Enzo

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IL MENSILE E - IL MENSILE. già peacereporter • anno V - N°4 - aprile 2011 • EURO 4,50 • poste italiane s.p.a.- spedizione in abb. postale - d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n°46) art. 1, comma 1, lo/mi

aprile 2011 • EURO 4,50

Acqua Afghanistan Bradbury Carofiglio Lavoro

hanno scritto: La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli dei mezzi di sussistenza dunque a seconda del hanno fotografato: La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana

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chi ce lo fa fare E - IL MENSILE già PEACEREPORTER Direttore

Gianni Mura Direttore Responsabile

Maso Notarianni Redazione e amministrazione

via Vida 11 - 20127 Milano tel 02801534 fax 0226809458 Edito da

Dieci dicembre soc. coop. a r.l. via Vida 11 - 20127 Milano Reg. Trib. Milano n. 363 del 01/06/07 Concessionaria pubblicià

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m-dis Distribuzione Media S.p.A. via Cazzaniga, 19 - 20132 Milano Abbonamenti, reintegri e arretrati

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Qui sotto trovate il testo del Manifesto di Firenze. Contiene tutte le risposte alla domanda più frequente, da quando s’è saputo che Emergency avrebbe avuto in edicola un suo giornale, un mensile: ma chi ve lo fa fare? Ce lo fa fare la voglia di un mondo migliore, voglia che non è utopica speranza ma desiderio di impegnarsi perché le cose un po’ alla volta cambino in meglio. Cambino a cominciare dal paese dove siamo nati e viviamo, un ‘Italia alla deriva tra l’indifferenza dei più, un’Italia che rinnega i gesti, anche minimi, di solidarietà e di civiltà. Noi non siamo pacifisti. Siamo contro ogni guerra, come lo sarebbe l’Italia se rispettasse la sua Costituzione (articolo 11). Siamo contro ogni guerra, comprese quelle non dichiarate ma reali, prima fra tutte quella contro i poveri. Il nostro giornale si propone di raccontare storie vere, di pubblicarne altre date per finite e invece no. Di fare inchieste serie, sul posto e non per telefono. Di occuparsi di temi che fanno parte della nostra vita quotidiana (il lavoro, la scuola, la sanità), di non trascurarne altri (l’ecologia, la scienza, la tecnologia). Avremo due racconti di viaggio, inteso come possibilità d’incontro, in ogni numero, e una grande intervista e molte altre cose. La nostra redazione è quella di Peace Reporter, ragazzi in gamba, con l’aggiunta di qualche professionista più scafato e dei molti amici di Emergency (spettacolo, letteratura, scienza assortite). Baderemo molto ai livelli di scrittura, andando controvento ma non importa. Vogliamo che il nostro giornale, e speriamo vostro, sia bello e caldo, moderno e asciutto. E che arrivi nell’unico punto che riunisce i chirurghi e i poeti: il cuore. Gianni Mura ce. one cultura di pa ione di pers ione di una era associaz oz lib om a pr un lla è ne EMERGENCY erra e della povertà e na ne quotidia umanità. ime della gu equentazio tt fr vi a un lle de da ’unica e sola orti umani e ra un sc cu te na is lla o es ne gn e e atica di rapp pr a un impegnat è Questo impe ivisione di un’idea: ch – e i ammalati. on gl rs e i pe rit di nd i i fe co tre 4 milion tà per tutti ol enza e dalla ui to er at ff ra gr so cu di , lla de anni ha lle cure – che in 16 di qualità de EMERGENCY incipi di eguaglianza, Il lavoro di pr ai ali, ispirati giusti e solid

