché è di origine tedesca.

Ora la nostra meta è il Pantanal, una vasta pianura alluvionale di 230 000 km quadrati che si estende a est del Rio Paraguay lungo la frontiera tra Brasile e Bolivia. L’unica pista che la penetra è la Transpantaneira lunga 145 km, piena di buche e in alcuni tratti invasa dalle acque. È un paradiso per uccelli, alligatori, cervi, felini e capibara ( i roditori più grandi del mondo). Il simbolo del parco è il Tuiuiu o Jabirù , la più grande cicogna esistente. Orde di zanzare danno prova di tutta la loro aggressività e vani sono i nostri tentativi per difenderci. In tre giorni superiamo 116 ponti più o meno malfermi.

Spesso per proseguire siamo costretti a spostare le assi del ponte in modo da sostituire quelle mancanti.

I sostegni del centodiciassettesimo ponte hanno ceduto ed è pericolosamente inclinato. Nel vederlo invaso dalla vegetazione, constatiamo che da troppo tempo nessuno ci passa e così ci arrendiamo.

Torniamo sui nostri passi godendoci ancora una volta questo paradiso della natura.

Studiando a lungo le carte geografiche, decidiamo di percorrere i 1830 km di pista che porta nella Foresta Amazzonica, da Cuiabà a Santarem percorribili solo nella stagione asciutta. Nei primi 300 km la pista è scorrevole. Il paesaggio è collinare: si coltiva grano, canna da zucchero e soia. Man mano che ci avviciniamo alla foresta queste coltivazioni lasciano posto ai pascoli. Sempre più di frequente ci giunge il fumo degli entimadas, la pratica degli incendi sistematici che precede il totale disboscamento drammaticamente irreversibile della foresta. Qua e là si vedono edifici in rovina ed abbandonati: sono le segherie che hanno terminato per sempre il loro lavoro dopo che la foresta pluviale è stata violentata e distrutta.

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Il sole cala rapidamente ed il tramonto ci offre momenti suggestivi che non risolvono, ma almeno attutiscono la consapevolezza del disastro immane in atto. Questa pista di terra rossa, si snoda in quello che è rimasto della foresta pluviale. Sono ore che mi sto consumando gli occhi nel vano tentativo di scansare le buche di ogni dimensione: ti accorgi di loro solo quando ci sei già dentro.

Procediamo lentamente e a radio spenta, nel tentativo di cogliere qualsiasi piccolo rumore sospetto, sintomo di una eventuale rottura. Dopo 2 giorni di polvere, fumo, caldo umido e zanzare ci sorprende un violento temporale. La nostra marcia viene interrotta da un camion sprofondato nel fango che ostruisce completamente la pista. Dopo alcuni tentativi di aggirarlo, desistiamo. Seguiamo le tracce di un mezzo cingolato, ci inoltriamo nella foresta e ci prepariamo per la notte. A causa della calura decidiamo di cenare all’aperto. Ci sentiamo molto piccoli nel vedere questa foresta che ci sovrasta; alcuni alberi emergono dal sottobosco e lo superano di almeno di 40 / 50 metri. Il sole è tramontato ed è subito buio.

La candela accesa attira ogni specie di insetto volante. Alcuni, addirittura finiscono bruciati e emanano un puzzo terribile. Allontaniamo la luce, ma è troppo tardi: siamo invasi! Abbandoniamo tavolo e sedie, e incuranti dei pericoli che potrebbero nascondersi nel sottobosco, raggiungiamo il camper di corsa.

Vediamo che nella nostra pasta ci sono degli strani animaletti che tentano di riprendere il volo: per questa sera, tonno e fagioli hanno colpito ancora. Siamo sconcertati nel vedere che piccolissimi animaletti verdi, attirati dalla luce della nostra cellula, passano impunemente attraverso le maglie delle zanzariere e si attaccano ovunque. Alle diciannove e cinquanta interrompiamo la nostra scala quaranta, al buio ci srotoliamo i vestiti appiccaticci di dosso e andiamo a letto. Oggi è proprio una giornata da dimenticare.

Lasciamo tutto spalancato nel vano tentativo di catturare anche il più piccolo alito di vento.

L’aria è immobile e pesante e in rigoroso silenzio ascoltiamo i rumori della foresta. Prima hanno iniziato con un fischio intermittente alcune cicale, altre trasformano il fischio in un sibilo assordante che aumenta sempre più, per poi smettere di botto dopo una mezz’oretta. I richiami degli uccelli si susseguono in continuazione; uno è vicinissimo e ripete in maniera ossessiva il suo verso. Tentiamo di alleviare la tensione che si è creata con un CD di Andrea Bocelli. Il rumore di fogliame calpestato è troppo forte e troppo vicino per non costringerci a verificare. Nelle sciabolate di luce delle nostre pile vediamo una famiglia di capibara che razzola attorno a noi: hanno già rovesciato tavolo e sedie che abbiamo abbandonato. Urla e versi di animali hanno continuato a lungo. Una generosa luna rischiara la notte e sulle note di “O sole mio” ci addormentiamo. Adesso posso dire di aver raggiunto, attraversato, annusato, assaggiato, respirato, calpestato la Foresta Amazzonica.

L’indomani il camion, aiutato da una ruspa è riuscito a ripartire. Vediamo i segni tangibili della dura lotta. Hanno messo di tutto sotto le ruote: rami, sassi e parte delle assi di legno pregiato che trasportava.

Sotto un cielo nero come la pece, con lampi che squarciano l’orizzonte, ci rimettiamo in marcia.

Durante questa traversata riportiamo i punti satellitari sulla nostra carta geografica ed abbiamo così l’esatta percezione della vastità del Brasile. Arrivati a Santarem ci sentiamo frullati e centrifugati.

Quando in campeggio esibiamo con orgogliosa sufficienza i nostri fuoristrada inzaccherati e malconci, e sulla carta geografica facciamo vedere da dove veniamo, tutti hanno un’esclamazione di stupore, e battono le mani.

Il porto fluviale che vive del grande traffico commerciale è anche punto di partenza di viaggi più o meno avventurosi tra i garabe, infinite isole di cui è costituita in gran parte la Foresta Amazzonica.

Anche noi con una lancia risaliamo il Rio Tapajòs affluente del Rio delle Amazzoni, che deve il suo color caffellatte alla quantità di limo che si trascina dietro nel suo lento andare verso il mare.

Con le nostre macchine creiamo scompiglio in un sobborgo di pescatori: per poco non tranciamo un cavo troppo basso della linea elettrica. All’ora di pranzo, rischiamo di prendere l’epatite in una baracca di paglia “specialità tutto pesce”. Foreste, villaggi di case di paglia allineate sui due lati della pista, laghetti popola-ti di aironi e di ogni specie di uccelli, improvvisi temporali, fiammeggianti tramonti: questa è la Transamazzonica. Ci siamo lasciati avvolgere dal suo abbraccio per otto giorni, 1830 chilometri e due fusi orari.

Le impressioni che si ricavano sono fortissime, perché la natura è ovunque prorompente, assale con profumi, suoni, fiori e incontri con animali che ci fanno di nuovo riflettere sul fatto che questo grande polmone verde è patrimonio dell’umanità e per essere tutelato richiede grandi strategie internazionali.

Giungiamo appena in tempo ad Alter do Chao per assistere all’evento folcloristico più importante del Parà occidentale: la festa do Cairè.

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Le sue origini risalgono forse ai simboli usati dai primi missionari per convertire gli indigeni.

Questa festa popolare è il risultato di influenze africane, portoghesi e autoctone ed è un miscuglio di musica, ballo e teatro uniti da una straordinaria coreografia. La danza è profondamente africana, con eleganti movimenti delle mani e dondolio delle anche: il bene e il male si rincorrono a passi leggeri.

L’atmosfera è carnevalesca. I gruppi che partecipano passano tutto l’anno a prepararla e per l’occasione sfoggiano costumi fastosi e inventano canzoni e poesie. Alle banchine di Santarem sono attraccate le gaiolas (tipici vaporetti del Rio delle Amazzoni a tre o quattro ponti) e le grandi chiatte per il trasporto dei camion. Siamo a bordo di una enorme chiatta, di circa cento metri di lunghezza per venti di larghezza, un vecchio ferro butterato dalla ruggine e spinto da un rimorchiatore. Siamo gli unici a bordo e, sotto un sole cocente, su una rampa improvvisata saliamo e posizioniamo i mezzi a nostro piacimento.

Abbiamo la vista libera sul fiume verso il quale non c’è alcuna spalletta o protezione. Alla partenza con un potente scossone il barcone si libera dalla melma. Guadagniamo il centro del Rio delle Amazzoni e iniziamo una lenta e pigra navigazione. Siamo preoccupati per i forti colpi che a volte provengono dalla chiglia: sono i grandi tronchi alla deriva. Un pesce compie un balzo fuori dall’acqua per acchiappare un insetto e ripiomba, forse appagato, con uno splash. La sagoma nera di una chiatta carica di legname, appena tradita dai fanali di poppa se ne va verso il mare mentre in cielo la via lattea dimostra in maniera lampante il concetto di infinito: è una buona notte per essere felici. Il Rio delle Amazzoni si divide in una miriade di canali. La chiatta si addentra in questo labirinto e noi ne seguiamo la rotta con il satellitare.

L’ambiente che ci circonda, così nuovo ed inusuale, è motivo di continua meraviglia. Sono tre giorni privi di zanzare, privi di sudore e privi di stress.

Dove la corrente è meno impetuosa, meticce dai tratti somatici incerti, ci affiancano con le loro imbarcazioni. Con straordinaria abilità lanciano una cima prendendo al laccio il nostro pontone e con un balzo felino salgono a bordo. Ci guardano con curiosità, circondano i nostri mezzi: molte di loro non ne hanno mai visto uno. Sorridono, studiano i nostri vestiti, i nostri gesti e scuotono il capo divertite.

Abbiamo chiacchierato a lungo, usando le mani, gli occhi, e la fantasia: non è difficile tra persone curiose di sapere. Ci offrono strani pesci, tartarughe d’acqua dolce, gamberetti già cotti, palmito e grossi granchi bluastri con le chele legate con foglie di palma. In cambio chiedono fiammiferi, sale e soprattutto il gasolio che la notte alimenterà le loro lampade. Le indios sono tutte giovanissime, di carnagione scura, e i loro costumi riescono a stento a contenere il loro corpo che è ancora in crescita.

Sono poco interessate a barattare i loro prodotti, il loro interesse primario sono i figli del capitano.

Dalla cabina dei due ragazzi, troppo piccola per contenerle tutte, esce una musica brasilera a tutto volume. Per alcuni tratti la nostra chiatta ha al traino un codazzo di una decina di canoe.

C’è una terra, in mezzo alla Terra, dove i pescatori indios vivono liberamente nella foresta e si spostano a seconda del ritmo delle stagioni e della pesca. A volte scorrono lentamente sul nostro fianco lunghi convogli di zattere, tutte inverosimilmente cariche di tronchi secolari che testimoniano l’avidità del più grande nemico della natura: l’uomo.

Arrivati a Belem, dobbiamo aspettare l’alta marea per poter sbarcare. L’atmosfera del porto è soffocata da una calura opprimente e ovunque c’è un lezzo di fogna e di pesce marcio. L’economia impazzita (dovuta al taglio del legname) provoca anche qui sacche di miseria indescrivibile. Grandi poli industriali creano un violento contrasto con le favelas sulle palafitte che sorgono da acque putrescenti. In altre parole, appare evidente come il numero dei nuovi ricchi sia inferiore a quello dei nuovi poveri. Ora puntiamo verso il mare alla ricerca di palme, spiagge deserte, barriere coralline, pesce alla brace e tramonti idilliaci. È primavera inoltrata, scendiamo lungo la costa e troviamo la classica spiaggetta da cartolina.

Posto riservato, un bel mare e così ci accampiamo all’ombra delle palme. Dividiamo la baia con tre capanne di pescatori e un ristorantino dotato solo di una griglia. Nei giorni festivi il posto si popola un po’ troppo, è così per noi il momento di spostarci per fare la spesa, per fare rifornimento d’acqua e mantenere i contatti con l’Italia per mezzo di internet. Ci disturbano solo due cose per considerarlo un buona immagine. Una doccia a base di secchi d’acqua che ci rovesciamo addosso a vicenda ci farà arrivare all’ora di cena. Francisco, nativo del posto, di età indefinibile ha gli zigomi pronunciati, la posto idilliaco: l’acqua del mare, ancora troppo fredda e delle scimmiette che stanno in una mano e che sono dispettose da morire. L’alba e il tramonto diventano spettacoli da osservare con piacere. Ogni giorno sono sempre diversi e durano pochi istanti: è il momento giusto per scattare qualche carnagione scura sulla quale risalta un’ispida barba bianca e occhi a mandorla che ci scrutano sotto gli spessi occhiali bisunti.

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Si presenta come proprietario, cuoco e cameriere. Con fare timido, schivo, pieno di semplicità, ci guida verso il suo modesto ristorante che dista poche palme da noi ed è fatto con mattoni di paglia e fango.

Sono sufficienti pochi minuti per socializzare, siamo spesso gli unici suoi clienti e così decidiamo di man- giare assieme. Francisco, alla luce tremolante di una candela, cucina il pesce e noi prepariamo la Caipirinha. Salvador, capitale della provincia di Bahia, è la culla della cucina, della religione, del ballo e della musica che caratterizzano tutto il Brasile. L’influenza africana la si nota ovunque. La capoeira è una presenza costante ed è ormai diventata un’istituzione ed è facile assistere per strada ad esibizioni spontanee.

La capoeira nacque come arte marziale africana e serviva agli schiavi per combattere i propri padroni. Fu proibita e gli schiavi furono costretti a praticarla clandestinamente nella foresta. Solo più tardi si trasformò in una espressione artistica, una sorta di danza acrobatica: i lottatori / danzatori si scambiano i colpi a ritmo del battere delle mani e il pizzicare del berimbau (strumento musicale.)

Le vie del centro sono molto animate e sembra di essere sul set di un film degli anni 20.

Gruppi di “matrone” in costume, veri e propri ritratti viventi di Mamie di “Via col vento”, insistono per raccoglierci i capelli in treccine, non arrendendosi nemmeno davanti alla mia calvizie incipiente.

Rio de Janeiro, è la “ciudas meravillosa”. Il campeggio dista 40 km dal centro e fortunatamente troviamo parcheggio sotto El Pào de Açucar. Siamo sorvegliati a vista dalla Marina Militare che ci dà la sicurezza che cerchiamo. Così possiamo tranquillamente visitare la città: il Cristo Redentor, il Pào de Açucar, la spiaggia di Copacabana, il giardino botanico e qualche museo. Un terzo degli abitanti di Rio vive nelle favelas (baraccopoli). Non hanno nè scuole, nè medici, nè lavoro. La violenza è endemica e la corruzione e la brutalità della polizia sono all’ordine del giorno, mentre le partite di pallone e la samba sono le uniche evasioni. Decidiamo di visitarle con un tour. Tutto è “troppo” organizzato e scontato.

L’unico fuori tema sono i fuochi d’artificio che servono per comunicare ai 600 000 cariocas l’arrivo della volante della polizia. Un fuggi fuggi generale e anche per noi è venuto il momento di dileguarci.

Dopo alcuni giorni di permanenza, una sera sentiamo bussare alla porta della nostra cellula.

Nel vedere un decorato ufficiale militare, pensiamo che il nostro “camping strada” stia per finire.

Invece, impettito, quasi sull' attenti, si scusa del disturbo e ci chiede se dopo quattro giorni di sosta abbiamo bisogno di qualcosa: acqua, luce… ecc. Dalla pianificazione del nostro viaggio ci rendiamo conto di dover fare delle scelte: continuare la visita del Brasile, oppure fuggire verso sud fino alla Penisola di Valdes in Argentina per vedere le balene franche, prima della loro migrazione. Scegliamo le balene che si trovano a 8000 km. Saranno 20 notti trascorse nei distributori di benzina, prima brasiliani, poi uruguayani e in fine argentini. Davanti a noi Sao Paolo, 13 000 000 di abitanti che vivono perennemente sotto un cielo marcio di smog. Un muro di grattacieli ci sbarra la strada.

La circonvallazione è in costruzione e ci troviamo imbottigliati nel traffico caotico e strombazzante ed è subito panico. Chi tenta di passare a destra e chi a sinistra, i più prepotenti sono i tassisti, che non si sa se sono molto esperti o molto ubriachi. Ci vorrà l’intera giornata per uscire da quell’ ingorgo.

L’Oktoberfest di Blumenau attira la nostra curiosità. Sembra di essere catapultati in Germania.

Lo stile delle case, i giardini, i nomi delle vie, dei ristoranti, la cucina, gli addobbi delle strade e la festa della birra ci danno l’impressione di essere a Monaco di Baviera. Gli abitanti discendono in larga parte dagli immigrati tedeschi e sono orgogliosi delle loro origini. Hanno conservato le tradizioni, la lingua e i costumi dei loro antenati. La festa è affollata e chiassosa; il profumo di Wurstel, stinchi e crauti invade i capannoni. Tutti sono rigorosamente in costume e si esibiscono in canti e balli folcloristici. La birra scorre a fiumi, ma, a notte inoltrata, l’atmosfera cambia: la vecchia danza popolare tedesca (Schuhplattler), insieme ad ottoni e fisarmoniche, viene messa da parte per una sculettante ed euforica samba. Ci allontaniamo dalla festa con un maxi Brezel in mano, contagiati dal ritmo frenetico della musica. Lasciamo il Brasile, un paese favoloso ed immenso. Ci rendiamo conto che i tre mesi che gli abbiamo potuto dedicare e i 10 000 km percorsi sono ben poca cosa. L’ago della bussola indica il sud.

Il nostro contratto con il bel tempo sembra scaduto e la pioggia ci accompagna per tutta l’attraversata dell’Uruguay. Le frontiere sono semplici e veloci e non necessitano di visto. Arriviamo a Buenos Aires.

Finalmente la pioggia ha cessato di cadere, ma all’orizzonte continuano a saettare luminosissimi fulmini in un cielo nero.

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Nella “capital” prenotiamo il biglietto aereo: fra 40 giorni saremo a casa per trascorrere le feste natalizie.

Ora puntiamo verso la penisola di Valdes e per ore percorriamo la monotona interminabile strada diritta che porta verso sud. Il traffico è scarso e per lunghi periodi l’unica cosa che attraversa questa pianura è la nostra macchina. Ci accampiamo a una sessantina di km da Viedma alla Loberia sulla costa settentrionale del golfo di San Matìas.

Il paesaggio è caratterizzato da scogliere alte e ripide che si affacciano sulle spiagge sottostanti dove vivono permanentemente quasi 2000 otarie. Numerosi sono gli uccelli che nidificano in queste falesie.

Assistiamo ai primi incerti voli dei giovani parrocchetti (pappagalli) seguiti sempre a stretto battito d’ala da vocianti genitori capaci di sostenerli in volo, per cercare di proteggerli dagli attacchi dei falchi pellegrini e degli avvoltoi dal collo rosso. La Penisola di Valdes fa registrare su entrambi i golfi le maree con maggior dislivello del mondo. Il suo territorio si eleva un centinaio di metri sul livello del mare e ciò fa in modo che da qualsiasi punto uno si affacci gli sembra di essere su un meraviglioso balcone, con una prospettiva vasta quanto può esserlo lo sguardo.

Durante il nostro girovagare ci attraversano la pista alcuni armadilli (Tatù in lingua Chaco) che, davanti alla frenata dell’auto, restano paralizzati dalla paura. Quando scendiamo fuggono con il loro passettino nervoso, un po’ ridicolo un po’ lezioso, per poi sparire poco più in là in una tana. Spesso ci imbattiamo in gruppi di guanachi, di pecore e nandu che pascolano tranquillamente assieme. Sulla costa prolificano migliaia di cormorani, aironi e albatros. Il parco è famoso anche per i suoi pinguini, leoni e elefanti marini che vivono sulle sue spiagge oziosamente sdraiati al sole. Dall’alto vediamo concentrarsi in unico punto uno stormo di gabbiani che, rumorosamente, si contendendo una placenta di un elefantino marino appena nato.

Sono centinaia le balene franche che entrano nel Golfo Nuevo offrendo degli spettacoli straordinari.

Arrivano ogni anno, tra giugno e dicembre, richiamate dalla grande concentrazione di plancton e krill presente in queste acque temperate. A Porto Piramidi, con delle barche attrezzate, è possibile avvicinarsi e toccare quasi con mano questi enormi cetacei. Per l’occasione ci vengono forniti giubbotti salvagente e mantelle e noi ci sentiamo molto “omino Michelin”. Saliamo su una barca che è in secca, appoggiata su un enorme carrello che viene trainato fino al mare da un grosso trattore. Quando è in galleggiamento viene sganciata e lasciata scivolare, come un varo, nel mare.

A punta Northe due giorni fa, durante l’alta marea, sono state avvistate due orche che nella foga dell’attacco ai leoni marini per poco “spiaggiavano”. Il nostro sguardo vaga sulle sfumature dell’acqua, alla affannosa ricerca dell’enorme pinna diritta o del mantello bianco e nero delle orche, eleganti predatrici assassine. Il riverbero del controluce e la sabbia portata del vento ci fanno abbandonare a malincuore questo panoramico sperone di roccia. In questo ambiente paradisiaco il tempo è volato.

Oggi è il primo di novembre: dobbiamo rifare i 1800 km per tornare a Buenos Aires.

Lasciamo la nostra “casa rodante”, che tanto ci ha dato, in un garage semibuio. Stacchiamo i morsetti delle batterie, un ultimo controllo e da lontano ci giriamo per un ulteriore saluto. Il volo 234 della British Airway ci porterà a casa e già pregustiamo l’incontro con i nostri cari e la futura atmosfera natalizia.

Dopo due mesi di “ferie” a Merano, il sette gennaio atterriamo all’aeroporto di Buenos Aires. I 42°C ci tolgono il respiro, mentre solo 14 ore prima eravamo infagottati per difenderci dai -7°C. Per fortuna ci aspetta Silvano che ci offre un passaggio, una doccia, l’aria condizionata e tanta amicizia.

Patrizia, come sempre, ci vizia con una cena araba che ci ricorda i bivacchi vissuti assieme nel deserto libico.

A Porto Madero al punto 34° 35, 877 S 058° 21, 796 W incontriamo Lia e Luciano e, davanti ad un Asado e vino tinto, plachiamo il nostro desiderio di carne argentina. Ricordiamo le esperienze vissute con loro nel viaggio in Africa che è durato quasi un anno e decidiamo di fare un po’ di Sudamerica assieme.

Oltrepassiamo Bahia Blanca, città di confine tra la pampa umida e le praterie secche della Patagonia argentina. La Patagonia si mostra poco a poco. Si cominciano a vedere i primi segni di aridità, ma ci sono ancora manti verdi ricchi di pascoli spazzati dal vento incessante che viene dal mare. Tra giochi di luci, pioggia e colori dell’arcobaleno, filiamo diritti verso la fine del mondo. Tira un vento fortissimo al quale dovremo abituarci perchè sarà una costante di tutto il viaggio. La strada che porta a Rio Gallegos è come tutte le strade patagoniche un nastro che parte dal nulla e arriva al nulla, attraversando il nulla, ma ci regala una sensazione di infinito e libertà che nessuna descrizione o fotografia riesce a trasmettere.

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Il silenzio è interrotto soltanto dal rumore del vento che "pettina" le praterie ancora ingiallite.

Traghettiamo lo stretto di Magellano e finalmente tocchiamo la mitica “Tierra del Fuego” che deve il suo nome al suo scopritore che tre secoli fa vide centinaia di fuochi accesi ed attorno ad essi, i nativi seminudi. Qui brucia ancora la sconfitta della guerra delle Falkland del ‘82 con gli inglesi.

“Las Malvinas son Argentinas” ostenta un murales. Anche le cartine geografiche continuano a indicarle come isole argentine.

Gauchos a cavallo con i loro bombachas e alpargatas (pantaloni e calzature tipiche) con l’aiuto dei cani radunano nella polvere migliaia di pecore gonfie di lana. È il momento della tosatura: squadre di abili cottimisti danno prova della loro professionalità togliendo loro il manto in solo tre minuti. Il paesaggio è idilliaco: cavalli allo stato brado e volteggi di un'aquila mora nel cielo terso. Boschi di faggio australe dai tronchi scuri e contorti coperti di muschi, licheni e da una lanetta grigia “Barba del Viejo”, danno a questo posto un aspetto fiabesco e incantato: sembra di vivere in un bosco stregato. Questo è anche l’habitat del castoro. In una piccola laguna possiamo ammirare uno sbarramento di rami intrecciati: è l’opera ingegnosa di questi grandi roditori. Ci appostiamo ma solo verso sera avvistiamo una coppia che nuota silenziosamente nel proprio laghetto. Hanno in bocca un ramo di faggio appena reciso. Purtroppo si accorgono della nostra presenza e, con uno sbattere di code, s’immergono velocemente. Un cielo sterminato si fonde all’orizzonte con la steppa color pastello. L’unica cosa che rompe la linea dell’orizzonte è qualche sporadica estancia e gli alberi battuti dal vento che assumono posizioni contorte... Finalmente siamo giunti alla fine del mondo. Un grande cartello ci informa “Usuhaia la fin del mundo, principio de todo”. La cittadina è un potpourri di case in cemento e lamiera ondulata, ai piedi di vette innevate, adagiata in una baia che si affaccia sul canale di Beagle. Il sole, come una meravigliosa palla di fuoco entra prepotentemente dalla finestra della nostra cellula e in questa atmosfera decidiamo di regalarci per i nostri 120 anni una crociera nell’Antartide. In agenzia compiliamo il formulario: indirizzo, numero di passaporto, numeri di telefono da utilizzare in caso di incidente. Ci hanno fatto firmare di tutto e di più, liberandosi da ogni responsabilità e giustificandosi dicendo che non si tratta di una crociera ma di una spedizione.

ANTARTIDE

Motonave Usuhaia

Calotta Glaciale Antartica L’Antartide è un tesoro scientifico ed ecologico che attira allo stesso modo ricercatori, esploratori e turisti. Viene visitato per la sua incredibile bellezza e per il gusto di vivere la sensazione di stare in un ambiente primitivo e puro dove l’uomo è ancora solo un visitatore.

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Siamo sul ponte della motonave “Ushuaia”, stiamo partecipando con tanto di giubbotto di salvataggio, alle esercitazioni di abbandono della nave. Un lugubre suono di sirena ci avverte che stiamo per salpare.

Rompiamo le righe con un urlo di gioia. Il morale è alle stelle: la grande avventura è iniziata.

Con l’entusiasmo di due ragazzi che marinano la scuola ci avviamo verso la cabina 015. Al primo briefing il capitano in pompa magna ci comunica che a bordo ci sono 45 passeggeri, e che, per tanto, tutti possiamo trasferirci ai ponti superiori. Tre “hurra” per il signor comandante. Così da una cabina collocata tra l’elica e l’albero motore ci trasferiamo al piano comando. Una “figata” pazzesca!!!

Dopo qualche ora di navigazione tranquilla nel canale di Beagle puntiamo verso lo stretto di Darke dove il vento spinge le onde dell’oceano Pacifico verso l’Atlantico. Questo tratto di mare come sempre è in burrasca. La nave ondeggia paurosamente per due giorni e come d’incanto la sala da pranzo, il bar e i corridoi si svuotano. Qui inizia il nostro calvario. Christine entra in bagno e invece si trova catapultata e accartocciata nella doccia. Il recupero è veramente arduo. Fortunatamente si risolve tutto con uno spavento e una escoriazione a forma di punto interrogativo rovescio su una chiappa. Lentamente, a gattoni, guadagniamo la cuccetta. Nel bagno il portaspazzolino e i l cestino stanno facendo una insolita partita di squash rimbalzando rumorosamente contro le pareti metalliche.

Dormire è impossibile, si può solo riposare con braccia e gambe divaricate. Quando sopraffatti dalla stanchezza si muta posizione con una più comoda inizia il rotolamento da una sponda all’altra del letto.

Un cassetto durante la notte è fuoriuscito dal mobile come un proiettile e, assieme al suo contenuto, segue fedelmente ogni movimento della nave. Al mattino inizia il mio dramma. Ben piantato su una sedia, con una mano aggrappata al letto a castello, mi lavo i denti. La nave dopo uno scossone e un sinistro rumore di lamiere si inclina, rovesciandomi lateralmente. Porcaccia… a momenti mangiavo lo spazzolino!!! Mi vesto, sempre con una mano sola, inizialmente in ginocchio e poi a rotoloni sul pavimento, schiacciando tutto ciò che è sparso per terra.

Ho saltato la prima colazione. A mezzogiorno, affamato, entro nella sala da pranzo semi deserta, ma non riesco nemmeno a terminare il saluto “Good Morning” che una forza incredibile mi scaraventa verso il lato destro della sala. Urlo, cerco di frenare la mia caduta aggrappandomi a tutto ciò che trovo e così trascino con me sedie vuote, piatti, posate e bicchieri che per l’occasione fortunatamente sono di plastica.

Tutti sono attorno a me, preoccupati mi tengono la mano e mi tranquillizzano in lingua forestiera. Arriva il dottore e, a carponi sotto il tavolo, mi sente il polso e prima di farmi alzare si accerta che io sia in grado di muovere gli arti. Per fortuna una spessa fascia di “muscoli” foderano le mie ossa e così me la cavo con qualche livido. Mi alzo, vergognosamente mi siedo a tavola e mi…. abbuffo. Questa mio rovinoso atterraggio sotto i tavoli si è saputo in tutta la nave. Nei giorni a seguire ogni volta che mi vedono traballante, tutti ammutoliscono e cercano di mettere in salvo le loro cose.

Finalmente usciamo dal canale di Drake e il mare si placa. La nave si anima di nuovo e la vita di bordo riprende. Stiamo seguendo la rotta con il nostro satellitare e ci rendiamo conto che abbiamo doppiato Capo Horn. Ci comunicano che la temperatura dell’acqua è scesa fino a due gradi. Questo raffreddamento fa capire che abbiamo raggiunto l’Antartide: un mondo dove i confini nazionali non hanno più importanza, dove si depositano le migliori intenzioni dell’umanità, dove ci sono uccelli che non volano e portano il frac e uccelli che volano e sembrano aerei siluranti, dove foche e balene giocano a rincorrersi senza prendersi mai, dove una coltre bianca copre il paesaggio.

Con i gommoni facciamo due escursioni al giorno accompagnati da guide esperte. Solo dopo una maniacale sterilizzazione degli stivali possiamo scendere a terra. Visitiamo: King George Island, Hanna Point, Paulet Island e Livingston Island. I ricercatori della stazione scientifica argentina “Jubany Station”, con la quale collabora l’Italia, ci spiegano che le loro ricerche vertono sul buco dell’ozono, il clima e la sismologia mondiale. I laboratori e le abitazioni sono dei container alti da terra. Gli arredi sono essenziali, le pareti sono impreziosite da splendide foto d’epoca in bianco e nero raffiguranti scene di vita e di caccia alle balene. A Whalers Bay vediamo i resti arrugginiti di uno stabilimento per la lavorazione delle carni di balena. Grossi silos per l’olio testimoniano quanto fosse redditizia e seguita la caccia a questi cetacei e i loro scheletri ormai quasi fossilizzati sono seminati ovunque. Sulla spiaggia, in una pozza d’acqua calda di origine vulcanica, i più coraggiosi si possono bagnare con l’obbligo di tuffarsi prima nelle acque gelide dell’Antartico. Come premio viene servito whisky con ghiaccio degli iceberg ultracentenari.

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Noi, essendo astemi, non ci lasciamo tentare. Il clima è variabilissimo e si passa con facilità dalla pioggia alla neve, a un flebile raggio di sole. Da questo rigido clima ci difendiamo indossando tutto il nostro guardaroba ed in più usiamo anche alcuni capi presi a nolo, uno sopra l’altro a “cipolla”.

Secondo noi il sole si è fatto un po’ troppo desiderare, ma a detta degli esperti siamo nella giusta media: tre pomeriggi di bel tempo su dieci giorni. Stiamo navigando a vista facendo lo slalom tra gli iceberg.

Il sole fa una fugace apparizione e le isole galleggianti di ghiaccio si illuminano di una luce fantastica.

L’aspetto è irreale. Ci sono archi, piscine, templi, palazzi e picchi traforati, sono abbaglianti, trasparenti o traslucidi e vanno dal verde all’azzurro intenso. I tempanos (iceberg) fluttuano liberamene trasportati dalle correnti e se ne vanno alla deriva lontano migliaia di km dalla zona d’origine. Sono in continuo movimento, difficilmente localizzabili e pericolosissimi per chi naviga.

Cerchiamo di assaporare questi momenti più a lungo possibile per poter ancor di più percepire sensazioni incantevoli che questo ambiente immacolato ci trasmette… e le foto si sprecano. L’Antartide si è dimostrata all’altezza delle nostre aspettative. A Paradise Bay nella Penisola Antartica 64° 53, S 62° 52, W effettuiamo il giro di boa. A causa dell’avvicinarsi di una bufera sul canale di Drake, ci fanno rientrare un’ora prima dall’escursione e con la prua puntata a nord navighiamo verso Ushuaia. Lo spauracchio che ci aspetta è ancora il canale di Drake. Ma questa è un'altra storia e ve la risparmio…

CILE

Siamo sulla terra, finalmente “ferma”. Dopo l’atmosfera, la luce e il silenzio dell’Antartico, Ushuaia ci appare come una megalopoli un po’ troppo affollata e frenetica. Recuperiamo la nostra casa rodante che sembra più accogliente che mai. Abbiamo la sensazione che il nostro vestiario puzzi di pinguino, per questo ci fiondiamo in una lavanderia, dove incontriamo buona parte dei partecipanti della “spedizione” antartica con i cesti colmi di indumenti.

Ora il nostro satellitare segna nord. Inizia la salita verso l’Alaska, dove prima o poi terminerà il nostro viaggio…Basteranno due anni? Inshallah… Entriamo nella Tierra del Fuego cilena a San Sebastian, dove incappiamo in un severo controllo sanitario. È proibito importare carne, frutta, verdura e derivati del latte e così, parte della nostra spesa finisce nell’inceneritore. Si scusano, ci ringraziano della collaborazione spiegandoci che è una prevenzione per debellare la Moscas de la Fruta e il virus della Fiebre Aftosa. È l’imbrunire. Stiamo viaggiando su una pista polverosa, in una distesa infinita e non abbiamo ancora - -131 131- -

un posto per dormire. In una Estancia chiediamo un angolo per accamparci. Veniamo accolti con grande gioia e a braccia aperte. Mario, di origine siciliana, con tanto di “coppola” e stivali, ci presenta sua moglie Gabriela, Mario junior e due nipoti. Con orgoglio ci mostrano la loro tenuta e soddisfano la nostra voglia di conoscenza. Una legge provinciale impone di allevare non più di una pecora per ettaro di terra. Tutto avviene con naturalezza, senza inseminazione artificiale e senza mangimi. L’unico intervento del huasas (gaucho cileno) è di spostare il gregge dal pascolo invernale a quello estivo per permettere la crescita spontanea dell’erba. E finalmente capiamo il motivo di questi chilometrici recinti che racchiudono il nulla. A causa dell’ attuale cambio sconveniente con il dollaro, i magazzini sono stracolmi di lana invenduta, in attesa di tempi migliori.

Il loro gregge conta 4000 pecore e in un recinto hanno radunato 1500 corderiti (agnelli di 4 mesi) pronti per essere venduti. Il giorno dopo, per il mio compleanno, ne cucinano uno alla moda cilena. Durante le tre ore di cottura lenta alla griglia ci svelano i segreti di questa specialità patagonica. Impariamo quale legna usare, come distribuire la brace, quando è il momento di insaporire con il Chimichurri.

A cottura ultimata ci cedono i bocconi migliori: i rognoni, i testicoli, le cervella e la lingua. All’inizio ci sentiamo un po’ “cannibali” e siamo titubanti, ma questa sensazione sparisce quasi subito davanti a tanta bontà. Le pareti della loro casa sono tappezzate di gigantografie raffiguranti Mario e Mario junior e la loro Chevrolet 12 cilindri in varie gare automobilistiche e premiazioni. È il momento di proseguire, ringraziamo per la generosa ospitalità e per l’atmosfera familiare che ci hanno fatto assaporare.

L’Oceano Pacifico si presenta frastagliato, con gruppi di isole separate da grandi canali e con fiordi che si addentrano lunghi e sinuosi verso l’interno del continente. Porto Natales è adagiata sulle rive del suo fiordo, dove cigni dal collo nero nuotano placidamente vicino alle rive, mentre cormorani e altri uccelli marini stanno appollaiati sul molo. Il cielo si apre e ci regala una splendida vista su una catena montuosa che spunta improvvisamente dalla pampa. Sono le Ande. Partono da Cile e Argentina e, dopo 7500 km, finiscono in Venezuela e costituiscono la spina dorsale del Sudamerica dell’ovest.

Les Torres del Paine sono circondate da ghiacciai e da laghi di acqua color smeraldo e turchese.

Il microclima offre sostentamento a una flora molto ricca e a una fauna varia. Sentieri ben segnalati danno la possibilità di accedere agli angoli più belli del parco. Purtroppo un incendio sviluppatosi cinque giorni fa per la distrazione di un turista, ora ha un fronte di 16 km e si propaga incontrastato favorito dal vento. Per sicurezza ci fanno uscire in gran fretta da questa Riserva Mondiale della Biosfera. Dietro di noi vediamo colonne di fumo nero frammiste a fiamme che si alzano verso il cielo e centinaia di guanachi che si stanno mettendo in salvo. Così per colpa di un turista poco previdente e una protezione civile male attrezzata, assistiamo impotenti a questo tesoro nazionale che sta andando in fumo.

Il percorso ci porta a lasciare il Cile per continuare la risalita in Argentina sulla famosa Ruta 40.

Uscendo da una delle tante curve ci imbattiamo all’improvviso nello splendore del Perito Moreno, una parete di ghiaccio di uno sfolgorante bagliore che solo i secoli e il silenzio hanno potuto erigere.

Ha un fronte di 6 km di larghezza, si innalza fino a 70 m sopra le acque e si nasconde per 200 m sotto il livello del lago. Il suo movimento sia pure impercettibile è costante: avanza più di 1,5 m al giorno.

La massa glaciale scricchiola e geme e dal suo fronte si staccano blocchi grandi come palazzi che precipitano fragorosamente nel Lago Argentino. Mentre il sole tramonta c’è una condizione di luce fantastica che illumina questi immensi lastroni di ghiaccio galleggianti di colore azzurro con sfumature che vira- no al blu. L’intensità di un'emozione così grande si può misurare solo col silenzio. Ovunque si guardi si vedono solo quadri di rara bellezza. Siamo attorniati da un mondo magico di spazi giganteschi.