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razza, l sesso, dalla opinioni, da lle da e er a. nd ic ed econom ani a presci ione sociale esseri um loro condiz di tutti gli lla za da , n a sa li io g mini, lig lla egua , politica, re ese tra gli uo Crediamo ne enza etnica vere le cont en ol rt ris r pa , pe ap tà ti dalla lla solidarie me strumen sociale, su guerra co rismo e la a giustizia o ll rse. rr su so te ri to il e , ll sa uzione de mondo ba la violenza ib n o u tr m is o ia d m d a a u u li Rip un’eq i stati. Vog società, l dialogo, su i popoli e gl bri della reciproco, su tti i mem tu i persona d la sul rispetto i se a pp b lianza di lica che svilu g a bb u pu g e ne l’ io rantiscano . a una istruz i i governi ga formazione te, il diritto mondo in cu una libera in ità e gratui a al un o to qu m it a ia ir at gl d ev Vo ze, il he di el incipio le conoscen cure medic ne di ogni pr arricchisca il diritto a a demolizio ic at umana e ne em st si ri occhi. ogressiva e vanti ai nost anni, alla pr ce, da molti barbarie è da ve di in a o riv m de ia a st gravissim Paese assi Nel nostro na za civile. Una di conviven politica italia li”, la classe na io az rn i. te do in di altri Paes ini costruen lle “alleanze ggressione propri cittad In nome de guerra e l’a ra contro i er gu la , to ha scelto la na ha scel riminazione e sulla disc politica italia ll’esclusione tà”, la classe su er rruzione. to ib co sa “l ria ba lla , Italia na di privilegi In nome de ione, di ordi i è venuto in az ic ar ev un sistema co pr ra ntro ch nte er ga gu ro la ar to di liana ha scel un sistema o. se politica ita e al razzism za”, la clas ez ndo all’odio ur ta ic ci “s in , lla re ve vi av pr ività? so In nome de per rappresentat elettorali di he ic ? cn te o” e tic hé includ “democra a? Solo perc ssa definire a democrazi rché lo si po pe ti vo si È questa un e comune un Paes er il bene Basta che in deboli, e lavori p ch a co ti ci li so li più stema po ei gruppi si d n ini. e u d a ti co n tt ti ie ci b i democra società d i meno ab deriamo isogni de ssere una b e i a e ss ir Noi consi o g p a roprio perché si . ndo nel p ni di vita, uaglianza privilegia le condizio ndo di eg e rn ra o li oi. Un mo n i tt per mig tu r e Per noi, p ogliamo. ndo che v o m il o st È que

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in questo numero

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Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria

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forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in

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una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non

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produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera.

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La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo

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della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua

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riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre

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scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una

68 creazione, non fa che reintegrare

il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata

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di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al

lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante

38 giorno per poterlo produrre. Se

78 dell’operaio. All’operaio,

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egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore

il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il

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lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute)

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tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo

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di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato

98 , al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro

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Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del

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lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della

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forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del

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capitalista. (3600 battute/2 cartelle)Abbiamo visto che l’operaio

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durante una sezione del processo lavorativo produce solo il

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hanno collaborato

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza,

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo

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Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata


La nostra Storia come non l’avete mai letta.

â‚Ź 22,00 pp. 944

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storia 1 - Fidaa Abuhamdya

Stupiti che una donna sappia il Corano storia raccolta e fotografata da

Gloria Riva

Fidaa Abuhamdya nasce a Hebron, Palestina, 28 anni fa. Dopo un corso in Food and Service Organization alla sede del Vaticano di Gerusalemme, a 21 anni si trasferisce in Italia per studiare Scienze dell’alimentazione all’Università di Padova. Da due anni è mediatrice culturale nella Casa circondariale di Padova, dove si occupa della catalogazione dei libri in lingua araba e reading con i carcerati stranieri.

Rimarranno in carcere a lungo. Stanno lì perché hanno commesso qualcosa di grave, i più sono rimasti invischiati nel traffico di droga, altri sono clandestini che a questo punto sperano solo di essere rispediti a casa. Nella solitudine di una cella cercano il conforto di un sentimento religioso, anche se quando erano liberi si disinteressavano completamente della fede. Lo fanno per salvarsi, per sentirsi più vicini alla loro terra d’origine. Prendono i versetti del Corano alla lettera. Anche per questo non è stato facile farmi accettare: sono un’araba palestinese, vesto all’Occidentale, non indosso il velo, sono single. Mi guardavano dall’alto al basso e mi facevano la paternale, citando le regole dell’islam. Io facevo altrettanto e con stupore mi rispondevano: «Ma come, conosci la religione?». Adesso che si è sciolto il ghiaccio mi fanno mille domande sulla mia vita: che cosa faccio tutti i giorni, se sono sposata, se ho un fidanzato. Per un po’ ho detto che ero impegnata. Ma a lungo andare hanno scoperto che non era vero e quindi ora si fanno avanti: «Quando esco, se Dio vuole, magari ci vediamo». Qualcuno, in modo esplicito, mi chiede il numero di telefono. È comprensibile, sono l’unica donna che vedono, ma mantengo le distanze. Io sono lì per lavorare. Un giovane marocchino, invece, un giorno mi ha preso in disparte e dalla tasca ha estratto una fotografia, un viso dolce di donna; con l’indice ha accarezzato la linea degli zigomi: «È bella vero? Ci siamo sposati da poco. Chissà quando la rivedrò». Credo siano passati due anni e mezzo dalla prima volta che sono entrata nella Casa circondariale di Padova. Era il pomeriggio del giorno della mia laurea, me ne stavo in cucina a festeggiare con Enrica, la signora che mi ospita. Con noi c’era Rossella, il presidente dell’associazione Ristretti orizzonti. Mi disse che cercava qualcuno che sapesse l’arabo per sistemare i libri della biblioteca del carcere e per fare un lavoro di mediatore culturale. Da allora tutti i giovedì pomeriggio inforco la bicicletta e attraverso tutta la città. All’ingresso del carcere la guardia si prende il mio cellulare, controlla i documenti, soprattutto il mio permesso di soggiorno. Ma prima passo sempre in edicola a comprare un giornale arabo, spesso Al-Quds AlArabi (La Gerusalemme araba) o Al-Bayan, un giornale tunisino che parla di calcio e pettegolezzi, un po’ come Il Mattino di Padova. C’è anche un’altra cosa che adorano:

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storia raccolta e fotografata da

Gloria Riva

le favole. Rimangono lì incantati ad ascoltarmi, coccolati dalla melodia della lingua araba. C’è una poesia che mi chiedono spesso di recitare, l’inno tunisino La volontà di vivere che fa così: “La notte deve dissiparsi e le catene devono spezzarsi. Chi non è stato baciato dall’amore per la vita si è dissolto nel nulla”. Un giorno sono arrivata con una scatola di pastelli e dei fogli bianchi, è stata una fatica convincerli a disegnare, lo trovavano infantile, ma ho l’impressione che nei loro cuori ci sia tanta voglia di tornare bambini. La detenzione per me non è un fatto strano, anzi. Mio zio rimarrà in carcere per novantanove anni, molti dei miei parenti ci sono passati. Almeno in Italia stare in cella non è umiliante, come lo è in Palestina, dove c’è la tortura. Io, in realtà, non ho una formazione da mediatore culturale, il mio sogno era fare la cuoca. Quando vivevo a Hebron frequentavo un corso di cucina a Gerusalemme. Ma andare a lezione era un’impresa: per fare una trentina di chilometri ci mettevo minimo tre ore. In due anni di corso non sono mai riuscita a ottenere un permesso di viaggio, ci andavo clandestinamente, con i taxi collettivi, giravo a piedi intorno al muro cercando varchi tra i blocchi di cemento. Ogni tanto sbucavano i soldati, quando meno me lo aspettavo. Mi spaventavo. Così, sette anni fa decisi di lasciare la Palestina e di venire in Italia per studiare Scienze dell’alimentazione. Sono testarda, non mi arrendo, il mio sogno rimane quello: essere un giorno una cuoca.

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storia 2 - Cosimo Semeraro

Quanti ne ho visti andare via di

Andrea Milluzzi

foto

Emiliano Mancuso

Cosimo Semeraro ha 63 anni, è un uomo piccolo e mite. È nato e vive a Taranto, una delle città più inquinate d’Europa. Ha lavorato per decenni nell’acciaieria Ilva. È malato di asbestosi, contratta per l’esposizione all’amianto sul posto di lavoro. Da allora percorre l’Italia per convegni, ha ingaggiato battaglie legali e si ricorda perfettamente leggi, codicilli, date e nomi di giudici e avvocati.