I ghiacciai continuano a rompere rocce e scavare vallate, mentre sponde boscose di mirti e migliaia di cipressi screziati fiancheggiano fiumi di gelo.

La Patagonia è una reliquia di un’era antica: qui la natura continua ad essere come era un tempo.

In lontananza appaiano con imponenza le vette andine fra cui padroneggiano il Fitz Roy e il Cerro Torre, la Mecca per scalatori e alpinisti. È un luogo immaginario e nell’incerta luce del tramonto, vedendo questi picchi di roccia, non posso non pensare all’amico Giuliano Giongo e ai suoi tentativi di una ascesa invernale. Un tempo inclemente, vento, gelo e neve lo hanno sconfitto, ma non demoralizzato.

La sagoma del Fitz Roy è sempre presente anche quando non si concede alla vista, mentre il Cerro Torre svetta con la sua corona di gelo antichissimo. È considerato più violato che scalato da Cesare

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Maestri per il suo contestato trapano che è ancora appeso in parete. Siamo nei pressi di una località chiamata “Cueva de las manos” dove centinaia di mani e figure furono dipinte sulla roccia da coloro che abitarono questa terra migliaia di anni fa. Da questa sommità si può vedere il panorama circostante con le ombre delle nuvole che camminano sulle cime degli alberi battuti dal vento. Abbandoniamo la Ruta 40 e a Cochrane imbocchiamo la Carretera Austral. All’improvviso una macchina ci sorpassa come un proiettile lasciandosi dietro una nuvola di polvere e sputando sassolini da entrambi i lati. Purtroppo alcuni di questi colpiscono rovinosamente il nostro parabrezza: che iella! ... Incazzati cerchiamo di limitare i danni con uno stucco a due componenti. La pista si presenta accidentata e stretta, ma i suoi panorami ci appagano della fatica. Una composizione di fucsie in fiore, foglie di taro, felci giganti, palme cycas, bambù e svolazzanti colibrì, fanno da guardrail alla pista. Difficile descrivere la Carretera Austral senza cadere nel banale. Bisogna vederla e viverla per sentirsi in sintonia con questa natura incontaminata. Nei laghi cristallini si specchiano montagne e ghiacciai perenni. Decine di ruscelli e cascatelle scendendo s’ingrossano e diventano fiumi impetuosi color ghiaccio. Foreste millenarie, con un sottobosco di bacche, muschi e licheni formano un soffice tappeto di colori, (dove forse anche Missoni si è ispirato per le sue creazioni). Improvvisamente una sagoma nera, sempre più vicina, sempre più regale: è lui, il condor de los Andes! Il suo volo è leggero, possente e silenzioso, ci osserva, ci trova poco interessanti e facendo ampi cerchi sparisce in cielo.

Con una barca visitiamo la Capilla de Marmol, un’affascinante formazione geologica erosa dalle onde del mare. Sembrano tante cupole di marmo venato poggiate su delicati pilastri che spuntano dall’Oceano.

Le nuvole provenienti dall’Oceano Pacifico si fermano contro le cime delle Ande. Questa cappa di nubi cariche di pioggia ci angustia da parecchi giorni e spesso rende la pista quasi impraticabile. Speriamo che il vento spazzi via tutto e quando finalmente arriva, il tempo cambia: ora pioggia e vento! L’umidità è entrata anche nella cellula. Da giorni Christine insiste che c’è un’infiltrazione d’acqua dal tetto. Per me è un abbondante condensa, per lei invece un fiume in piena. Questa fissa, viverla in 2,60 m x 2,00 m, sta diventando un’ossessione. Non convinto, ma per quieto vivere, armato di due tubi di silicone mi metto a spotaciare oblò e cerniere del tetto a soffietto. Non sapremo mai chi dei due aveva ragione, ma una cosa è certa: alla fine avevo silicone dappertutto, sui gomiti, sulla pancia e nelle tasche.

Le nostre gomme sono ai minimi termini, sembrano delle calamite per chiodi e pietre taglienti e per questo continuiamo a forare. Anche oggi concludiamo questa umida giornata nello stesso modo con il quale l’abbiamo iniziata e cioè sostituendo una gomma bucata. Spossati da questo tempaccio decidiamo a Futalafu di andare in Argentina. Valicare le Ande è stato come girare pagina: strade asfaltate e tanto sole.

Nel Parco de Los Alceres finalmente il sole inonda la nostra casa, l’umidità è solo un ricordo e finalmente Christine si dà pace. Siamo sdraiati su un prato e ci stiamo godendo questo tiepido autunno, quando l’acuto richiamo di un’aquila a caccia ci costringe ad alzare gli occhi verso un cielo blu cobalto.

Il paesaggio di Bariloche assomiglia al nostro Tirolo: gli abeti hanno preso il posto dei cipressi australi, villette e steccati in legno, prati ben curati e laghetti.

Qui inizia la nostra affannosa ricerca degli pneumatici da sostituire che si concluderà solo in Cile a Puerto Varas.

In 261 giorni di viaggio, abbiamo percorso 32900 Km con una media di 127 Km al giorno.

Elenco rotture e rompitore di p…

Il nostro “Toyotone”, soprannominato “imbriagona” (appellativo guadagnato nelle sabbie del Murzuk libico, 28 l di gasolio ogni 100 km ), oltre alla manutenzione ordinaria ha subito un’unica rottura: il filo elettrico che va dal cambio luce del volante ai fusibili; abbiamo fatto resinare il parabrezza. A causa di un tentato furto a Salta abbiamo sostituito l’autoradio e il vetro laterale destro, cambiato l'antenna CB e per precauzione 4 morsetti delle batterie, 5 forature e sostituito 2 pneumatici.

In cellula: stiamo cercando una batteria per i servizi (gel o solare), sostituzione fusibili e porta fusibili della centralina, cambiato le due cerniere del tetto a soffietto, la plafoniera e la zanzariera della porta

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Ora la strada costeggia l’Oceano. La costa precipita a strapiombo nel mare. Superiamo maestosi faraglioni, scogli traforati, baie deserte, archi naturali, calette invitanti e qualche raro paesino di pescatori.

A Punta de Lobos siamo posizionati su uno sperone di roccia dove vengono ad infrangersi le onde lunghe dell’Oceano Pacifico. Sotto di noi una decina di palestrati surfisti cavalcano con maestria i cavalloni oceanici. Il pubblico (8 +1), quasi tutte donne, parlano sottovoce, Christine compresa. Io mi sono ritirato in casa, per fare un po’ di rendiconto.

Dopo aver visto migliaia di km di coste incontaminate, fiordi, montagne, vulcani, acque termali e laghi entriamo nel deserto dell’Atacama con le sue pianure salate dai colori pastello, geyser fumanti e geroglifici Inca. Questo deserto è considerato il più arido del mondo.

A 2300 m San Pedro de Atacama appare come una pennellata di verde su un freddo sfondo di colore marrone. Vivace la sua piazza ombreggiata dove spicca una chiesetta da cartolina. Sostiamo un giorno per acclimatizarci. Seguiamo la pista “del gringo” di 93 km fino ai geyser di El Tatio. Per questa lunga e sofferta arrampicata fino a 4300 m ci vorranno più di 4 ore. A causa della rarefazione dell’ossigeno il nostro Toyotone ha il singhiozzo e la tosse, sfiata, fuma e puzza vergognosamente.

Anche per noi non è una passeggiata. Il respiro è affannoso e dobbiamo di tanto in tanto iperventilare.

Di giorno non è un grosso problema ma di notte questa necessità ci impedisce di dormire.

BOLIVIA

Dopo il lago Chungana a 4700 m s.l.m. varchiamo la frontiera della Bolivia detta anche il Tibet sudamericano. Sia noi che la nostra “asmatica imbriagona”, a causa dell’altitudine, arriviamo molto provati e anche i più semplici movimenti ci risultano faticosi. Siamo catapultati nei colori, suoni e odori tipici della Bolivia.

Si sale tra tesori coloniali, colorite colture indigene, resti di misteriose civiltà antiche, deserti e la puna, pascolo d’alta quota caratterizzato da stepposi e ispidi ciuffi di paca brava. Alla Toyosa ( Toyota) di La Paz in un giorno di lavoro viene risolto il problema della macchina, mentre a noi permane il respiro affaticato, un perenne cerchio alla testa e il cuore in fuori giri. Il tutto si acquieta solo dopo qualche giorno di climatizzazione. La Paz è arroccata a 4000 m di quota al centro di un immenso anfiteatro naturale. A questa altitudine l’aria è rarefatta e per di più appesantita dagli scarichi dei bus urbani che arrancano scarburati sulle ripide strade. Un traffico caotico e strombazzante, giganteschi centri commerciali, scintillanti grattacieli circondati dalle baracche della povera gente dove si può trovare di tutto meno che la serenità: questa è La Paz.

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Questa città ha la caratteristica di avere i quartieri “alti” nella parte bassa della città dove l’aria è più respirabile e il freddo meno crudo, mentre i più poveri vivono in case abbarbicate sul fianco della montagna. Nel centro, dietro Piazza San Francisco, in vicoli stretti troviamo il mercato delle streghe dove vengono confezionati i vari intrugli che risolvono problemi d’amore, salute e denaro.

Le fattucchiere sono donne in costume con tanto di bombetta, hanno i capelli raccolti in lunghe trecce nere e tengono i loro bimbi in un sacco colorato legato al collo.

All’Hotel Oberland ci troviamo con Silvana e Toni e partiamo assieme per il Salar di Uyuni. Percorriamo alcune decine di chilometri nel bianco assoluto. Siamo affascinati e stupiti dalla linea di frontiera tra due infiniti che si toccano: l’immenso piano bianco abbagliante della terra e il blu del cielo. A volte anche l’orizzonte sembra svanire in onde di tremolante calore riflesso, mentre fugaci miraggi vibrano nell’aria.

Scendere dalla nostra macchina e posare i piedi su questo mare di sale non fa che aumentare il senso di irrealtà: la solitudine e il silenzio sono assoluti. Attraversare il Salar è un'esperienza indimenticabile e le emozioni si susseguono continuamente. Dopo qualche ora intravediamo l’Isola del Pesce. Questo scoglio è completamente ricoperto di cactus e circondato da mattonelle di sale a forma esagonale. Il tramonto ci lascia senza fiato: sta colorando questa distesa bianca di un tenue color rosa. Il sole se ne va per lasciare spazio ad una spettacolare notte stellata.

Le strade che portano alle lagune sono piste sterrate che ripercorrono i tracciati delle antiche vie carovaniere. Le seguiamo a passo d’uomo schivando le pietre una dopo l’altra, assorbendo tutto: scrolloni, polvere e buche. Tutto attorno il paesaggio è composto da radi arbusti, sconfinati silenzi e l’imponenza che già cono- sciamo. Gli animali caratteristici dell’altipiano sono il lama, l’alpaca, la vigogna, il guanaco e la viscaccia. I primi due sono addomesticati da migliaia di anni, mentre gli altri vivono ancora allo stato selvatico.

Piccoli paesi isolati e senza nome ci fanno scoprire antichi ritmi di vita, bloccati nel tempo. Le case di pietra rettangolari hanno i tetti di erba Ichu, sono senza finestre e un panno di lana funge da “porta”.

Non hanno nè camino nè focolare e il fumo trova una via d’uscita tra gli interstizi delle pareti rendendole nere. Il pavimento è in terra battuta, non ci sono mobili e per letto hanno un semplice pagliericcio.

A causa della nostra presenza tutti i ninos sono accorsi, hanno il viso bruciato dal sole e perennemente il moccio al naso.

Qui la vita di ogni essere vivente è durissima: uomini, animali e piante devono lottare incessantemente per riuscire a sopravvivere in una natura così avara e ostile.

Bambini già vecchi dirigono scalzi le greggi verso i pascoli. Pietà mista a rabbia ci attanaglia la gola nel vedere un’infanzia violata così “tranquillamente”. Qui non c’è bisogno di “bonbon”, ma di giustizia.

Al mattino riprendiamo il cammino su una pista appena accennata, la si indovina per qualche mucchietto di pietre, lasciate qua e là a marcare la via. Solo verso sera arriviamo alla Laguna Colorada dove cerchiamo in tutti i modi di ripararci dai -18°.

Su una delle rive, in mezzo a tanto gelo, sgorga una piccola polla di acqua tiepida, di circa 35° che diffondendosi nella laguna crea un leggera coltre di vapore. Qui soggiornano colonie di pigri fenicotteri rosa. Sui loro lunghi trampoli filtrano le acque salmastre e solo di rado si alzano in volo in un tutt’uno colorato. Più vivaci sono le anatre selvatiche bianche e grigie che svolazzano senza sosta. La presenza di microrganismi nelle acque provoca uno straordinario fenomeno di pigmentazione che, secondo le ore del giorno e l’avvicendarsi delle stagioni, passa dal giallo carico a rosso vivo. Il paesaggio, nella luce prepotente di queste altitudini, offre a perdita d’occhio trasparenze eccezionali. Nell’aria rarefatta dei 4000 m i colori acquistano un’intensità e una luminosità sconosciuta altrove. Persino una piccola pozza d’acqua, qui diventa un laghetto smaltato di blu. Un vento gelido rompe una grigia cappa di nuvole e, con incredibile rapidità, le sfrangia in un vertiginoso rincorrersi di masse bianche che si stagliano contro il cielo. Per noi è arrivato il momento di ritornare a La Paz e in lontananza vediamo l’Iveco di Silvana e Toni sparire nella polvere verso la Laguna Verde. Strada facendo ci avvisano che ci sono dei disordini nella capitale. Una massiccia presenza di guardie armate denuncia un evidente stato di disagio.

Ci rendiamo conto che una cosa è vivere la Storia sulle strade dove passa, altro è leggerla comodamente seduti in poltrona. Minatori e campesinos hanno bloccato l’entrata in città: sono in sciopero ad oltranza.

Chiedono la nazionalizzazione degli idrocarburi e vogliono l’abrogazione della nuova legge che ha portato l’Iva dallo 0% al 16%. Tentiamo un’estenuante trattativa con i campesinos, ma i minatori dimostrano la loro contrarietà facendo esplodere qualche candelotto di dinamite.

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La deflagrazione e il classico odore di aglio mi riportano al periodo militare quando si facevano brillare con la dinamite i colpi inesplosi. Torniamo sui nostri passi e su una stradina di campagna aggiriamo il blocco. A notte fonda finalmente riusciamo ad accamparci al sicuro nel cortile dell’Hotel Oberland.

Per una settimana seguiamo l’evolversi della situazione in TV e alla radio. Saranno centosessantotto monotone ore d’immobilità forzata nell’attesa di un miglioramento che tarda a venire.

La situazione sta degenerando in tutta la Bolivia. Non si trova più carburante e gas, i generi alimentari scarseggiano e il mercato nero sta dilagando. Le poche volte che usciamo a piedi dalla nostra prigione “dorata” in cerca di carne e pane, vediamo le strade bloccate con mucchi di terra, sassi e pneumatici che bruciano. Centinaia di dimostranti si fronteggiano con polizia ed esercito in tenuta antisommossa, con scudi, cani, maschere antigas e lacrimogeni.

A questo punto avvisiamo l’Ambasciata Italiana della nostra presenza. Molto gentilmente prendono atto del nostro disagio e l’unica soluzione che ci propongono è di lasciare il nostro mezzo all’Hotel Oberland e di tentare di raggiungere l’aeroporto (anch’esso parzialmente isolato) accompagnati da un loro carabiniere.

Al nono giorno di isolamento gli scioperanti fanno saltare parte della rete idrica della città. Facciamo due tentativi di lasciare la città, uno notturno e l’altro diurno, ma ogni volta sconfitti, riguadagniamo a fatica il nostro parcheggio sicuro. Al dodicesimo giorno il Presidente della Repubblica dà le dimissioni.

Per 48 ore la situazione è incerta e tutti si aspettano l’intervento dell’esercito.

Per fortuna viene eletto il nuovo Presidente e i dimostranti gli danno fiducia concedendogli una tregua: abbandonano le barricate che da 14 giorni hanno bloccato l’intera Bolivia. Finalmente è giunto il nostro momento: in tutta fretta e con il gasolio misurato facciamo uno slalom fra 176 interruzioni stradali fatte da voragini, mucchi di terra, sassi, copertoni bruciati e in sei ore raggiungiamo il Cile.

RITORNO IN SUD AMERICA È il 13 dicembre 2005 quando ritorniamo in Sud America. Ci lasciamo alle spalle il freddo inverno europeo ed in aeroporto a Buenos Aires ci liberiamo una dopo l’altra di tutte le felpe che indossiamo.

Ritroviamo la capitale che avevamo lasciato, le sue contraddizioni con quei tratti in parte così europei e che tanto ricordano le nostre capitali vittoriane. Qui tutto è grande, anzi grandissimo come le smisurate avenidas del centro fiancheggiate da moderni palazzi in vetrocemento alternati alle più eleganti ed antiche residenze della ricca borghesia. È il Sud America ed in particolare l’Argentina con i suoi contrasti, ma con la gioia di vivere espressa dalla passione comune per la musica o meglio da un’unica colonna sonora: il Tango.

Riassettiamo la nostra casa rodante, prendiamo d’assalto un supermercato e notiamo che rispetto a 5 mesi fa c’è stato un rincaro del 10% a causa del deprezzamento dell’Euro. Ci vogliono 500 km per arrivare ad Allen, dove troviamo Mirta e la sua famiglia. Mirta Cafarel, è una simpatica professoressa di geografia orgogliosa delle sue origini piemontesi. L’abbiamo conosciuta a Tucuman e, dopo un anno di corrispondenza, ora ci sta aspettando per le feste natalizie. Oltre ad offrirci una piacevole atmosfera familiare ci suggerisce alcuni itinerari di viaggio. La sua dialettica è infarcita di particolari ed il suo entusiasmo ci fa intuire il grande amore che nutre per la terra argentina.

Superiamo indenni un meticoloso controllo sanitario ed entriamo nuovamente in Cile. La costa a sud di Puerto Montt è un susseguirsi di fiordi, fiumi e un' infinità di isole. Sull’isola di Chiloè, le chiese antiche in legno sono la testimonianza dell’opera svolta dai padri Gesuiti. Nella cittadina di Castro immortaliamo le coloratissime case su palafitte. Quest’isola è la patria dei balli Cueca e Vals, riti antichi e feste, dove la chicha de manzana (birra locale) scorre a fiumi.

I ristoranti del posto offrono mariscos in tutte le maniere. Ci facciamo tentare da un piatto immenso ed invitante servito a un tavolo a fianco. “Giardino del mare”, piatto di frutti di mare assortiti, sembra un mazzo di fiori primaverili appena colti. Siamo compiaciuti della nostra scelta, ma ci rendiamo conto che le specie a noi sconosciute sono immangiabili. Vedendo la nostra difficoltà, il cameriere ci incoraggia spiegandoci le proprietà miracolose di questi molluschi. Qui vengono considerati il “Viagra” del mare.

Tentiamo e ritentiamo ma alla fine ci arrendiamo e smettiamo di violentarci…

Qui inizia la Panamericana (Ruta 5) che ci condurrà fino in Alaska. Lungo la cordigliera troviamo una infinità di terme. Sono immerse nel verde della foresta, attorniate dalle Ande ricoperte di neve e così tra un bagno termale e l’altro ci godiamo questa estate cilena.

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Siamo all’officina Toyota di Santiago per una revisione al circuito frenante della nostra “imbriagona” e inaspettatamente incontriamo Lia e Luciano, i nostri amici italiani che con un mezzo simile al nostro percorrono le medesime strade. Dalle ultime e-mail ricevute li pensavamo a 300 km più a sud.

L’urlo di stupore e l’esultanza di tutti noi ha lasciato tutti esterrefatti e meravigliati, dai meccanici agli impiegati.

A Taltal abbandoniamo per un po’ la Panamericana. Siamo su uno sterrato a strapiombo su una costa selvaggia fatta di splendide calette. Il mare è incredibilmente ricco e pulito, di colore azzurro turchese, e cambia tonalità a secondo del flusso della marea e dell’ora del giorno.

Purtroppo, a causa della corrente fredda di Humbold, è solo da contemplare. Le piscine naturali, create dalla pressione dell’oceano, sono splendidi acquari tra gli scogli, nei quali pullulano sterne, pellicani, gabbiani, rondini di mare ed altri uccelli e soprattutto le sule che, a centinaia si tuffano uno dopo l’altra, come in un giocoso carosello nelle onde oceaniche.

Verso sera il sole abbandona la scena. Stormi di uccelli si sollevano in volo formando lunghe file di nastri colorati che svaniscono nel nulla.

Facciamo conoscenza con famiglie che sono accampate alla meglio lungo la costa. Vivono in capanne fatte di stuoie di paglia e rami. I loro volti sono segnati dal sole, dal vento e dalla fatica. Non hanno ne acqua ne elettricità e sopravvivono raccogliendo le lunghe alghe oceaniche. Sono richieste nei mercati asiatici per la ristorazione e la cosmesi. Ci offrono le poche cose che hanno, in cambio chiedono solo di comunicare. Sono informati e giustamente orgogliosi del progresso del Cile e vedono il futuro con grande serenità.

Il mercato del pesce di Valdivia è la vera anima del paese. Un insieme di colori che sono tutt’uno con l’odore delle reti messe ad asciugare, con il disfacimento delle alghe che rotolano sul bagnasciuga, con le esalazioni provenienti dai secchi di pece fumante che ancora viene utilizzata per impermeabilizzare le antiche barche in legno sopravvissute alla vetroresina.

Alcuni leoni marini, stanziali tra le bancarelle, si contendono gli avanzi del pesce con gli uccelli marini.

Qui abbondano i frutti di mare e i crostacei. Decidiamo che questa sera ci cucineremo un’impepata di cozze giganti, ne compriamo sette, sono giuste un chilo!

Il carnevale di Iquique non è certo paragonabile a quello di Rio, ma il ritmo e l’atmosfera ci coinvolgono fino al punto di unirci ad una folla euforica e sculettante. In questa bolgia le barriere si frantumano, non c’è differenza di classe, età e colore. La parola d’ordine è: “divertirsi”.

Con la mia faccia tosta esibisco la tessera (un po’ rivista e corretta) di giornalista e così ottengo il permesso di andare oltre le transenne unendomi ai veri accreditati: giornalisti, fotografi e cameraman.

Il corteo inizia con esibizioni e gare tra le varie scuole di ballo e termina con la sfilata di carri allegorici.

I coreografi si sono ispirati alla politica e la nuova presidente è la più bersagliata.

Le Ande attorno a noi sono traforate come un gruviera da miniere di rame ed oro che, nel corso dei decenni hanno assicurato prospettive di sviluppo in questa zona desertica tra le più aride del mondo.

I materiali di riporto hanno stravolto il paesaggio, formando immense montagne colorate che vanno dal verde pisello al rosso cupo.

Oltre alle multinazionali ci sono diverse piccole miniere d’oro private. Si riconoscono dai tortuosi e ripidi sentierini d’accesso. Appartengono a minatori che per un’intera vita tentano di risolvere il loro magro bilancio familiare rincorrendo il sogno della magica pepita.

Visitare il Cile è estremamente facile. È un paese sicuro e la sua gente, disponibile e gentile, ha un gran senso civico. Lo si nota nella guida: sono quasi maniacali nel rispetto degli stop e sempre solerti con le ricevute fiscali. Per questa loro innata precisione e puntualità nonché per la loro sensibilità alla conservazione della natura si sono guadagnati l’appellativo d’onore di essere gli “inglesi del Sudamerica”.

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La “little Europa” Ci troviamo al Camping “Barbasquillo” a Manta in Ecuador in attesa d’imbarcare la macchina per Panamà. Dividiamo questa esperienza con altri tre equipaggi: i quasi settantenni Yvonne e Otto provenienti dalla Germania con il loro cane Whisky, il francese Jacques con famigliola e la coppia austriaca Norbert e Isolde con la piccola Petra (cento chili in tre). Prima giravano il mondo in bicicletta ma tre anni fa, alla veneranda età di quarantacinque anni è arrivata Petra, hanno quindi arredato un Volkswagen a tetto basso, caricato sul tetto le bici e continuato il loro viaggio.

Panama Dall’alto del 17° piano dell’Hotel Plaza, con l’aria condizionata regolata a dovere, attraverso una parete in vetro fumè, godiamo di una vista fantastica sui grattacieli della città. Fra questa selva di vetro e cemento intravediamo uno spicchio di lungomare. Una fila interminabile di lussuosissime automobili sfilano a passo d’uomo in colonna.

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Ogni banca ha il suo grattacielo e ogni grattacielo il suo casinò. Sembra aperta una gara per la costruzione più avveniristica, più alta ed appariscente. È in questo paese che le banche internazionali hanno le loro filiali. È un paradiso fiscale per società ed armatori di ogni nazionalità che spudoratamente sventolano bandiera panamense ed è inoltre considerata la più grande lavanderia di denaro sporco del mondo. Il sole è tramontato e come in una scenografia hollywoodiana questi colossi si stagliano contro un cielo color porpora.

Gli ascensori panoramici, instancabili con il loro andirivieni, fanno bella mostra di sé dominando la baia di Panamà. Piscine dalle forme stravaganti sono illuminate a giorno, circondate da giardini esotici con l’acqua trasparente color celeste.

Le macchine silenziosamente disegnano scie rosse ed il cielo si sta ormai spegnendo. È proprio un bel vedere. Per vivere meglio questo momento apriamo due finestre scorrevoli. Veniamo investiti da una folata di caldo umido e da uno strombazzare incessante.

Le insegne pubblicitarie, poco prima solo luminose, ora hanno voce e musica e si sovrappongono le une alle altre, in una cacofonia incomprensibile. L’aria è pesante e sale fino a noi come un alito pestilenziale. Guardando bene, quello che vediamo non è il lungomare, ma il canale di Panamà in bassa marea che mette vergognosamente allo scoperto la ragnatela di scarichi di questi avveniristici grattacieli dai piedi puzzolenti. Quello che a noi dà più fastidio è un'altra puzza, aleggia ovunque ed è persistente: “quella del dio dollaro”. Come una bella cartolina illustrata, sul retro mette a nudo ben altre realtà: favelas e tanta miseria.

Davanti a questo sfavillare di luci restiamo ammutoliti: quanto era bella la natura intatta delle Ande!

Rimpiangiamo i silenzi dell’Amazzonia, il fruscio del vento della Patagonia, il bianco immacolato dell’Antartide e la reliquia di un’era antica come le isole nel mare di Cortes.

Finalmente possiamo ritirare i nostri mezzi. Festeggiamo l’avvenimento con un menu che rappresenta degnamente le specialità della nostra “Little Europa”. Un brindisi per salutarci con Pernod ben ghiacciato. La famiglia di Jacques al completo ci canta per intero la Marsigliese, ritornelli compresi… e non finisce mai; intanto le nostre trenette al pesto ed il gulasch di Yvonne si raffreddano. È l’undici giugno. La città di Panamà si prepara per l’invasione dei Polleras. Un maxi manifesto annuncia che domani “cientos de hermosas damas panameñas vestidas de Polleras (accompañadas de sus contrapartes mascolinos, los montunos)” sfileranno nella Calle 50.

Lo sfarzo dei costumi, tutti rigorosamente ricamati a mano, le acconciature arricchite con perline, la musica, la danza ed i canti sono una fusione di tradizioni andaluse che nel tempo sono state influenzate da elementi africani ed indigeni. Non potevamo mancare alla tradizionale festa Indu organizzata dai numerosi e prosperosi commercianti indiani. Un imponente altare decorato a festa posto su un carro avrebbe dovuto sfilare per le vie della città. Dopo pochi metri di processione però, il carro a trazione umana è sprofondato in un tombino e, pericolosamente inclinato, ha finito lì il suo percorso.

Gli sforzi per muoverlo sono stati vani, pur essendo accompagnati da nenie ripetitive e da preghiere: Hare Krishna – Krishna Hare – Hare Rama – Rama Hare. Con una calma serafica che solo queste religioni orientali sanno dare, senza scomporsi, si decide di festeggiare sul posto, non tenendo conto degli strombazzamenti di protesta dovuti al traffico. I fedeli a turno, prima gli uomini e poi le donne, adorano la statua in cera di Srila Prabhupada. Le danze seguono movimenti circolari e concentrici. I canti ed i riti religiosi si sono protratti fino a tarda sera… Hare Krishna – Krishna Hare…Hare Rama – Rame Hare…

L’indomani partenza alla spicciolata. Ognuno con i propri tempi e ritmi, in piena autonomia, vagheremo come anime libere verso un'unica meta: l’Alaska.

Lasciamo la città di Panamà e superiamo il Puente de las Americas, una superba costruzione in acciaio che, come una grande tenaglia, unisce le due Americhe. Dall’alto di questo ponte abbiamo la vista sul canale di Panamà che dal 1999 è gestito dal governo panamense.

Vediamo alla fonda parecchie navi in attesa del loro turno di passaggio. Così facendo risparmieranno qualcosa come 19.000 chilometri, tanti ne occorrono per la circumnavigazione del continente americano.

Le chiuse di Miraflores, che stiamo vedendo, sono solo una parte delle quaranta coppie di porte che costituiscono il sistema delle chiuse di questo canale.

Con un complesso sistema di condotti e valvole di scarico si controllano i livelli d’acqua necessari per innalzare od abbassare le navi, annullando così i ventisei metri di dislivello fra i due oceani, il Pacifico e l' Atlantico. Una nave portacontainers ha appena superato le chiuse. I marinai ci salutano con ampi gesti delle braccia e con un prolungato e lugubre suono di sirena che si espande nella sera.

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Ora ci dirigiamo nel regno della “rana dorada”, specie endemica delle montagne dell’occidente panamense, dove la temperatura è fresca e c’è umidità tutto l’anno, ma ora in serio pericolo di estinzione.

Queste rane sono quasi scomparse per la deforestazione che ha causato il mutamento del loro habitat, ma anche a causa dei conseguenti cambiamenti climatici, dei cacciatori, dei collezionisti e di un fungo letale che le ha quasi decimate. Nel Parque Nazional Campana sono state reintrodotte cinque coppie di questa specie che si erano riprodotte con successo nello zoo di Detroit. Ora nel parco le possiamo ammirare, il loro color oro spicca tra il fogliame scuro, mentre saltellano qua e là dando la caccia agli insetti. Ormai sono pronte per la reintegrazione nella foresta limitrofa. Questa è anche la regione dei latifondi, delle multinazionali e dei campi di caffè coltivati da un’umanità genuina e di natura forte: i campesinos. Hanno l’alito pesante che sa di aglio e peperoncino, le mani segnate dalla fatica e lo sguardo stanco anche di domenica.

Da alcuni giorni siamo fermi nel giardino dell’Hotel “Los Capitanos” a El Valle De Antòn, gestito da un tedesco giramondo, ex capitano di Marina. È un viaggiatore giunto qui per caso, stregato dalla bellezza del luogo e da anni prigioniero della natura che lo circonda. Ci racconta la sua vita ed è come leggere un diario di bordo con tanto di uragani e tempeste. È ora di lasciare Panamà, siamo diretti verso il Costa Rica, che già parzialmente conosciamo, perché come ogni estate abbandoniamo lì la nostra “imbriagona” per tornare a casa dai nostri cari.

Informazioni per la spedizione della macchina da Ecuador a Panamà Guayaquil Compagnia di navigazione: Transoceanica, cia. Ldta; Malecon 1041 Edificio Sudamerica 7° piano tel. 04 2324360 Per informazioni e prezzi solo contatto telefonico oppure e-mail hriebau@transoceanica.com.ec Per l’imbarco a Manta Transoceanica, cia. Ltda; Avenida 2; Edificio Banco Pichincha, 9° piano - uff. 905 tel. 05 2622018 chiedere del sig. Luciano Valencia responsabile per l’imbarco posizione .S 00° 56’ 775 W 080° 43’ 430 Costo Camper indipendentemente dalla misura 995 US$ tasse incluse Volo per Panama: Uff. Viaggi Metropolitan Touring posizione S 00° 56’ 775 W 080° 43’ 430 Indirizzo: Avenida 4 tra Calle 12 e 13 - tel. 05 2623090 e-mail metroman1@systray.net Chiedere della signora Olga Vera che parla inglese ed italiano.

Pacchetto: volo per Panamà compreso 2 giorni in albergo con prima colazione per 2 persone 995 US$ Campeggio a Manta, al mare: “Centro Turistico Hotellero y Camping” posizione S 00° 56’ 679 W 080° 45’ 121 - costo 5 US$ (2 persone incluso macchina, corrente e piscina) Dopo la consegna della macchina alla compagnia Transoceanica si può affittare una stanza al costo di circa 20 US$ per 2 persone.

PANAMA’ Per sdoganare la macchina a Panama City: Agenzia NORTON-LILLY Edificio Frontenac, Calle 50 y Equina 57 Este stanza 2-A tel. (507) 269-1613 cell. (507)6 614-0292 Signor Ernesto Mock e Signora Caritzia Sanches. Importante: si può impedire la disinfestazione della macchina. Allo sbarco si pagano circa 20 US$

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PANAMA’ Valuta: US$

Gasolio: US$ 2,40 x

Km percorsi:2052 gallone

permanenza: 25 giorni

N°

Paese

Punti GPS

Note

1

N 08° 58’ 151 W 079° 31’ 036

2

Penisola Amador inizio del Cau-seway Supermarket El Rey

3

San Anton Le Valle

N 08° 36’ 515 W 080° 07’ 131

Hotel Los Capitanos

4

Colon Tropigas

N 09° 21’ 851 W 079° 54’ 281

Ricarica gas

Dormire YDormire Yacht Club Wi-Fi

N 08° 58’ 327 W 079° 33’ 815

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COLOMBIA È la prima volta che visitiamo la Colombia da tutti molto apprezzata e considerata da alcuni il più bel paese del Sud America.

Conosciamo Manfred, tedesco, capitano di marina, sbarcato a Cartagena venti anni fa, ammaliato dalla bellezza del posto e soprattutto da una spilungona dalla pelle color “gianduiotto”. Ha gettato la divisa a mare e ha messo su famiglia. Si guadagna da vivere sbrigando le complicate pratiche doganali, imbarchi, sdoganamenti e permessi vari. Dopo due giorni di file, fotocopie e ancora file siamo entrati in possesso dei nostri mezzi. “Herr Manfred” si è dimostrato capace ed onesto.

Per portare i camper da Panama alla Colombia ci sono voluti ben 6 lunghi giorni. Siamo stati sballottati da un albergo all’altro, prima a Panama e poi a Cartagena.

Cartagena de Indias è la regina indiscussa della costa caraibica. Il suo centro storico è meravigliosamente conservato all’interno di un imponente cerchia di mura in pietra risalente al periodo coloniale.

La parte più vecchia della città è un labirinto di vicoli acciottolati sovrastati da balconi di legno avvolti dalle bouganville. Splendide chiese monumentali gettano la loro ombra sulle piazze. A giusta ragione è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.

L’aria condizionata, prima in aereo, poi negli Hotel ci ha debilitati fisicamente: chi ha la goccia al naso, chi ha la voce roca, chi accusa la cervicale, chi la lombare, chi la sciatica e chi la bronchite. La mia diagnosi è che abbiamo ben 281 anni in quattro e per quanto mi riguarda la bronchite non è altro che una "malborite". Siamo in pieno raccolto delle arance: una cassa di vitamine C assieme a immersioni nelle acque termali sa- ranno per una settimana i nostri rimedi naturali. Ci siamo crogiolati alle terme Terra Viva, tre vasche di pietra situate sulle sponde del Rio Chinchinà attorniate da un bel giardino fiorito che dividiamo solo con colibrì e farfalle. Le Terme Sant Vicente invece si trovano a 2250 metri di altezza, all’inizio di una ripida valle ai piedi di tre cascate, di cui la più alta tocca i 170 metri, attorniate da una foresta lussureggiante.

Cinque piscine termali si susseguano l’un l’altra con l’acqua di diverse gradazioni di calore.

Ci è stato consigliato a viva voce di visitare il parco di Chicamocha. A metà strada tra San Gil e Bucaramanga si apre la valle del Rio Chicamocha. Pensavamo che fosse nota per la sua flora e fauna, ma scopriamo che non è altro che un grande parco di divertimenti. Una teleferica panoramica scende per tre chilometri fino a valle e ne fa altri tre per risalire sulla parte opposta. Qui facciamo conoscenza delle “Hormigas culonas” letteralmente formiche dal grosso fondoschiena. La credenza che avessero proprietà afrodisiache risale a cinquecento anni fa. Le enormi formiche di color marrone scuro vengono allevate, fritte o arrostite e servite croccanti. A memoria dei nostri 281 anni, ormai prossimi alle badanti, ognuno di noi ne ha fatto preziose scorte. Sanno…di terra che scricchiola sotto i denti, mischiata a vecchi fondi di caffè (cosa non si fa per…). Decidiamo di sostare qui per la notte a quasi 2000 m. Il posto è fresco e ventilato e finalmente diamo un po’ di riposo ai nostri “Viesa”.

Decidiamo di rituffarci ancora una volta nel mare dei Caraibi nel Parco Nazionale di Tayrona.

Il paesaggio è vario. Si susseguono spiagge di sabbia bianca delimitate da grossi macigni tondeggianti, con alle spalle la foresta pluviale dove è facile vedere scimmie e bradipi. Sembra di essere alle Seychelles (mai viste!!!). Purtroppo facciamo la conoscenza degli jejenes, minuscoli insetti simili ai moscerini con un’insaziabile appetito di carne umana che lasciano un prurito insopportabile, e alle numerose zanzare che cercano di spillarci fino all’ultima goccia di sangue. Durante il giorno non si fanno vedere, ma verso il tramonto compaiono dal nulla per gettarsi all’attacco.

Zipaquirà, è famosa per la sua cattedrale fatta interamente di sale, situata a 190 metri sotto terra.

Scendendo si percorrono anche 14 piccole cappelle scavate nel sale che rappresentano la Via Crucis.

Ciascuna nicchia è ricca di simbolismi legati alla attività dei minatori. Raggiunta la navata principale siamo rimasti allibiti nel vedere la grandiosità della chiesa.

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Qui alla domenica più di 8000 fedeli possono assistere alle funzioni religiose.

Dopo la sostituzione dell’intero assale posteriore della mia Toyota ad Ensenada (Messico), ora anche L’Iveco comincia a dare i numeri: non frena e riscalda a dismisura le ruote posteriori. Dopo due interventi meccanici lungo la strada, falliti miseramente, abbiamo deciso di trascinarci fino all’Iveco di Cali.

Purtroppo questo modello militare non è commercializzato. Iniziano tre giorni di calvario per trovare i pezzi di ricambio che dovrebbero arrivare dalla capitale, ma ritardano di giorno in giorno.

Il camper è sempre stazionato sui cavalletti e intanto i Mura sono costretti a dormire in albergo.