Io ho una rabbia tanta perché quando mi hanno assunto all’acciaieria di Taranto mica me lo ha detto nessuno che lavoravo in mezzo all’amianto. E sì che, essendo io già invalido civile per un soffio al cuore, mi avevano messo in un reparto più sicuro, la pulizia e la manutenzione di palazzine e spogliatoi. Ma pure lì c’era l’amianto e io non lo conoscevo. Figurati se sapevo che era cancerogeno. Mi è diventato chiaro dopo il 1995 quando è uscita la legge. Io non lo sapevo, i miei compagni nemmeno, ma l’azienda sì che lo sapeva. E l’azienda era lo Stato perché io ci sono entrato il 7 settembre 1971 e allora si chiamava Italsider ed era pubblica. Si sapeva dal 1929 che l’amianto è cancerogeno, lo dissero dall’America e il giudice Casson ha appurato che lo Stato italiano lo ha riconosciuto nel 1960. Ma una legge l’ha fatta solo trent’anni dopo. Lo Stato ha tradito la Costituzione che mette prima la salute e poi il lavoro. Adesso molti di noi sono malati, altri sono morti e altri ancora moriranno, perché l’amianto uccide lentamente. Io la malattia l’ho scoperta nel 1999. Abbiamo cominciato a farci visitare, ma a Bari si avvertiva una certa pressione affinché non uscisse nulla. Così in molti, come me, sono andati a curarsi a Padova. Mi hanno trovato le placche dell’asbestosi. Allora ho pensato che la mia vita era finita perché finché quelle placche stanno ferme va tutto bene, ma se si muovono io non ho speranza. Lo so. Mi sono documentato, ho girato per convegni. È così che è iniziata la mia seconda vita fra avvocati e tribunali. Io ho una rabbia tanta perché da quel giorno mi sono sempre sentito solo. I famigliari, non capendo bene di che si tratta, tendono a prendere la malattia sottogamba. Allora ho provato a rivolgermi ai sindacati, ma non m’hanno aiutato. Quando, qualche anno dopo, si è scoperto che la mia pratica di risarcimento per l’esposizione all’amianto si era persa nei meandri dell’Inps non mi sono stati vicini per niente. Al processo non c’era nessuno accanto a me. Quando ho capito che mi stavano fregando, perché i due imputati (il direttore e un suo assistente) m’hanno riso in faccia, solo un giudice mi ha salvato perché ha deciso di occuparsi del mio caso anche se non gli competeva. Lo ha fatto per la sua idea di giustizia, ma quanti lo farebbero? Adesso aspetto un risarcimento perché per colpa loro ho dovuto lavorare, da malato, cinque anni e sette settimane in più. Non è stato facile, ma Davide ha sconfitto Golia. Anche se tutti mi prendevano per pazzo. Da allora è iniziata la mia terza vita, quella in cui ho deciso di mettere

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la mia esperienza a disposizione di tutti coloro che hanno subìto queste ingiustizie. In questi anni ho capito che a volte il denaro compra anche il ricordo e che la vita è più debole dei soldi. Nel 2007 abbiamo creato, insieme ai Cobas, l’associazione 12 giugno, giorno di quattro anni prima in cui due ragazzi di poco più di 20 anni morirono cadendo da una gru all’interno dell’Ilva. Ne sono stato il presidente fino a qualche tempo fa, quando mi sono dimesso per motivi di salute. Io volevo aiutare i famigliari delle vittime, gli sono stato vicino durante i processi. Ci ho messo soldi di tasca mia. Quando abbiamo provato a chiedere un sostegno ai partiti abbiamo capito che erano interessati solo a metterci il proprio cappello, senza darci nulla. A volte è persino capitato che gli stessi famigliari delle vittime non volessero partecipare alle spese o preferissero concordare un risarcimento con l’azienda, facendo di fatto decadere il processo. È triste andare da solo contro questi colossi, ma noi dobbiamo almeno salvare il ricordo. Per questo abbiamo creato la Giornata della memoria che da tre anni si tiene sempre il 12 giugno. Mi hanno scritto Napolitano, Schifani, Fini. Siamo stati ad “Annozero”, da Maurizio Costanzo, abbiamo occupato il piazzale della Rai di Saxa Rubra, abbiamo parlato a La7. Quando vado a volantinare davanti ai cancelli