Le nostre signore ormai parlano con i meccanici dei ferodi, della pompa freni, delle molle di richiamo, dei cuscinetti, dei semiassi, naturalmente in spagnolo quasi perfetto. Grazie alla caparbietà del capo officina Josè, dopo quattro lunghi giorni di attesa, ci viene consegnato il mezzo funzionante e il morale di tutti è alle stelle, fino a quando ci accorgiamo che la nostra ruota di scorta, pur essendo incatenata, è sparita. Torniamo al distributore di benzina dove abbiamo dormito e guardando il video di sorveglianza notturno, vediamo che alle due e quindici due ragazzi si sono infilati sotto la macchina, apparentemente senza attrezzi. In otto minuti la nostra ruota rotola verso una Volkswagen Jetta e sparisce nella notte a luci spente…ciao…ciao.

Lo staff tecnico ci chiede con insistenza come mai non li abbiamo sentiti. Imbarazzati facciamo capire loro che il nostro sonno è ancora pesante come quello adolescenziale. (Almeno quello!)

Ci troviamo sulle Ande a 2500 m. Scendo dalla scaletta del nostro camper, tocco terra ma sento sotto la suola dei miei sandali muoversi il terreno e intuisco subito che è un serpente. Troppo tardi! Mi ha morso.

Ritraggo il piede e trascino anche il serpentello di soli 50 cm. Lo sento scivolare tra le dita, freddo, viscido e sfuggente. Grido a tutti l’accaduto mentre Christine sembra una sirena dei pompieri incantata a tutto volume. Catturo il viscido animale e lo fotografo per l’identificazione.

Vado in strada (poco frequentata) e aspetto la prima macchina. È una Chevrolet che nel vederci spiritati e con un serpente a ciondoloni, rallenta un po’ e poi se ne va. Probabilmente sembravamo degli spaventapasseri. Aspettiamo, aspettiamo e il nostro prezioso tempo passa inesorabilmente senza sapere se il serpente sia velenoso. Mi vengono in mente tante cose che avrei voluto fare prima di …: abbracciare i miei cari, sposarmi(?), tornare in Africa, rivedere le risaie indo gangetiche, rivivere i silenzi dei deserti della Libia, condividere assieme ai missionari la gioia di vivere della gioventù del Benin ... Con tutte queste cose importanti da fare mi rivolgo al Quel Signore Lassù e lo prego di mettermi per un bel po’ nel dimenticatoio. Finalmente arrivano due contadini con il loro fardello in spalla.

Cerco di mettermi tranquillo, di essere meno precipitoso e spiego loro il fatto avvenutomi, mentre mostro il serpente.

Con un sorriso incorniciato da una barba brizzolata e incolta mi fanno capire che non è velenoso, quelli pericolosi escono solo in estate con le temperature più calde. Ora tranquillizzato, guardo la mia mini vittima con rammarico conscio di aver spezzato inutilmente la sua vita.

Ci troviamo in un parcheggio per camion e anche Umberto vuole il suo spazio di celebrità.

Dobbiamo fare acqua ma la fonte è piantonata da un poderoso cane alla catena. Si vede benissimo, dal solco scavato per terra, fino dove arriva la catena. Purtroppo sono bastati 5 cm di intromissione e Umberto è stato raggiunto dalla dentatura al ginocchio.

Durante i giorni a seguire Umberto è stato da tutti noi sorvegliato speciale in modo da prevenire l’eventuale “rabbia”.

Da qualche giorno la mia Toyota ha una vibrazione, dovuta al tremolio del tubo di scappamento.

Il rumore è assordante e fastidioso. Si avvicina Umberto e mi chiede la provenienza di questo fastidioso fischio. Lo guardo e gli faccio intendere di non aver sentito nessun rumore; si rivolge a Christine e a Michela e anche loro mentono spudoratamente. Lo faccio sedere, gli metto una mano sulla spalla e gli chiedo se lo sente ancora, gli tappo un orecchio e poi l’altro, niente da fare il rumore persiste.

Ci consultiamo tra noi tre a voce bassa, ognuno sfoggiava dei termini tecnici: incudine, martelletto, tube di eustachio, orecchio medio, cervelletto …

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La vittima, il nostro Umberto, è chino verso di noi nell’intento di carpire la nostra diagnosi. Il responso è unanime: è “rabbia”. Il nostro paziente ha gli occhi lucidi, spalancati, la bocca aperta ed è persino gobbo.

In quel momento dimostra tutti i suoi …anta. Io avrei continuato ancora con la sceneggiata, ma la sua Michela, moglie devota e “quasi santa”, lo abbraccia spiegandogli la nostra tresca. Ora è ritornato il toscanaccio di sempre e abbaia dei "vaffa…" a non finire.

Inoltre mi rinfaccia di aver fatto impazzire tutti per un vermiciattolo travestito da “mini cobra” da borsetta.

ECUADOR

Ecuador La famiglia è diretta in paese in fila indiana, tutti con tanto di cappellino e zaino. Jacques, in testa, canta la Marsigliese e marciando li vediamo allontanarsi sotto un sole a perpendicolo, con Danielle che chiude la fila. Al ritorno il più piccolo è in braccio alla mamma addormentato, gli altri due sfiniti trascinano lo zaino e papà Jacques è stracarico di spesa. Sembrano un esercito sconfitto, sfinito ed in ritirata.

Alla sera, prima di coricarsi, Jacques legge una storia ai suoi tre figli. È molto bravo ed anche se tutto ciò che dice non ci è comprensibile, riesce sempre a coinvolgerci, tanto che lo seguiamo in silenzio a bocca aperta. Racconta di una battaglia avvenuta durante la rivoluzione francese. Con molta facilità, aiutandosi con una mimica eloquente e cambiando i toni di voce, si immedesima nei vari personaggi, dall’austero condottiero, al vinto, al guerriero, al soldato morente che in fin di vita grida: “W la France”.

Jacques suona nella banda del suo paese e di tanto in tanto si isola per un’oretta davanti ad uno spartito.

Tiene in esercizio i muscoli delle labbra con il solo bocchino della tromba.

La “little Europa”, così da noi definita, uno dietro l’altro si dirige verso il porto. Dopo varie peripezie doganali come la disinfestazione esterna dei camper, i controlli antidroga con cane, i timbri utili, i timbri inutili e sbagliati e i balzelli vari “succhia dollari”, stiviamo finalmente i nostri mezzi nella nave.

Dopo di che tutti noi voliamo a Panamà. Abbiamo già fatto dogana e stiamo aspettando Otto, Yvonne ed il loro cane Whisky. Non vedendoli arrivare torniamo sui nostri passi.

Man mano che ci avviciniamo all’ufficio del veterinario sentiamo Otto che grida ripetutamente “mafioso”.

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Le vene del collo sono gonfie a sproposito, ma quello che più mi preoccupa è una vena che parte dalla tempia e finisce sulla fronte: è bluastra e pulsante da fare impressione. Con mossa imprevista Otto libera il braccio destro e colpisce con un pugno al bassoventre il poliziotto che si accascia. È un parapiglia generale. Un gendarme chiama aiuto con il fischietto. Whisky si libera del guinzaglio ed abbaiando cerca di azzannare tutto e tutti, noi compresi. Yvonne ora piange a dirotto.

A fatica e con la collaborazione di tutti riusciamo a mettere Whisky in gabbia. Nel frattempo Otto viene placcato a terra, ma anche in questa sconveniente posizione dà sfogo a tutta la sua aggressività inveendo a sproposito. Inizia una lunga ed estenuante trattativa che ha termine solo dopo due ore. È stato pagato il veterinario nella forma voluta ed è stata data una mancia, a noi sconosciuta, al gendarme colpito.

Solo verso sera raggiungiamo il nostro albergo.

Come in ogni viaggio che si rispetti, gli inconvenienti ed i casini non possono mancare. Sono alcuni giorni che ci trasciniamo alcuni guasti. La lampada al neon, sopra il tavolo, ancora una volta non funziona. Controllo i fusibili: tutto a posto. Smonto il pannello della centralina, smanetto i fili, miracolo!

Ora funziona. Richiudo, contento ed orgoglioso del mio sapere. Voglio lavarmi le mani, ma ora è la pompa dell’acqua che non va. Riapro la centralina, lavoro ancora tra i fili e la pompa torna a funzionare.

La richiudo e per scaramanzia provo tutte le utenze: il webasto non dà segno di vita. Riapro il tutto e dopo un’altra ravanata, tutte le utenze funzionano: radio, pompa, luci, riscaldamento, ventole.

Con molta delicatezza richiudo il pannello per l’ultima volta. Diagnosi: ci sono tre fili che arrivano troppo corti ai fusibili.

Siamo fortemente in ritardo, a fine mese abbiamo l’aereo da Buenos Aires per Monaco. Viaggiamo otto ore al giorno e nonostante tutto riusciamo a fare solo 300/400 km. Si parte presto e a mezzogiorno si mangia nei ristoranti lungo la Panamericana. Il primo posto dove vediamo i camion parcheggiati ci fermiamo. Abbiamo imparato a non usufruire del bagno e a parcheggiare lontani dal bidone dell’acqua che funge da lavabo. Quasi sempre è posizionato sotto una pianta e lo specchio è tenuto fermo da un chiodo arrugginito. Gli avventori con una mano portano all’esterno del bidone l’acqua occorrente per lavarsi, altri, i più raffinati si lavano anche i denti usando il dito indice come spazzolino... il seguito vorrei risparmiarvelo perchè è un misto di ranseghe, scataracci e sputi a non finire.

Un giorno incappiamo in una corpulenta cameriera, ormai sugli ...anta con dei pantaloni strettissimi che fanno traboccare impietosamente i rotoli di ciccia da tutte le parti. Sul davanti una pancia ormai cadente le fa da grembiule nascondendo i jeans, le cui cuciture ormai da anni non si vedono più tanto sono infossate. Il rossetto di un color rosso fuoco è stato messo sicuramente senza specchietto, camminando.

Ci serve ancora prima di sederci quattro fumanti "caldi di gallina" (stelline in brodo di pollo).

Il brodo è ottimo, fatto con le parti meno nobili del pollo come cuore, fegatini, stomaci, colli e ciate di gallina.

Come di consuetudine tutte queste parti finiscono nel mio piatto, accompagnate da smorfie di ribrezzo.

Le stelline ormai stracotte sono diventate stellone simili agli “Spitzbuben”.

Il secondo consiste sempre in un sedicesimo di pollo accompagnato con riso e fagioli. Vani sono stati i nostri tentativi di modificare il menù fisso, comunque non vogliamo una montagna di riso e il pollo lo preferiamo senza cilantro (erbetta aromatica). Immancabilmente arriva una mega palla di riso aromatizzata al cilantro!

A causa di questa poca flessibilità ho cancellato all’istante una stella nella mia personalissima guida del Gambero Rosso ma le carni del pollo ruspante sono un bijoux. Bisogna agguantarlo coraggiosamente con due mani (abbiamo a disposizione solo un cucchiaio) e mordere con tenacia la sua polpa scura.

Sono sapori che ormai abbiamo dimenticato. Nel menù strafisso è compreso il bere,"refresco" (che fresco non è), una tiepida camomilla aromatizzata alla mela.

C’è chi, senza fare nomi, sogna il brunello e la fiorentina, ma quando ci arriva il conto siamo tutti soddisfatti. Abbiamo speso meno di un euro a testa.

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Le nostre signore rimangono a babare a tavola, mentre per noi maschietti, mini pennichella di 30 minuti per poi continuare a guidare fino al tramonto. Ma le ferie quando iniziano?

Lungo il percorso ci sono numerosissimi chioschi che vendono dei succulenti frutti esotici: papaye, noci di cocco, manghi, avocado e banane a non finire. Le grandi coltivazioni di banane ci ricordano che siamo nel cuore di quello che, in modo dispregiativo, è conosciuto come il territorio della “Repubblica delle banane”. Questo fardello è l’eredità di regimi fantoccio, dittatori da operetta con un passato di corruzione come lo scandalo di “Bananagate”.

A bordo di due camper fuoristrada abbiamo visitato: Messico, Belize, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Costa Rica, Panamà, Colombia, Ecuador, Perù, Cile, Argentina e Uruguay. Il Boeing 737 della Copa Airlines si stacca da terra e sotto di noi vediamo le coste dell’America che si allontanano. Lasciamo questo favoloso continente che tanto ci ha dato.

Gli abbiamo dedicato 12 mesi e 76 000 chilometri, ma data la vastità e la bellezza dei luoghi sono ben poca cosa. Mentre siamo in volo è un susseguirsi continuo di ricordi, d’incontri, di persone, aneddoti, situazioni diverse e storie vissute.

Non si può non ricordare queste perle: nuotare con lo squalo balena, scarrucolare sopra le cime degli alberi della foresta pluviale sul canopy più lungo del Centro America, poi la maestosità dei siti Maia, le calette della Baja California, i mercati del Guatemala, le coste del Mar dei Caraibi... sono tutti quadri di rara bellezza.

Che dire della natura incontaminata della foresta del Costa Rica e le immersioni nei cenote messicani?

Sono da ricordare per una vita, come reliquie appartenenti al passato.

Forse la cosa più bella ed appagante, quando un viaggio volge al termine, è il senso di calore che i vari incontri ci hanno lasciato. Un ricordo struggente che ci fa venire l’immediato desiderio di rimetterci subito in cammino, di calpestare sconosciuti sentieri forse molto diversi, ma che ci porteranno a nuovi incontri e a nuove nostalgie.

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ISOLE GALAPAGOS È giunto finalmente il momento di far avverare un sogno che ci portiamo dentro da una vita: navigare per 65 miglia tra le Islas Encantadas, ovvero le isole Galapagos.

All’agenzia “Centro Viajero” esibisco le mie credenziali da giornalista ed in più una serie di articoli pubblicati con la speranza, purtroppo risultata vana, di ottenere un trattamento di favore.

Queste isole si trovano in mezzo all’ Oceano Pacifico ad un’ora di volo da Guayaquil e devono il loro nome a una specie di tartaruga gigante la “Galapagos”. Gli Incas conoscevano già la loro esistenza e le raggiungevano a bordo di precarie imbarcazioni in legno di balsa a vela quadra. Erano rifugio di pirati e di cacciatori di balene, leoni marini e tartarughe. Quest’ultime venivano catturate vive garantendo così il nutrimento per lungo tempo a tutto l’equipaggio. Questo arcipelago è “Patrimonio Naturale dell’Umanità” e mantiene inalterate molte peculiarità originarie. Purtroppo non è stato così per la tartaruga gigante “Lonesome George” di cui resta solo un ultimo esemplare maschio della specie ormai stinta.

Grazie all’incrocio delle due correnti marine, quella fredda di Humbold proveniente dal Cile e quella calda del Niño, qui troviamo specie animali tipiche delle zone tropicali che convivono con altre adattate al clima polare. Accanto ad iguane, tartarughe giganti, serpenti, fenicotteri rosa e albatros troviamo infatti pinguini, otarie e balene.

Appena scesi dall’aereo la brezza marina ci accarezza piacevolmente. La nostra guida Mister Wilmer, naturalista dagli occhi a mandorla, ci presenta al resto del gruppo. Dividiamo questa esperienza con otto giovani: Jean Paul francese, Jacqueline e Eva due biondone svedesi, Marlis, Werner ed Olaf tedeschi, Micheal australiano, una spilungona di Hong Kong ed infine con l’arrivo di noi due nonni il “Cormorant” è completo.

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Questa barca non è certo la più bella della baia e tenta di nascondere sotto un bianco immacolato appena verniciato tutte le sue croste dovute a 40 anni di pennellate. Questa vernice bianca, ora la porto con me come souvenir sui jeans e camicie. Vista la cabina e conoscendo i nostri limiti di adattamento ci rendiamo subito conto di avere risparmiato un po’ troppo. Infatti di più economico rimanevano solo le cartoline illustrate di queste isole incantate.

La cabina è piccola, buia e malfatta: due letti a castello, quello inferiore largo un metro e quello superiore destinato a me, non certo per scelta, di solo 50 cm. Un'unica finestra, ovviamente senza tende, dà sul ponte e ci fa sentire sempre in vetrina. Nel piccolo bagno ci sono un WC e un lavandino a 1,50 m d’altezza che rubano posto ad uno striminzito piatto doccia. Spesso si naviga tutta la notte: il rumore e le vibrazioni sono infernali. Risolviamo il problema dormendo sul ponte. Un cielo stellato ci fa da tetto ed in questo momento ci sentiamo più hippy che nonni. Il cuoco fa miracoli in spazi angusti, riuscendo sempre a sfamare tutti, mentre acqua, caffè e tè sono disponibili 24 ore su 24.

I programmi giornalieri sono intensi e spesso le escursioni iniziano già alle sei del mattino.

Mister Wilmer al grido di ”tora tora” sollecita i ritardatari e finalmente la scialuppa è al completo.

Raggiungiamo terra a Sullivan Bay dove le sule dei piedi azzurri dalla livrea bianca e bruna stanno nidificando. È il momento dei corteggiamenti ed ancheggiando buffamente eseguono la loro danza nuziale. Camminiamo sulla battigia di Playa las Bachas, lungo una lingua di sabbia talmente bianca da dover stringere gli occhi a fessura per evitare il sole abbagliante e finire di calpestare i pigri leoni marini sdraiati al sole.

Le iguane marine sono immobili su scogli neri di lava ed attorniate da grossi granchi color arancione i “ Sally Lightfoot Crab”. Le fregate di Seymour Norte hanno un’apertura alare di oltre due metri ed ora stanno covando. Il maschio ha un vistoso sacco rosso sotto il becco che gonfia solo durante la stagione degli amori. Le iguane terrestri dell’isola di Santa Fè, considerate gli ultimi “draghi” vegetariani sopravvissuti, misurano circa un metro e mezzo. Non hanno un bell’aspetto, specialmente in questo periodo dell’anno in cui mutano la pelle. Siamo colpiti dalla tranquillità con cui gli animali si lasciano avvicinare e fotografare senza alcun problema.

Con la nostra imbarcazione “Cormorant” vagabondiamo da un' isola all’altra. Facciamo snorkeling e siamo insaziabili, continueremmo a pinneggiare. Attorno a noi i pellicani si tuffano come proiettili nell’oceano. L’ambiente sottomarino di nuda roccia lavica è monocromatico. Increduli e disorientati vaghiamo nella baia di Bartolomè. Nei bruni meandri di questa fucina infernale si ergono antiche bocche di vulcani ormai spenti. Crateri e pinnacoli punteggiano questa natura tormentata. Fra queste lande desolate e martoriate si vedono i sentieri dell'antica lava, frutto della forza combinata del calore e della pressione. Il magma fuso che tutto travolge, mescola e ricombina, si è solidificato caratterizzando questo paesaggio lunare.

Sull’isola Floriana, un’antica botte di legno funge da ufficio postale. Pirati, marinai ed ora turisti depositano la loro posta con la speranza, che in un prossimo futuro, qualcuno la consegni a destinazione.

Troviamo due cartoline: una è indirizzata a Merano e l’altra a Naturno. Le portiamo con noi e le consegneremo orgogliosamente ai destinatari. Ci immergiamo in uno dei luoghi più particolari del pianeta tra mastodontiche tartarughe e leoni marini, nuotiamo con razze giganti, coloratissimi pesci tropicali, iguana e squali, mentre i pinguini sfrecciano da tutte le parti. L’emozione è grande, non ci si abitua mai a questo spettacolo meraviglioso della natura, dove gli animali vivono accanto all’uomo senza il timore che quest’ultimo li possa sopraffare o manipolare a proprio piacimento. Abbiamo vissuto questi otto giorni come in un sogno, calpestando terre da sempre fantasticate, sapendo di fare un’esperienza non comune, respirando una realtà che avevamo solo sognato e tutto questo ci ha ampiamente ripagato delle carenze strutturali del nostro “Cormorant”.

A 2830 m troviamo Quito. Fu fondata dai conquistadores che la chiamarono San Francisco de Quito.

Numerose sono le chiese e i conventi di ineguagliabile bellezza architettonica. Città pittoresca ed originale è “Patrimonio dell’Umanità”. A causa della difficoltà di parcheggio siamo costretti a lunghi andirivieni e per questo, purtroppo, le dedichiamo solo quattro giorni. Stoicamente sfidiamo l’umidità, il caldo e le zanzare delle pianure del bacino amazzonico, la regione dell’Oriente. È una delle regioni più interessanti dal punto di vista della biodiversità, una terra ricca di boschi, paludi, grandi fiumi e lagune di acqua putrida popolata da animali esotici come tapiri, delfini d’acqua dolce, bradipi, 155-- -155

anaconde, caimani, scimmie, pecari e giaguari. Purtroppo negli anni ’60 anche qui in nome del dio petrolio parte di questa terra è stata violentata e saccheggiata ed ora gli indigeni la stanno reclamando a viva voce.

A Misahualli abbandoniamo la nostra casa rodante per inoltrarci con una lancia a motore nell’intricata foresta pluviale dove giganteschi alberi intrecciano i rami alla ricerca della luce.

I bordi dell’imbarcazione sfiorano l’acqua e la chiglia la taglia leggera. Il rumore del motore rompe il mormorio della scura foresta, che con difficoltà lascia scorgere il sole. Scendiamo per infinite passeggiate fra foreste di bambù facendo impossibili slalom per evitare pericolosi pantani.

Strani incontri tra la folta boscaglia: piccole tribù di nativi, qualche colono, uccelli colorati, fiori e alberi di frutta esotica. Un cielo bizzoso con frequenti improvvisi acquazzoni rendono la temperatura alta e l’aria morbosamente umida.

Ci attrezziamo per la notte. Le amache dondolano lente e cantano un ritmico cigolio ad ogni rullio della barca. Mi affaccio dal barcone e ascolto i rumori della foresta, l’acqua si agita a tratti e rompe in mille lumi il riflesso della luna piena, ma il caldo umido appiccica ai corpi le magliette.

L’amaca avvolge il corpo con la dolcezza di una carezza, ma il ronzare degli insetti è ossessivo. Questa notte la ricorderemo per un pezzo: con le ultime abbondanti piogge si sono svegliate miliardi di larve di zanzare e noi ne facciamo le spese. Cerchiamo di difenderci come possiamo, con repellenti diversi, in confezione spray, stick e crema. Uno, ricordo, si fregia con il noto slogan “nè unti nè punti”. Ci hanno aggredito con una voracità incredibile, ora siamo unti, punti e massacrati.

Gli indios Colorados vivono oltre la cordigliera tra le foreste nebulari delle Ande, vicino alla cittadina di Santo Domino de los Colorados. Ce li hanno descritti come una comunità autoctona, con usanze che si tramandano da secoli. Maschi e femmine indossano una sorta di corta gonna, sfoggiano corpi colorati e incredibili capigliatura impastate con un colore rosso ricavato dai semi di una pianta locale. Essi sono ampiamente rappresentati in fotografia, sulle cartoline e sui principali depliant delle più importanti agenzie di viaggio. Al nostro arrivo non ci degnano di uno sguardo, non siamo il solito torpedone di turisti pieni di dollari da dispensare per una squallida rappresentazione ad uso turistico. Siamo solo in due e quindi non rappresentiamo un guadagno e ci rifiutano la loro abituale sceneggiata. Peccato che questo non fosse descritto sulla nostra fedele guida.

Abbiamo vagabondato per quasi due mesi tra foreste misteriose, nevi eterne, spiagge infinite, fiumi, laghi e montagne che si innalzano nel cielo, tra gente ospitale, artigianato e folclore... tutto questo è racchiuso in questo piccolo paese, l’Ecuador.

Siamo a 7000 km da Buenos Aires. Che fare? Proseguire per il nord o ritornare a sud? Dopo una combattuta discussione tra noi, che non lascia soddisfatto nessuno, pur a malincuore decidiamo di fare il grande salto per il Centro America e così a fine settimana imbarcheremo la macchina da Manta a Panamà mentre noi la raggiungeremo in aereo.

Il boeing 737 della Copa Airlines si stacca da terra e sotto di noi vediamo le coste del Sud America che si allontanano. Da questo momento in noi iniziano dubbi e pentimenti su questa forse prematura decisione di lasciare questo favoloso continente che tanto ci ha dato. Gli abbiamo dedicato 16 mesi e 76000 km ma considerata la vastità e la bellezza dei luoghi sono ben poca cosa.

Mentre siamo in volo è un susseguirsi continuo di ricordi di persone, d’incontri, aneddoti, situazioni diverse e storie vissute. Non si può non ricordare queste perle: Buenos Aires, il Perito Moreno, le Torri del Paine, le cascate di Iguazù, l’Amazzonia, Rio de Janiero, il Machu Picchu, il lago Titicaca, la festa de Caire, il parco di Talampaya, i geyser di El Tatio: tutti quadri di rara bellezza.

E che dire della natura incontaminata come la Penisola di Valdes, l’Antartide, le isole Galapagos, il Panta-nal, l’Oriente dell'Ecuador, la Laguna Colorada, la flora e la fauna sono da ricordare per tutta la vita, come reliquie appartenenti al passato.

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COSTA RICA Sono passati cinque mesi. A Merano fa già freddo e per noi è giunta l’ora di migrare verso il Costa Rica dove ci aspettano Linda e Adriano. Godiamo a pieno della loro ospitalità ed in piacevole compagnia rendiamo agibile la nostra “casa rodante”. Purtroppo il permesso di circolazione nel paese e l’assicurazione della macchina sono scaduti da due mesi, per questo è giunto il momento di lasciare la tenuta dei nostri amici. Ci alziamo all’alba, speriamo di non incontrare la polizia e con non poco patema d’animo, raggiungiamo incolumi la frontiera del Nicaragua. Con la preziosa collaborazione di Adriano riusciamo a far scivolare nelle tasche giuste 200 US$, così risolviamo i nostri problemi. Ci bastano tre giorni di permanenza in Nicaragua per poter rientrare in Costa Rica perfettamente in regola. Questo paese, con un pizzico di eufemismo, è definito “la Svizzera del Centro America”. Dal 1886 gode di una democrazia radicata, non possiede un esercito e la stabilità politica ha favorito l’arrivo di capitali stranieri. È una fusione di organizzazione occidentale con usanze tropicali.

La popolazione è di maggioranza europea e la sua economia è basata sul caffè e sull’ecoturismo.

Il Mar dei Carabi e l’Oceano Pacifico sono divisi da una dorsale montuosa e da una catena di perfetti coni vulcanici falsamente assopiti. Arranchiamo fra aspre montagne, vaste foreste, spiagge solitarie a ridosso della giungla, coltivazioni di palme da cocco e piantagioni di ananas e banane.

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Le valli e le pendici della Meseta Central sono ricoperti da coltivazioni di caffè: filari verde scuro serpeggiano a perdita d’occhio lungo i fianchi delle colline. La combinazione tra pendenze dei terreni e il clima determinano una qualità di caffè dal gusto particolare, morbido ed aromatico, a bassa acidità, considerato uno tra i migliori del mondo.

Qui il caffè è chiamato anche “grano de oro” ed hanno le loro buone ragioni. L’umile chicco ha di fatto aiutato la nazione ad uscire dal buio dei secoli passati, sino al benessere di oggi.

Il parco Waterfall Garden La Paz è un’oasi naturale dove colibrì dalle livree blu, porpora e verde ci ronzano intorno. La loro bellezza è pari alla stravaganza dei loro nomi. Battono le ali ad una velocità eccezionale e hanno la capacità di ruotarle completamente, il che permette loro di rimanere immobili in volo o di volare all’indietro quando si cibano del nettare che è il loro alimento preferito. Farfalle variopinte volano a centinaia seguendo invisibili corridoi sulla scia di altre; si posano ovunque, sugli obiettivi, fra i capelli e sulle spalle. La più appariscente è la Morpho che ha un’apertura alare di quindici centimetri. La parte superiore è blu elettrico, ma quando si posa mostra solo la parte inferiore che è di colore neutro per potersi mimetizzare.

Attorno a noi la volta altissima della foresta pluviale è un'esplosione di verde. Qui volano uccelli dai colori incredibili e le scimmie fanno le loro acrobazie. Colonne di formiche tagliafoglie marciano su un terreno rosso ed umido, trasportando pezzi di foglie come piccoli ombrelli sopra la testa.

Questi frammenti vengono depositati in una colonia sotterranea e lì lasciati decomporre per formare un terriccio su cui cresce un tipo di fungo che usano come alimento.

Respiriamo a fatica, grondiamo sudore e la telecamera, a causa dell’umidità, si blocca. Ci troviamo nell’habitat delle rane colorade, alcune sono rosso vivo con le zampe nere, altre rosse con le zampe blu, altre ancore sono verde acceso con disegni neri. Alcune sudano delle tossine che possono causare la paralisi e la morte di molti animali e persino dell’uomo, perciò venivano usate dagli indios delle foreste per produrre un veleno nel quale intingevano le punte delle frecce per la caccia.

Abbiamo urgente bisogno di caricare le nostre bombole di gas. Siamo diretti alla Tropigas di San Isidro.

Un nastro d’asfalto serpeggia fra le colline, sia a destra che a sinistra si vedono coltivazioni di ananas a perdita d’occhio. Macchie gialle interrompono questa distesa verde, sono i cartelli informativi che avvisano: “ propriedad privada Del Monte, prohibido entrar!” È il momento della raccolta. In lontananza vediamo delle strane macchine agricole di colore giallo che hanno bracci tentacolari dove scorrono dei nastri trasportatori che sfiorano le piante. Una fila di peones si fa strada a fatica tra le piante.

Stanno raccogliendo i frutti maturi, li depositano sui nastri trasportatori e da qui finiscono in enormi cassoni. Di queste unità di raccolta ne contiamo una ventina. Nonostante il divieto entriamo timidamente e ci presentiamo, chiedendo di poter documentare la raccolta. Il “no” è perentorio. Avviliti guadagniamo nuovamente il nastro d’asfalto. Dopo una curva ci vengono incontro una ventina di persone vestite di stracci, ci bloccano la strada agitando le braccia, hanno il viso coperto e possiamo vedere solo i loro occhi.

Con le porte bloccate, ci fermiamo ad una quindicina di metri ed attendiamo l’evolversi dei fatti.

Si avvicinano, si tolgono il bavaglio e con un sorriso rassicurante, ci fanno segno di pazientare.

Notiamo che indossano tre paia di pantaloni uno sopra l’altro, tutti tagliuzzati e spesso i tagli sono così profondi da scalfire anche le loro carni: sono i raccoglitori di ananas. Da una curva, con un rumore di ferraglia, spunta un mastodontico mostro meccanico giallo, le sue estensioni laterali ora sono raccolte verso l’alto e nonostante ciò occupa tutta la carreggiata. Un bianco con tanto di Ray-Ban lo sta guidando.

I suoi modi sono raffinati ed è vestito quasi a festa. Gli scioriniamo la solita filastrocca dei giornalisti ed abbocca, ci dà il consenso di seguirlo nei campi. Ora, imitando “l’uomo Del Monte”, coglie per noi un ananas, lo annusa e con due colpi decisi di machete taglia di netto testa e coda, con maestria lo pulisce offrendocene alcune fette che deliziano il palato. Dopo questa breve parentesi il lavoro dei peones continua e solo ora da vicino comprendiamo il perchè dei loro abiti lacerati. Le piante dell’ananas sono state piantate fittissime, costringendo i raccoglitori a crearsi con fatica un varco tra il fogliame delle piante. Le foglie sono lunghe, coriacee, lanceolate ed hanno un insidioso margine seghettato che lacera i vestiti e spesso provocano ferite ai raccoglitori.

Lavorare la terra in Centro America è difficile. La fatica fisica, l’umidità, il caldo, gli insetti e gli insetticidi accorciano la vita anche ai coltivatori di caffè e banane.

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Siamo in cerca di uno spicchio di mare. Lo troviamo a sud-ovest, nel Mar dei Carabi. Man mano che ci avviciniamo a Puerto Viejo le onnipresenti gigantografie di Gesù Cristo lasciano posto sempre più al mitico Bob Marley. Lo troviamo ovunque, sulle magliette, nei menu dei ristoranti e sui manifesti.

Le influenze musicali tradiscono i legami con la terra d’origine, la Jamaica. I rasta sono numerosi, vestiti nei caratteristici colori rosso, giallo, nero e verde. Questa zona attira irresistibilmente i vacanzieri della controcultura: è la mecca costaricana dell’anticonformismo. Noi siamo gli unici clienti del campeggio Las Olas. Si trova a pochi passi dalla barriera corallina ed è sufficientemente ombreggiato.

Durante il giorno una costante brezza rende il posto fresco e totalmente privo d’insetti. Non è poca cosa se si tiene conto che siamo ai tropici ed è appena finita la stagione delle piogge. Decidiamo di fermarci per tre giorni. Facciamo un po’ di manutenzione: la lampada esterna ed una finestra sono piene d’acqua, pratichiamo qualche foro e risolviamo momentaneamente il problema. Per il bucato, diamo biancheria e detersivo ad un sosia di Bob Marley. Solo in seguito constatiamo che ci è costato più in detersivo (fregato) che in manodopera.

La nostra giornata tipo inizia con un’abbondante colazione sotto le palme. Alle dieci siamo in attesa del ritorno dei pescherecci. Tutte le aragoste sono riservate agli Hotel e noi dobbiamo “accontentarci” dei camarones. Dopo la solita abbuffata mi concedo la consueta pennichella, mentre Chris aggiorna al computer i costi ed il diario di bordo con i punti satellitari. Nel primo pomeriggio bagno in mare. Per raggiungere la nostra piscina naturale, che si trova all’interno della barriera corallina, dobbiamo seguire un percorso obbligato tra i coralli. La trasparenza dell’acqua non è quella del Mar Rosso, ma si sta d’incanto ed il colpo d’occhio è impagabile: palme ovunque, ora ritte ora chine verso il mare. Dividiamo il nostro bengodi con una coppia di trampolieri dal lungo becco ricurvo con il quale si procurano il cibo sulla barriera, durante la bassa marea. Sopra di noi le fregate volteggiano in cielo come aquiloni dal filo invisibile.

Il rasta Boby è il proprietario del campeggio ed è sicuramente considerato il bello del paese.

Il codazzo di giovincelle che gli girano attorno ne sono la prova. Alto, nero, snello, sicuro di sé, un sorriso smagliante e un paio di pantaloncini perennemente calati verso il basso al limite della decenza.

Ha scelto dal mazzo delle pretendenti, Dolores, una spilungona color cioccolato. Anche lei, con le treccine che le danno un’aria sbarazzina, veste un paio di mini pantaloncini jeans che hanno la presunzione di coprire quel che non si dovrebbe vedere. Boby è al telefonino. Con una sceneggiata strappalacrime sta convincendo il suo interlocutore a non tagliargli l’elettricità spiegando che avrebbe provveduto l’indomani a saldare tutto. Mi abborda con un sorriso, che convincerebbe chiunque, mi offre il 20% di sconto per un pagamento anticipato dei tre giorni. Detto e fatto: si veste a festa, con tanto di maglietta con Bob Marley e una scritta a favore dello spinello libero. Mano nella mano con la sua baby fidanzata, ballando e cantando, spariscono nel buio in cerca di una notte da sballo, portando con sè i loro quarantacinque anni in due ed i nostri diciotto dollari. E noi? Ci siamo fatti “gli occhi”. Cena a base di frutta tropicale, un feroce testa a testa a carte (pinnacolo) con imbroglio legalizzato, poi a nanna e prima d’addormentarci un pensiero comune: avremo ancora la corrente domani?

Pensieri di una italiana in Costa Rica Carissimi amici, oggi sono qui sdraiata e mi dondolo comodamente su un’amaca. Sopra di me svetta una palma, la sabbia è nera e la spiaggia infinita. Soffia una fantastica brezza marina, il sole è caldo al punto giusto e la pelle ha il colore del rame... ci mancherebbe solo il cocktail con l’ombrellino perché il “quadro” sia assolutamente perfetto. Ma... (e qui veniamo al punto) quanto è difficile vivere in paradiso! È bello il Costa Rica: l’incontro con la natura è per un turista un'esperienza notevole, un bagno nella “naturalezza” straordinario e sicuramente emozionante. Ma per chi, mediterranea come me, vive e lavora qui, le cose assumono contorni differenti e spigolosi, le contraddizioni stridenti ed i tentativi di adattarsi ad abitudini, pensieri, modo di vivere e di vedere le cose distantissimi dai nostri risulta alla fine quasi più stressante che vivere a Milano con la nebbia, correndo tutto il giorno. Non è il nostro un atteggiamento colonialista, ma qui si percepisce chiaramente la differenza che corre tra chi ha alle spalle una storia e cultura millenaria e chi, certo non per scelta, è passato dal paleolitico direttamente ad internet. La gente è amabile, si rivolge a te chiamandoti “MI AMOR” anche senza averti mai visto prima, sono disponibili, tranquilli e pacifici ma, dopo 5 anni di permanenza qui, posso affermare che mai e poi mai ci capiremo reciprocamente.

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Credo di essermi arresa almeno in parte sul lavoro. Ho imparato a sorridere quando mi chiedono se il bidet serve per i bisogni liquidi al contrario del wc che serve per quelli... solidi. Non mi arrabbio più quando per indicare una bellissima sedia di un noto designer dicono: “Esa cocinada de plastico” (... quella porcheria di plastica). Chissà, magari hanno ragione loro!

A una cosa sì mi sono arresa immediatamente: la natura. Devi arrenderti ed imparare presto a convivere con una moltitudine indescrivibile di insetti, con il serpente nel patio e lo scorpione sotto la pietra che raccogli.

Devi arrenderti ai rospi dietro la porta di casa, alle cavallette giganti perennemente incollate alle zanzariere delle finestre e così via fino alla mantide religiosa impigliata nei capelli. Però le notti sono popolate di lucciole e d’estate il canto delle cicale è incredibilmente assordante ed una nuvola scura che si avvicina velocemente, ti porta milioni di farfalle che migrano.

Straordinario il grande albero davanti a casa quando accoglie decine di pappagalli starnazzanti e che dire delle indescrivibili ranocchie a pois rosso lacca o verde smeraldo che affascinano tanto i miei carissimi amici viaggiatori Christine ed Aldo!

Commovente la megattera con il suo piccolo che per giorni staziona nella baia per riposare prima di riprendere il viaggio verso nord. Come descrivere il brivido che ti assale verso sera quando, dalla foresta che ti circonda, sale una nebbia leggera e spumosa che anticipa l’oscurità e lo spavento davanti alla forza delle piogge che sradicano alberi ed accartocciano i ponti in ferro!

Mi chiedo spesso se tutto questo e la sottile apatia che il tropico ti trasmette mi faranno dimenticare un giorno le passeggiate a Trinità dei Monti ed i profumi del Mediterraneo: riuscirò mai a rispondermi?

Linda S. irrimediabilmente Italiana.

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COSTA RICA Stato: Costa Rica

Valuta: 1 US$ = 517 Colones

Gasolio: circa 346 colones x lt

Km percorsi: 4156 permanenza: 70 giorni N°

Paese

Punti GPS

Costi

Note

2 pers + macch 01

Penisola de Osa

N 08° 38’ 382 W 083° 26’ 122

Playa Blanca dormire sulla spiaggia

02

San Isidro

N 09° 23’ 022 W 083° 42’ 419

Ricarica Gas (Tropigas)

03

Playa Agujas (23 km da Jaco)

N 09° 43’ 320 W 084° 39’ 160

Dormire sulla spiaggia

04

Penisola di Nicoya Brasilito

N 10° 24’ 386 W 085° 47’ 889

05

La Fortuna - Arenal

N 10° 28’ 381 W 084° 38’ 477

Posto di polizia

06

Waterfall Garden Lapaz

N 10° 12’ 328 W 084° 09’ 684

Dormire parcheggio del parco

07

Cartago

N 09° 52’ 063 W 085° 56’ 535

Distributore Texaco

08

Porto Moin Hotel Cocori

N 10° 00’ 586 W 083° 03’ 691

Buona cucina Wi-Fi

09

Puerto Viejo Camping Las Olas

N 09° 39’ 543 W 082° 45’ 050

10

Orosi

N 09° 49’ 162 W 083° 51’ 528

4000 col.

4000 col

Brasilito Lodge Camping Wc e docce

Sul mare, corrente, lavanderia Pizzeria Stella del Nord

NICARAGUA Il Nicaragua è il paese meno visitato del Centro America. Anche ora, dopo un decennio di pace, nella mente di molti è sinonimo di guerra civile. Nicaragua e Cuba sono gli unici stati dell’America Latina ad aver portato a termine un’autentica rivoluzione popolare. Questa reputazione associata alla dilapidata infrastruttura economica spaventa i visitatori.

"El Rifugio de Vida Silvestre La Flor" è stato istituito per preservare una spiaggia lunga tre chilometri famosa perchè principale luogo di nidificazione delle tartarughe “dermochelide coriacee”, una specie a rischio estinzione. Ubbidendo ad un istinto primordiale durante le notti fresche da ottobre a maggio, durante il plenilunio e con il favore dell’alta marea, le femmine arrancano faticosamente sulla spiaggia tornando così sul posto dove sono nate per deporre le uova. Il record di quest’anno è di 143 nidificazioni in una sola notte. Questi rettili sono in pericolo in tutto il mondo. A causa dell’ignoranza dell’uomo varie specie sono sull’orlo dell’estinzione. La placida creatura - -165 165- -

ha la capacità di inabissarsi a profondità elevate per cacciare le sue prede preferite: le meduse.

Ancora oggi sono oggetto di illecite attenzioni. Le uova crude, dai supposti poteri afrodisiaci, vengono consumate nei bar da machos ansiosi di ringalluzzirsi. Sono vittime anche di altri ladruncoli. Coyote, procioni, pecari, fregate, avvoltoi e granchi catturano le tartarughine appena nate. Di solito i nati da un solo nido sono dello stesso sesso, questo dipende dalla temperatura della sabbia (inferiore per i maschi) e anche solo 2°C fanno la differenza. La schiusa è sincronizzata: i piccoli attendono la notte e come un esercito di mini panzer guadagnano il mare. Dopo sette settimane ritorniamo sul posto per la schiusa, armati di torcia elettrica, macchine fotografiche e telecamera per documentare la loro frenetica corsa.

Facciamo attenzione a non disorientarle con le nostre luci e quando le vediamo incolumi sparire nella risacca ci sentiamo appagati e soddisfatti.

Sulla lunga spiaggia di San Juan del Sur, un posto ideale per sostare qualche giorno, siamo sdraiati sul bagnasciuga e la risacca del mare ci lambisce la pelle dandoci qualche attimo di refrigerio. Il sole si sta spegnendo ed è questo il momento migliore della giornata. Ci godiamo la bellezza del tramonto, senza la schiavitù della macchina fotografica, mentre passa qualche venditore ambulante offrendoci le solite cose. Un giovane spingendo una bicicletta si avvicina furtivamente ed estrae da un sacchetto di carta delle palline da ping pong flosce elencandoci le loro miracolose proprietà afrodisiache.

Quando comprendiamo che si tratta di uova di tartaruga, indignati e con tutto il nostro disappunto gli diciamo: “Es prohibido”. Con un sorriso beffardo ci risponde: “lo se, ma stoy muy cuidado” e si allontana con le sue uova, tentando la vendita poco più in là. Queste sono le contraddizioni del Centro America che fanno pensare. Da una parte decine di parchi, alcuni “Patrimonio dell’Umanità”, e dall’altra la consuetudine di trovare uova di tartaruga in vendita nei mercati e nei bar.

Di buon mattino affrontiamo i ventitrè chilometri di sterrato che, attraversando la foresta, portano verso la Panamericana. La vegetazione tropicale avvolge la pista, il sole filtra appena ed i suoi bagliori intermittenti ci accompagnano da tempo. Ad un tratto vediamo, con spavento, uscire dalla fitta boscaglia dei militari incappucciati con un passamontagna nero. Ne vediamo solo gli occhi, il naso e la bocca, indossano una tuta mimetica attillata e calzano stivaletti da paracadutista. Quello che più ci impressiona sono le armi: non sono i soliti fucili antidiluviani, ma armi di precisione con tanto di cannocchiale. Alcuni imbracciano delle mitragliette, già viste in TV, nella lotta contro la mafia.

Un piccolo cenno di saluto e con un gesto della mano ci fanno proseguire. Li vediamo sparire nella nostra nuvola di polvere rossastra.

Tra di noi formuliamo le ipotesi più varie che spaziano da una esercitazione ad un colpo di stato o ad un’evasione di massa. Passano dieci minuti e ci troviamo davanti a un blocco stradale organizzato in grande stile con tanto di sbarramenti chiodati. Alcune persone sono a viso scoperto, mentre altri sembrano i soliti “rambo incappucciati”. Ci fanno proseguire lentamente, solo ora intuiamo il perché di questo spiegamento di forze in assetto di guerra. Per terra allineati e numerati ci sono centinaia di pacchi incellofanati. Le unità antidroga nicaraguesi hanno messo a segno un grosso colpo al narcotraffico internazionale, sequestrando ben 542 pacchi di cocaina pura, per un totale di milleduecento chili.

La merce è stata abilmente camuffata nei cassoni con doppio fondo di un Pick Up Wolkswagen, di un Isuzu e di un camion frigo. La droga proviene dalla Colombia ed è destinata al mercato nordamericano ed europeo.

Mi presento con il mio tesserino da “periodista italiano”, mi accompagnano dalla responsabile, unica donna armata non in divisa, la quale controlla le mie credenziali e mi dà il permesso di documentare l’operazione con foto e film, con l’unico veto di non inquadrare mai i militi. Un addetto stampa dell’arma ci informa sulla dinamica dell’operazione, sulla quantità ed il suo valore commerciale.

Un pacco vale 5.000 US$. Sono sedici i corrieri, tutti nicaraguesi, c’è il forte sospetto che dietro di loro ci sia l’organizzazione messicana. Per questa operazione chiamata “Austral” hanno collaborato unità dell’esercito e della polizia antidroga per un totale di quarantasette uomini ed otto ufficiali. I sospetti sono nati nella zona del porto, dove circolavano macchine con targhe non usuali. Assistiamo alla procedura delle analisi che viene eseguita davanti ai fermati: quattordici uomini e una copia di giovani. Viene inciso il pacco numero 423, un pizzico di polvere bianca viene messa in una provetta con alcune gocce di reagente, si agita il tutto ed appena il colore diventa azzurro, fanno alzare la giovane coppia, leggono ad alta voce la formula di rito e li ammanettano assieme. Entrambi con la mano libera si coprono la faccia con la maglietta. La povera ragazza si è bagnata sotto in diretta e tra i presenti si sente un mormorio.

Ringraziamo le autorità dell’opportunità che ci hanno dato e ci allontaniamo con un magone dentro.

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Dopo questa esperienza toccante, ci rifugiamo in un campeggio. Don Carlos “il sordo”, un gigante tutto ciccia e pieghe, ciondolando si avvicina e si presenta. È un militare che ha un orgoglio smisurato per la sua patria. Sull’attenti, un po’ alticcio e quindi malfermo, si scusa ed abbassa la musica. Con gesti ripetitivi ci fa capire che il suo cuore, la sua persona ed il Nicaragua sono a nostra disposizione.

Lo ringraziamo e da questo momento inizia un andirivieni di doni. Prima di tutto ci omaggia di una maxi bandiera nicaraguese, poi una bottiglia di rum, una di birra e per finire un pranzo completo cotto nelle foglie di palma. Per questo gigante buono ogni scusa è valida per continuare a bere: un brindisi alla nazione, al corazon, alla nostra amicizia ed ancora uno, all’Italia. Finalmente vinto dall’alcool si accascia scompostamente a terra. Ai miei piedi una massa enorme di carne; occhi profondi e piccolissimi chiusi a fessura mi guardano dal basso verso l’alto. Una mini canottiera contorta tenta di coprire uno straboccante petto della terza misura. Con una musica appena soffusa si addormenta e noi abbiamo finalmente la nostra pace.

Qui incontriamo anche Gudrun e Tobias con il loro Land Rover. Dopo una vita passata tra Wireless Lan, Hot-Spot, Bluetooth, Meeting e Timeline e disponibilità 24 ore su 24, si sono accorti che la vita stava sfuggendo dalle loro mani. E sull’onda di” Dale Carnegie (non sognare la tua vita, ma vivi il tuo sogno) si sono concessi due anni sabbatici e stanno facendo il viaggio delle due Americhe direzione nord - sud. Hanno poco più di trent’anni, sono moderni e pieni di iniziative. Come di consuetudine ci scambiamo le informazioni di viaggio, i punti satellitari, le impressioni … Il loro obiettivo finale è di scrivere due libri in inglese. Il primo, una vera e propria guida adatta a chi viaggia con il proprio mezzo, con informazioni su dove campeggiare, dove trovare meccanici, gommisti, lavanderie, supermercati e campeggi, tutto documentato e corredato con punti gps. Il secondo, invece, spiegherà i “cento e più modi di come può essere fregato un turista”. A quest’ultimo, abbiamo contribuito anche noi raccontando le nostre disavventure: dai ricatti della polizia in Marocco, Niger, Benin, Senegal, Zimbabwe, Argentina e Perù, al tentato furto a Gerusalemme con la tecnica della spinta ed a Buenos Aires con la schiuma, fino all’abilità dei cambiavalute egiziani. Tutti episodi che conoscono già, ma verremo ugualmente menzionati “Christine ed Aldo by Meran”, per aver riportato il furto avvenuto a due reporter svizzeri conosciuti a Iguazu.

Viaggiavano in Brasile con un furgone attrezzato a camper, in prossimità degli onnipresenti dossi per rallentare la velocità, sentono un gran colpo sul retro. Scendono per verificare la causa e questi pochi attimi sono stati sufficienti per vedere le loro borse fotografiche sparire a tracolla di un motociclista ripartito a razzo.

Sono consapevoli che la tiratura dei loro libri sarà limitata, dato che la fetta di mercato a cui sono rivolti è esigua, ma ugualmente vogliono concedersi lo sfizio di queste due pubblicazioni.

Dopo dodici giorni lasciamo il Nicaragua. Anche noi non siamo rimasti immuni al fascino degli straordinari paesaggi: picchi vulcanici fumanti, lagune colorate che fanno da specchio al cielo e occupano bacini e valli, montagne e vasti tratti di foresta pluviale. Questo è quello che portiamo via dal Nicaragua, celato nella nostra memoria e mescolato ai ricordi di altri viaggi. Sono tesori preziosi che nessuno ci può rubare.

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NICARAGUA Stato: Nicaragua

1 U$ = 190 Cordobas = C$ Km percorsi 948

N °

Paese

Gasolio: circa 13,66 C$ x lt.

permaenza: 12 giorni

Punti GPS

Costi

Note

0

Bivio x San Juan del Sur

N 11° 22’ 305 W 085° 45’ 413

0 2 0

San Juan del Sur

N 11° 15’ 028 W 085° 52’ 399

Al porto dormire vicino alla polizia

Rifugio de Viola Silvestre

N 11° 08’ 627 W 085° 47’ 570

Dormire davanti entrata parco

0

Granada Centro turistico

N 11° 55’ 130 W 085° 56’ 289

30 cordobas

Dormire davanti rist. El Baricua

0 5

Laguna di Xiloa Centro turistico

N 12° 12’ 534 W 086° 19’ 270

30 cordobas

Lago, possibilità di nuotare

HONDURAS Dopo mezz’ora che siamo imbottigliati tra una fila di camion, finalmente un’anima buona ci fa uscire. Superiamo tutti e raggiungiamo la dogana dell’Honduras. L’intera zona è coperta da un cielo grigio piombo velato da nubi basse. La pioggia dispettosamente appare e scompare, la temperatura è schifosamente afosa, siamo avvolti da una nebbiolina impalpabile e ci scopriamo bagnati fradici.

La dogana è di una filosofica lentezza, cosa frequente nei paesi caldi. I controlli hanno tempi inspiegabilmente interminabili e non sono dissimili da altri.

Una marea di persone ti offre di tutto: c'è il cambiavalute, c'è il guardamacchine improvvisato, c’è chi vende tortillas ripiene di fagioli, formaggio e crema di latte o biglietti della lotteria e quant’altro. È un andirivieni di frontalieri con i loro carichi impossibili. Con i documenti in mano chiudiamo una lunga fila di persone, perchè la polizia provvede a farne passare solo cinque alla volta.

Qui facciamo la conoscenza di “Pedro el dritto”. Si avvicina e con gesti eloquenti ci offre di passare oltre la fila per la modica spesa di 10 US$ a passaporto. Cerco di tirare sul prezzo, ne offro la metà, non mi risponde e se ne va offeso.

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Fa caldo, l’umidità è alta e si suda. La fila non accenna ad accorciarsi, anzi dietro di noi si allunga sempre più. Davanti a me c’è una bimba in braccio a una campesina. I suoi occhioni neri incastonati in grandi fessure bianche mi osservano divertiti. Ha la carnagione color del rame brunito. I capelli neri e folti, tagliati approssimativamente, sono bagnati e mostrano ancora i solchi lasciati da un pettine a denti larghi. Sembra incuriosita dalla mia barba. Dopo vari tentativi riesce a toccarla, si ritrae spaventata e bisbiglia qualcosa alla mamma. Dico a Christine: “Chissà cosa le avrà detto?” e lei con freddezza teutonica mi apostrofa con una delle sue risposte: “Avrà pensato: che strano tipo questo omone dalla taglia XXXL (qualche X me la sono tolta), con in testa un cappello da stupido e con una faccia piena di capelli che pungono”.

Nel frattempo arriva un lussuosissimo fuoristrada con una famiglia di giapponesi. Sono tutti vestiti di bianco, tutti pulitini da sembrare inamidati. Osservo le loro facce disgustate, quando le loro scarpe bianche e i calzini ricamati affondano fino alla caviglia in un pantano rossastro frammisto di bicchieri vuoti, lattine schiacciate e cartacce varie. “Pedro el dritto” li abborda, si accordano e l’intera famiglia supera la fila. Saluto la mia piccola fan e, a distanza, con nonchalance li seguo. Entrano nel selfservice e scopro che è comunicante con gli sportelli della dogana. Chiamo Christine ed in un attimo ci troviamo davanti ai doganieri assieme ai giapponesini dai piedi color fango. Pedro, vedendoci, si avvicina e con una pacca sulla spalla ed un sorriso amichevole ci dice: “Italia campione de mundo” e ci sciorina tutta la formazione della Nazionale.

Percorriamo una sessantina di chilometri di un ex asfalto completamente divelto e deteriorato dalla violenza degli agenti atmosferici. Il paese è molto povero e lo si può capire anche dallo stato disastroso delle strade. Ai margini di ciò che continuiamo a chiamare impropriamente strada, pezzi di copertoni ci ricordano sinistramente il pericolo incombente. Alcune donne con un’espressione di pacata sopportazione scolpita nei volti e nei gesti, aspettano ai bordi della carreggiata il passaggio di qualche automezzo per buttare secchi di terra nelle buche ed ottenere così qualche moneta.

Lungo il percorso ci sono numerosissimi chioschi che vendono dei succulenti frutti esotici : papaye, noci di cocco, manghi, avocado e banane a non finire.

Visitiamo le superlative rovine di Copan, il museo di sculture Maya, il campo da gioco della palla, la scalinata dei geroglifici ed i templi a piramide che sfidano il tempo.

Tegucigalpa invece è caotica, affollata e intasata dal traffico al punto che lo smog oscura il favoloso scenario di montagne che la circondano. Camminando per le strade si sente la presenza incombente dei decadenti palazzi coloniali e delle antiche dimore ottocentesche. Una folla di venditori ambulanti, di fannulloni e compratori occupano perennemente i marciapiedi del centro.

Al mercato si trova di tutto un po’. È un crogiolo di colori, odori e sapori. Si trovano spezie, carne, manifatture in pelle, ceramiche, oggetti in legno e sigari. Si contratta passando da un banco all’altro.

I copricapo delle venditrici incorniciano visi senza età e senza tempo. Nella zona della macelleria, le mosche ronzano ed i cani annusano gironzolando attorno ai cesti dei Chicharrones (cotiche di maiale arrostite e croccanti). Caratteristico di questo mercato è il reparto degli animali dove, tra lo sterco di tutte le dimensioni ed i vari odori, ci sono bovini, ovini e suini razzolanti, tutti legati per una zampa, che scalciano e “urlano”.

Come sempre siamo in cerca di mare e all’Hostal Kiwi di Trujillo, trattando, otteniamo un buon prezzo per campeggiare. Siamo gli unici clienti e ci posizioniamo sopra un bel manto erboso a 30 metri dal Mar dei Caraibi. Lunghe spiagge di sabbia fine ove palme cariche di cocchi orlano la baia. Ci tuffiamo in acqua per toglierci di dosso il caldo umido che fastidiosamente ci ha tenuto compagnia per tutto il percorso. Ci si sente veramente parte della natura. Si può stare nell’acqua poco profonda con una temperatura che consente lunghissimi bagni e nel contempo giocare con i pesci della barriera o osservare gli uccelli che volano sul pelo dell’acqua. È il momento della bassa marea, l’acqua si allontana e si forma una larghissima spiaggia. Sul bagnasciuga si specchia il sole che si sta spegnendo. Sotto ad alcuni tetti in paglia ci sono delle invitanti amache. Ne approfittiamo per rilassarci dondolandoci a vicenda, ma questo momento magico dura poco. Cominciamo ad innervosirci, ci schiaffeggiamo qua e là, non capendo cosa ci sta pungendo. Non vedendo nulla che vola, intuiamo che sono le pulci della sabbia.

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Vinti da questo nemico invisibile ci rifugiamo di corsa in camper, usiamo tutti i tipi di repellenti, uno sopra l’altro, senza trarre nessun beneficio.

Come ultimo tentativo, accendiamo delle spirali che abbiamo comprato in Amazzonia, da noi battezzate “ammazza cristiani” e, finalmente, abbiamo la nostra pace, ma il fumo acre lo sentiamo raschiare fastidiosamente in gola.

Purtroppo le nostre spirali sono ridotte a pezzi e tra un pezzettino e l’altro, questi micro insetti entrano ed escono impunemente attraverso le zanzariere con una facilità estrema. Lasciamo i frammenti più lunghi per la notte, facciamo turni per sostituirli.

Sarà una nottataccia, spalanchiamo tutto nel tentativo di catturare anche il più piccolo alito d’aria.

L’alternarsi fra me e Chris ha funzionato a perfezione per circa un paio d’ore, ma poi per colpa di … si è inceppato.

Non rimane che coprirsi completamente. Siamo in un bagno di sudore, sento che goccia dopo goccia l’orecchio si riempie, straripa ed un rigagnolo scende lungo il collo. È tutto un grattarsi nervosamente e uno scalciare come se si andasse in bicicletta. Alle due decidiamo di andarcene in cerca di un distributore. Solo ora mi ricordo che, a causa del banditismo notturno, ci hanno sconsigliato di viaggiare di notte.

Siamo tesi, incacchiati e tra di noi regna un silenzio tombale. Viaggiamo con le sicure delle portiere abbassate grattandoci l’un l’altro nervosamente. Dopo un po’ vediamo la nostra ancora di salvezza, la stella rossa di un gasolinera, ma non è funzionante e quindi è tutto buio.

Ci viene incontro il guardiano, tutto nero in una notte senza luna. Si Intravedono solo gli occhi ed uno scintillante revolver cromato.

Lo saluto e a bruciapelo gli chiedo: “Ci sono anche qui le pulci della sabbia?” La sua fragorosa risata ci mette di buon umore. Ora vediamo anche una dentatura di un bianco invidiabile. Evitiamo come sempre di posizionarci nelle vicinanze dei camion frigo che qui sono numerosi, specie quelli che trasportano le banane della “Dole”. Dopo una rabbiosa grattata, ci prepariamo per la notte.

Sento il respiro regolare di Christine, beata lei, sta dormendo, io invece rado al suolo tutti i miei “becconi” e quando sento le mie unghie inumidirsi di sangue faccio una piccola pausa di riflessione e poi … e poi, chi se ne frega, continuo con una frenesia spasmodica ed incontrollata ad affondare le unghie nella carne. Finalmente le prime luci dell’alba. Non vedo l’ora che Chris si svegli perché ci sono tre punture sulla schiena dove le mie unghie non riescono ad arrivare.

La cucina honduregna è influenzata dalle tradizioni caraibiche, infatti è ricca di pesce e frutti di mare.

Gustosa e stravagante è la sopa de caracol (stufato di pesce e verdure cotto nel latte di cocco).

Frequentiamo anche i ristoranti cinesi, la cui autenticità è dubbia, ma le porzioni sono abbondanti e offrono un ottimo rapporto qualità - prezzo, ma i nostri preferiti sono i comedores dove le donne del posto cucinano pranzi a menu fisso: fagioli, riso, tortillas e carne.

Nonostante la povertà di questo paese l’influenza americana aleggia ovunque. Grandi supermercati offrono di tutto e di più e così anche noi ci imbattiamo nei loro prodotti.

Leggendo le etichette comprendiamo che dobbiamo essere molto accorti. Vicino al tradizionale latte di mucca ci sono un’infinità di prodotti similari etichettati come “formula lattea”. Sono in tetrapak colorati ed appariscenti e, a caratteri cubitali, viene risaltata la totale assenza di colesterolo e grassi animali.

Le foto di splendide silhouette di ragazze ne sono la prova. Anche nei formaggi, non essendo prodotti dal latte, viene reclamizzato la totale assenza di grassi e colesterolo. La panna è granulare e deriva da una formula chimica.

La cosa più aberrante è il burro, che burro non è, non serve tenerlo in frigo e fa bella mostra di sé su scaffali gocciolanti di grasso. Anche qui il latte è “desaparecido”.

Viene da chiedersi come mai nonostante tutti questi prodotti “dietetici” gli americani detengano la percentuale più alta al mondo di gente obesa.

Prima di lasciare l'Honduras, decidiamo di festeggiare i nostri 50.000 km. di viaggio nella pizzeria “Vesuvio” di Gennaro e Concetta. Davanti ad una gustosa pizza "quattro stagioni" ed una “cerveza fria” ci carichiamo per proseguire il viaggio.

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HONDURAS Stato: Honduras

Valuta:1 US$ =19 lempiras Km percorsi 1390

N° 0 1 0 2 0 3 0 4 0 5 0 6 0 7 0 8 0 9 1 1 1

Paese

Gasolio: circa US$ 2,40 x gallone

permanenza: 10 giorni

Punti GPS

Costi

Distributore

N 13° 51’ 835 W 087° 14’ 738

20 lempiras

dormire

Bivio x Valle le Angeles

N 14° 02’ 845 W 087° 12’ 749

Valle le Angeles

N 14° 08’ 455 W 087° 03’ 056

Camping Valle le Angeles

N 14° 08’ 361 W 087° 02’ 370

100 lemp

entrata Parco National Turistico Wc, docce, piscina

Nord di Tegucigalpa

N 14° 04’ 717 W 087° 12’ 971

La Ceiba (vicino la Mall)

N 15° 46’ 548 W 086° 47’ 444

200 lemp

Wc, acqua, docce, corrente

Banana Republic Guesthouse La Ceiba lavanderia

N 15° 46’ 198 W 086° 47’ 777 80 lemp

Wc, acqua, doccia

Trujillo Puerto Castello Casa Kiwi Hostal Juticalpa collina stazione polizia Quimistan distributore

N 15° 59’ 057 W 085° 54’ 588

Ruine Copan distributore Texaco

N 14° 50’ 344 W 089° 08’ 864

Note wc

N 14° 40’ 140 W 086° 13’ 260 N 15° 20’ 424 W 088° 23’ 983

Lungo la strada per Copan 50 lemp

Guatemala Il Guatemala è il Paese più caratteristico e folcloristico del Centro America. Appena entrati nel paese rimaniamo sorpresi dalla disponibilità, dalla cortesia e dall’assoluta pacatezza del popolo guatemalteco.

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È un paese dal recente passato triste e crudele. Per affermarlo non è necessario tornare alla lunga e cruenta occupazione spagnola, seguita al declino della civiltà Maya che forse proprio qui ha lasciato le sue testimonianze migliori.

Le carte di credito ed i bancomat non sempre sono accettati e così siamo gli ultimi di un’interminabile coda davanti alla banca per effettuare il cambio dei nostri dollari. Davanti a noi, campesinos dall’aria molto dimessa tengono in pugno i loro quetzal per il pagamento della bolletta della luce. L’analfabetismo è ancora una triste realtà, lo dimostra il fatto che alcuni, al posto della firma, appongono l’impronta del pollice sulla ricevuta.

Le colline dell’Altipiano di Quichè sono ricoperte da prati, campi di granoturco mossi dal vento e boschi di pini d’alto fusto. Un gruppo di casette costruite con pali di legno e fango e dai tetti di paglia sono disposte intorno a un cortile comune. Le galline razzolano in giro, mentre una donna maya tesse una stoffa colorata con un vecchio telaio fissato ad un albero.

Ci invitano in casa per dividere con noi un “caldo de gallina”. Per entrare dobbiamo chinarci. Ci vuole un po’ ad abituarsi all’oscurità dell’ambiente. Una vecchietta con i capelli bianchi come fili d’argento sfrutta l’ultima luce dell’uscio per ricamare, fino al cadere del giorno e alla resa degli occhi. Un lume a petrolio viene messo sul tavolo e con il suo fumo acre inizia ad impestare l’aria calda della sera. Come unico ornamento la pagina di un vecchio calendario raffigurante un paesaggio alpino strappato da una rivista.

L’umiltà e l’umanità di questa gente non può che mettere a disagio noi viziati occidentali.

La loro povertà è ben nascosta da una spessa patina di dignità.

Semuc Champey deve la sua fama ad una meraviglia naturale ma raggiungere questo angolo di paradiso presenta delle difficoltà per la sua strada accidentata e piena di buche. Una volta giunti si è ampiamente ricompensati della bellezza del luogo.

I suoi laghetti hanno un’acqua con delle sfumature che vanno dal turchese al verde smeraldo. Entriamo in questo posto magico con lo zaino in spalla e con un ananas in mano trattenuto per il ciuffo.

Intravediamo attraverso lo scuro fogliame della foresta alcune chiazze di luce, sentiamo lo scorrere dell’acqua ed il chiacchiericcio di alcuni giovani che fanno il bagno. Li raggiungiamo, facciamo loro un cenno di saluto. Sono tutti giovanissimi e ci sentiamo ancora una volta i nonni di tutti.

La giungla si apre e concede posto a questa valle. Il colpo d’occhio è a dir poco eccezionale. Un bel sole caldo inonda il fiume che scende verso valle di terrazza in terrazza formando delle piscine naturali bordate da una vegetazione tropicale di un verde chiarissimo, in contrasto con il buio della foresta.

Vedere quest’acqua trasparentissima tracimare di piscina in piscina ci dà un senso di paradisiaca pace.

Attraverso sentieri appena marcati arriviamo in un canyon. Ci si imbatte nella fresca irruenza delle bianche spume di un limpido fiume sotterraneo, il Rio Cabahònche che, con un frastuono infernale, scaturisce dalla viva terra.

Dopo i primi cento metri la spelonca si allarga e il paesaggio si impreziosisce di queste acque tiepide che tracimano da alveoli naturali sino a valle. Nuotando ed a volte scivolando sulle "chiappe" passiamo di piscina in piscina fino in fondo.

La rovinosa scivolata termina sempre con un grido, soffocato dal risolutivo splash finale. L’ananas spesso ruzzola per conto proprio, giungendo sempre per primo nella vasca sottostante. Siamo caduti in una piscina a dir poco “occupata” e, nonostante le nostra urla, i due “occupanti” non si sono nemmeno accorti di noi.

Sembrano due corpi femminili, bianchi cadaverici, con lunghi capelli biondi, ma le loro nudità non lasciano ombra di dubbio. Sono intenti a compiere il gioco più antico del mondo: l’amore.

Un imbarazzato “sorry” e continuiamo la nostra discesa. Dopo insaccamenti vari e qualche graffio, arriviamo nella nostra ”Jacuzzi”. È lunga sette-otto metri e larga appena due, divisa da un grosso albero caduto da tempo, coperto da epifite, da diversi tipi di orchidee, da muschi e felci arboree di un tenue verde trasparente. Anche noi, finalmente, siamo intenti nel gioco più antico del mondo ... infatti ci spintoniamo a vicenda per impadronirci dell'unica cascatella godereccia.

Christine la fa scrosciare su una spalla dolorante mentre io ne ho assoluto bisogno sulle reni, vittime delle insaccate subite durante la nostra discesa. Il nostro “Eden” è di un’armonia unica. Ci guardiamo intorno compiaciuti. Siamo immersi fino al collo, lo scrosciare dell’acqua ci fa da sottofondo, chiudiamo gli occhi, la fantasia vola... abbiamo la sensazione di galleggiare nel nulla. Il ritorno è più sofferto: a causa del troppo tempo passato in ammollo, abbiamo le gambe legnose e le articolazioni sembrano arrugginite.

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A piccoli passi riguadagniamo la nostra casa rodante in campeggio. Come di consueto siamo soli.

Il guardiano se ne va portandosi dietro le nostre immondizie per non essere disturbati durante la notte dai maiali selvatici. Le ombre lunghe della sera ci avvolgono, la foresta inizia a fare sentire la sua voce, milioni di insetti brulicano nell’aria, ogni tipo di suono e rumore ci circonda. Scende la notte, mentre lucciole e pipistrelli paiono rincorrersi all’infinito.

Al mattino presto ci intrufoliamo nella riserva del Biotopo del Quetzal, con la speranza di intravedere l’uccello sacro dei maya. È grande come un piccione e sfoggia piume smeraldo iridescenti. Il maschio corteggia la compagna mettendo in mostra il petto rosso sangue e la grande coda biforcuta che è lunga fino a sessanta centimetri.

In questa foresta gravita una densa e lattiginosa nebbia. Avanziamo in questo mondo verde, umido e soffocante, con titubanza e circospezione. Il fango risucchia i nostri stivali. Una quantità industriale di zanzare ci divora e rende difficoltoso il cammino lungo i sentieri di felci e muschi che è l’habitat di questo introvabile e invisibile pennuto, simbolo di libertà.

Chichicastenango è un intricato dedalo di viuzze acciottolate. I tetti dalle tegole rosse sono avvolti nella nebbia e sembrano immersi in un alone di magia. Il mercato ci lascia a bocca aperta. È un tripudio di colori e suoni ed è una ventata di allegria. Qui i maya si trovano a centinaia per vendere i loro prodotti. Le donne con i loro abiti lunghi multicolori, con il copricapo (tocoyal) e con i fagotti sulle spalle faticano ad alzare gli occhi da terra, piegate come sono e svantaggiate dalla bassa, a volte bassissima statura. Hanno i visi rugosi e la pelle bruciata dal sole, ma esprimono ugualmente una grande serenità. Giriamo fino a stordirci tra carretti a trazione umana, venditrici di stoffe, sarti, calzolai, rigattieri... L’aria è impregnata dai profumi penetranti di erbe medicinali, spezie e puzzo di fritto.

Anche qui maiali e tacchini sgozzati davanti al piccolo pubblico di turisti curiosi che si è radunato nella zona della macelleria, mosche che ronzano, cani che annusano e gironzolano attorno ai cesti traboccanti di teste di maiale pulite, arrostite e croccanti. Un’anziana donna ci regala una tortilla ancora calda e con questo piccolo gesto cadono tutte le barriere della lingua, della religione e dell’etnia. Un frettoloso corteo attraversa la via centrale: è un funerale. Il feretro sobbalzando sfila davanti a noi seguito da una schiera di scolari in divisa blu. Li raggiungiamo al cimitero che è del tipo monumentale.

Le tombe sembrano delle mini casette dipinte con colori sgargianti, una differente dall’altra.

La cromaticità è eccezionale. La pratica religiosa cattolica è affiancata dai riti maya. Lo sciamano dispone una profusione di candele in cerchio frammiste a uova e decorazioni con la calce, mentre il profumo d’incenso si espande. A questo punto i partecipanti banchettano con tamales (involtini di granoturco e carne avvolti e cotti in foglie di banana).

La chiesa di Santo Tomas è in corso di restauro, ma le sue colorate e semplici decorazioni ricordano il ricco folclore locale. Assistiamo alle pratiche religiose. Anche qui convivono sotto lo stesso tetto sciamani e sacerdoti. Così con semplicità e naturalezza il sacro ed il profano si confondono in un’atmosfera mistica e misteriosa. Sui gradini si brucia l’incenso di resina copale e i capi preghiera agitano gli incensieri recitando parole magiche in onore dei loro antenati maya.

Siamo stati spettatori discreti e rispettosi di riti antichissimi, forse destinati a perdersi nel corso di poche generazioni. Raggiungiamo il lago Atitlàn attorniato dai suoi vulcani parzialmente attivi che incombono sui luoghi circostanti.

A Panajachel, soprannominata Gringotenanga, dopo tanto tempo vediamo una fiumana di visi pallidi che si aggira tra le chilometriche file di bancarelle. Tutte espongono la solita paccottiglia per turisti.

Sono talmente tante ad offrire le stesse cose che viene da chiedersi come possano sopravvivere tutte.

Scappiamo da quest’atmosfera artificiale e lungo il fiume troviamo un campeggio gestito da un americano, un hippy della vecchia generazione, osservatore critico degli eventi mondiali ed ossessionato dal futuro della terra. Ci spiega che secondo il calendario maya il mondo si trova in una fase molto difficile dovuta a Venere che incrocia il Sole.

Da Zunil percorriamo la tortuosa stradina che porta alle terme Fonte Georgine. Emergiamo dalla nebbia mattutina e scopriamo su questi ripidi pendii l’agricoltura di montagna. I contadini sfidano la legge di gravità e aiutandosi con i ramponi, coltivano degli appezzamenti altrimenti irraggiungibili.

A Christine, vedere intere famiglie coltivare la terra, dai nonni fino ai bambini di 7-8 anni, sembra di rivivere la sua infanzia, quando i macchinari ancora non esistevano. È un andirivieni di pick-up stracarichi di ortaggi che ad ogni sobbalzo perdono parte del loro carico composto da ravanelli, insalata, cavoli, patate e cipolle dal sapore unico, che in seguito allieteranno anche la nostra tavola.

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A 2300 m ci immergiamo in piscine d’acqua termale orlate da pareti a strapiombo ricoperte da una ricca flora tropicale. I vapori dell’acqua frammista a nebbia ci avvolgono e creano un’atmosfera dantesca mentre l’acqua calda ci ritempra.

Canopy. Fino a poco tempo fa, questa parola per me non aveva nessun significato. Ora, dopo averlo sperimentato, mi sento felice ed orgoglioso. Ci troviamo all’entrata del sito storico di Tikal. Il ticket acquistato dopo le ore 15 è valido anche il giorno dopo.

Dobbiamo perdere una mezz’oretta e gironzoliamo nei paraggi curiosando qua e là. Entriamo nell’ufficio della Canopy Tour Tikal “Turismo de Aventura”. Le pareti sono tappezzate di gigantografie della foresta vista dall’alto e di persone appese ad una corda che scivolano tra scimmie urlatrici, tucani, aquile more, fiori e cascate. Sembra il paradiso terrestre. Il manager Alvaro Gàlvez mi spiega che il percorso è di 1500 m, lungo il quale sono dislocate otto piattaforme aeree per la sosta.

Queste sono poste ad una altezza che varia da 10 e 40 m e sono collegate tra loro con un cavo d’acciaio da utilizzare per gli spostamenti. Mi accompagneranno passo dopo passo delle guide esperte.

L’equipaggiamento è di alta qualità in modo da garantire elevati standard di sicurezza frutto di dieci anni di esperienza.

Rassicurato in “todo“, mi preparo con tanto di guanti, imbracatura ed una serie di moschettoni (che ancora oggi non so a cosa servissero) più una sagola di sicurezza anch’essa dotata di moschettone.

Mi fanno le ultime raccomandazioni su cosa non fare e finalmente sono pronto a partire. Salgo fino a 40 m, scalino dopo scalino. Le rampe di scale sono appese e girano attorno a un gigantesco albero della gomma “sapodilla” che svetta ben al di sopra della volta della foresta. Gli scalini sono in legno e di altezza irregolare, a volte sono inclinati verso il tronco, altre volte verso l’esterno. Il corrimano è una corda d’acciaio che purtroppo non sempre è tesa, il che mi rende irrequieto. Ma quello che più mi disturba è il modo in cui un ragazzino sposta la mia sagola di sicurezza da un ancoraggio all’altro senza avvisarmi.

Ho tentato più volte, invano, di fargli capire che avrebbe dovuto avvisarmi così, durante questa operazione, mi sarei fermato e avrei tirato il fiato. Sono stanco, queste scale non finiscono mai, le mie gambe sono ormai legnose, tremanti ed inizio pericolosamente ad inciampare. Finalmente, con il cuore fuori giri, arrivo sull’ultima piattaforma.

Grondo di sudore, ma il panorama è stupendo. L’albero oscilla, ma non mi preoccupa più di tanto.

Anche a 40 m da terra, il diametro di quest’albero è così grosso che una persona non riesce ad abbracciarlo, ovviamente è questo che mi dà veramente fiducia. Da quassù si vedono dei rampicanti che avvolgono completamente le cime delle piante ed a perdita d’occhio questo manto verde punteggiato di fiorellini bianchi segue fedelmente le gibbosità della foresta.

Pappagalli ara, sempre fedelmente in coppia, volano da una cima all’altra ed i richiami della foresta ora sono attutiti dal fruscio del vento. Mi aspetta una scarrucolata verso la prima piattaforma da dove non si può più tornare indietro. Mi raccomandano ancora una volta la posizione del corpo: deve assolutamente essere parallela alla corda, per non correre il rischio di roteare su se stessi.