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dell’acciaieria, però, i ragazzi mi evitano, oppure prendono il volantino e lo buttano senza nemmeno leggerlo. È che hanno paura e io li capisco. Il sindacato, ancora una volta, ci ha lasciati soli. Io, da tarantino, mi vergogno di loro. Tutte le nostre lotte se le sono giocate. Succederà ovunque come è successo a Mirafiori. Io invece voglio andare avanti, voglio che sia riconosciuta la corsia preferenziale ai processi per gli incidenti sul lavoro che altrimenti finiscono in prescrizione. Adesso sono nella mia casa in campagna. Ci vengo ogni pomeriggio, se potessi starei sempre qui, estate e inverno. Ho il mio orto e miei uccelli: nove canarini, una tortora diamante che ha perso il compagno da poco, otto pappagalli e quattro pappagallini inseparabili, due cocorite. Da poco ho preso un’altra coppia perché voglio nuovi colori. Sono uscito dall’Ilva il 9 gennaio del 2000: ho perso il treno dei 35 anni di contributi e pure quello dei 30 anni per esposizione all’amianto. Ho perso il treno della salute perché, da quando ho scoperto di essere malato fino alla sentenza di primo grado del mio processo contro i vertici dell’Inps, sono stato in cura dallo psicologo. Adesso sto in campagna, ho modo di non pensare e i nervi mi reggono. Ma qui per sempre non ci posso restare.

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storia 3 - Paco

I poeti insanguinati storia raccolta da

Christian Elia

Paco è attualmente detenuto nel Complejo Penitenciario de Alta Seguridad, carcere di massima sicurezza della cittadina di Alto Hospicio, nella provincia di Iquique della regione di Tarapacá, in Cile. Nel penitenziario ha preso vita il progetto Canita Cartonera, dove i detenuti aiutati dagli scrittori cileni Víctor Hugo Díaz e Juan Malabran hanno creato una piccola casa editrice che utilizza cartoni riciclati per rilegare libri. Molti di questi libri, come nel caso di Paco, sono raccolte di poesie e racconti degli stessi detenuti.

L’aspetto più divertente di tutta questa storia è stato quello di scoprire di essere un poeta. Proprio io, che non sapevo neanche cosa fosse un poeta. Ho imparato a scrivere, come a parlare o camminare, ma sono dovuto entrare in carcere per capire quanto valeva. Per capire che la parte migliore di me, usciva fuori dalla stessa porta di quella peggiore: le mani. Quelle stesse mani che, una sera d’inverno, mi hanno chiuso qui dentro, per sempre. Queste mura si chiamano Alto Hospicio, in uno di quei posti deserti che riempiono il mio paese, il Cile. Il nome completo dice Complejo Penitenciario de Alta Seguridad, che significa che qui ci mettono quelli senza futuro, ma con un passato pesante. Il mio, come quello di quasi tutti, è sporco di sangue. Il prete, qui dentro, dice che esiste sempre un’alternativa. Magari ha ragione, ma non me l’aveva spiegato nessuno. Uccidere per non essere ucciso, solo questo mi hanno insegnato. L’ho fatto con le mani e, per tanto tempo, quando sono svaniti l’alcool e la droga, non sono più riuscito a guardarle. Ma non ho mai smesso di scrivere. L’ho sempre fatto, su tutto quello che mi capitava a tiro. Scrivevo, oggi so che erano poesie. Per me erano come i graffiti che altri amici disegnavano sui muri. Venivano pensieri, magari di notte. Ho sempre parlato poco, perché non ho mai avuto abbastanza parole da dire. Scriverle, però, mi veniva facile. Un giorno, nella sala lettura del carcere, arriva questo ragazzo, Miquel. Sapevo chi era, lavora per un’associazione che viene qui ogni giorno a tentare di lavorare con noi. Mi fanno tenerezza, sono così diversi dal mondo che trovano qui dentro, così indifesi. La società, come la chiamano, li stringe in mezzo alle sue due facce: quella che funziona e quella che non funziona. Noi siamo l’errore, fuori c’è il risultato esatto. Loro sono il tentativo di provare a non renderci un