Imbottito di suggerimenti, alcuni capiti, altri solo in parte, con la telecamera a ciondoloni, calzo i guanti, aggancio il moschettone di sicurezza alla fune che vedo sparire in lontananza tra i rami della boscaglia sottostante. Questo mi ricorda una prova che ho superato (falsa carlinga) sotto i parà a Pisa 44 chili fa.

Accendo la telecamera su “Rec” e faccio il piccolo balzo del non ritorno e via, giù verso le fronde della foresta. Durante il tragitto non mi curo della telecamera, ma penso solo a frenare e quando tra il fogliame all’improvviso vedo la prima piattaforma capisco che non ci sarei mai arrivato, infatti finisco la discesa 10 m prima della balconata posta a 40 m da terra.

Cosa fare in questa situazione non me lo ha detto nessuno, oppure fa parte di quelle spiegazioni non comprese del tutto. Mimando mi fanno capire di avvicinarmi alla piattaforma con piccole bracciate fino a quando, una mano poderosa, mi aiuta a salire su questo tanto agognato ballatoio di sicurezza.

Mi consolano, dicendomi che succede a tutti e mi suggeriscono di frenare solo alla fine. Messo in pratica questo ultimo consiglio, il resto è stato molto bello e ho iniziato a filmare. È entusiasmante passare tra la foresta, rasentare tronchi giganteschi, ripararsi dal fogliame che ti corre incontro. Non ho visto gli animali che i prospetti magnificavano, ma la sensazione di volare tra questa natura incontaminata e di vederla da questa nuova prospettiva mi ha dato una sensazione di euforica libertà. W il canopy!!

Con ancora l’adrenalina del volo nel sangue, dedichiamo gli ultimi due giorni della nostra permanenza

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in Guatemala alla visita di Tikal. Sicuramente non sono sufficienti per visitare gli oltre quattromila edifici collocati in 16 kmq di giungla. I maya scelsero queste colline per elevarsi dal terreno paludoso che le circondano. A differenza di Copan (in Honduras) si passa da un tempio all’altro sotto la fitta cupola della foresta pluviale. Maestosi i suoi siti quadrati che svettano al di sopra della volta della vegetazione alcuni alti più di 40 m. Entusiasmante la sua flora: mogani, cedri, sapodilla, ginestre, palme, felci, orchidee e diverse specie di liane. Così termina un altro pezzetto del nostro viaggio. Il Guatemala ha superato tutte le nostre aspettative. Ci siamo sentiti a nostro agio, sempre in sicurezza, circondati da gente affabile sempre pronta ad aiutarci.

GUATEMALA Stato: Guatemala

Valuta:1 U$ = 7,56 Quetzales

Gasolio:circa 19,75 x gallone

Km percorsi: 1702 permanenza:20giorni N

Paese

Punti GPS

Costi

Note

2 pers + 0 1 0 2 0 3 0 4 0 5 0 6 0 7 0 8 0 9 1 0 1 1 1 2 1 3 1 4 1 5

Chicuguimula Chiguimula Hotel casa y camp Coban centro Hostal Doña Vitoria Cunèn distributore Quetzal Aquatacan Rio San Juan, vicino fiume San Cristobàl Totonicapan alt 2351m Fuente Georgine therme Panajachel Lago. Atitlan Camp. Campana Chichicastenango Jocotenango la casa di Santa Lucia Guatemala City, inizio “Anillo periferico” Dopo il ponte lungo subito a Dx Distributore strada per Coban L Peten, El Remate, camp “Gringo Perdido” Tikal camping all’entrata

N 14° 48’ 054 W 089° 32’ 748 N 14° 46’ 888 W 089° 32’ 927 N 15° 28’ 110 W 090° 22’ 268 N 15° 17’ 383 W 091° 05’ 446 N 15° 21’ 099 W 091° 18’ 259 N 14° 54’ 564 W 091° 27’ 020 N 14° 45’ 021 W 091° 28’ 817 N 14° 44’ 257 W 091° 08’ 979 N 14° 56’ 540 W 091° 06’ 580 N 14° 33’ 597 W 090° 44’ 236 N 14° 37’ 571 W 090° 33’ 477 N 14° 38’ 750 W 090° 31’ 538 N 14° 54’ 896 W 090° 05’ 912 N 16° 59’ 725 W 089° 42’ 864

Supermarket Paiz 70 Qu 50 Qu Dormire e acqua 10 Qu Distributore

70 Qu

Entrata terme e camping ( da non perdere) Docce calde

36 Qu

Distributore ( vicino al mercato)

40 Qu

Attenzione, alt. massima 2,75m (vicino mercato) Non segnalato

90 Qu

Con doccia 50 Qu 60 Qu

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Camping con piscina

Sul lago, posizione bella, un po’ trascurato Docce

BELIZE Arriviamo alla frontiera del Belize. I doganieri sono appisolati sui banconi. Scusandoci per il disturbo, li salutiamo mostrando i nostri passaporti. Nessun cenno di risposta e di malavoglia li timbrano.

Con un inglese trentinizzato chiediamo informazioni per l’importazione temporanea della nostra macchina. Con un cenno della mano misto ad uno stiracchiamento con sbadiglio incorporato, un doganiere ci indica l’ufficio a fianco. Qui l’ambiente è parzialmente oscurato e l’impiegato è dormiente.

Fino ad ora eravamo abituati a persone gentili, disponibili con cui era facile avere un rapporto amichevole. Purtroppo il primo impatto con il Belize è stato scioccante.

I suoi abitanti amano rilassarsi e dondolarsi sull’amaca che è considerato lo sport nazionale. Nonostante il contributo economico dato dall’agricoltura, dalla pesca e dal turismo, buona parte della gente vive in condizioni di estrema povertà. Però il sabato e la domenica i bar e i karaoke assumono un’aria festaiola. La birra viene consumata a fiumi, la musica caraibica è ascoltata ovunque a tutto volume.

Ci siamo fatti una cultura su marimba, calipso, soca e naturalmente reggae. Qui vive anche una grossa comunità mennonita con rigide convinzioni religiose: si sposano solo tra di loro e parlano un dialetto tedesco. Sono agevolati dal governo centrale sulle tasse ed i maschi non hanno l’obbligo del servizio militare.

Tra loro ci sono due scuole di pensiero: progressisti e tradizionalisti ed è facile incontrare mennoniti in calesse a fianco di altri con fuoristrada ultimo modello.

Gustiamo la loro cucina fatta di pochi piatti semplici, ma gustosi come il Kilge und auchwurst. Gli arredi del ristorante sono spartani, l’unico abbellimento sono quattro significative foto in bianco e nero che col tempo hanno virato al color seppia. Raffigurano carri trainati da buoi stracolmi di masserizie e risalenti all’epoca della loro migrazione dal Canada. Le giovani cameriere sono castigate in ampi abiti che scendono fino alle caviglie, hanno maniche lunghe con polsini e scolature abbottonate. La carnagione è lattea e sono prive di trucco.

Non sorridono mai, non ti guardano mai in faccia, non ti salutano e non dicono grazie nemmeno quando te ne vai dopo aver pagato il conto. L’atmosfera è un mortorio. Uomini da un lato della tavola, donne dall’altro, non si parlano, masticano ed ingoiano senza nessuna espressione. Si sente il tintinnio delle posate ed il rumore delle pale del ventilatore che gira sopra di noi. Siamo influenzati da questo silenzio tombale e nel limite del possibile parliamo sottovoce. Naturalmente gli alcolici sono vietati, ma il gestore, anche lui mennonita, sfoggia una traditrice pancia da birra, gote e naso da avvinazzato.

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A fianco del nostro tavolo siede una famiglia numerosa. I bambini sembrano “normali”, ma obbligati a stare seduti si scalciano di nascosto sotto la tavola e ci lanciano occhiate furtive e curiose.

Hanno circa la stessa età di nostro nipote Samuel. Avrei voluto vederlo in questa situazione!

Quanto tempo ci avrebbe messo a coinvolgerli in una disubbidienza civile e a trasformare questa tetra sala da pranzo in una gioiosa sala giochi?

Entriamo in un loro supermercato: una tristezza unica, semibuio e di un grigiore opprimente. Sugli scaffali mezzi vuoti sono esposti solo prodotti considerati per loro essenziali. Il reparto della frutta e verdura assieme alle marmellate fatte in casa è ben assortito e ne approfittiamo per fare un po’ di scorta.

Gli avventori che si aggirano silenziosamente tra i corridoi sembrano fatti e vestiti con un unico stampo.

Gli uomini indossano una tuta da lavoro e pedule, le donne abiti lunghi dai colori smorti stile anni ‘50, cuffietta in testa e calzini scuri.

Incuriositi seguiamo una giovane ragazza dagli occhi azzurri intenta a fare la spesa. Ha un ampio vestito a falde larghe ed in testa la solita cuffietta da neonato con elastico che nasconde le sue trecce bionde annodate sulla nuca.

Ha un vistoso succhiotto sul collo che si nota anche da lontano. Stona in questo contesto angelico.

(Mi auguro per lei che l’autore sia un focoso messicano puro sangue, scuro di pelle con l’alito che sa di aglio e peperoncino). Con il suo computer portatile appoggiato sul carrello registra il prezzo di ogni singola cosa acquistata e sicuramente tornerà a casa non in calesse, ma in fuoristrada.

Penso che in futuro i tradizionalisti avranno sempre più vita dura con la nuove generazioni ammagliate dalla “febbre del sabato sera” e dai rombanti e moderni veicoli.

Belize City è una mescolanza tra passato indigeno e passato coloniale. Un bellissimo murales racconta la storia partendo dalle catene spezzate degli schiavi fino ai tempi nostri mentre poco più in là, nel parco, troneggia la statua di Cristoforo Colombo.

A poca distanza dalle sue spiagge accattivanti troviamo la barriera corallina, per estensione seconda solo a quella australiana, ma i prezzi sono decisamente americanizzati e quindi per noi proibitivi. L’influenza inglese ancora oggi si nota dappertutto. Le case su palafitte sono in stile caraibico e sicuramente hanno visto tempi migliori, ma sono affrescate con vivaci colori ed il prato all’inglese è d’obbligo.

Sul dollaro beliziano è raffigurata Queen Elisabeth e per nostra fortuna, già da tempo, si sono adeguati agli altri stati con la guida a destra.

La popolazione è un miscuglio di discendenti degli schiavi africani, spagnoli ed indigeni.

Si parla inglese, spagnolo, creolo e diverse lingue Maya.

A Hopkins, da Tricia ed Elvis, ci concediamo alcuni giorni in riva al Mar dei Caraibi. Qui vive ancora lo spirito di Bob Marley. La gente di colore è più sorridente e più disponibile al dialogo. L’atmosfera è allegra, si commemora l’anniversario della morte del loro mito. Dappertutto fino a notte fonda echeggia la sua musica.

Tutti si pavoneggiano imitandolo nella sua vistosa capigliatura, nel suo modo di vestire e di comportarsi.

Di fronte a noi chilometri di sabbia bianchissima, alle nostre spalle una giungla verdeggiante.

Le palme ondeggiano sospinte dalla brezza del mare.

L’onnipresente amaca tesa da una pianta all’altra avvolge il corpo come una carezza.

Il mare è cristallino ed azzurro come in un dépliant turistico.

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BELIZE Stato: Belize

Valuta: 1 U$ = 2 B$ Km percorsi: 548

Gasolio: 1 gal. 6,48 B$

permanenza: 9 giorni

N°

Paese

Punti GPS

Costi

Note

01

Georgeville – est di San Ignazio

N 17° 12’ 209 W 088° 57’ 196

02

Lungo la Hummingbird Hwy

N 16° 59’ 397

W 088° 24’ 091

Cortile fabbrica succo d’arancia

03

Dangriga

N 16° 57’ 950

W 088° 13’ 165

Parcheggio, lavanderia, @

04

Hopkins “Kismet Inn”

N 16° 52’ 439

W 088° 17’ 245

05

Baboon Sanctury

N 17° 33’ 339

W 088° 32’ 089

06

Orange Walk Camping “Victors Inn”

N 18° 05’ 009

W 088° 32’ 448

2 pers + macch

15 B$

10 B$

Al mare, doccia calda Parcheggio riserva

20 B$

doccia

MEXICO Il Mexico è un paese dove Olmechi, Aztechi e Maya hanno lasciato in eredità lingue, costumi, usanze, templi e piramidi. Per novanta giorni abbiamo girovagato tra foreste pluviali, spiagge tropicali, vasti deserti e vulcani incappucciati di neve. Qui coesistono tradizioni e modernità. Tessuti prodotti a mano e ceramiche artigianali convivono accanto a moderne industrie manifatturiere.

Con una pacca sulla spalla ed un sorriso, otteniamo da un funzionario disponibile un permesso di soggiorno per tre mesi. Per l’importazione temporanea della macchina viene trattenuta una cauzione di trecento dollari, pagabili solo con la carta di credito. Siamo tesi e nervosi nel vedere sparire la nostra Visa insieme all’addetta in un’altra stanza. Dopo alcuni interminabili minuti ricompare e ci spiega tutta l’operazione. È inutile dire che nei giorni a seguire c’è stato un frenetico giro di telefonate con la banca.

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Per fortuna si è trattato solo di uno spauracchio ed è con questo patema d’animo che entriamo in Mexico.

Su tutte le strade del mondo le cunette per ridurre la velocità sono ormai una realtà, non fanno eccezione il Sud ed il Centro America. Da noi li chiamano poliziotti sdraiati, in Argentina “lomo di burro”, “lomito” in Cile, in Brasile “bump”, qui in Mexico “topes” e ce ne sono a bizzeffe. La maggior parte è segnalata, alcuni sono così alti da essere considerati dei veri blocchi stradali, altri fungono da passaggio pedonale e dei cartelli avvisano: “El peatones es primero, multa de 16 salarios minimo”.

In duecentotrenta chilometri ne abbiamo contati centotrentotto e quasi altrettanti “vibradores”.

Ti obbligano a frenate improvvise e vivono in simbiosi con venditori ambulanti sbucati dal nulla che propongono bibite ghiacciate, frutta tagliata a pezzi, patatine e quant’altro. Ai lati della strada i chioschi crescono come funghi, espongono le loro mercanzie e sperano che il rallentamento del traffico dia buoni frutti. A volte questi “topes” sono collocati senza motivazione e questo mi fa malignare che crescano di notte, fatti da tutti coloro che ne traggono profitto. Incappare senza preavviso in più “vibradores” in fila significa rovinare la macchina e il fondo schiena. È come uscire da una centrifuga. Si rischia di raccogliere un po’ di tutto: occhiali, protesi, apparecchi acustici ecc.

“Cenote”. Fino a poco tempo fa non sapevamo nemmeno della loro esistenza, ora dopo averne visitati alcuni abbiamo deciso che per una decina di giorni andremo solo alla loro ricerca.

Le piogge cadute durante l'Era Glaciale hanno eroso le rocce calcaree della penisola dello Yucatan, contribuendo a formare un enorme ed incredibile sistema di cunicoli e caverne sotterranee, fitto ed articolato. L'acqua infiltratasi, gocciolando ed evaporando è stata in grado di creare uno scenario fantastico dando vita ad un insieme di stalattiti e stalagmiti di differenti dimensioni e colori.

Con lo sciogliersi dei ghiacciai, l'acqua ha invaso queste grotte, allagandole completamente.

Per gli antichi Maya il “cenote” non era solamente una fonte d'acqua, ma anche lo scenario di cerimonie religiose. Secondo la tradizione l'acqua di questi pozzi era considerata "vergine e pura" perché non esposta alla luce. Per onorare gli Dei della Pioggia e dell'Acqua, nei pozzi venivano gettate offerte di ogni tipo: statue di legno, gioielli di giada ed oro, animali ed esseri umani destinati al sacrificio.

Sono passati dieci anni dalla mia ultima immersione nel Mar Rosso e quando mi hanno proposto di effettuarne una nel cenote di Dos Ojos li ho guardati con sufficienza poiché ho ancora davanti agli occhi i colori ed i pesci del Mar Rosso. È in questo frangente che ho conosciuto Riccardo, accompagnatore speleologo subacqueo (che non smetterò mai di ringraziare) ed il suo Kay-Op un Diving Center a Tulum. Ha saputo tranquillizzarmi, infondermi fiducia, soprattutto mi ha suggerito come vincere la claustrofobia da grotta.

Seguo alla lettera le sue istruzioni. Sono tre giorni che tento inutilmente di superare in apnea un tortuoso e buio sifone lungo cinque metri, al di là del quale avrei potuto respirare nella grotta dei pipistrelli.

Sto per desistere. L’ansia, il buio e la tortuosità del percorso sono più forti della volontà. Non riesco a trovare la giusta concentrazione e l’agitazione mi diminuisce la resistenza e scatena una sensazione intollerabile di bisogno d’aria. Stremato dalla fatica e da quel senso di disagio che una prova non superata porta, decido di provare per un’ultima volta e la sorte mi è benigna. In quel difficile passaggio incontro Daniele (altro italiano a cui devo molto) di professione operatore subacqueo. Sbuca dal buio di questo malefico sifone con una “mega” telecamera con due fari che illuminano a giorno questo buco che mi sconfigge. Daniele mi aiuta illuminandomi il passaggio e mette le sue bombole, per ogni evenienza, nel punto più critico. In queste condizioni passare al di là è stato un gioco da ragazzi.

Provo e riprovo, con successo, a fare il passaggio a luci spente. Esco dalla grotta assieme a Daniele, lo aiuto a portare le attrezzature sub e, davanti a una favolosa spaghettata di Christine, facciamo amicizia. Istruttore sub, prima nel Mar Rosso e poi in Nigeria, ora sta provando un nuovo aggiuntivo ottico grandangolare. Domenica deve riprendere un matrimonio gay di due sub americani che vogliono festeggiarlo in questo cenote.

Ho superato la prova di quel malefico sifone che sbuca nella grotta dei pipistrelli. Questo è l’obiettivo minimo per poter indossare le bombole. Per telefono comunico a Riccardo il mio risultato. Puntuale come promesso, l’indomani mi porta tutto l’occorrente per la mia prima immersione in grotta.

Sono elettrizzato: mi rado parte dei baffi e della barba in modo da permettere una buona aderenza alla maschera e preparo con calma la mia attrezzatura video-sub.

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Colazione leggera alle 7:30, ricontrollo tutto con pignoleria e alle 10:30, con passo incerto, entro in acqua stracarico:15 kg suddivisi tra telecamera con custodia, torcia elettrica ed illuminatore video prestatomi da Daniele. A causa dell’acqua fredda, il carico e l’emozione, mi ci vuole un bel po’ per regolare la respirazione. Poi do l’ok e da questo momento è come andare in bicicletta, non si può mai scordare.

Davanti a me vedo le poderose pinneggiate di Riccardo, scanso stalattiti e stalagmiti.

Abbiamo lasciato da un bel po’ l’ultimo spiraglio di luce e finalmente, dopo un anfratto, il cunicolo si apre regalandoci un controluce celestiale. Dalla volta calcarea entrano dei raggi di sole.

Penetrando sott’acqua, illuminano a giorno delle gigantesche stalattiti. L’acqua è trasparentissima e si intravede qualche timido pesciolino e qualche alga. In questa grotta affiorante togliamo l’erogatore e respiriamo, respiriamo e respiriamo. Quando l’aria diventa pesante è per noi il segnale di continuare l’immersione. Si nuota con il solo chiarore delle lampade e quando da lontano si vede un raggio di luce, ci si sente attirati e ammagliati da un'altra grotta, qui il sole filtra appena da una spaccatura. Questo spot di luce ci regala la visione di una stalagmite con le sembianze di una donna con un bimbo in braccio.

Le giriamo intorno e poi, sempre seguendo una sagola gialla, il nostro filo d’Arianna, proseguiamo nel buio più totale, rotto solo dalle sciabolate delle nostre lampade. La caverna qui è franata ed è molto bassa.

Al nostro passaggio inevitabilmente alziamo una fastidiosa sospensione, non nuotiamo più, avanziamo aiutandoci con le mani. Vedo sparire l’avambraccio in un pulviscolo che sale sempre di più e questo mi angoscia. Non mollo mai il filo d’Arianna, lo tengo stretto anche senza vederlo. Ora sento che s’interra e per me è il panico, mollo tutto, inizio a scavare con tutte le mie forze. Il polverone ormai mi ha avvolto completamente e la respirazione si fa affannosa. Finalmente la mano amica di Riccardo mi solleva un paio di metri dove l’acqua è di nuovo trasparente e subito mi sento a mio agio, regolo la respirazione, gli do nuovamente l’ok e lui mi restituisce l’attrezzatura video che avevo abbandonato in quei momenti difficili. D’ora in poi seguo fedelmente il mio salvatore da molto vicino senza prestare più attenzione alle sagole gialle che incontro.

Dopo 45 minuti riemergiamo. Sono intirizzito dal freddo, quasi balbuziente, ma contentissimo di Riccardo ed orgoglioso della mia immersione. Un po’ meno della mia maglietta doppia e delle mutande lunghe che indosso, sembro un figurino come sempre molto elegante. Vicino a me altri sub hanno finito l’immersione, sono americani, tutti giovani e con muta, maschera e boccaglio rigorosamente in tinta, sembrano degli alberi di Natale illuminati pieni di pendagli e aggeggi strani che non conosco.

Non li capisco bene (a causa della perenne patata in bocca), ma credo che si sfottano a vicenda su chi aveva scavato di più nel punto strategico. Evidentemente è una consuetudine andare in panico quando la sagola gialla s’interra. Chiedo a Riccardo perchè non si provveda a sistemare quella sagola malefica.

La sua risposta è serafica: “Altrimenti questi gringos non avrebbero nulla da raccontarsi”.

Daniele e Chiara ci aspettano a cena. Per entrare nel villaggio dove abitano serve un pass ed una mappa per arrivare fino alla loro casa.

Sono le 17:00 e una fiumana di gente esce dal villaggio: sono inservienti, domestici ed operai, per lo più giardinieri che hanno terminato la loro giornata lavorativa. Il villaggio ci appare grandissimo, a giudicare dall’entrata faraonica sembra di entrare nel tempio di Karnak: colonne a destra e a sinistra, fontane, scrosci d’acqua tutto intorno, giardini e prati ben curati a perdita d’occhio, supermercati, alberghi ed un dedalo di canali che portano ad un lago interno. Questo è attorniato da un prato inglese e funge da porto interamente circondato da villette. È una città nella città con tanto di piano di evacuazione e vie di fuga ed è provvista perfino di rifugi anti uragano.

L’accoglienza è calorosa, tutta italiana, come la cena. È da dieci anni che vivono in questa prigione dorata. Hanno la rappresentanza esclusiva di diverse ditte italiane nel campo della cinematografia subacquea, scafandrature, aggiuntivi ottici, fari, esposimetri ecc. La serata si conclude con un appuntamento fra quaranta giorni, per un’immersione tra gli squali balena. La cosa mi alletta molto, perchè incontrarli in questo periodo è una certezza, perfino in apnea. L’unica cosa che frena il nostro entusiasmo è che ci troveremo in piena stagione degli uragani e l’ultimo ha lasciato un disastro dietro di lui.

Modifichiamo il nostro giro del Mexico e dopo 40 giorni siam pronti all’incontro con lo squalo balena.

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Con un veloce motoscafo ci portano al largo, fanno un briefing e ci avvisano di una corrente trasversale che tende a portarci al largo. Ci consigliano di stare appesi alla fune a meno tre metri ed aspettare l’avvistamento del primo squalo balena. Se la corrente ci trascina troppo lontano, basta gonfiare il GAV ed aspettare in superficie, sarà la barca a recuperarci.

Da quindici minuti sono appeso alla corda che sotto di me sparisce nel blu, con la telecamera a ciondoloni. Sento dare degli strattoni al “cordone ombelicale” che ci collega alla barca, mi indicano un punto lontano: è la sagoma inconfondibile dello squalo balena. Lemme lemme, scodinzolando qua e là la sua gigantesca coda, viene diritto verso di noi. È enorme. Per qualche frazione di secondo ci guardiamo negli occhi e vedo le sue pupille che mi seguono. Ora lo squalo balena passa pochi metri sopra di me, è troppo vicino e non riesco ad inquadrarlo tutto, sgonfio il giubbetto equilibratore ed a meno di dodici metri, l’inquadratura è perfetta. Per qualche istante si ferma sopra le bolle del mio erogatore, copiose data l’emozione, facendosi solleticare il pancione bianco. Un altro esemplare, forse di tredici metri, si lascia trasportare dalla corrente, anche lui in cerca di coccole, anzi è ancor più godereccio e si fa scivolare la sagola dell’ancora lungo tutto il corpo. Con una mano filmo, l’altra attaccata alla corda che vibra mi trasmette tutte le sue asperità dandomi la sensazione che sia la mia mano ad accarezzarlo. Troppo bello!

Lo squalo, da parte sua, sembra aspettarci, ma quando arriviamo sulla sua traiettoria lui ci schiva quel tanto per non essere toccato. Ci sfila a fianco vicinissimo, vedo le sue pupille che ci seguono, è mastodontico, di un’eleganza unica e la sua vicinanza mi riempie il cuore di commozione e stupore.

Ci rendiamo conto che nella baia di appena tre chilometri gli squali sono tre: il più piccolo è sui 5 metri, mentre il più grande è più del doppio, tutti con la bocca spalancata, mai assieme, ognuno per i fatti suoi.

Ritornando verso riva, la gioia di tutti è incontenibile, mentre ognuno racconta la sua esperienza.

Io tremo dal freddo, ma zuppo e fradicio di emozioni. In seguito trovammo un sistema nuovo per seguire lo squalo balena: onde evitare la faticosa risalita in barca, seguivamo il barchino alla traina attaccati a una fune rendendoci conto che fare da esca in questi mari non era proprio consigliabile.

Il sito di Tulum con la sua piramide fa da vedetta ad un mare incredibilmente bello. Si estende in mezzo a una vegetazione rigogliosa che ha ricoperto questi templi per secoli. I rumori della giungla ci accompagnano passo dopo passo.

Man mano che ci avviciniamo a Cancun si nota che tutto è stato realizzato per la clientela americana.

Arrivano sin qui in volo e con un altro volo ripartono, non prima di aver lasciato un’apprezzata scia di dollari. La conseguenza più immediata di questo turismo d’elite è uno spaventoso lievitare dei prezzi.

Qui tutto è mastodontico e appariscente. Alberghi da 2000 camere sfilano uno dopo all’altro, sono a forma di piramide Maya e altri in stile orientale con minareti e cupole. I grattacieli moderni in vetro cemento con le loro luminarie colorate formano delle coreografie hollywoodiane. Non mancano saloon, pub, steakhouse, fast food. Abbiamo fatto diversi tentativi per raggiungere la spiaggia, tutti a vuoto: il lungomare è stato interamente requisito dalle catene alberghiere internazionali.

Solo dopo ventitrè chilometri da Cancun, anche noi comuni mortali, troviamo un accesso al mare.

Onde gigantesche ci impediscono letteralmente l’ingresso in acqua. Alla fine della giornata siamo stanchissimi, abbiamo il corpo arrossato dalle strisciate sulla sabbia dovute alla forza inaudita che continuava a sbatterci violentemente sulla battigia.

Nei giorni a seguire il mare si placa. L’acqua è di una meravigliosa colorazione celeste chiaro ed ora è veramente invitante. Il sole sembra sorgere dal fondo del mare. Si affaccia tra le timide nuvole e ci regala nel suo splendore momenti magici che fortunatamente si ripetono ogni giorno. La sabbia è di un bianco che più bianco non si può ed è arrivato il nostro momento di goderci la tranquilla vita da spiaggia. Per alcuni giorni ci crogioleremo al sole.

A Rìo Lagartos, un’area protetta situata nell’estuario del rio omonimo, vive una grossa colonia di fenicotteri, aironi, egrette nivee, egrette rosse, ibis bianchi, pellicani e centinaia di altre specie di uccelli.

Qui c’è un diretto coinvolgimento dei pescatori locali, ottenendo così uno sviluppo economico e nello stesso tempo protezione e salvaguardia di questo santuario dei fenicotteri. I nostri accompagnatori si rivelano guide esperte, ci spiegano tutto sulla vita di questi eleganti trampolieri.

Purtroppo la migrazione è già in atto e noi vediamo solo quelli stanziali, circa il 50%.

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Dopo uno stretto passaggio in un labirinto orlato di mangrovie sbuchiamo in una laguna di acqua salmastra spumeggiante. Il vento agitandola provoca una schiuma vaporosa, leggera e svolazzante.

Sostiamo in muta contemplazione. Ai nostri occhi si offre un grande lago dove tra l’acqua ed il cielo si fa strada una fascia rossa fluttuante ed in continuo movimento: sono fenicotteri a migliaia.

Le femmine sono intente a mangiare, mentre i maschi, molto più alti, sono eretti sulla difensiva e fanno da sentinelle. La nostra guida, giustamente, si ferma ad una trentina di metri per non spaventarli.

Non è la prima volta che assistiamo a questo spettacolo, ma la cosa ci emoziona sempre. Ricordiamo che in Camargue sono di un rosa tenue, più piccoli e di un rosa intenso in Tanzania (Gorongoro), mentre questa specie è alta e di un rosso acceso. Verso sera, sullo sfondo di un cielo che passa dal turchese al cobalto, l'enorme disco di fuoco che sta per abbandonare la scena, si specchia nella laguna e sembra affogare nelle sue acque. Stormi di uccelli si sollevano in volo e si trasformano in lunghe file di nastri colorati. Ora è il momento dei fenicotteri ed è quello che stiamo aspettando. Con un fracasso ed un battere d’ali, zampettando si alzano tutti faticosamente in volo. Dopo un ampio giro in formazione cuneiforme passano sopra di noi, regalando alle nostre macchine fotografiche scatti a raffica che rimarranno indelebili tra i ricordi più belli.

I totonachi di El Tajìn si esibiscono nel rito pericoloso e spettacolare “dei voladores”. Questa antica cerimonia è carica di significati simbolici, simile ad una sorta di lento, quadruplo bungee jumping eseguito da un palo alto trenta metri. All’improvviso si interrompe il battito del tamburo ed i quattro voladores in costume si lasciano cadere all’indietro a testa in giù con le braccia tese e ruotano nel vuoto fino a terra. C’è un velo di tristezza nel vedere che, per pochi pesos, un rito sacro si è trasformato in una messa in scena per turisti. Porto Escondito, un posto turistico, un bel lungomare. Ci facciamo viziare dalla cucina tipica nel ristorantino “Al puerto”. Doña Maria, una donnina piccola e rotonda, ci viene incontro con il suo grembiule che avrebbe dovuto essere bianco: dalle manate stampate sui fianchi si può quasi leggere le specialità del giorno. Siamo estasiati dalla delicatezza dei suoi camarones al mojo de ajo.

Ci svela i suoi segreti per cucinarli e da ora in poi diventiamo "camarones dipendenti."

Durante i nostri bagni notturni, siamo illuminati da un’esile luna concava. Avvolti da un profondo e magnetico cielo stellato, vediamo il lungomare che si specchia con un tremolio di luci in un’acqua quasi immota. Da lontano giungono sino a noi le dolci note di una canzone messicana cantata in una balera.

Sono momenti fantastici e siamo felici di essere qui. Abbiamo appena visto i clavadistas (tuffatori) di La Quebrada che, dopo aver pregato presso un piccolo altare, con I “big five” del Mexico coraggio ed eleganza si tuffano da un’altezza di trentacinque TORTILLA: sottile focaccina di grano o granoturco che metri nelle onde della stretta viene consumata calda ad ogni pasto insenatura sottostante.

TACOS: una tor tilla di granoturco ripieno di burrito Nel Trailler Park a Pie de la (fagioli, formaggio, carne macinata, pollo); è lo spuntino Cuesta, nella periferia di più usato dai messicani.

Acapulco, nel tardo pomeriggio notiamo dell’agitazione: stanno TEQUILA: arrivando dieci e più mega il consumo della tequila è circondato da un’aura mistica. camper americani, preceduti dal Leccare il dorso della mano e cospargerlo di sale, leccare loro wagonmaster (capo gruppo) il sale, bere tutto d’un fiato la tequila ghiacciata, succhiare ed un pulmino appoggio uno spicchio di lime, leccare nuovamente il sale . per le escursioni, il tutto per FRIJOLES: la “modica” spesa di millecinquecento dollari a fagioli neri, rossi, variegati, lessati, fritti, stufati o resi in settimana. Siamo seduti in prima purè, sono il contorno ad ogni pietanza. fila e assistiamo a questo CHILES: spettacolo. Con pochi ordini ne esistono una decina di tipi: verdi, rossi, gialli, grandi, precisi, uno dopo l’altro piccoli, ro- tondi, lunghi, freschi o secchi. Vengono prendono possesso delle loro consumati in centinaia di modi diversi. Che si chiamino piazzole e con una ragnatela di barbanera, serrano o poblano, sono sempre piccanti da tubi si allacciano all’acqua, alla morire fino a toglierti il fiato corrente elettrica e scarico wc.

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Elettricamente alzano e posizionano le varie antenne paraboliche, accendono i generatori di corrente per fare funzionare i condizionatori d’aria ed alla fine si tappano in casa. Stranamente non comunicano tra loro, dedicando pochissimo tempo alla vita di gruppo.

Ogni mezzo sfoggia un cartello dai caratteri cubitali “Adventure tour”, equipaggio numero…, nome dei due occupanti, gruppo sanguineo e su una carta geografica è segnato il percorso dagli Stati Uniti fino in Mexico. Quello che più ci fa meraviglia è l’età di questi “avventurieri”, sicuramente tutti hanno più di settanta anni e ci chiediamo come fanno a quell'età a condurre dei camper lunghi quanto un pull-man.

La nostra “imbriagona” vicino ai loro mezzi sembra un giocattolino e con un po’ di sana invidia maligniamo che al posto del capo gruppo forse ci vorrebbe un cardiologo.

Frank ed Elisabeth ci invitano nel loro trailler. È nuovo, lungo tredici metri, ha tre estensioni laterali che sporgono un metro e mezzo per parte, rendendo così la sua capienza quasi doppia. Con orgoglio ci spiegano tutte le funzioni dei vari ammennicoli.

Una vera camera matrimoniale con specchiere, armadi, lampadari ed abatjour in cristallo a goccia ed una cucina come quella di casa (piano di lavoro in marmo rosa). Un divano in pelle quattro posti di fronte ad un televisore al plasma, a lato due invidiatissime poltrone relax con massaggio incorporato, ma la cosa da sballo è un’intera estensione laterale adibita ad ufficio con un mega computer, fax e stampante. All’esterno una selva di antenne e l’immancabile parabolica che appare e sparisce elettricamente. La cosa che più ci sconvolge è la scala d’ingresso (alla Wanda Osiris) con un corrimano da una parte e dall’altra un maniglione trasparente illuminato, come anche ogni gradino. In un gavone un quadriciclo 4x4 è pronto per andare a fare la spesa. Usciamo sconvolti da questo surplus di cose e di spazio, ci rendiamo conto di quanto stiamo vivendo semplicemente nei nostri cinque metri quadrati.

Sto pagando il conto del campeggio quando il proprietario si avvicina con sottobraccio una giovane spilungona e con aria sorniona mi bisbiglia all’orecchio: “Ti piace la Maria”?

Incredulo e confuso per questo suo modo di agire, gli rispondo di sì. E lui controbatte: “Sei sicuro che ti piace”?

Lancio un’occhiata a quelle gambe dritte e affusolate: certo che sì!

Lui scoppia in una fragorosa risata, spiegandomi che la "Maria" non è la sua compagna, ma l’abbreviazione di marijuana. Sconvolto della mia ingenuità torno in macchina e racconto l’accaduto a Christine, che ancora oggi per questo mi prende in giro.

Traghettiamo da Topolobampo a La Paz e ci troviamo nella penisola più lunga del mondo: la Bassa California. Il clima è desertico: di giorno siamo alla ricerca perenne di ombra, mentre di notte per fortuna si respira. La vegetazione è rada ed è il regno incontrastato dei cactus. Attraversiamo delle estensioni infinite, in uno scenario inusuale di cardones, ocotillo, cholla. Le coste frastagliate, a strapiombo su un mare ancora integro dalle mille tonalità, sono un insieme di calette invitanti attorniate da scogli dove ci si può accampare senza problemi, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Siamo in ritardo di un mese e le balene sono già migrate verso nord. Purtroppo un balenottero di dieci metri non c’è l’ha fatta a seguire gli altri ed ora è qui davanti a noi, spiaggiato, circondato da gabbiani, avvoltoi, granchi e coyote che si contendono il lauto pasto.

Piste sterrate ci portano ovunque, ma mettono a dura prova la nostra “imbriagona”. Sentiamo dei rumori sospetti che con il passare del tempo si accentuano, ci preoccupano, li sentiamo provenire dalla ruota anteriore destra. Poco dopo infatti, a seguito di una frenata, questa si blocca: fumo, puzza di ferodo bruciato misto ad olio ci avvolge e solo dopo la settima bottiglia d’acqua rovesciata sul mozzo, incomincia ad attenuarsi. Siamo molto preoccupati, ci sentiamo persi ed abbiamo il morale sotto i tacchi.

Ci trasciniamo fino a San Felipe e ad ogni frenata le bottiglie d’acqua si sprecano. In un’officina specializzata sentenziano la condanna: causa un precedente lavoro fatto male, si è aperto l’ultimo anello di sicurezza del semiasse, si sono sfilati i due dadi e la sua sicura è ridotta in poltiglia, per questo la ganascia del freno non è più in asse e si è bloccata. Il grosso problema è che si è rovinato l’involucro esterno del semiasse (dove scorrono i due dadi con sicura), il pezzo non si trova né nuovo né vecchio.

Per farlo arrivare con un corriere ci vogliono due settimane. Non ci rimane altro che metterci nelle mani di un bravo tornitore. Detto, fatto ed in quattro ore siamo usciti dall’officina contenti di come si è risolta la cosa , ma ancor più contento è il “nuovo miliardario” di San Felipe, ovvero il bravo tornitore.

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Il popolo messicano è semplice, sempre pronto a scambiare una chiacchiera e disponibile ad aiutarti.

Anche la polizia, di cui abbiamo sentito “peste e corna”, spesso ci accompagna fino sul posto desiderato.

Visitare il Mexico, con mezzi come il nostro, è di una semplicità unica. Ci si può accampare quasi ovunque liberamente e poi, come ultima ancora di salvezza, ci sono sempre i soliti distributori ad accoglierti in sicurezza con docce, lavanderia, supermercato e ristorante.

Facciamo una deviazione verso nord, circa otto ore di macchina, per dirigerci verso il Canyon del rame. La strada serpeggia tra boschi di pini e monoliti, riuscendo a malapena a scansarli. Un panorama di grande effetto, austero, quasi spettrale. Un trionfo di grigio, di verde, di blu del cielo e di nuvole.