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fallimento fatto e finito. Magari non ci riescono sempre, ma con me ha funzionato. Mi ha detto che partiva un nuovo progetto, grazie all’entusiasmo di due scrittori cileni. Un laboratorio di scrittura. Io ho detto che non mi interessava, sapevo scrivere già. Che stupido che ero, come se fosse la stessa cosa. Juan, uno dei due autori, si è innamorato di quello che facevamo. Diceva che non doveva finire così, con la fine del laboratorio. Si è dato tanto da fare, fino a quando ha convinto il ministero a darci fiducia. Ha messo in piedi una casa editrice cartonera. Mi ha spiegato che è un movimento di editoria dal basso, senza chiedere i soldi a quelli che poi ti dicono cosa devi scrivere. Per i libri si utilizzano i cartoni, raccolti per strada. Abbiamo imparato a ridargli vita, a farli diventare libri, colorati e illustrati. Ogni cartone che mi passava per le mani lo chiamavo con il nome di un detenuto. Perché mi sembrava che quello che facevamo a quel cartone lo facevamo un po’ a noi stessi. Come nascere di nuovo, migliori di prima. Il materiale del laboratorio è diventato un’antologia, che abbiamo pubblicato e diffuso fuori da questo carcere. Le mie poesie, così le chiama Juan, sono diventate il mio fantasma. Girano loro, al posto mio. In fondo è meglio così. Sono l’unica cosa che voglio che la gente ricordi di me, perché tutto il resto non l’hanno capito, come non l’ho capito neanche io. Tutto quello che volevo dire a mia madre, alla mia donna, a mio padre. A tutti, insomma, ma mi mancavano troppe parole. La Canita Cartonera, così si chiama la nostra casa editrice, è diventata il salvagente al quale stiamo tutti attaccati. Per non affogare in questi giorni tutti uguali, in questi corridoi che girano attorno al vuoto. Al silenzio. Quando scrivo riesco a sentirmi solo, che magari fuori fa paura, ma qui diventa poesia.

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storia 4 - don Giovanni Nicolini

Un certo tipo di prete

«Andrà a finir che sarai a dormire testa e pè con un nègher». Mi disse tanti anni fa mio padre, affermato notaio modenese, rassegnandosi alla mia decisione di rinnegare la bicentenaria tradizione familiare per dedicare la mia vita ai poveri e ai bisognosi. E aveva ragione lui, perché infatti non so più dove sistemare tutti gli immigrati clandestini, i disoccupati, i rom, i senzatetto, i disabili, i malati terminali o le carcerate con figli che bussano alla porta in cerca di accoglienza e aiuto. Mi sono immerso nella povertà per la prima volta a Roma, quando ero seminarista all’inizio degli anni Sessanta. Abitavo nella borgata della Borghesiana, dove non c’era acqua corrente e i bambini morivano di tifo come mosche. Contemporaneamente – erano gli anni del Concilio Vaticano II, della Teologia della liberazione, della Chiesa dei poveri – ebbi la fortuna di conoscere grandi personaggi che cambiarono la mia vita. Padre Gauthier, che dedicò la sua vita alla causa palestinese, Padre Ancel, vescovooperaio di Lione, Lanza del Vasto, allievo di Ghandi, il cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna, che spinse me e altri seminaristi a fare esperienze di lavoro in fabbrica “in incognito”. E poi conobbi Giuseppe Dossetti, che divenne la mia guida spirituale. Ricordo le letture di Marcuse fatte insieme, le riflessioni sulle parole del Vangelo e su quelle del Sessantotto: uguaglianza, fratellanza, giustizia, pace, vicinanza agli ultimi e ai diseredati. Ho avuto anche la fortuna di conoscere don Lorenzo Milani: quando andai a trovarlo a Barbiana, lo trovai che faceva lezione disteso su un lettino da mare, era già molto malato. Lo ricordo mentre ascoltava la Quinta di Beethoven in classe con i suoi ragazzi, seguendo gli spartiti e fermando il disco per far notare l’attacco dei violini o i crescendo. Mi diceva sempre che bisogna smettere di parlare dei poveri e iniziare a far parlare i poveri, spezzando con loro il pane della parola, della cultura.

Fu seguendo il suo esempio che alla fine degli anni Settanta, quando venni mandato come parroco in una minuscola frazione della campagna emiliana, Sammartini di Crevalcore, fondai quella che oggi si chiama Scuola media della Pace: una scuola parificata gratuita per i figli dei più bisognosi, comunitaria, non privata. A far lezione sono volontari, artisti e intellettuali, insieme a genitori e nonni, che insegnano la storia attraverso il loro vissuto personale. Come quell’anziana contadina che raccontò in classe di quando, da bambina, un treno merci si era fermato in mezzo ai campi, sotto il sole: dai carri-bestiame alcuni uomini chiedevano acqua e cibo. Erano ebrei in viaggio verso i campi di concentramento. Nelle vecchie cascine di Sammartini abbiamo dato vita a una piccola comunità spirituale, una sorta di famiglia allargata a cui nel tempo si sono aggregati nuovi fratelli e sorelle, in gran parte giovani, soprattutto laici. Oggi quella comunità è cresciuta, ha case d’accoglienza e laboratori professionali anche qui alla periferia di Bologna e in altre strutture della parrocchia. Aiutano i bisognosi con un sistema di banca del tempo e micro-crediti finanziati da una cassa di mutuo soccorso alimentata dalle sole donazioni. Mentre la nostra famiglia si allargava sempre più, anche in Palestina e Mozambico, mi è “capitato” di dirigere la Caritas bolognese: un posizione che mi ha dato modo di osservare come le istituzioni locali si siano progressivamente allontanate dallo spirito solidale di questa città. Uno spirito che a Bologna, nonostante tutto, è ancora vivo nella cittadinanza. Il problema è che questa potenzialità positiva non trova più una risposta e una proposta politica. Ma questo non è solo un problema di Bologna.

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storia raccolta e fotografata da

Enrico Piovesana

Giovanni Nicolini è nato a Modena nel 1940. Dopo la laurea in Filosofia a Milano, studia teologia alla Gregoriana di Roma, dove aderisce al movimento della Chiesa dei Poveri e diventa discepolo di Giuseppe Dossetti. Curato di campagna in Emilia per vent’anni, poi direttore della Caritas bolognese. Ha fondato una comunità di aiuto a poveri e immigrati. Oggi è parroco a Bologna.


storia 5 - Mara Casella

I bambini del Ladakh

storia raccolta e fotografata da

Stella Spinelli

Mara Casella è nata a Bellinzona nel 1957 e ha una figlia, Nina. Si è laureata in pedagogia curativa all’Università di Friburgo. Tra il 1991 e il 2001 è stata responsabile pedagogica del settore adulti dell’Istituto Les Buissonnets di Friburgo e ha insegnato nel servizio di supporto per i bambini disabili integrati nelle classi di scuola elementare e media. Dal 2005 vive a Leh, capitale del Ladakh, dove è docente, coordinatrice e formatrice dell’unica scuola per bambini disabili fondata nel 2008.

Ho iniziato a vivere sei anni fa. A Leh, capitale del Ladakh, estremo nord dell’India. Sospesa a 3.500 metri d’altitudine, in una terra agognata dalla Cina e tappezzata di soldati annoiati da calme giornate sempre uguali, ho trovato il mio posto. Maestra di Bellinzona, Canton Ticino, Svizzera, ho preso una laurea a Friburgo in pedagogia curativa per disabili fisici e mentali, e per anni ho divorato corsi e specializzazioni, lavorando in istituti dai nomi altisonanti. Avevo tutto: un lavoro, una figlia e una casina in montagna in cui ritrovarmi. Non mi bastava. E l’ho capito trovando la forza di arrampicarmi fin qua, dove i bambini con handicap vivono ai margini. L’ignoranza e la miseria risucchiano tempo ed energia a famiglie numerose e affamate. E quando nel 2003, a 46 anni, sono capitata per caso in questo puntino dell’Himalaya schiacciato tra Tibet e Pakistan, ho sentito di essere arrivata. Nel 2005 sono tornata armata di valigia e cocciutaggine. Con l’inglese ripassato in tutta fretta e la voglia di farmi accettare, in un batter d’occhio mi sono ritrovata fra le braccia di questa gente. I risparmi di una vita mi hanno dato l’autonomia dei primi passi, mossi nelle case di alcuni ragazzi a cui nessuno aveva insegnato il più semplice gesto. Comunicare con certe malattie è spesso impossibile anche all’amore materno. Un varco in quelle mura in apparenza invalicabili si è aperto piano piano. E in quel medesimo istante ho sentito che il momento di gettare le fondamenta di una scuola vera e propria era maturo. Tutti quei bambini finora lasciati negli angoli di classi sovraffollate si sarebbero finalmente sentiti accolti.