Dal terreno emergono con prepotenza spuntoni rocciosi irregolari a perdita d’occhio, erosi dal vento a forma di lancia, di fungo, di scaglie e cunei, alcuni alti fino a quaranta metri e dopo ogni curva si incontrano altre forme più insolite e più estrose.

Siamo in colonna, dalla fila a fianco qualcuno ci saluta in italiano. Domenico, marittimo piemontese, è sbarcato a Ensenada ventotto anni fa. Sposato con prole, lavora da quattordici anni per la Croce Rossa messicana. Ci invita a seguirlo nel suo Trailler Park e siamo suoi ospiti per una giornata.

Grazie a lui finalmente sappiamo come comportarci agli incroci. Tre mesi di sofferenze ed incertezze.

Le abbiamo provate tutte: se ci fermiamo ci strombazzano, se passiamo, sia a destra che a sinistra le parolacce si sprecano. Qui vige il sistema americano, come in Sud Africa: arrivati agli incroci tutti si fermano, guardano e riparte il primo arrivato e di seguito tutti gli altri.

Con giustificato orgoglio ci mostra il suo campeggio in collina. Con tanta fatica e forza di volontà, assieme a sua moglie Nora, ha spianato le piazzole, costruito strade, servizi, scarichi e punti luce, il tutto tra alberi del pepe rosa e oleandri in fiore.

I suoi clienti sono americani di una certa età che vivono qui da anni, pochi per scelta, la maggior parte per necessità. La causa è la loro bassa pensione (circa 700 US$ mensili), che sono appena sufficienti per sopravvivere in Mexico. Quando per il mercato del lavoro non sono più produttivi, questi pensionati si auto esiliano, abbandonando affetti ed amici e aspettano qui la fine dei loro giorni.

La cosa ha tutta l’aria di un ricovero per anziani, con un ulteriore handicap, che ognuno vive in solitudine nella propria roulotte. Siamo stupiti di questa amara e triste realtà americana: si spende più di qualsiasi altro stato in armamenti e pochissimo nel sociale.

Siamo vicini agli Stati Uniti e l’influenza del dollaro è presente ovunque. I prezzi sono esposti nelle due valute e si può pagare con entrambe le monete.

Siamo incuriositi dai vari drive-in dove stando in macchina si può assistere a spettacoli cinematografici.

Si possono frequentare discoteche (disco drive-in), mangiare nei fast food o andare nei Vinos–Licores drive-in. Qui le bottiglie vengono avvolte in sacchetti di carta non trasparente, mentre in qualsiasi supermercato i sacchetti di plastica gratis si sprecano.

Le maxi multe di “novanta mensilità”, pubblicizzate con giganteschi cartelli, informano di non scaricare immondizie. Purtroppo non spaventano i maleducati ed il loro operato lo si vede disseminato e trasportato ovunque dal vento.

In tutto il mondo si sono abbattuti muri ed aperti i confini, mentre alla nostra sinistra è in costruzione un muro interminabile, simile a quello israeliano, che demarca la frontiera tra Stati Uniti ed il Mexico.

Ora ci aspettano gli States, dove dobbiamo progettare i nostri spostamenti in funzione dei campeggi.

La cosa ci irrita e ci infastidisce, la consideriamo "castrante" per il nostro modo di viaggiare liberamente.

Lasciamo un Mexico favoloso, che abbiamo goduto in piena libertà. È stata un’ esperienza piacevole, sicuramente da ripetere e la nostra memoria la custodirà con la cura che si riserva alle cose più preziose.

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MEXICO 1 Stato: Mexico1

Valuta:1 U$ = 10,50 pesos Km percorsi: 2841

Paese

Gasolio: 1 lt. 5,75 pesos

permanenza: 28 giorni Punti GPS

Costi

Note

0 1 0

Xulha Botadero San Pastor El Paraiso

N 18° 36’ 623 W 088° 26’ 223

80 pesos

Fronte lago

Tulum riserva Biosfera

N 20° 06’ 123 W 087° 28’ 395

58 pesos

0 3 0 4 0

Cenote Dos Ojos

N 20° 19’ 486 W 087° 23’ 475

Prezzo dell’entrata parco Tessera g.

Puerto Morelos

N 20° 50’ 833 W 086° 52’ 542

Fronte mare

Cancan zona Hotelera

N 21° 03’ 611 W 086° 46’ 803

0

Coba

N 20° 29’ 473 W 087° 43’ 989

Playa Delfines vista mare Parcheggio interno sito

0 7 0 8 0 9 1 0 1 1 1 2 1

Rio Logaritos

N 21° 35’ 746 W 088° 08’ 790

Chichen Itza Piste Hotel “ Piramid Inn”

N 20° 41’ 606 W 088° 34’ 955

Merida

N 20° 57’ 605 W 089° 34’ 668

Distributore

Celestun

N 20° 51’ 825 W 090° 23’ 945

Spiaggia

Campeche

N 19° 49’ 450 W 090° 34’ 095

Parcheggio al forte

Isla Aguada

N 18° 47’ 313 W 091° 29’ 592

Distributore

Villahermosa

N 17° 59’ 303 W 092° 58’ 093

1 4 1 5 1 6

Chapa de Corzo

N 16° 42’ 498 W 093° 00’ 126

Supermercato WalMart Distributore

San Cristobal de la Casas

N 16° 44’ 023 W 092° 37’ 334

Tuxtla Guttierrez -Cahuarè

N 16° 43’ 421 W 093° 01’ 859

193- - -193

15 pesos

Spiaggia 80 pesos

100 pesos

Docce calde, piscina

Rancho San Nicolas, camping, docce calde Parcheggio imbarcadero, @, non fare escursione

MEXICO 2 Stato: Mexico 2

Valuta: 1 U$ = 10,50 peso percorsi:8630

N° 0 1 0 2 0 3 0 4 0 5 0 6 0 7 0 8 0 9 1 0 1 1 1 2 1 3 1 4 1 5 1 6 1 7 1 8

Paese

Gasolio: 1lt. 5,75 km

permanenza: 65 giorni Punti GPS

Costi

Note

Torre Molino Costa Smeralda Trailer Park

N 20° 18’ 899 W 096° 51’ 579

200 pesos

piscina, docce calde, spiaggia

Oxaca Trailer Park

N 17° 04’ 708 W 096° 42´656

150 pesos

docce calde

Puerto Escondido Trailer Park Dio Neptuno Marquelja vicino ristorante al mare

N 15° 51’ 693 W 097° 03’ 723

60 pesos

Playa Gloria (Acapulco) vicino rist.

N 16° 44’ 363 W 099° 45’ 006

30 pesos

Pie de la QQQQQuesta Trailer Park Quinta Dora Playa Ojo de Agua vicino ristorante

N 16° 54’ 262 W 099° 58’ 624

100 pesos

N 17° 17’ 711 W 101° 03’ 025

50 pesos

Chuliacan distributore

N 25° 20’ 520 W 108° 09’ 619

La Paz spiaggia

N 24° 13’ 961 W 110° 10’ 371

Agua Caliente

N 23° 26’ 482 W 109° 48’ 519

Cabo Pulmo spiaggia

N 23° 24’ 246 W 109° 25’ 499

Mulugè spiaggia RV Park

N 26° 37’ 515 W 111° 48’ 520

San Felipe distributore

N 31° 00’ 913 W 114° 50’ 621

Wi-Fi , bancomat

Ignazio Zaragoza distributore 1800m

N 29° 37’ 898 W 107° 45’ 200

docce calde

Creel piazza

N 29° 45’ 189 W 107° 38’ 073

Chihuahua Supermercato Wal Mart

N 28° 38’ 052 W 106° 07’ 210

Ojo de Talamantes

N 26° 54’ 042 W 105° 27’ 371

Quatrocienegas piazza

N 26° 59’ 201 W 102° 03’ 955

fronte mare + corrente

N 16° 33’ 329 W 098° 46’ 474

- -194 194- -

docce + corrente docce, lavanderia

40 pesos

terme

50 pesos

75 pesos

Terme, nuoto

Abbiamo doppiato Cabo San Lucas, in fondo alla Baja California. È stato il nostro giro di boa.

Rifacciamo a ritroso i 1500 chilometri percorsi e ci fermiamo alla nostra baia dello squalo balena.

Lo vediamo nuotare in un mare speculare a una decina di metri dalla riva. Contattiamo il barcaiolo Miguel per l’indomani mattina. La solita preparazione: batterie, ingrassaggio degli oring… Constatiamo l’assoluto mancanza di vento e di conseguenza l’apparire di insetti vari e in più le temutissime pulci della sabbia. Ci hanno massacrati!!! Spalmiamo di tutto, alla fine siamo unti, bisunti e strapunti.

L’indomani, Miguel si è fatto in quattro per trovare lo squalo balena, ma non si è visto. Siamo ritornati amareggiati ai nostri camper e ci siamo sfogati con delle spasmodiche “grattarole sanguinolente” collettive. Abbiamo stoicamente resistito per altri tre giorni, ma di squali nemmeno l’ombra.

La temperatura è cambiata. L’assenza del vento ci ha obbligati a sfruttare a “manetta “ i nostri “Viesa” e di notte si boccheggia. Non sembra più la nostra baia da cartolina e ce ne andiamo via .... grattandoci.

Finalmente ad Ensenada con l’aiuto di Pino, abbiamo ottenuto sei mesi di permanenza in Messico per le persone fisiche, ora ci manca solo il permesso per la macchina. Lo otterremmo in pieno “Desierto di Atar”. Il clima è desertico: ricerchiamo perennemente l'ombra, mentre di notte per fortuna si respira.

Sono due giorni che guidiamo. La vegetazione è rada e il paesaggio sempre uguale e monotono è fatto di cactus, arbusti e sassi. Ci vorranno altri tre giorni per arrivare al mare. Riempiamo la nostra cambusa all’inverosimile, come se dovessimo partire per la guerra. Ogni volta che si apre il frigo c’è sempre qualcosa che ti viene incontro. Ci aspettano tre notti da passare nei distributori, sempre pieni di puzzolentissimi e scarburati camion. L’ambiente mi ricorda un po’ quello brasiliano. Abbiamo cura di parcheggiare lontano dai camion frigorifero e dai generatori di corrente. Il piazzale è frequentato da donnine di facili costumi. Alcune sono attempate, fungono da nave scuola e organizzano tutto l’ambaradan e altre troppo giovani. Sono tutte poco vestite e camminano con difficoltà su tacchi vertiginosi. I camionisti prepotenti e qualunquisti sulla strada, qui sono simpatici e altruisti.

Infatti ci consigliano, con uno spagnolo quasi incomprensibile, ma condito da una mimica eloquente, quale scegliere elencandoci le caratteristiche di ognuna. Umberto ed io siamo controllati a vista e soprattutto gironzoliamo sempre in bolletta e dopo averci fatto "l’ocio", torniamo verso i nostri camper.

Finalmente la strada è sbarrata. È la dogana che aspettavamo. In una mezz'oretta sbrighiamo le pratiche ed otteniamo un permesso di ben dieci anni per le macchine.

Solo ora siamo tranquilli e possiamo goderci il Messico, senza l’apprensione del tempo che ci rimane, senza obblighi di prenotazioni, ma con una organizzazione giornaliera, pronta ad essere mutata in qualsiasi momento a seconda delle nostre esigenze. Viva Messico!!! La nostra meta è Topolobampo, 900 chilometri a sud dove sembra che si possa nuotare assieme a un delfino che vive in libertà in una baia circondata da mangrovie. Speriamo bene. Siamo parcheggiati al molo di Topolobampo, dove partono le lance per vedere il Pechocho, un delfino maschio che ha un comportamento assai strano.

Josè ci spiega che da ventidue anni vive libero e solo in una baia. La gente locale lo ha soprannominato “Provvidenza”. Ci viene incontro con un ramo di mangrovia in bocca: è il suo modo per farci capire che è inavvicinabile.

Tutti e quattro imitiamo Josè, con poca convinzione: battiti di mani sott’acqua, fischi e in coro lo chiamiamo per nome. Umberto da solista stona in falsetto. Il tempo passa e la situazione non muta e i richiami sono sempre più fievoli e meno convincenti fino ad arrivare ad un silenzio imbarazzante.

Josè con un grido ci indica un punto lontano.

Ora viene! Lo vediamo senza il ramo in bocca e Josè ci dice, tutto concitato, che viene a farsi accarezzare e dopo pretenderà anche di essere grattato. Ci spintoniamo l’un l’altro e alla fine riusciamo tutti ad avere la soddisfazione di averlo accarezzato più volte. Ho ancora negli occhi questo delfino godereccio di oltre due metri che dopo avergli grattato la schiena, ruota su se stesso porgendoci anche la pancia.

Un’emozione da non credere!

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Partenza e ritorno in URUGUAY

7 aprile - 7 agosto: 17 000 km Dopo cinque mesi passati a casa siamo di nuovo in viaggio. Lasciamo i nostri nipoti, i campi di meli in fiore a perdita d’occhio e ritorniamo in Sud America. Il volo è stato uno strazio: l’aereo era pieno.

Sono state 9 ore di gomitate tra me e il mio vicino per la conquista dell’agognato bracciolo. Appena prendevo sonno venivo brutalmente spodestato. Naturalmente gli ho reso pan per focaccia! Morale nessuno dei due ha dormito: è stato un testa a testa fra Italia e Russia.

Finalmente ritiriamo i camper. Tutto ok. Evviva! Da oggi siamo ritornati camperisti. Ora maxi spesa.

Per l’assicurazione abbiamo tribolato non poco. Ci siamo appoggiati ad una agenzia che ci ha seguito passo dopo passo e solo dopo quattro ore fra fotocopie e file ci siamo riusciti. Il tutto ovviamente di venerdì pomeriggio, sapendo che la settimana seguente tutti gli uffici sarebbero stati chiusi per la Settimana Santa. Ora campeggiamo in riva al Rio de la Plata, un fiume immenso color cioccolata, con onde altissime che s’infrangono fragorosamente a riva. Sembra un mare, perchè non si vede l’altra sponda. Il sole si sta spegnendo in acqua e ci regala un romantico tramonto. Siamo felici di essere qui.

A causa della macchinosa procedura per assicurare la macchina campeggiamo per tre giorni al faro di Montevideo. In questo prato enorme ci stiamo godendo gli ultimi raggi di un tenue sole. Attorno a noi sono parcheggiate delle macchine in ordine sparso. Sono coppiette, vengono qui ad amoreggiare e le tracce del loro vissuto è seminato qua e là sull’erba. Non è prostituzione, sono coppie di fatto.

Escono dalla macchina, si ricompongono, e con naturalezza e disinvoltura si avvicinano a noi. Come da routine ci fanno le solite domande: chi siamo, da dove veniamo… Quando spieghiamo loro il nostro viaggio, con meraviglia, mista ad ammirazione, ci dicono: “Che lindo! Ve la state spassando!” Sì... (ognuno alla sua maniera). Da qui in poi una serie di doppi sensi, che a causa del nostro spagnolo non sono stati capiti. Le nostre donne hanno intuito il nostro giochino e ci apostrofano:" Vecchi sporcaccioni invidiosi!" Sarà vero?

Ora ci aspettano due maxi terme. La Termas di Arapey e quella di Dayman. Purtroppo siamo nella

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Settimana Santa e il campeggio (1000 piazzole è tutto esaurito. Per questo disagio ci fanno lo sconto e noi parcheggiamo a fianco di una delle tante piscine con l’acqua termale a 38°. Nella vasca, solo posti in piedi. C’è l’angolo dei giovani "caciaroni", tenuti a bada da due bagnini armati di fischietto, poi l'angolo di quelli della nostra età (282 anni in quattro). Tutti facciamo della fisioterapia: siamo bianchicci, mollicci e scrocchianti, chi rotea un braccio, chi calcia con forza l’acqua, chi muove la testa come una civetta.

La mia vicina fa flessioni sott’acqua e nell’emergere mi soffia in faccia tutta l’aria dei polmoni: un misto di chimichiurri e arrabbiata piccante. Quando la vedo sorgere dall’acqua è giusto il momento per immergermi e salvarmi dal suo alito pestilenziale. Tutti i presenti, e noi compresi, sperano che questa acqua termale sciolga la "ruggine" riducendo così lo scrocchiare delle articolazioni. Di tanto in tanto controllo i nostri vestiti che a forma di piramide fanno bella mostra di sè in un prato verde ben curato. Noto che la rugiada notturna in controluce è illuminata da un sole radente che fa splendere queste goccioline come tanti brillantini: è il momento magico per una foto.

Esco dall'acqua, ritorno armato di macchina fotografica, mi avvicino alla piscina e vedo Christine che tenta inutilmente di nascondere le sue abbondanze dietro Michela, mentre Umberto con il suo profilo dantesco in punta di piedi trattiene fiato e pancia e con un sorriso quasi naturale attende il mio clic.

Li tengo in posa per un po', poi mi inginocchio e mostrando loro il mio deretano fotografo quasi da sdraiato le mie goccioline in controluce: uno sballo! I "vaffa" si sono sprecati.

Donne e motori, gioie e dolori Finalmente ora abbiamo l’assicurazione per l’Uruguay e gli stati limitrofi. Purtroppo ogni mese dobbiamo rinnovarla via internet. Pazienza. Cerchiamo di recuperare il tempo perduto a Montevideo con otto ore di guida giornaliere. L’Iveco comincia a dare i numeri: si rompe il filo dell’acceleratore. Cosa fare?

A otto chilometri troviamo Josè che, con un filo dei freni di una bicicletta e molta fantasia, ci risolve il tutto. Il giorno seguente per scaramanzia anche noi compriamo due fili dei freni.

Giorno dopo, altro problema…Il Daily scalda inverosimilmente la ruota posteriore destra (le molle di ritegno non richiamano i ferodi. Sono state proprio queste le prime avvisaglie in Columbia che ci portarono a un pellegrinaggio giornaliero di meccanico in meccanico. Solo all’Iveco di Cali era stato risolto definitivamente il problema e aggiungendo disagio a disagio i Mura dovettero dormire in albergo per 5 giorni. Da allora sappiamo tutto sul circuito frenante dell’Iveco, ci siamo impadroniti di una terminologia fino ad ora a noi sconosciuta: spurghiamo da soli l’aria dal circuito e registriamo la distanza tra pastiglie e disco con un semplice cacciavite.

Finalmente dopo mesi di ricerca vana troviamo dove fare ricoprire le gomme dell’Iveco. Ci vogliono sei ore, nel frattempo facciamo lavare le macchine. Ne avevano proprio bisogno. Il giorno seguente festeggiamo in una churrascaria la soluzione delle nostre pegole.

Ora è il Toyota che ci impensierisce: la spia dell’olio rimane accesa e mi fa compagnia per una giornata intera. Arriviamo in una mega concessionaria Toyota. Spiego il problema e consegno la mia “imbriagona”.

Ci fanno accomodare nello showroom climatizzato, poltrona con massaggio, internet free, coffee e un monitor dove si possono seguire i lavori dei meccanici. Attorno alla mia macchina c’è una nuvola di persone: chi in tuta da meccanico, chi in camicia bianca, chi in vestito grigio, chi in camice verde e non è finita perché continuano ad arrivare!

La mia preoccupazione è di doverli pagare tutti io. (forse devo vendere un balcone). Umberto mi sussurra all’orecchio: “Che culo che hai, questa sì che è un'officina seria”. Io immerso nei miei pensieri l’ho fulminato: “Tutto questo lusso lo pago io!”

E intanto conto mentalmente il mio contante. Dopo un paio di ore tra foto e curiosità varie mi riconsegnano il mio Toyotone spiegandomi il guasto: durante il lavaggio della macchina si è staccato un filo dalla spia dell’olio. Meno male!

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È il momento della foto di gruppo attorno alla nostra "casa rodante" e così una miriade di maestranze l’attorniano. Al centro il direttore di origini friulane che, con un italiano claudicante, ci dice che la riparazione è omaggio. Ci presenta anche al guardiano, un Rambo vestito di nero, con Ray-Ban, fucile ad avancarica e stivaletti da lancio che trattiene a stento un bellissimo cane red bull. Con queste buone premesse dormiamo tranquillamente nel cortile della concessionaria.

Estero de Iberà Arriviamo a Estero de Iberà: ci sentiamo frullati e centrifugati. Quando in campeggio esibiamo con orgogliosa sufficienza i nostri fuoristrada inzaccherati e malconci e su una carta geografica facciamo vedere da dove veniamo, tutti hanno un’esclamazione di stupore e battono le mani.

Questa zona paludosa e selvaggia è paragonabile a quella del Pantanal nel Mato Grosso.

Le piante acquatiche miste ad erbe formano delle vere e proprie isole galleggianti dove nidificano più di 350 specie di uccelli e vivono caimani e mammiferi come il cervo della palude, la lontra e il capibara (il roditore più grande del mondo). Penetriamo in questo parco con una lancia a motore e poi proseguiamo a spinta aiutandoci con una pertica e vediamo uccelli di ogni tipo, volpi e scimmie.

La natura è prorompente ovunque prorompente e ci assale con profumi e suoni. L’ambiente che ci circonda, così nuovo ed inusuale, è motivo di continua meraviglia.

Un pesce compie un balzo fuori dall’acqua per acchiappare un insetto e ripiomba, forse appagato, con uno splash. L’alba e il tramonto diventano spettacoli da ammirare con piacere. Ogni giorno sono sempre diversi ma durano pochi istanti. È il momento giusto per scattare qualche buona immagine.

Una doccia a base di secchi d’acqua che ci rovesciamo addosso a vicenda ci farà arrivare all’ora di cena.

Iguazù Lasciate le cascate di Iguazù argentine, entriamo in Brasile dove le pratiche doganali sono quasi inesistenti. I doganieri sono molto pazienti con noi che maldestramente cerchiamo di comunicare in portoghese. Ci augurano buon viaggio e “Vaja con Dios”. Visitiamo Itaipù, che in lingua guarana significa “roccia cantante”, che è la più grande diga del mondo costruita in società tra Brasile e Paraguay.

Le cascate Iguazù, un vero spettacolo della natura, sono situate circa 20 km a sud-est del punto di confluenza dei fiumi Paranà e Iguazù, che delimita il triplice confine tra Paraguay, Brasile ed Argentina. Questo prodigio della natura ha un fronte di tre km: 275 cascate riversano milioni di litri di acqua in un canyon profondo 72 m. Abbiamo dedicato 4 giorni alla visita, due dalla parte argentina e due da quella brasiliana.

Al “Salto del Diablo”, la vista del precipizio è impressionante e si è totalmente circondati dall’acqua che cade. Pappagalli e falchi veleggiano al di sopra del fitto manto della foresta. Risaliamo con potenti fuoribordo il fiume fino al “Garganta do Diablo. È un’esperienza multisensoriale: cascate ruggenti, giganteschi arcobaleni e nuvole di vapore che ci inzuppano dalla testa ai piedi.

Sono giorni densi di emozioni e decidiamo di goderci le cascate anche dall’alto con un elicottero.

Pranziamo in una maxi Churrascaria, con carne alla griglia annaffiata con abbondante “Caipirinha”.

Il Brasile che abbiamo incontrato finora, non è quello che ci viene proposta dai mass media: cacao meravigliao, morositas, samba, caffè Kimbo e carnevale. In questo stato del Brasile, invece, la gente che incontriamo è biondiccia, pallida, perchè di origine tedesca e così lo stile delle case e l’organizzazione è quasi teutonica.

Rio È sera. Siamo fermi per pernottare in uno dei tanti distributori dotati di ristorante, supermarket, docce calde e guardiano notturno. Notiamo un ragazzo con la pelle color cioccolata, girare curioso attorno alla nostra macchina. Con un sorriso di un bianco tipo ”Richard & Ginori” ci chiede: “Argentini?”

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"No, italiani." Con molto orgoglio ribatte: "Anca mi". Sebastiao, con un dialetto veneto molto stretto misto a portoghese per noi quasi incomprensibile, ci spiega di essere figlio di madre veneta e padre africano. La nostra conversazione prosegue a casa sua dove ci presenta la moglie e i suoi tre bellissimi bambini. Dopo cena, con qualche cerveza (birra) in più, in coro cantiamo "Quel mazzolin di fiori" Loro sono intonatissimi e vedendoci a volte muti e imbarazzati, ci suggeriscono le parole. Lasciamo questo lembo d’Italia. Sebastiao ci stringe la mano e se ne va portandosi dietro i suoi 34 anni, un presente incerto ed un sogno: andare in Italia.

Rio de Janeiro è la “ciudad maravillosa”. Il campeggio dista 40 km dal centro, fortunatamente troviamo parcheggio sotto El Pào de Açucar. Siamo sorvegliati a vista dalla Marina Militare che ci dà la sicurezza che cerchiamo. Così possiamo fare il bagno in mare, ammirare il Cristo Redentor, salire sul El Pào de Açucar, passeggiare sulla spiaggia di Copacabana e visitare il giardino botanico e qualche museo. ...

Pantanal Ora la nostra meta è il Pantanal chiamata anche terra di nessuno. Una vasta pianura alluvionale che si estende a Est del Rio Paraguay lungo la frontiera tra Brasile, Bolivia e Paraguay. Il territorio è scarsamente popolato e i pochi abitanti sono costretti a spostarsi a bordo di piccoli velivoli o barche a motore. L’unica pista che la penetra è la Transpantaneira una strada sterrata con ben 125 ponti instabili in legno. Improvvisi temporali ma anche fiammeggianti tramonti: questa è la nostra meta. Ci siamo lasciati avvolgere dal suo abbraccio per otto giorni.

Sotto un cielo nero come la pece, con lampi che squarciano l’orizzonte, ci rimettiamo in pista.

Cominciamo questa attraversata di 140 chilometri che ci porterà nel cuore del Pantanal meridionale. È di una bellezza stupefacente, un rifugio di praterie verdi brillanti, a tratti interrotte da macchie di fitta foresta, da fiumi possenti e infinite lagune che ospitano una ricca varietà di flora e di fauna.

Percorriamo questa pista di terra rossa mista fango, piena di buche e a volte invasa dalle acque.

Da ambo i lati una palude popolata da felini, alligatori, capibara e uccelli di ogni tipo: aironi, cicogne e jabiru (cicogna gigante del Pantanal che ha il corpo bianco, la testa nera e una striscia rossa sul collo).

Purtroppo non è la stagione giusta per l’avvistamento del giaguaro essendoci ancora troppa acqua.

Ci stiamo consumando gli occhi nel vano tentativo di scansare le buche di ogni dimensione: ti accorgi di loro solo quando ci sei già dentro. Procediamo lentamente ed a radio spenta, nel tentativo di cogliere qualsiasi piccolo rumore sospetto sintomo di una eventuale rottura. Dopo 2 giorni di polvere, caldo umido e zanzare finalmente giungiamo a Port Jofre. Orde di zanzare danno prova di tutta la loro aggressività.

Vani sono i nostri tentativi di difenderci. Siamo sconcertati nel vedere che piccolissimi animaletti verdi, attirati dalla luce della nostra cellula, passano impunemente attraverso le maglie delle zanzariere e si attaccano ovunque. Interrompiamo la nostra partita a scala quaranta, al buio ci srotoliamo i vestiti appiccicaticci di dosso e andiamo a letto. Lasciamo tutto spalancato nel vano tentativo di catturare anche il più piccolo alito di vento. L’aria è immobile, pesante e carica di umidità. In rigoroso silenzio ascoltiamo i rumori della palude e sulle note “Con te partirò” di Bocelli ci addormentiamo .

Il signor/a Nelson……

Il primo impatto è stato molto formale. Mi sono presentato con la tessera da giornalista in mano (chiedo scusa ai veri giornalisti). Faccio omaggio della rivista contenente un nostro articolo, spiego che sono un inviato del mensile "Caravan e Camper" e devo realizzare un servizio sulla flora e sulla fauna del Pantanal. L’atteggiamento nei nostri confronti cambia completamente. Il direttore Nelson si dimostra subito disponibile. Ci fa posizionare i camper sotto un albero di sapodilla che svetta una trentina di metri sopra la foresta e all’imbrunire si popola di bellissimi e chiassosi ara blu. Questi pappagalli alti un metro hanno con mascherina gialla, sono sempre in coppia e rimangono fedelissimi per tutta la vita.

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Il direttore ci dice che ora non è il momento più giusto per incontrare la ricca fauna: c’è troppa acqua e il Pantanal in questo momento ha raddoppiato la sua superficie. L’albergo è tutto occupato dai pescatori giunti qui con i propri velivoli per catturare il pesce gatto. Abbiamo dato la nostra parola di scout di non uscire di notte e che il ritorno dalla cena lo facciamo tutti e quattro assieme con le torce accese cantando, per salvarci dai pericolosi giaguari. Possiamo usufruire della piscina e del buffet della sera e anche del pane che viene fatto giornalmente fresco. Un lusso sfrenato!

Al tramonto rientrano le lance dei pescatori. Euforici esibiscono pesci gatto e doradi più grandi di loro, spiegando con molta enfasi i momenti della loro cattura. Come esca usano la tecnica del pesce vivo.

Alcune esche pesano anche oltre un chilogrammo e l’ingordo pesce gatto ingoiandole rischia il soffocamento.

Propongo un’intervista in video al signor Nelson, che si rivela una vera sorpresa: si agita all’inverosimile e senza freni inibitori abbraccia le nostre signore, spiegandoci che noi non dobbiamo temere nulla, perché lui è innocuo al cento per cento. Volteggia su se stesso come se danzasse con un foulard inesistente alzando una traditrice gambetta. Dalle nostre parti si dice che " el ga na vena de dolsz".

Purtroppo l'intervista devo ripeterla perché lo sfondo era in pandan con il suo completo celestino.

Lui non si scompone, anzi promette che l’indomani avrebbe cambiato anche il suo maquillage.

Con insistenza ci invita per cena al buffet spiegandoci le caratteristiche dei piatti. Il buffet è ottimo e a getto continuo. Ricordo due cose: un maialino da latte selvatico allo spiedo la cui pelle finissima e croccante nel tagliarla si spezzettava in mille frantumi e il reparto superalcolici. Oltre alle solite etichette c’era una botte in legno piena di Cachaca (distillato di canna da zucchero) che serve per preparare la caipirinha e a noi dà il giusto coraggio per affrontare il ritorno notturno. Come una quadriglia, maschi ai lati, tutti e quattro con tanto di torcia, Umberto ed io brandiamo anche due leve togli pneumatici, cantiamo in coro “Quel mazzolin di fiori” a squarciagola, e con passo deciso ci avviamo verso i camper.

Promettiamo di mantenere la calma e di non fare come l’ultima volta, ma quando le sciabolate di luce delle pile fanno intravedere i nostri mezzi, chissà perché, il passo si affretta fino a diventare una corsa e il canto corale si affievolisce fino a morirci in gola. Siamo felici di essere sani e salvi.

Iveco Il giorno 24 di maggio, l’Iveco si è impuntato con le ruote anteriori bloccate, emanando il caratteristico odore di bruciato che ormai abbiamo imparato a conoscere. Sono mesi che questi freni ci fanno impazzire. Praticamente il camper si è stufato di essere la cavia di meccanici improvvisati, di tecnici travestiti da meccanici che con vari interventi gli hanno sostituito in più rate tutto il circuito frenante con alcuni pezzi originali e altri costosamente adattati. Quando le ruote sono fredde constatiamo che il pedale del freno scende a vuoto. Piano piano, praticamente senza freni, riusciamo a portarlo fino all’Iveco di Verza Grande nel Mato Grosso. Provano di tutto e alla fine la sentenza: bisogna far arrivare il regolatore di frenata e il servofreno dall’Italia. Passano i giorni e finalmente, ringraziando la tenacia di Marzia (primogenita di Michela e Umberto) in cinque giorni riusciamo a sapere il codice dei pezzi.

Finalmente oggi, 29 maggio, sono stati imballati e spediti. Arriveranno, si spera, fra quattro giorni, con l’auspicio che questa odissea sia finita.

Nel frattempo Michela e Umberto fanno un weekend in un maxi albergo nel Pantanal e noi li seguiamo con il nostro camper. Saranno tre giorni di full immersion in una natura che ci sovrasta e ci fa dimenticare le traversie che ci aspettano. Sono arrivati i pezzi, ma purtroppo sono sbagliati.

Li cerchiamo in loco e li troviamo usati. Le prove si susseguono più volte, ma le ruote scaldano ancora.

Le delusioni si ripetono: l’ultima è stata venerdì. Hanno adattato i pezzi nuovi, cambiati olio e i filtri.

L’ultima prova freni ancora negativa…scaldano.

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Lunedì faranno l’ultimo tentativo cambiando i cilindretti. Umberto nonostante la tensione nervosa si è dimostrato fiducioso grazie anche alla costante presenza di Michela che lo rincuorava. La concessionaria Iveco si è comportata molto bene lasciandoci parcheggiare all’interno del blindatissimo cortile, dandoci così sicurezza, acqua, elettricità e WiFi. Approfittando di questa sosta forzata anche noi ci siamo dati da fare. Abbiamo ritoccato la carrozzeria della nostra "imbriagona", l'abbiamo lucidata e incerata, abbiamo saldato due supporti del tubo di scappamento e cambiato la gommapiuma dei cuscini della cellula.

Durante questi giorni di forzata attesa mi sono messo a pari con le foto e i film. Con Christine abbiamo scritto alcuni pezzi arretrati del nostro diario di bordo. Scrivere assieme a Christa è sinonimo di liti infinite, perchè ognuno di noi è convinto del proprio Italiano. Aveva ragione il nostro buon amico Maurizio quando diceva bonariamente che siamo due “operaiacci”. Christine ha un alibi: ha frequentato le scuole tedesche. Ho anch’io uno straccio di alibi: mentre frequentavo le ITI a Bolzano invece di andare a scuola, io e una certa Anna (futura geometra) andavamo in un fienile vicino a Castel Firmiano.

All’inizio si giocava al dottore, ma poi più seriamente a mamma e papà. Entrambi perdemmo l’anno scolastico e il mio italiano rimase per sempre claudicante.

Bonito Finalmente dopo 21 giorni abbiamo lasciato le officine Iveco e con un certo patema d’animo percorriamo i mille chilometri che ci porteranno a Bonito. Questa trasferta ci aiuterà nel prendere una decisione: procedere nel nostro itinerario, oppure trascinarci fino a un traghetto che ci porterà verso casa.

Le ruote dell’Iveco sono sempre un po’ calde, e dopo la terza pompata di seguito, il pedale scende a vuoto. Che fa- re? La decisione spetta a Michelina e Umberto, intanto godiamoci Bonito. Questo posto è famoso per la trasparenza delle sue acque calcaree e per l’abbondanza della sua fauna.

Tutto è ben organizzato. Qui non favoriscono certo il turismo fai da te, cercano in questo modo di limitare al massimo i danni causati da un turismo irresponsabile e poco controllato.

Le attrazioni sono molteplici. Bonito offre incantevoli cascate, grotte, laghi, sorgenti, ruscelli, acquari naturali e fiumi di acqua trasparente, molto adatti per lo snorkeling. Noi optiamo per il campeggio vicino al Rio Formoso, un fiume dalle acque cristalline dove pescioni colorati incuriositi nuotano attorno a noi, in netto contrasto con il verde della vegetazione che ci sovrasta. Ci lasciamo trasportare da una leggera corrente che piano piano ti porta verso valle: è una goduria unica.

Le sue acque scorrono in mezzo a una foresta pluviale, dove trovano riparo macachi, capibara, tucani, splendidi pappagalli colorati e uccelli di ogni tipo. Facciamo anche rafting nel fiume Formoso, superiamo con patema d’animo il suo tortuoso percorso e le sue cascatelle.

Il giorno dopo facciamo un giro nella foresta accompagnati da una guida esperta. Che natura!

Seguiamo il fiumiciattolo e quando raggiungiamo delle invitanti cascatelle ci lasciamo ritemprare da lunghi bagni. Sarà per la natura che ci sovrasta o per l’aria o l’atmosfera che si respira, ci sentiamo come dei Tarzan. Mancava solo che intravedessimo tra i rami della foresta anche Jane e Cita e il quadretto sarebbe stato completo.

Salar de Uyuni A Uyuni prepariamo le macchine per la nostra meta, il Salar. Come di consuetudine per preservarle dal sale, le facciamo lavare sotto e grafitare. Il tutto verrà ripetuto dopo due giorni al nostro ritorno.

Questa salina situata a 3600 m è una delle più grandi al mondo. Il sale, oltre al fabbisogno umano e animale, viene tagliato in tanti mattoni e usufruito per la costruzione di alberghi e case.

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Quando la sua superficie è asciutta, il paesaggio è una bianca distesa accecante di sale che si estende all’infinito. Quando queste pianure si ricoprono d’acqua si formano degli specchi che riflettono alla perfezione le nuvole e il cielo blu dell’altipiano e l’orizzonte scompare. Dopo 75 chilometri raggiungiamo l’Isla de los Pescadores, una formazione rocciosa al centro del Salar ricoperta fittamente da cactus e circondata da un pianeggiante mare bianco di mattonelle di sale dalla forma esagonale. Qui tavoli, sedie e sdraio sono tutti di sale e così anche diverse sculture. La più mastodontica è una targa che reclamizza oltremodo la corsa della Dakar - Bolivia che ha fatto qui l’arrivo di una tappa. Ci prepariamo per la notte e un bel tramonto colora di rosa questa distesa infinita. Un silenzio assoluto ci avvolge, così pure i suoi 10° sotto zero. Sono momenti magici e li immortaliamo con qualche bel clic. Durante la notte ci accorgiamo di non essere più soli: numerose baffute viscachas popolano quest’isola.

Lago Titicaca Gironzoliamo nel mercato di Pisac, non quello costruito ad arte per i turisti nei giorni di domenica, martedì e giovedì, nemmeno quello invaso dai pullman Gran Turismo che scaricano gringos che comprano a più non posso, ma in quello del lunedì. È un mercato pacifico, tranquillo ed è tutto per noi.

Alcuni venditori sonnecchiano mentre altri sorseggiano il rigenerante Mate de Coca. Colori, stoffe, artigianato e spezie simulano l’abbondanza in un paese in cui la scarsità è la regola.

Un mito della nostra infanzia è il lago Titicaca, lo specchio d’acqua navigabile più alto del mondo: 3820 m. Le piccole isole galleggianti degli Uros, fatte di canne di totora (una pianta lacustre), intrecciate e sovrapposte sono collegate tra loro con le tipiche barche anche esse fatte di canne. Queste faraoniche imbarcazioni, che tanto assomigliano alle più conosciute egizie, con il tempo si inzuppano d'acqua, perdono la galleggiabilità e, entro un anno, affondano nel lago. Purtroppo gli Uros sono estinti da tempo e quelli che noi vediamo e che attirano ogni giorno frotte di turisti assatanati di fotografie e souvenir sono indigeni dei dintorni. Possiedono i pannelli solari e si guadagnano da vivere vendendo la propria immagine, i tessuti ricamati e i manufatti di alpaca.

Anche qui non si può fare a meno di notare che le vere protagoniste sono le donne. Attorno a loro ruota buona parte dell’attività lavorativa delle isole. La popolazione indios, di origine Quechua, con molta fatica a questa altitudine, coltiva patate e cereali tipici delle Ande, si dedica all’allevamento di animali soprattutto lama, alpaca e pecore. I peruviani non corrono, ma lavorano alacremente, sanno attendere ed in questo ci coinvolgono. Siamo “costretti” a rallentare i nostri ritmi e a dimenticarci per un po’ di essere degli ansiosi gringos di marca europea.

Arequipa La nostra entrata ad Arequipa è da dimenticare. Strade strette, balconi sporgenti, grovigli di fili elettrici minacciosamente bassi, traffico caotico e soprattutto odiosi mini taxi gialli che si infilano ovunque.

Dopo quattro quadre a destra e tre a sinistra, che ancora stiamo cercando, infiliamo vergognosamente una via in contromano. Ce ne rendiamo conto solo quando un muro di onnipresenti macchinette gialle ci viene incontro strombazzando all’impazzata. Con fatica e con l’ilarità di tutti invertiamo la rotta, ci infiliamo in un parcheggio da dove non ci muoveremo più per due giorni. Questa città, ciudad blanca, situata a 2200 m sul livello del mare, è ricca di storia ed è costruita quasi esclusivamente in tufo bianco proveniente dai tre vulcani circostanti. Monumenti e edifici con balconate di chiare origini coloniali si affacciano sulle stradine strette del centro. Alla sera, Plaza de Armas è illuminata da una luce calda e un’atmosfera particolare. Siamo attratti da una musica andina che si diffonde nella piazza.

Esce da un ristorante tipico dove le ragazze sono in costume e ci sembra il posto adatto per dimenticare la nostra disastrosa entrata in Arequipa. Ci facciamo tentare dal piatto nazionale: il cuy (porcellino d’India).

Viene servito con unghie, zampette, testa, orecchie e tutta la sua dentatura. Sembra un ratto rinsecchito: uno schifo indegno. Lo affoghiamo più volte con dell’ottimo Pisco Sour. Un quartetto andino ed il superbo panorama di questa piazza romantica ci tengono compagnia fino alle ore piccole.

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El Tatio Dopo migliaia di chilometri di coste incontaminate, fiordi, montagne, vulcani, acque termali e laghi entriamo nel deserto dell’Atacama con le sue pianure salate dai colori pastello, i geyser fumanti e i geroglifici Inca.

Questo deserto è considerato il più arido del mondo.

A 2300 m San Pedro de Atacama appare come una pennellata di verde su un freddo sfondo di colore marrone. Vivace la sua piazza ombreggiata, dove spicca una chiesetta da cartolina. Sostiamo un giorno per acclimatarci. Seguiamo la pista “del Gringo” di 93 km fino ai geyser di El Tatio. Per questa lunga e sofferta arrampicata fino a 4300 m ci vorranno più di 4 ore. A causa della rarefazione dell’ossigeno il nostro Toyotone ha il singhiozzo, la tosse, sfiata, fuma e puzza vergognosamente. Anche per noi non è una passeggiata.

Il respiro è affannoso e dobbiamo di tanto in tanto iperventilare. Di giorno non è un grosso problema, ma di notte questa necessità ci impedisce di dormire. Fa molto freddo e per la notte ci vestiamo a “ cipolla”.

Le stalattiti di ghiaccio sulla porta sono la testimonianza che la temperatura è scesa di un bel po’ sotto lo zero. Non ci fidiamo ad accendere il riscaldamento dato che a queste altitudini difficilmente funziona.

Le teorie sul riscaldamento Webasto sono le più disparate: c’è chi sostiene che basta aggiungere un antigelo al gasolio e chi ha montato due pompe. Una cosa è certa: ringraziando l’elettronica, dopo tre tentativi di accensioni andati a vuoto, va in blocco e non funziona più.

Alle ore 5 ci alziamo per immortalare i geyser alle prime luci dell’alba. L’impatto visivo di queste fumarole di vapore in controluce è indimenticabile… e i clic delle macchine fotografiche si sprecano.

Alle ore 8.30 i pochi turisti ripartono. Rimaniamo in quattro ed assieme a Herman ci immergiamo in una pozza termale e ci godiamo questo fenomeno della natura.

Herman è di nazionalità tedesca. Con un vecchio Land Rover 105 e una ex cella frigorifera sta girando da più di 10 anni il mondo da solo. È difficile dargli un’età. Ha un viso cotto dal sole incorniciato da una lunga barba e capelli lunghi raccolti in un codino.

Restiamo affascinati dai suoi racconti di giramondo. Spesso non si capisce dove termina la realtà e dove inizia la fantasia. È un libro parlante che racconta le esperienze vissute ed il suo modo di essere.

Facciamo nostra una sua massima: "La vida es corta, des gustala". Parole sante!

Per finire Mancano 1400 chilometri per arrivare a Montevideo, dove lasceremo la nostra Toyota in un oscuro garage per quattro mesi. Abbiamo dedicato un anno e 76000 km a questo favoloso continente, che considerata la vastità e la bellezza dei luoghi sono ben poca cosa. È un susseguirsi continuo di ricordi di persone, d’incontri, aneddoti, situazioni diverse e storie vissute.

Non si può non ricordare queste perle: Buenos Aires, le cascate di Iguazù, l’Amazzonia, Rio de Janiero, il lago Titicaca, la festa de Caire, il parco di Talampaya, i geyser di El Tatio, tutti quadri di rara bellezza.

E che dire della natura incontaminata del Pantanal, la cui flora e fauna sono da ricordare per tutta la vita, come reliquie appartenenti al passato.

Questa nostra voglia d’incontri con abitanti di terre lontane, di nature affascinanti e non ancora totalmente asserviti al nostro “progresso” ci ha indotto ad organizzare questo viaggio. Viaggio appunto, non spedizione, non vacanza frettolosa. Ci muoviamo copiando dalla natura, quindi come una tartaruga, passo dopo passo, con “la casa in spalla”, senza fretta, attenti al sorriso di un bambino o alla preghiera di un anziano.

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Lo sforzo di comprendere gli altri ci ha reso più tolleranti, più attenti ad apprezzare quanto di bello abbiamo scoperto: un tramonto, un batter di ciglio, un timido saluto, il profumo lieve di un fiore.

Non è stata un'impresa eroica e coraggiosa, solo un lento procedere dove non servano prenotazioni obbligatorie, dove l’orologio ed il calendario non sono la discriminante, un cammino che chiunque può intraprendere purché dotato di voglia di conoscere, desiderio di confronto e capacità di adattamento.

Da sempre abbiamo pensato che la nostra unica vera ricchezza è poter utilizzare il nostro tempo liberamente e questo è il nostro bene più prezioso. Questo è il segreto dei nostri viaggi, la gioia dei ricordi, il desiderio di ripartire per ritrovarli e riviverli ancora.

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Stati Uniti Finalmente è giunto il momento di rimetterci in pista. Dopo due anni di astinenza di viaggi, dovuta a sfighe varie, martedì 19 giugno partiamo in aereo da Monaco diretti a Baltimora, dove raggiungeremo la nostra Toyota “imbriagona” con l’intento di seguire la risalita dei salmoni e i loro predatori dal Canada all’Alaska.

Primo giorno: siamo a Baltimora negli Stati Uniti e forse fra tre giorni riusciremo a sdoganare i nostri camper. Abbiamo dimenticato a casa il telefonino tri-band e il riduttore di tensione elettrica da 220 a 110 in camper. Ci troviamo in un paese ipertecnologico parlante lingua forestiera, isolati telefonicamente e senza computer!

Ci diamo degli obiettivi: il primo giorno ci facciamo portare in taxi (50 dollari) a un supermercato e compriamo il riduttore di tensione. Riusciamo a pranzare con un panino traboccante di salse strane dai colori e gusti improbabili. Mentre ci sbrodoliamo mani e avambracci sogniamo gli spaghetti e Umberto (il toscanaccio doc) la solita fiorentina.

Per l’inglese ci affidiamo a Christine, ma da quando ci siamo accorti che ripete solo e unicamente le solite cose, abbiamo smesso di dipendere da lei e la nostra mimica ha preso il sopravvento.

Secondo giorno: l’obiettivo è tagliare la terra della presa del computer. Ci rifugiamo in un Mc Donald, dove ci hanno riempiti di bustine di ketchup, maionese e una salsa bruna. Vi risparmio il giudizio: usciamo invocando i nostri camper, gli spaghetti e la solita fiorentina. Anche questa volta a causa del nostro albergo un po’ troppo isolato e privo di cucina non siamo riusciti a cenare.

Terzo giorno: questa volta il nostro intento è di fare colazione, pranzo e cena e di evitare i 50 dollari di taxi. Camminare con questo caldo per chilometri è uno sforzo veramente infernale. Christine si pianta all’ombra e non si muove più. Per nostra fortuna un automobilista con un macchinone si è impietosito e ci ha portato fino alla fermata della metropolitana. Aiuto!!

La biglietteria è automatica!!! Pagamento con carta di credito. Panico generale. Ognuno grida la sua verità, ma nessuno si fida ad infilare la carta di credito. Stiamo dando spettacolo. Per nostra fortuna si alza un armadio d'uomo di colore, alto due metri, pantaloni blu dal cavallo basso e dalla piega incerta, scarpe ginniche clownesche lunghe tre spanne, naturalmente slacciate. Con un inglese trentinizzato gli facciamo capire i nostri intenti.

Ci prende la carta e la infila nel posto giusto: categoria senior (rinco), quindi otteniamo pure lo sconto e con un dollaro e 25 cent abbiamo anche il ritorno. Lui ci chiede da dove veniamo, noi per risposta chiediamo quando arriva la metro e qui inizia il nostro imbarazzo: "Non avete il telefonino?" Scuote la testa, tira fuori il suo, lo pizzica più volte e ci fa vedere che fra un minuto sarebbe arrivato il nostro treno.

Come per magia dopo un minuto compare la metro. Stiamo godendoci l’aria condizionata del treno e spiego con i gesti che noi siamo rimasti ancora al tam tam. Umberto per non essere da meno rincara la dose mimando con un fazzoletto di carta i segnali di fumo.

Il nostro gigante buono scoppia in una fragorosa risata e spiega ai presenti la nostra poca familiarità con la tecnologia moderna. Tutti i presenti come d’incanto cominciano ad armeggiare con i loro telefonini; ci consigliano di scendere al porto e ci avvisano che l'arrivo è previsto tra 22 minuti e mezzo, sbalorditivo!

Proprio come Trenitalia!

Arrivati al porto, nello scendere, mi si stacca la suola quasi per intero. Come fare? Quattro chewing gum masticate e una legatura mi hanno permesso di tirare avanti per un po’, ma ad ogni passo il tallone si stacca mostrando i filamenti della gomma americana (uno schifo indegno).

Quando me lo ricordo, non alzo ma trascino la scarpa. Il mio procedere è lento e molto da “sgherlo”.

Sono sempre l’ultimo e penso anche che quei tre là si vergognino della mia situazione e di proposito mi distanziano.

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Anche il terzo giorno abbiamo saltato la cena, però abbiamo visto giocare e vincere l’Italia. Quei “tre di prima” sono andati a cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Io mi sono arreso, mi son sdraiato nudo come Adamo e mi godo l’aria condizionata a tutta manetta con braccia e gambe a x aspettando che i preziosi attributi che mi porto dietro da sessantasette anni si rinfreschino e si stacchino dalle cosce.

Con domani finalmente torneremo camperisti!!!!!

Finalmente abbiamo ritirato le macchine, tutto ok. Facciamo la spesa , carichiamo i computer, sistemiamo i satellitari e qui cominciano i guai: non funzionano, né il mio né quello di Umberto nonostante entrambi i computer siano a 64 bit !!!! Colpa mia ? Colpa di Christine? Non li abbiamo provati a casa, una bega a non finire. Ci siamo rinfacciati di tutto, dalla prima comunione in poi.

In definitiva sono giorni che ci diamo del “LEI”. Senza satellitari dovremo cercare di raggiungere l’abitazione di Stefano e Lisa che abitano alla peri- feria di New York. Da Baltimora normalmente ci vogliono sette/otto ore .

Sono due giorni che gironzoliamo attorno alla periferia della Grande Mela e solo grazie a Fernando, un disponibilissimo brasiliano (meccanico... a giudicare dalle unghie orlate d’olio e grasso), siamo riusciti a raggiungere la meta. Ha telefonato a Stefano (noi siamo sempre senza telefonino tri-band) e con lo stradario del suo telefonino ci ha condotti da Stefano che ci stava aspettando a metà strada!!!

Questo nonostante il display del suo cellulare fosse smerigliato e praticamente illeggibile.

Ci congediamo da “Santo Fernando” che con un “nada de nada” rifiuta la nostra offerta di pagare il servizio ricevuto.

Gli omaggiamo qualche DVD dei nostri viaggi, compreso uno sul Brasile che non vedeva da molto tempo. Si è perfino commosso. Gli porgo un mio biglietto da visita e lui ci chiede di firmarlo : ora è il nostro momento di commuoverci davanti a tanta semplicità ed altruismo.

Fernando rimarrà indelebilmente nei nostri ricordi più cari.

Ora siamo parcheggiati sul prato all’inglese della mega villa a due piani di Stefano e Lisa. Situata su una collina contornata da un fitto bosco, in una zona di lusso ad un’ora di macchina da New York è ora in vendita (un peccato mortale).

Stefano, informatico bolzanino e Lisa architetto arredatrice, entrambi senza lavoro da quaranta giorni a causa della crisi americana, vogliono vendere tutto e trasferirsi in Germania.

Stefano ha aggiornato i nostri satellitari in modo che possano funzionare a 64 bit. Purtroppo hanno perso alcune funzioni e quindi decidiamo di comprarne due moderni con le cartine (intelligenti) di Stati Uniti, Canada, Alaska e Messico. Ci ha anche insegnato ad usarli: sono una bomba!

Michela e Christine scoprono ogni giorno delle funzioni nuove: hanno perfino un traduttore in diverse lingue elaborato dall’università di Oxford, così il nostro inglese molto maccheronico da oggi sarà “oxfordiano”.

Abbiamo anche un quadrottero, una specie di elicottero telecomandato con sopra una telecamera HD. È possibile comandarlo con l'Ipad e nel contempo vedere il campo inquadrato. Stefano mi ha insegnato come pilotarlo e come usare l’Ipad. Le prime prove sono andate bene. È stata una full immersion nell’informatica con dei break , uno al mattino e uno alla sera, quando Stefano porta a nuotare i 4 labrador nei laghetti dei dintorni. Altri due break per vedere le partite di calcio, stravaccati in poltrona con ogni ben di Dio che Lisa ci prepara: popcorn, patatine, cioccolatini...

Nella semifinale contro la Germania gli Azzurri ci hanno fatto sognare, purtroppo questo sogno si è infranto poi contro una Spagna stellare.

Ci congediamo da Stefano e Lisa, ringraziamo augurando loro di cuore di risolvere il problema del lavoro e nel contempo salvare una così bella villa. Oggi finalmente abbiamo comprato una bombola di gas con riduttore americano e per noi incomincia la “cavalcata” verso l’Alaska.

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Stiamo attraversando lo stato dell’Ohio, fa un caldo infernale e i condizionatori vanno a tutta manetta.

Devo costatare l’efficacia del Viesa (condizionatore deumidificatore) che permette di tenere le finestre aperte, rinfrescando e togliendo l’umidità nel contempo: una figata pazzesca. Quando abbiamo arredato la cellula abitativa ci sono voluti quattro mesi di lavoro in garage e siamo tutt’ora orgogliosi del risultato.

Nella progettazione abbiamo considerato di primaria importanza il Wc e poi tutto il resto.

Con l’esperienza fatta quest’anno, metterei alla pari anche il condizionatore Viesa.

Guidiamo otto ore al giorno, perchè dobbiamo recuperare qualche giornata in modo da non giungere in ritardo in Alaska per vedere la risalita dei salmoni. Evitiamo i campeggi dormendo nei parcheggi dei supermercati della Wal-Mart. Facciamo la spesa giornaliera.

Con il pane andiamo male: ho ancora davanti agli occhi Umberto con una baguette in mano che sconsolato la vede piegarsi a “U”, solo tostandola riprende vita ed è pronta per una magnifica colazione.

Attraversiamo gli Stati Uniti “Coast to Coast”: 6000 chilometri, 3 fusi orari, 1000 litri di gasolio.

Visitiamo le terre di Sioux, Navajo, Seminole e Cheyenne. Sfrecciamo con i nostri camper attraverso una campagna coltivata e variopinta: il giallo del grano maturo si confonde con il verde intenso delle foglie del mais e con l’azzurro tenue dei fiori di lino.

Il lento scorrere dei fiumi che si snodano come degli enormi serpentoni e una serie di rapide creano suggestivi giochi di luce fra le rocce: qua e là si intravede una nostalgica tenda indiana. Da un altipiano si gode una bella vista della vallata dove troneggia la futura enorme statua di Cavallo Pazzo.

In lontananza, il profilo azzurro delle montagne è l’unico punto di riferimento. Foreste di pini e betulle, campi di grano, mais e girasoli, villaggi di colorate case di legno allineate sui due lati della strada, venditrici di frutta e ortaggi, laghetti popolati da aironi e anatre selvatiche, improvvisi temporali e fiammeggianti tramonti: questa è stata la nostra attraversata “Coast to Coast”.

A Vancouver cerchiamo un posto per pernottare, perchè è già sera tarda. Non troviamo nulla di rassicurante. In giro si vedono solo indiani. Questi ex signori della prateria ora sono ciondolanti, malfermi e cenciosi. Li riconosciamo dal naso aquilino, dalla pelle scura, dai capelli lisci, neri corvini.

Ci indicano un parcheggio vicino al Stanley Park. Siamo alle prese con le istruzioni per il pagamento, ma come sempre le capiamo solo in parte: si menzionano articoli di legge e multe. Il costo è di 10 dollari ogni 3 ore, ovvero 40 dollari per notte. Davanti al tassametro ognuno di noi dice la sua, ovviamente sempre in contraddizione con gli altri.

Un cinesone a gesti ci spiega come registrarci. Bisogna inserire il numero delle nostre patenti, ma il parchimetro non riconosce quelle europee. L’omone dagli occhi a mandorla come alternativa si avvicina ai camper, con il telefonino fotografa le targhe e le digita in quella macchinetta infernale, introduce, sempre in quel mostro digitale, le nostre carte di credito e ci fa capire che fino alle otto del mattino saremo stati in regola.

Ringraziamo con un sorriso che sapeva più da ghigno e lo mandiamo silenziosamente a “ramengo”.

Proprio a noi doveva capitare un asiatico che ce l’ha messa tutta per farci spendere 80 dollari per una notte.

Il mattino seguente, prima delle otto, un gruppo di curiosi gironzola attorno ai nostri mezzi, sono in attesa che ci alziamo. Appena usciamo ci pongono i soliti quesiti: “Cosa sono questi? Da dove venite?

Dove andate? È un disegno italiano”? Solitamente concludono con “benvenuti in Canada”.

Anche loro quando saranno in pensione faranno come noi: viaggeranno con un mezzo piccolo che costa poco e consuma poco. Li lascio alle loro fantasticherie, in quanto ai consumi e ai costi d’acquisto avrei qualche cosa da ribattere, ma bonariamente non frantumo i loro sogni canadesi.

Ci spiegano inoltre con un inglese più comprensibile (non avevano la solita patata in bocca) che dalle 23 alle otto del mattino il parcheggio è gratuito ... ….. e l’incazzatura del giorno prima continua.

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L’intera zona è sotto un cielo grigio piombo. Un vento irrequieto continua per tutta la notte a malmenare e a strapazzare il nostro mezzo. Il mattino seguente siamo intabarrati nei nostri piumini e ancora una volta il grande assente è il sole; siamo avvolti da una nebbiolina impalpabile e ci scopriamo bagnati fradici.

Sembra che tutto d’un tratto sia arrivata la stagione delle piogge. Dense nubi nere cariche d’acqua ci fanno desistere dall’andare avanti. In alcuni punti la macchina scivola nel fango, ma la trazione integrale ci facilita non poco.

Fiumi di acqua rendono viscida la strada. Passiamo vicino a una splendida quanto inquietante grotta di ghiaccio formata dai seracchi. L’asfalto è solo un ricordo: buche, fango, dossi e frane. Canyon dalle pareti che sembrano caderti addosso e schiacciarti si stringono sempre di più tanto che a un certo punto la luce non filtra più. Il fiume scorre impetuoso nella stretta valle che ha inciso in milioni di anni creandosi uno spazio tra le ripide pareti striate da decine di cascate spumeggianti.

Sulle rive la foresta è fitta e lussureggiante e ha mille sfumature di verde. Forti raffiche di vento scendono dalla montagna, raggiungono il lago, sollevano l’acqua in alti mulinelli creando degli effetti particolarmente suggestivi.

Un panorama di grande effetto, austero, spettrale, quasi angosciante. L’enorme massa d’acqua che precipita nello strapiombo solleva una nube di goccioline vaporizzate attraverso cui filtrano gli sporadici raggi di sole che, scomponendosi in tutti i colori dell’iride, formano luminosi arcobaleni.

I nostri occhi rimangono incollati a guardare la potenza dell’acqua e le orecchie tese al rombo assordante.

Arranchiamo con la nostra jeep in un lungo e interminabile sterrato, attraversiamo pendii pietrosi, letti di fiumi e steppe spinose circondate da cime innevate. Alla fine della giornata siamo stremati e con il sedere ammaccato e le gambe accartocciate. Solo alla sera il sole compare timidamente dietro una cortina di nubi. Il cielo è sbavato dal bianco di soffici nuvole che gli fanno da velo.

L’aria è limpida e pungente.

Questa volta dormiamo nel bosco in riva a un fiume, per permettere ad Umberto di andare a pescare all’alba. Non l’avessimo mai fatto! Un,orda di zanzare fameliche ci ha massacrato per tutta la notte.

Non capiamo da dove possano entrare.

Nessun repellente funziona e con la racchetta elettrica ci siamo difesi per tutta la notte. Anche dai Mura è stata una dura battaglia e le zanzare hanno avuto la meglio. Al mattino, incazzati, ognuno racconta le sue disavventure mostrando le proprie ferite. Il primato spetta a Michela: tre punture quasi una sull’altra.

Siamo ancora senza telefonino. Quest’anno abbiamo dimenticato a casa parecchie cose importanti.

Due anni fermi ci hanno causato diversi disagi. Umberto, il toscanaccio doc, non dà la colpa alla pausa forzata, ma alla nostra veneranda età e ci apostrofa così: "Altro che Toyota fuoristrada, ormai siete da girello." Questo proprio non ce lo meritiamo, ma se il nostro futuro sarà un girello, speriamo almeno che sia un quattro x quattro!

Stiamo attraversando boschi a perdita d’occhio decorati da laghetti incontaminati.

Qui in Alaska l’intervento umano è quasi nullo, se non fosse per un serpentone lucido che ha inferto a questa natura intatta una ferita lunga 1360 chilometri: è l’oleodotto che parte da Prudhoe Bay (sopra il circolo polare artico) per terminare a Valdes. Questo tubo in acciaio scavalca montagne, tundra e taiga e 800 corsi d’acqua. La quasi totalità del suo percorso non è interrato.

Ovunque cascate dove i salmoni si ammucchiano e tentano la risalita. I grizzly e gli orsi bruni li aspettano e con poca fatica li catturano per sé e per i loro piccoli, accumulando così il grasso necessario per il lungo letargo invernale.

Valdes è un susseguirsi interminabile di panorami fantastici avvolti spesso da nebbie e nubi che squarciandosi ci regalano spot di sole sulle dorsali erbose e sui lucenti rigagnoli che, come vene gonfie d’acqua, disegnano le valli tutt’intorno. Qui l’uomo, il nemico più temibile della natura, ha modificato a suo piacimento l’aspetto di questo ambiente e la vita dei salmoni.

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Il corso d’acqua è stato deviato per alimentare una centrale idroelettrica svilendo così la portata del fiume.

Migliaia e migliaia di salmoni, al pari di una muta legione di guerrieri inermi, si ammucchiano l’uno sull’altro nell’improbabile tentativo di risalire la cascata. Stremati dalla fatica, diventano un facile pasto per i loro predatori: grizzly, orsi bruni, lontre, otarie, elefanti marini, aquile pescatrici, gabbiani e naturalmente pescatori.

Ci sono addirittura dei turisti che giungono da tutto il mondo non tanto per godere delle bellezze del luogo, quanto per partecipare o anche solo assistere alla terribile mattanza.

Qui vengono catturate le femmine di salmone, fecondate le loro uova e allevati gli avannotti, che poi saranno rilasciarli in prossimità della cascata. Ciò che per qualcuno è semplicemente il perpetrarsi del ciclo della vita, per altri diventa un’assicurazione sul turismo e una garanzia che questo macabro spettacolo si ripeterà anche per gli anni a venire.

Non sappiamo molto sul comportamento dei grizzly, dunque manteniamo una certa prudenza e siamo pronti a battere in ritirata. Come sempre accade, il primo avvistamento crea una frenesia assoluta, ma anche una certa inquietudine perché siamo all’esterno delle nostre auto.

Con cavalletti e macchine fotografiche ci avviciniamo con circospezione. L’orsa non sembra particolarmente impaurita, ma controlla le nostre mosse. Dopo un po’ scorgiamo una testolina che si alza dalla sua schiena: è una mamma con quattro piccoli! La prima che vediamo è in realtà una famigliola!

Quando però superiamo quello che lei ha eletto il suo invisibile limite di sicurezza, tutti si stiracchiano pigramente e la capofamiglia decide che è ora di cambiare aria. Si dirigono lentamente verso un vicino boschetto, mamma orsa davanti e i piccoli dietro, voltandosi di tanto in tanto a controllare.

Ora siamo in un periodo di abbondanza di cibo. Molti salmoni vengono lasciati dagli orsi ancora con molta carne: in questo momento il plantigrado tende a cibarsi solo delle uova del pesce.

Il paesaggio circostante è fiabesco, così ammantato di bianco, è meraviglioso. Le rocce e gli alberi si profilano all’orizzonte seminascosti dalla nebbia, sagome indefinite e a tratti irreali nella tenue luce bianca. Ci sono macchine della polizia messe di traverso che occupano quasi tutta la carreggiata.

Ci fanno cenno di rallentare.

Dapprima pensiamo ad un incidente, poi ci rendiamo conto che c’è qualcosa di strano.

Ci indicano un orso, comodamente accucciato, che si sta godendo lo spettacolo delle auto della polizia che sono schierate attorno a lui, senza rendersi conto che è proprio lui la causa di tutto questo trambusto.

Chissà cosa pensa dei lampeggianti e di tutti noi mentre ci osserva con attenzione e curiosità.

Sono trenta giorni che godiamo di questo paradiso terrestre.

Lottiamo però contro il maltempo, le zanzare e il freddo.

Ci difendiamo come possiamo con stivali, giacche a vento e mantelle.

Ci svegliamo ancora una volta sotto un cielo nero, carico d’acqua. Siamo stanchi di avere i piedi freddi e perennemente bagnati con l’odore di salmone e muffa che ci perseguita ovunque.

Anche oggi nubi basse avvolgono ogni cosa e dopo 16000 chilometri di viaggio prendiamo una decisione: abbandoniamo l’Alaska che tanto ci ha dato augurando a tutti di poter vivere una simile esperienza.

Portiamo con noi tre parabrezza danneggiati più uno sostituito, i frigoriferi stracolmi di pesce e nel cuore le immagini di Valdes con la risalita dei salmoni e di tutti i suoi predatori.

Decidiamo di puntare verso sud sognando “la Californiaaaaa!”

Proseguendo verso sud, le giornate inondate di sole si allungano e le temperature si fanno via via più miti.

Attraversiamo spazi infiniti, una natura rigogliosa, caynon e parchi per ben 14000 km: visitiamo la Monument Valley, Antilope Caynon, Caynon Land, Yellowston Park, Sequoia Park, Chiricahua Park, Bryce Canyon, la Valle della Morte e città sviluppate verticalmente. Siamo entrati negli Stati Uniti con poche aspettative, ma il nostro entusiasmo è cresciuto con il passare dei chilometri.

Gli scenari naturali dell’Oregon spaziano da aspri litorali a fitte foreste di piante sempreverdi a spiagge a lungo le quali torreggiano alti faraglioni popolati da molti uccelli marini.

Chilometri e chilometri di spiagge di sabbia interrotte da immensi promontori di basalto come scalinate, da pozze naturali create dalle maree e un meraviglioso insieme di pinnacoli e picchi, guglie e punte.

Il Bryce Canyon in realtà è un anfiteatro scavato nella roccia dall’erosione. Invece le rocce rosa e rosse dello Zion Park sono talmente gigantesche, solenni e magnifiche da lasciare senza fiato chi le vede.

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Si prova una grande sensazione davanti a questo panorama. Non ci stanchiamo mai di riprendere le imponenti guglie rossastre e i grandiosi promontori di rocce della Monument Valley comparsi in centinaia di film e video pubblicitari. Ci troviamo in compagnia di sequoie giganti nel Sequoia Park.

Qui crescono grosse, robuste e abbondanti. La verdissima Yosemite Valley è attraversata dal gorgogliante Merced River che si estende fra spettacolari blocchi di granito. El Capitan è uno tra i più grandi monoliti del mondo, oltre che un vero paradiso per gli arrampicatori, mentre la Half Dome è una cupola di granito perfettamente rotonda che rappresenta il vero cuore del parco. Le cascate di Yosemite Park incantano anche il viaggiatore più stanco.

Bikers Belle, stravaganti, colorate, ricche di cromature, queste maxi moto le troviamo dappertutto.

Sono più di diecimila le Harley Davidson che si sono radunate a Daytona. Ci intrufoliamo in mezzo a questa invasione di motociclisti. Nonostante i nostri chili di troppo, ci sentiamo più magri della media dei centauri. Siamo un po’ impacciati a causa del nostro abbigliamento, le nostre T-shirt sembrano da collegiali rispetto ai gilet di pelle con frange e borchie o canottiere da battaglia che stentano a coprire abbondanti petti irsuti di peli bianchi. Hanno uno spiccato senso della collegialità e scopriamo che la parvenza inganna. Dietro le grintose montagne umane adorne di tatuaggi e piercing, si celano anime dal cuore tenero, cordiali e disponibili. Quello che ci colpisce è la naturalezza con cui anche i più anziani e corpulenti, donne comprese, viaggiano in perfetta simbiosi con la loro bike come fosse un’appendice di chi la guida. La polizia è presente in massa e per nostra fortuna è inoperosa.

In un saloon la tipica atmosfera americana è piacevole e ci coinvolge: musica country a tutto volume, birre, hamburger e carni alla griglia in quantità. Belle ragazze alternano la vendita di Whisky e Gin a balli spregiudicati sui tavoli creando non poco scompiglio tra i vocianti “Harleysti”. In questi ambienti carichi di fumo, di stivali e di sombreri, incontriamo scaricatori di porto, impiegati e uomini d’affari, tutti stravaganti con bandane colorate, tutti oltre gli …anta, con un unico fattore comune la “Harley Davidson”.

Non ci si improvvisa harleysti: la tribù ha codici, regole, segnali e abbigliamento inconfondibili.

La Harley è un passaporto per il sogno americano, una filosofia di vita che si esprime anche nei fantasiosi modi di personalizzare la motocicletta. Dopo tre giorni di sgasate, impennate e rumore lasciamo Daytona e sulla High Way numero 10 inizia la nostra traversata da costa a costa. Spesso ci sorpassano frotte di bikers, alcuni sono in formazione cuneiforme e li sentiamo arrivare prima di vederli a cavallo della loro “Road King” a due o tre ruote e altri con un carrello appendice e spariscono in una nuvola di fumo azzurrino.

Ci stiamo dirigendo verso la penisola più lunga del mondo: la Bassa California. Il clima è desertico, siamo alla perenne ricerca di un po’ d’ombra mentre di notte si respira appena, nonostante il Viesa, il nostro condizionatore, sia sempre in funzione.

La vegetazione è rada: è il regno incontrastato dei cactus. Abbandoniamo la strada asfaltata, attraversiamo delle estensioni desertiche di cardones, cotillo e scolla, frammiste a macigni tondeggianti di granito.

Questo scenario inusuale ci incanta e per questo decidiamo di passare qui la notte. Gustiamo le luci del tramonto e anche quelle dell’alba e i click delle nostre macchine fotografiche non si contano. La costa è frastagliata e quasi sempre a strapiombo sul mare dalle mille tonalità. È un susseguirsi di calette invitanti attorniate da scogli, dove ci si può accampare liberamente senza problemi. Muovendo la “casa rodante” per fare la spesa, ad un tratto sentiamo dei rumori sospetti provenienti dalla ruota posteriore sinistra.

Con il passare del tempo si accentuano, fumo e puzza di bruciato di ferodo misto a olio ci avvolge e solo dopo la settima bottiglia d’acqua rovesciata sul mozzo, incominciano ad attenuarsi. Siamo molto preoccuparti, ci sentiamo persi ed abbiamo il morale sotto i talloni.

Ad un tratto un rumore sinistro di ferraglia. Ci trasciniamo fino a Ensenada nel campeggio dei nostri amici Nora e Pino “ Los Pirules”. Il loro meccanico di fiducia smonta tutto il posteriore e sentenzia quanto segue: il cuscinetto si è sbriciolato, ha bloccato la ruota e il semiasse si è spezzato piegando l’ultimo pezzo della camicia.

Morale: bisogna cambiare tutto l’assale posteriore!!!

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Inizia una lunga ricerca via internet. Fornisco foto e numeri di codice dei pezzi rotti. Ottengo “nada de nada”.

In Messico questo pezzo è introvabile. Otteniamo delle risposte positive e quindi i relativi preventivi solo dall’Olanda e dalla Germania. Così dobbiamo aggiungere al costo dei pezzi, la dogana e il trasporto, quasi una miliardata!!! Lasciamo la nostra "Troyota" sui mattoni e dopo solo cinque mesi di viaggio torniamo a casa...

Lettera a Gesù Bambino Caro Gesù Bambino, fammi trovare in Messico l’assale posteriore e il semiasse sx della mia Troyota.

In cambio prometto: Che quando sarò a Merano assisterò in prima fila alla sfilata della Festa dell’Uva. Non mi lamenterò per il Wine Festival. Visiterò più volte il Mercatino di Natale.

Andrò almeno una volta al mese a piedi in città.

Mi alzerò almeno una volta al mese da tavola con la fame. Mi avvicinerò ai dolci con schifo misto a ribrezzo.

Non interromperò mai più Corneglio senza g mentre parla.

Festeggerò l’ultimo dell’anno non a tavola come sempre, ma in città sulle passeggiate.

Non chiamerò più la mia mitica Toyota, Troyota.

Speranzoso e pieno di buoni propositi dovrò fermarmi per 5 mesi a Merano. Il viaggio in Sudamerica continuerà…FORSE

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PATAGONIA Abbiamo trascorso quattro mesi di ozio e stravizi a Merano ed è ora di rimettersi in pista. In 15 ore di volo siamo arrivati a Montevideo. Due giorni di pulizie della nostra casa rodante e una maxi spesa, poi ricomincia la solita caccia all’assicurazione del camper. Finalmente dopo un solo giorno, aiutati un po’ da tutti, abbiamo il tagliando in mano. Il nostro satellitare punta decisamente a sud. Entriamo in Argentina, quindi altra assicurazione. Ci affoghiamo e strafoghiamo delle favolose carni argentine.

Purtroppo abbiamo problemi con il computer. Abbiamo dovuto cambiare in corsa la nostra e-mail e di conseguenza abbiamo perso tutti gli indirizzi. Per un mese restiamo isolati. Poi un po’ alla volta siamo riusciti a ricostruire circa un 50% degli indirizzi, grazie a Roberto che con molta pazienza si è preso a cuore la nostra disperazione, risolvendoci il tutto. Superiamo indenni (avevamo il punto) ben 3 posti di controllo sanitari, imboscando le nostre derrate alimentari. Una pausa di due giorni alla penisola di Valdes, con uscita in battello per vedere le Balene Franche con i loro piccoli. Le abbiamo viste e riviste, ma sono sempre uno spettacolo emozionante. Domani giro della penisola e poi giù giù. Vagheremo come anime libere fino a dove finisce il mondo. Il 25 dicembre lo festeggeremo con Lia, Luciano e Cristina ad Ushuaia. Lia come sempre ci vizierà con un pranzo luculliano alla moda argentina. Centolla (maxi granchio reale oceanico che può raggiungere un metro di diametro, la cui polpa, circa 500 grammi, dal sapore delicato è una prelibatezza!) con due salse di accompagnamento, ravioli, cordero con patate e cipolle al forno, pasticceria mignon e panettone locale, vino tinto (Malbec) e spumante del luogo.

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Dodici ore a tavola a parlare di viaggi presenti, passati e futuri.

Diciotto anni fa con Lia e Luciano abbiamo attraversato l’Africa da nord a sud in undici mesi.

Ora si parla del prossimo viaggio. Noi preferiamo l’Est (India, Pakistan, Nepal, Ladakh) mentre loro puntano per la Penisola Arabica con il ritorno via Samarcanda, Bukhara e Russia. Vedremo chi la spunterà. In loro compagnia abbiamo trascorso una piacevolissima settimana. Ogni giorno una nuova baia nel Canal di Beagle, tutti attorno al fuoco fino alle ore piccole. Il tempo è stato clemente permettendoci sempre di grigliare le favolose carni argentine. Lia ancora una volta si è dimostrata insuperabile.

Il nostro compito era di procurare la legna. Per fortuna era tantissima, tutte piante abbattute dai castori (lo si capiva dai tronchi appuntiti come delle grosse matite). Quando il timido sole spariva ci avvicinavamo al fuoco sempre più accerchiandolo: avevamo 40° e più davanti, mentre sulla schiena attorno a 0°. Con queste temperature le docce si sono diradate sempre più e con il tempo sapevamo di caprone. Per fortuna il fuoco benefico con il suo puzzo di fumo ha coperto il nostro profumo animalesco tanto da sembrare tutti appena usciti da un affumicatoio. Non avendo l’armadio doppia stagione anche la biancheria pulita sapeva di speck.

Siamo arrivati ad Ushuaia il 24 dicembre. Siamo in fiduciosa attesa delle guarnizioni della pinza freni anteriori dell’Iveco speditoci dall’Italia. Speriamo bene. Solo oggi abbiamo avuto la conferma che le 4 gomme Michelin 9” sono già a Rio Grande (200 km da qui). Il tempo a questa latitudine è variabilissimo.

Nel giro di mezz'ora si passa da un tiepido sole a neve, pioggia o grandine il tutto condito da vento glaciale che non dà tregua. Il campeggio "Andino" è chiuso e noi siamo parcheggiati al Camping "Bordo Strada" vicino al porto. Siamo una decina di equipaggi giramondo tutti nelle stesse condizioni.

Ci si incontra solo alla sera, parcheggiati uno vicino all’altro nel vano tentativo di ripararci dal vento patagonico. Questo assembramento di anime libere lo abbiamo nominato la “Little Europa”.

Un po’ di storia, letta, copiata e manomessa da io me “mi” medesimo dal carcere di Ushuaia.

Ushuaia è la capitale della Terra del Fuoco ed è ritenuta la città più australe del mondo. Si trova vicina al 55º parallelo, il che implica che il sole non scenda mai al di sotto dell'orizzonte, permettendo di intravedere uno scorcio di luce anche a mezzanotte. Stretta tra le vette montuose dell'estrema propaggine andina e le gelide acque del canale di Beagle, è oggi una celebre località turistica da dove partono gli itinerari verso il parco nazionale Terra del Fuoco, le isole Malvine, Capo Horn e l'Antartide. Molti dei cognomi tra le oltre cinquantamila persone che abitano Ushuaia rivelano un'origine italiana, un fatto assai comune dato che circa il 40% della popolazione argentina discende da immigrati italiani.

Il fatto straordinario e degno di men- zione è che nel 1948 l'imprenditore bolognese Carlo Borsari si aggiudicò l'appalto per la ricostruzione della città, che il governo di Juan Peròn voleva salvare dall'abbandono dopo la chiusura della colonia penale.

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Il progetto coinvolse molti immigranti italiani ingaggiati come manodopera a basso costo. L'economia italiana del dopoguerra era ancora narcotizzata da miseria e disoccupazione, non è stato difficile reclutare la manodopera necessaria, visto che per molti lavoratori l'emigrazione era divenuta una scelta obbligata. La spedizione organizzata da Borsari rimane in ogni caso un esempio significativo dell'intraprendenza e dell'operosità dimostrata dai lavoratori italiani e della lungimiranza, la determinazione di un imprenditore che ha saputo tradurre i suoi ideali in un progetto realizzato concretamente, che vive ancora oggi.

Il Parco Nazionale Lapataia è una riserva vergine dove si può passeggiare in una foresta di faggi australi. Sorprendente è il numero dei castori intenti a formare delle grosse dighe utilizzando gli alberi abbattuti. Umberto e Luciano sono andati a pescare nel fiume Fagnano che sfocia nel Canale di Beagle, Hanno pescato con la marea crescente e poi calante con il verme, il cucchiaino e con la mosca.

Ora sono davanti al fuoco; gobbi, anchilosati, intirizziti dal freddo e con le mani rattrappite.

Cucchiaini persi 5, ma di truce nemmeno una. Con delle braci favolose e armati di griglie, constatiamo ancora una volta che anche questa sera ceneremo con formaggio e pane tostato. Mi rendo conto di aver toccato sul vivo l’orgoglio dei nostri due pescatori e per questo mi hanno zittito dicendomi: "L’importante non è catturare la trucia, ma essere felici di essere qui". Da allora si sono messi di buona lena conseguendo degli ottimi risultati, così anche la mia felicità di essere qui è doppiamente appagata.

La Minga Ci troviamo nella baia di Puerto Cisnes, nel Aisen in piena Patagonia cilena. Qui ogni anno alla fine di gennaio si festeggia la Fiesta del pescado fritto e della Grande Minga cisnense. La Minga è di tradizione chilota, dell’isola di Chiloe, l’origine della maggior parte degli abitanti di Puerto Cisnes.

Significa essenzialmente lavoro in collaborazione. Infatti il comune di Puerto Cisnes ogni anno assegna una casa ad una persona bisognosa. La costruzione di questa casa in legno viene fatta da carpentieri, maestranze e operai volontari e avviene in una zona chiamata Medialuna che è la spiaggia del paese.

Una volta completata viene fissata su due tronchi e tramite due lunghe funi viene trainata da tutti i presenti. Viene "tirada al agua" come dicono loro, cioè messa in acqua nella baia.

Il giorno dopo inizia la vera e propria Minga, cioè il trasferimento della casa, prima sull’acqua e poi a riva. Tutte le persone presenti, centinaia e centinaia che arrivano dalla regione del Chile e anche dalla vicina Argentina collaborano a tirare le funi per le vie della città. È un grande sforzo collettivo, un grande esempio di collaborazione e partecipazione a questo evento eccezionale.

Durante il percorso vengono fatte delle soste, con musica e giochi, dando così respiro alle persone coinvolte. Giunta a destinazione la casa viene consegnata ufficialmente dal sindaco al nuovo proprietario.

Una grande emozione e alla fine per tutti pescado fritto e un vaso di vino tinto.

Il pescado fritto, la merluzza austral è il simbolo e il sostentamento di questa zona.

Che sfiga nascere cordero!

Siamo all’estancia Marugita e qui come tutte le estance della Patagonia cilena e argentina una volta all’anno si procede all’operazione della marcatura dei corderi. (Agnelli).

Il gregge viene radunato dai gauchos e dai famosi perros ovejeros cani addestrati a questo scopo.

Viene fatto entrare negli appositi corrales.

Separati gli agnelli dalle pecore si procede all’operazione della marcatura che avviene tagliando un lembo dell’orecchio; sull’altro viene posto una marca registrata che identifica la proprietà dell’animale.

Sulla coda un anello elastico impedirà il flusso del sangue e dopo circa 30 giorni la coda sarà secca e cadrà. Questo viene fatto perché l’animale rimane più pulito e non avrà difficoltà nell’accoppiamento.

Allo stesso modo si procede per gli agnelli che diventeranno castrati. L’anello elastico viene posto sui testicoli. Le femmine andranno a integrare il gregge e per distinguerle dai maschi vengono segnate di rosso sulla schiena. I maschi vengono venduti quasi subito e diventeranno i famosi corderi patagonici pronti per un ottimo asado.

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Ciliegie. Siamo a Los Antiguos, in Argentina, nella provincia di Santa Cruz in Patagonia. È il momento della raccolta e lavorazione delle ciliegie. In questa zona dal microclima particolare, questi frutti sono particolarmente gustosi, raccolti e posti nelle apposite chiarle. In questo stabilimento vengono lavate, passate sui nastri trasportatori dove le ragazze manualmente le controllano e meccanicamente divise per calibro da 28 - 26 - 24. Sono confezionate in sacchetti da 2,5 kg per il mercato nazionale ed europeo, mentre le cassette da 5 kg vengono messe sottovuoto. Hanno una durata di 40 giorni e sono destinate al mercato arabo.

Festa dell'asado. Siamo a Cholila nella provincia del Chubut in Patagonia argentina. Qui nella Pampa a ridosso della Cordigliera da sempre gli abitanti si sono dedicati al “ganado”, cioè all’allevamento del bestiame. Ogni anno all'inizio dell'estate si svolge il "Festival nazionale dell'asado". Questo festival è di grandi proporzioni e richiama ogni anno migliaia di persone. Sono 4 giorni di festeggiamenti con musiche, danze, sfilate e perfino fuochi d’artificio. Il cuore della festa è però l’asado. Infatti sotto l’attenta e professionale guida di due Master Chef dell’asado una ventina di asadori si dedicano con perizia e maestria all’ accensione del fuoco, alla preparazione degli animali e alla cottura di centinaia e centinaia di corderi (agnelli) al giorno. Circa 1400 agnelli vengono preparati, cotti e venduti nei 4 giorni. Viene realizzato quindi quello che può definirsi il più grande asado sul fuoco più caldo d’America.

Calamaro. Manca poco a mezzogiorno. Abbiamo voglia di pesce e stiamo puntando verso il porto di Caletta Azul. Sono appena rientrate le barche dei pescatori e stanno liberando il pesce dalle reti: sono tutti uguali sui 3 kg e a me sconosciuti. Sembrano pesci balestra, il colore è di un blu-nero elettrico, le loro carni sono bianchissime e gustosissime. Ne hanno catturati migliaia e migliaia, sicuramente il furgone frigorifero non è sufficiente a contenerli. Infatti poco dopo viene sostituito da un tir e le casse di pesce si accatastano una sull’altra. Tutto il paese dà una mano e alla fine ognuno se ne va appagato con un pescione trattenuto per la coda. Su un tavolo c’è chi sfiletta con maestria e sicurezza il pescato. Lì vicino notiamo un calamaro di circa un metro e mezzo del peso di 6 kg. Con il nostro spagnolo misto a una mimica tutta italiana, Umberto ed io spieghiamo il nostro intento di comprarne solo una parte. Il prezzo è di 4 euro se lo prendiamo tutto e 2 euro per i nostri 2 kg. Detto fatto: ci dà in mano il nostro pezzo sbrodoloso e il resto lo butta in mare.

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Rimaniamo sconvolti da questo gesto sconsiderato e ora capisco il perché della scarsa pesca di Umberto e Luciano. Qui il pesce non ha mai fame e non si fa certo incantare da vermi, da lustrini che girano o da finte mosche. Ora la cosa più difficile è affrontare Christine e Michela per il posto in frigo.

Decidiamo con Umberto di cucinarlo in tre modi: una parte impanata, la seconda in umido con piselli e il rimanente faremo un ragù in bianco per condire pasta o risotti. Dopo tre giorni di calamaro, una barba infinita, abbiamo dovuto ammettere che le nostre signore non avevano tutti i torti con le loro rimostranze.

Dove porto l’ombrello?

Parcheggiamo al distributore della Copec dove c’è Wi-Fi libero. Comunichiamo con casa e diamo nostre notizie. Approfitto dei bagni (pulitissimi) e esco con le mani gocciolanti chiacchierando con Umberto.

Un signore mi punta e si presenta come Corrado da Parma.

Dopo i soliti convenevoli, chi siamo, dove andiamo, ci invita a pranzo nel suo nuovo albergo a Santiago, in un grattacielo bellissimo. Ci congediamo dandoci appuntamento e in questo frangente gli diciamo che anche noi proveniamo dal ramo alberghiero. Non mi ha più mollato, dicendomi che ha due alberghi e un ristorante tutti improntati sulla cucina italiana. Vorrebbe mettere su qualcosa assieme a noi.

A Santiago ci sono 6 milioni di abitanti tutti pazzi per la cucina italiana. Gli regalo dei DVD sulla cucina che ho girato alla scuola alberghiera. Nel tentativo di convincerci ha toccato più volte i punti deboli dell’animo umano: casa, soldi, trattamento, pubblicità.

Mi domando, ma con tanta gente che gira proprio noi doveva incontrare? Umberto ci considera già cileni e ce la tira lunga. Ci manderà le cartoline in giro per il mondo, mentre, noi sudati e puzzolenti di pommes frittes conteremo l’incasso giornaliero... Ma avete presente dove gli inglesi portano l'ombrello???

Dobbiamo ammettere che il nostro mestiere è il più bello del mondo e ci ha dato per una vita intera tante soddisfazioni, ... ma detto tra di noi, ad agosto si parte per India e Nepal ...

Terma di Chillan Dopo dieci anni ritorniamo alle terme di Chillan. Irriconoscibili! Ricordavamo quattro vasche scavate nel terreno viscido e scivoloso in mezzo alla foresta. Ora ci sono dei complessi alberghieri che possono ospitare fino a 4000 persone e skilift e seggiovie che portano sulle piste da sci lunghe 20 km.

Siamo accampati a 1700 m. Davanti a noi tre bus scaricano un centinaio di persone tutte su gli ...anta suonati. Christine come al solito mi fa notare l' esigua presenza maschile: a contarli tutti, compresi gli autisti, i maschietti non raggiungono le venti unità e sono piuttosto malconci.

Chi ha una stampella, chi due e chi ha la badante che tenta di correggere la traiettoria un po’sbilenca del suo assistito indirizzandolo verso la cassa. L'accompagnatore con tanto di foto appuntata sul petto si sbraccia nel tentativo di tenere unito tutto il gruppo.

Ora sono tutti in fila pensando di risolvere i loro acciacchi con un bagno termale. Proprio come a Lourdes. Quattro piscine con varie temperature ci accolgono, il tutto inondato da una musica un po' retrò degli anni ’60. Tutto il gruppo con un Long Drink in mano si agita a suon di musica, si muove traballando e canticchiando. Una massa di ciccia bianchissima si muove pendula, qua e là e su e giù.

Noi quattro mettiamo in evidenza la nostra fisicità: chi trattiene il fiato, chi cammina sulle punte, chi non zoppica più e chi si muove con il busto eretto.

Questa sceneggiata si tronca allo sbracciare del responsabile del gruppo che ci abbaia di non essere timidi e di unirci agli altri. Da quel momento i nostri 283 anni ci cadono addosso come macigni. Siamo avviliti e delusi. Cerco di sdrammatizzare dicendo che in fondo il capogruppo ha ragione, faccio notare che l'unica differenza tra noi e loro è il Long Drink e che mi sarei messo in fila per prenderlo.

Quasi quasi mi affogano!!! Esco con il mio accappatoio che ormai non riesce più da tempo a coprire del tutto la mia tartaruga.

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Marmellate Le regioni di Los Rios e Los Lagos in Patagonia hanno dei paesaggi da cartolina. Laghi e fiumi cristallini si alternano a campi coltivati all’infinito. La strada delle terme vale la pena di percorrerla. Ci sono terme per tutti i gusti: in montagna, in pianura, nei boschi. Sono una goduria unica! Qui c’è anche la più grande produzione di piccoli frutti coltivati come lamponi, fragole, mirtilli neri e more.

Le fattorie espongono enormi cartelli con la scritta MARMELADE, FRAMBOISE, FRUTILLAS E KUCHEN (torte di frutta).

Le bancarelle lungo la strada sono stracolme di frutta a prezzi irrisori, ma di una bontà unica e dal profumo e gusto incomparabili. Penso che nemmeno le fragoline raccolte nel bosco possano competere con questa bontà. Basta chiudere gli occhi e si sente la musichetta di Heidi in sordina e la si vede saltellare ai margini del bosco con un cesto pieno di prelibatezze. Non capisco perché i nostri legislatori non abbiano scelto di salvaguardare gusto e profumi a scapito della quantità. "Intanto i ne ga fregà il gusto a noi e alle generazioni future". La stessa cosa vale per la carne e i suoi derivati, salumi e insaccati, latte e formaggi. A bordo strada abbiamo assaggiato dell’olio extravergine spremitura a freddo.

Sia io che Umberto (per lui esistono solo i prodotti toscani) rimaniamo esterrefatti dal suo sapore fruttato: una magnificenza. Se questo prodotto arrivasse in Italia renderebbe la vita difficile a diversi produttori, anche ai più blasonati. Sul vino, non essendo un intenditore, non mi dilungo.

Qui anche un vino da tavola sembra che sia invecchiato e barricato tanto è pieno il suo aroma.

Ne approfittiamo per farci le marmellate. La nostra fantasia spazia, inventiamo nuovi abbinamenti come pompelmo con mango, fragole con pesche, lamponi e mirtilli, fragole, lamponi e limone o semplicemente solo more. Dopo vari esperimenti le più gettonate risultano essere: pompelmo e mango per me, lamponi e mirtilli per Christine, solo more per Umberto. A Michela piacciono tutte.

Alcuni prezzi: fragole, lamponi, mirtilli e more da 1-2 € al kg frutta e verdura da 0,50- 1 € al kg filetto di manzo 7 € al kg Agnello e capretto 8 € al kg olio extravergine di oliva 5,50 € al litro La moda italiana nel mondo.

Se vedete uno sugli ...anta con una braga più lunga dell’altra che cammina trascinandosi dietro una devota e pia moglie e anche un po’ gheisha che tenta di fare al volo un risvolto al pantalone, evitandogli così di scopare perennemente la strada, beh questo è Umberto. Indossa un pantalone in cotone di color cachi, con una mitragliata di tasche, modello notte e giorno (vuol dire che ha solo quello) e quindi modello unico.

Poco più in là ci sono io con pantaloncini corti modello Rambo sempre in Cotton. Hanno una doppia vestibilità: con il camminare scendono verso il basso fino ad arrivare all'altezza del polpaccio, del tipo come quando c’era "lui"…cioè alla zuava. Anche qui c’è una lei un po’ moglie e tanto tigre che mi strattona, tirandomi su i pantaloni dandomi così un nuovo look… cioè modello ascellare tipo Alberto Sordi. Eccoci qua, due elegantoni Umberto ed io, a spingere il carrello e con lunghe falcate alla Naomi Campbell, entrare nel supermercato.

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Qui incomincia la solita lotta: Umberto riempie il carrello e Michela lo svuota. Io e Christine abbiamo da tempo risolto la diatriba con un carrello a testa ma con gran litigata finale davanti alla cassiera.

Terma di Fiambalà Grazie a un consiglio di Lia e Luciano ci troviamo alle Terma di Fiambalà. Sono situate in pieno deserto a 1800 metri. In un canyon scendono a scalare una ventina di piscine termali con diverse gradazioni di calo- re. Noi scegliamo quella a 35°: una magnificenza. Abbiamo parcheggiato a soli 30 metri dalla piscina. Il posto è circondato da oleandri in fiore e alberi del pepe rosa. Decidiamo di trascorrere qui qualche giorno. Le nostre signore hanno deciso di stupirci facendosi fare un doppio massaggio definito “antietà”. Chissà se alla fine del trattamento le riconosceremo ancora.

Vietnam - Laos - Cambogia In 64 giorni

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La capitale Saigon o Ho Chi Minh, comunque la si chiami appare modernissima. Sette milioni di persone vivono in questa città frenetica, dinamica e vitale. Le vie sono fiancheggiate da negozi e chioschi, da bancarelle su ruote e da marciapiedi su cui i venditori ambulanti espongono le proprie merci. Il traffico caotico è costituito da poche macchine, ma da milioni di motorini e qualche bicicletta.

La forza lavoro è tutta per strada in sella ai motorini. Per i pedoni la vita è molto difficile: bisogna attraversare la strada a velocità costante e saranno i temibili motorini a scansarti. Si tira il fiato solo quando si è dall’altra parte!

Spesso mi sono fermato in un incrocio per capire chi ha la precedenza. Per me non c’è una logica e non capisco come fanno a non fare incidenti, sembra di essere sull’autoscontro. Non esiste destra e sinistra, un muro di motorini avanza strombazzando, mentre da sinistra un’altra colonna di motorini compatta si intrufola interrompendo questo flusso continuo. È il caos totale. Nessuno si incazza, passano tutti secondo un ordine non prestabilito. Va a capire come fanno. In un incrocio pieno zeppo di questi motorini, un giovane distribuisce dei volantini. Chi non fa in tempo a leggerli, li mette in tasca e riparte affrontando la giungla dell’incrocio. Questo paese emergente ragiona al contrario dell’Unione Europea: qui la forza lavoro è tutta giovane (forse troppo). Disoccupazione zero! Che sogno sarebbe per l’Europa. Anzi da noi si fa il contrario: si allunga sempre di più l’età pensionabile. Per strada non ci sono mendicanti. Si può incontrare qualche reduce della guerra contro gli Americani che privo di qualche arto, ti vende dei bastoncini d’incenso o qualche biglietto della lotteria con molta dignità. Quello che mi ha stupito è l’intraprendenza di questa gioventù, la voglia di fare: basta che ci sia un posto sul marciapiede per una sedia ed è subito aperto un ristorante. Se si riesce a piantare un chiodo su un muro, gli si attacca uno specchio e nascerà un coiffeur. Il personale alberghiero non sarà professionalmente preparato come il nostro, ma sicuramente saprà farsi perdonare con la sua gentilezza e il sorriso. In qualsiasi a albergo o ristorante ti vengono incontro con un inchino, un sorriso, un bicchiere di the o delle bottiglie d’acqua.

Abbiamo girato a piedi sia di giorno che di notte e non abbiamo mai avvertito una parvenza di pericolo.

I parchi sono ben curati, illuminati e sorvegliati 24 ore dalla polizia: c'è chi corre, chi fa tai chi o semplicemente fa ginnastica usufruendo dell’attrezzistica esistente. La cucina è ottima: è un misto di cucina orientale influenzata da quella cinese e giapponese. Tutto viene cotto espresso e quasi sempre davanti al cliente e la si può accompagnare con un’ottima birra alla spina casalinga da un euro ogni mezzo litro.

La cucina vietnamita Per la freschezza degli ingredienti, i cuochi vanno al mercato due volte al giorno per acquistare erbe aromatiche appena raccolte. Aromi, sapori e consistenza sono elementi imprescindibili. Infatti ogni piatto deve unire agro, dolce, croccante e tenero. La cultura della cucina del Vietnam è varia come il suo litorale. Viaggiando da nord a sud si percorre un itinerario geografico e gastronomico che inizia in Cina e termina nel sud-est asiatico.

Le differenze geografiche tra le varie regioni del Vietnam si sono adattate a un affascinante repertorio di tecniche di cottura, di ingredienti e di sapori differenti, tutti legati alla passione dei vietnamiti per i gusti intensi: erbe fresche, pesce e zuppe fanno da padrone.

Le ricette vietnamite sono tutte caratterizzate dall'ampio uso di spezie e erbe aromatiche come citronella, zenzero, menta, coriandolo, cannella, peperoncino, lime e foglie di basilico, unite ad ingredienti freschi e uso minimo di olio. Una peculiarità dei cuochi vietnamiti è quella di cercare di avere cinque colori nei loro piatti: bianco, verde, giallo, rosso e nero.

Le pietanze inoltre puntano ad attrarre i clienti attraverso i cinque sensi: la composizione attrae la vista, i suoni che provengono

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dagli ingredienti croccanti toccano l'udito, le spezie percepite dalla lingua solleticano il gusto, mentre gli ingredienti aromatici, provenienti principalmente dall'uso di erbe e spezie, stimolano l'olfatto.

I piatti vietnamiti dunque sono un sorprendente gioco di equilibrio di sapori, consistenze e colori, con elementi apparentemente contrastanti fra loro, ma che si fondono e armonizzano in un pasto semplicemente spettacolare. Non spaventatevi dalla quantità di aneto fresco e curcuma che verranno utilizzati. Date fiducia e verrete ben ricompensati! Queste pietanze si possono accompagnare con dell’ottima birra fresca alla spina, prodotta ogni giorno senza additivi né conservanti che va consumata nel giro di poche ore.

Hot Pot Conosciuta da noi come fonduta cinese. Una pentola piena di ottimo brodo viene posizionata a centro tavola dove riceve un calore costante da un fornello. Cuocere nel brodo: zenzero, verdure varie, stomaci di pesce, pance di calamari, tofu. Ottima!

Anatra laccata alla Cantonese Preparare l'anatra tagliando via la punta delle ali e le zampe e fiammeggiarla. Praticare un'apertura, togliere le interiora e attraverso una piccola incisione nel collo (che va lasciato attaccato), eliminare la trachea e l'esofago. Lavare, asciugare bene e salare internamente.

Aiutandosi con una cannuccia soffiare dell'aria tra la pelle e la carne in modo che la pelle risulti un pochino sollevata, quasi gonfia. Cucire le aperture praticate con un filo di cotone. Legare il collo dell'anatra con una corda e appenderla sopra una bacinella.

Diluire melassa o miele nell'acqua bollente, unire due cucchiai di salsa e lo zenzero in polvere.

Spennellare omogeneamente l'anatra con questo liquido e lasciare in un luogo fresco e ben aerato per almeno due ore, fino a che la pelle non sia perfettamente asciutta.

Scaldare il forno a una temperatura di 200° e preparare una profonda placca da forno riempita a metà d'acqua calda e sormontata da una reticella o griglietta. La griglia dovrà rimanere piuttosto alta rispetto all'acqua sottostante. Collocare l'anatra sopra questa griglia e lasciarla per 45 minuti circa. Ridurre un po' il calore, girare l'anatra e continuare la cottura per altrettanto tempo. Al termine, alzare di nuovo la temperatura fino a che la pelle risulti croccante e ben colorita.

Nel frattempo preparare la salsa di accompagnamento mescolando dello zucchero con la salsa di soia.

Banh xeo È una gigantesca crépe croccante farcita con germogli, carne di maiale, gamberetti e fagioli. Dividerla a pezzi, avvolgerla in una foglia di lattuga e erbe fresche, intingerla nella salsa di pesce. Per la crépe: fare una pastella con farina di riso, curcuma e latte di cocco.

Alcuni mi hanno bacchettato dicendo che penso solo a mangiare. Una "lei", mi ha dato del “cannibale”.

Sul mio cannibalismo avrei qualcosa da ridire. Nel 1963 ho iniziato a girare per le cucine sia italiane che estere. Mi sono subito reso conto che i cuochi sono pagati a peso. Spronato da questo detto mi sono dato qualche aumento. Mi sono dedicato con passione all’arte culinaria e con caparbietà, motivazione, abnegazione e molta fatica ho guadagnato con onore in 45 anni di carriera 3 xxx large (purtroppo per la Fornero non pensionabili). Scusate questo mio sfogo.

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Tunnel di Cu Chi Questa rete di tunnel sotterranei a soli 30 km dalla capitale divennero famosi negli anni sessanta.

Servirono ai Vietcong per sfuggire ai bombardamenti americani. Nel momento di massima estensione questo sistema di gallerie andava da Ho Chi Minh City fino al confine con la Cambogia.

Xieng Khuans spesso chiamato “parco del Buddha” contiene una serie di statue buddhiste e hindu.

Il parco fu progettato e costruito da Luang Pu uno sciamano maestro di Yoga che ha fuso la filosofia, la mitologia e l’iconografia hindu e buddhista in un “unicum”. (Copiato? Fate voi) Angkor Wat Le rovine di Angkor appartengono a un mondo senza uguali, non vi è alcun altro sito storico nel sud-est asiatico paragonabile al suo splendore. Angkor Wat è uno dei monumenti più suggestivi e spettacolari concepiti dalla mente umana. È un sontuoso insieme di forme e funzionalità dalle simmetrie perfette che lascia stupefatti. Ultima grande capitale dell’impero Khmer, Angkor Tohom estesa su una superficie superiore ai 10 kmq, ha portato a un nuovo livello il significato del termine “monumentale”. Abbiamo visitato anche il delta del Mekong è la regione più meridionale del Vietnam. Sono stati i sedimenti depositati dal fiume a originare questa regione. Queste terre incredibilmente fertili sono considerate il granaio del Vietnam.

Occhiali e denti Avete presente la piccola vite che tiene unita la stanghetta degli occhiali alla montatura? Persa!

Ne parliamo con Roberto. No problem! Il Vietnam è all’avanguardia nell’oculistica e così pure nelle cure dentali, il tutto a costi irrisori, uno zero in meno rispetto alll’Europa. Averlo saputo! Christine prima di partire si è concessa un paio di occhiali bifocali per il sole (400 euro). Noi abbiamo solo bisogno di avere una vitina!

Entriamo nel negozio e dopo una visita oculistica, usciamo con paio di occhiali bifocali a 45 euro... questo sì che è culo!

Dopo 7 giorni a Ho Chi Minh, è giunto il momento di separarci da Roberto e iniziare il nostro giro di Cambogia e Laos. Roberto è stato veramente splendido e ci ha dedicato tutto il suo tempo e il suo sapere.

Ci ha accompagnati nei musei facendo sempre la traduzione dall'inglese (il nostro è molto maccheronico).

I ristoranti sono stati scelti con cura, spaziando tra cucina cinese, giapponese, coreana, quella vietnamita del nord e del sud e quella dove i turisti non vanno, dove si sceglie il pesce nell’acquario, lo pesano e te lo servono. Anche lui è una buona forchetta e il feeling è stato subito totale. Solo un appunto: ci ha fatto camminare senza pietà con il caldo e un’umidità terribile! Christine ed io eravamo allo stremo delle forze e abbiamo cercato di marcare visita, ma Roberto Colonello di nome e di fatto non ci ha preso nemmeno in considerazione e ci ha fatto ritornare nei ranghi. Da domani per noi comincia lo "strusciamento" delle nostre valigie e questo mi dà pensiero e così sarà per 50 giorni. Ce la faremo? (Mai!) Siamo a Hue, al mare Piove da 4 giorni. Abbiamo beccato il monsone proveniente dalla Cina. Qui è tutto allagato e dal terzo piano della nostra camera vediamo un'unica pozzanghera d’acqua: strade e viottoli sono tutto un acquitrino. Per attraversare la strada per andare a pranzare abbiamo dovuto comprarci un ombrello.

Sono stato lì lì per prendere anche degli stivali, invece abbiamo tirato su le braghe, come quando c’era lui, e siamo piombati in una pizzeria italiana, con tanto di bandiera tricolore e un’ingannevole tarantella napoletana. La carta proponeva un’infinità di tipi di spaghetti da fare venire l’acquolina in bocca. Ci siamo fidati di una pizza, ma il napoletano che ha aperto questa pizzeria, l’ha venduta ai cinesi ed è scappato di notte con l’incasso senza dare nessuna indicazione di come si fa una pizza: uno schifo immondo. Ben ci sta! Per il ritorno, altro pediluvio, ma abbiamo riempito il frigo e questa sera finiamo l’ultimo speck. Ci siamo messaggiati con Roberto: anche a Ho Chi Minh che dista un migliaio di chilometri da noi le previsioni sono le stesse. Il monsone non ci darà tregua per almeno quattro giorni ancora. Che fare? Aspettare che spiova o saltare l' escursione in barca e non vedere i pollai galleggianti, i bufali d’acqua nel loro ambiente e in più una sgionfa di Buddha a non finire? Partire e rinunciare ai sassi veci a forma di Buddha, poco male, ma perdere il resto mi dispiace. Per ingannare il tempo ci siamo auto regalati, per il Santo Natale, camicie, pantaloni e due giubbini su misura, il tutto pronto per la prova per il giorno dopo. Il tempo? Speriamo in un mira CULO.

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Tre giorni a bordo del galeone dei pirati nella baia di Ha Long.

Che spettacolo questa baia! Una suggestiva combinazione di 2000 picchi calcarei immersi nella nebbiolina, che emergono qua e là dal mare e formano un labirinto. Scansandoli, passiamo loro di fianco, quasi sfiorandoli in un’atmosfera straordinaria che si tramuta in serena bellezza. Nell’aria si odono le canzonette nasali e melodiose diffuse dagli altoparlanti della nave. Abbiamo scelto una camera sul ponte superiore, un lusso sfrenato al quale non siamo abituati. Le coperture serali sono addobbate con petali di rose rosse, la cena di otto portate è favolosa e ben presentata. Ogni piatto è decorato con verdure intagliate a forma di drago, di cigno o di fiore. Si cena a lume di candela. L’unico neo è l’animatore, troppo invadente, che si è inventato la festa dell’ultimo dell’anno con ben ventidue giorni di anticipo.

La festa è in maschera: tutti in chimono a farsi selfie. Una guerra di estensori e di lampi si eleva in aria e le foto si sprecano. Per finire c'è il karaoke e a quel punto ci eclissiamo. La nostra suite è straordinaria, dotata di tutti i comfort, ma il suo punto di forza è l’intera parete in vetro trasparente. Stando sdraiati si vedono le navi illuminate a giorno e i loro riflessi tremuli nell’acqua della baia ti fanno sentire felice di essere qui. Questa crociera è il mio regalo di Natale per Christine. (Essendomi svenato, vale per quattro Natali, compleanni e anniversari vari e ancor di più).

Le risaie di Sapa Visione paradisiaca: dai rilievi sinuosi le risaie a terrazza degradano nelle valli fluviali. L’opera dell’uomo grazie alla grande quantità d’acqua disponibile e al clima favorevole, ha trasformato le pianure del nord in una immensa risaia verde brillante. Molta parte del duro lavoro nelle risaie è svolto con l’aiuto del bufalo d’acqua. Le alture circostanti sono ammantate di foreste pluviali, corsi d’acqua turchesi, cascate, laghi e grotte immense, sicuramente le più grandi del pianeta e una giungla perennemente verde.

La Panasonic Lumix Oggi, 7 dicembre, la mia Panasonic Lumix fz 1000 ha smesso di funzionare.

Che delusione! Ho investito i miei risparmi e le mie capacità filmiche e fotografiche in questa macchina.

D’ora in poi niente più filmati in 4K, niente moviola a 100 fotogrammi al secondo. Che sfiga! Il tutto per un po’ di umidità. È successo a Sapa. C'era un nebbione e piovigginava in un mercato dove i contadini delle montagne scendono per vendere le loro mercanzie. I loro costumi coloratissimi e tipici del luogo erano una macchia di colore in quella giornata uggiosa e grigia. Queste etnie sono disponibili a farsi fotografare, sono tutti carini e gentili. Christine avrebbe dovuto coprimi con l'ombrello, invece di suggerirmi le persone da fotografare. Ma "quella là", imperterrita continuava a impartire ordini: guarda lì e guarda là e di come teneva l’ombrello non si curava e in questo frangente la mia Lumix fz 1000 mi morì tra le mani.

Una grossa pallina da ping pong Esco dalla doccia, scivolo, rimbalzo sul water, mi schianto sulla parete opposta e precipito rovinosamente a terra. Che botta! Che brutta sensazione sentire il proprio corpo sballottato qua e là senza poter fare nulla. Uno specchio su una parete (recuperato penso dall’anta di un armadio) dà un’immagine inquietante del mio corpo accartocciato sul pavimento. Sconsolato devo ammettere che sono proprio "tanto e dappertutto". Christine che ha assistito alla mia carambola, in preda al panico tenta di rialzarmi. Dopo vari tentativi, prima seduto, poi in ginocchio, riesco a tirarmi su. Per mia fortuna, qualche dolorino qua e là, ma niente di rotto. Con movimenti da bradipo obbedisco agli ordini perentori di Christine e mi rifaccio la doccia: "Metti i piedi lì, appoggiati là, tieniti qua..." questa sì che è una rottura! Sono proprio vecio e un po’ bauco. Per ragioni di limiti d’età devo proprio arrendermi: non ho più l’età per questo tipo di viaggio.

Sulle passeggiate a Merano ci sono alcuni gruppetti di miei coetanei che se la raccontano: si parla di sport, di politica, di programmi televisivi e soprattutto di prostata. Non mi rimane che scegliere il gruppo dei tifosi del Milan e il mio futuro è tracciato.

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Conclusione Dopo 48 giorni di viaggio siamo ritornati a Ho Chi Minh. Stiamo aspettando l’aereo che ci riporta a casa. L’America ha perso la guerra, ma ha saputo vincere il dopo guerra: moda, musica, film sono tutti a stelle e strisce. I nostri 50 giorni sono stati una bella esperienza, forse un po’ pesanti per due camperisti appiedati.

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Christine e Aldo ringraziano tutti coloro che li hanno aiutati per la realizzazione di questi viaggi. La disponibilità degli amici: Romeo Conforto, Luigi Pisoni, Mauro Pellegrini, Venturino Colito.

La latteria sociale di Merano, (BZ).

La concessionaria Toyota Genetti di Lana e Merano (Bz) per aver messo a punto il nostro fuoristrada.

Il kit comprendente compressore, manometri e sospensioni aggiuntive ad aria BITOP sono della ditta VEI di Reggio Emilia messe in opera dalla Giò Camper di Monza (Mi) Il kit di 3 pannelli fotovoltaici, batteria solare e regolatore ci è stato messo a disposizione dalla ditta Enertec di Asti.

La Meranese Gomme, la ditta di lubrificanti Franz F. di Merano (Bz) e l'olio Wameco.

La ditta Campertre di Velo d’Astico (Vicenza) per aver realizzato su misura la cellula abitativa in vetroresina Per l'assicurazione R.C.A. per l'Italia e per l'Europa siamo stati assistiti dalla Sara Assicurazione e dall'ACI di Merano e Bolzano.

La ditta Crosina e Balbo di Merano (Bz).

La ditta Ultraflex Group di Busalla Genova per aver messo a disposizione l’unità elettrica portatile MP 740 La ditta Bosa Sergio (TO ) per aver messo a punto l’assetto Per le prenotazioni dei traghetti e informazioni su questo viaggio ci siamo rivolti come sempre all'agenzia viaggi Nouba Tours di Merano (Bz).

La ditta Foto Annibale di Livigno (SO) per aver fornito le pellicole Velvia 50 Asa della Fuji

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IL NOSTRO PICCOLO MONDO

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Anno Chi siamo Tunisia – Libia – Egitto – Sub.

Pagina 3

60 giorni

1995

4/7

Frangia – Spagna – Marocco – Mauritania – Senegal Guinea Conakry 70 giorni

1996

8/21

Francia – Spagna – Marocco – Mauritania – Mali 70 giorni

1997

22/31

Tunisia – Libia – Ciad – Camerun 120 giorni

1999

32/46

Jugoslavia – Grecia – Turchia – Iran – Pakistan India – Nepal 7 mesi

1998

47/66

2010

67/69

2001

70/113

Dal polo Artico al polo Antartico – Le due Americhe 4 + 2 anni

2004-2007 2012-2014

114/228

Vietnam – Laos – Cambogia (viaggio in aereo) 60 giorni

2016

229/240

Francia – Spagna – Marocco – Mauritania – Senegal

90 giorni

Tunisia – Libia – Egitto – Sudan – Etiopia – Kenya – Uganda Malawi - Mozambico – Swaziland – Lesotho Sudamerica – Namibia – Botswana 11 mesi

"Ogni viaggio lo vivi tre volte: quando lo sogni, quando lo vivi e quando lo ricordi."

-Anonimo-

A Christine e Aldo, l’augurio di viaggiare ancora a lungo, portandoci poi a casa, le loro esperienze di vita, i loro piatti, i loro consigli, permettendo a tutti noi di viaggiare, comodamente seduti a casa, davanti ad uno schermo per vedere… Il vostro piccolo mondo!

Ciao Christine, cerco Aldo… È un momento giù… da basso… ora sale… te lo passo…

Non è fermo mai un momento, deve far rifornimento!

Quando vuole organizzare, ha già voglia di viaggiare!

Poi di colpo, con coraggio, parton, per un altro viaggio, ma non sono passeggiate, spesso sono traversate, Che sia mare, o sia deserto, aman vivere all’aperto, non sarebbe cosi bel, se restassero in hotel.

Meglio usare la “mbriagona”, che ci porta di persona, sia di giorno che di sera, a veder la vita vera.

Al ritorno, ti descrivon, della gente e come vivon.

A guardare i bei filmati, si rimane affascinati.

Quel che vedi, non è un viaggio o una prova di coraggio, non è roba per esperti, sono sogni, ad occhi aperti, Se del tempo, sei padrone, e ti piace l’avventura, metti in moto il camperone, e ti godi la natura.

Coccodrilli, e poi serpenti, con Christine… che spaventi!

Ma tra i monti… fiumi e mari, ecco un piatto di calamari.

Sud America e altri posti, ed arrivano gli arrosti.

E, non fanno certo male, i biscotti di Natale.

Con gli auguri, per viaggiare, e poterci raccontare, altre mille o più avventure, da affrontar senza paure, con salute e serenità. senza acciacchi dell’età, Bolzano 4 dicembre 2017

Antonio Scerbo