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Era il 2008. La gara per trovare i fondi promosso da alcuni amici svizzeri ci ha travolti. È nata persino un’associazione a sostegno del progetto, la Gamyul-Phanday. E nel nulla di una landa che in inverno tocca i quaranta gradi sottozero abbiamo inaugurato la scuola per bambini disabili di Leh. Il suo nome: Munsel, che in ladakhi significa “uscire dal buio e dall’ignoranza e ritrovare la speranza”. Da allora la mia vita è svegliarmi alle sei, è prendere l’acqua alla fonte del villaggio per cucinare e lavarmi, è muovermi con una Vespa rabberciata e pulire la scuola ogni mattina prima dell’arrivo degli alunni. Vivere è stare con loro fino a sera e addormentarmi sospirando per la soddisfazione. Nei tre mesi di vacanza, vado in Svizzera, faccio conferenze sul tema, racconto le montagne del Leh, parlo della scuola e cerco di trasmettere la serenità che mi è stata infusa quassù. In cambio racimolo i soldi che servono a sostenere le esigenze più pratiche di questo progetto di vita. Poi torno a casa, dove i primi passi di chi pareva condannato a non farne, i disegni luminosi di chi stentava a reggere la matita, il sorriso di chi pareva ingabbiato nel terrore sono ricchezza assoluta. Adesso dipendo totalmente da loro, ma lavoro affinché la mia presenza divenga sempre più superflua. Ogni giorno, un tassello delle mie conoscenze tecniche passa ai miei colleghi indigeni, rimasti abbagliati dai progressi dei ragazzi. E quando il puzzle sarà completo magari ne avvierò un altro. Ma per ora la mia vita è tutta qua, dove il cielo si tocca con un dito e il bagliore di uno sguardo strappato alla solitudine ti fa vibrare l’anima.

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In braghe di tela Cina

Mario Bianchi foto Justin Jin di

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa

ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostan-

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16/26 GaB Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. GaB 9/13 PoichĂŠ egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce ne

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ze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella)

Chiamo dunque tempo di lav

necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio.

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Bibliografia

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare,


Abbiamo visto

operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un

All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo

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pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, líuno nella forma del lavoro oggettivato, líaltro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è líespressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dellíoperaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle) Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera.

deve lavorare in media sei

La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre

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Bibliografia

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei


Bibliografia Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza

circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (5400 battute / 3 cartelle) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, líuno nella forma del lavoro oggettivato, líaltro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è líespressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dellíoperaio da parte del capitalista. (7200 battute/4 cartelle)

Abbiamo visto che l’operaio

durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della

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media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio manteni-

mento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (9000 battute / 5 cartelle)

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Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare,


Conversazione con Mariangela Melato di

Gianni Mura

foto

Maki Galimberti

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“il dell’


complesso ignorante�

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Nella casa romana di Mariangela Melato c’è una luce orientale, da ricordi. «Ho sempre avuto il complesso dell’ignorante. A Milano andavo alle scuole del Trotter, per bambini dal carattere difficile. Chiuso, nel caso mio. Ci insegnavano tante cose belle e utili. A cantare, a suonare, a disegnare, a ricamare, a ballare. Una volta ogni tanto c’era un’ora di storia o di geografia. Poi mi ero iscritta all’Accademia di Brera, ma siccome non eravamo una famiglia ricca bisognava anche lavorare. E intanto frequentavo Brera, ma soprattutto il bar Jamaica. C’erano artisti come Dova, Manzoni, Migneco, Recalcati, i grandi fotografi come Mario Dondero e Alfa Castaldi. Ero una ragazzina truccatissima, alla Juliette Greco. A volte coi capelli corti e verdi, altre volte lunghi e neri ma con ciocche rosse e gialle. Ero affascinata da quel mondo e a distanza di tanti anni lo ricordo con affetto e gratitudine».

Mariangela Melato Nasce a Milano il 18 settembre 1941. La madre era una sarta, il padre un vigile urbano. Dopo gli studi comincia a lavorare come commessa alla Rinascente di Milano. La passione per il teatro e la recitazione la porta a iscriversi alla scuola di recitazione dei Filodrammatici di Esperia Sperani. Gli studi artistici, che alterna al lavoro, le garantiscono una prima prova in palcoscenico: in I love you, rana toro di Enrico Vaime. Nel 1960 entra come trovarobesuggeritrice, nella compagnia di Fantasio Piccoli, a Bolzano. Dopo piccole parti in O di uno o di nessuno, arriva a sostituire la primattrice. Da allora inizia una scalata nel mondo del cinema e del teatro dove lavora al fianco dei più grandi attori e registi italiani: da Luchino Visconti a Luca Ronconi, da Dario Fo alla coppia Garinei e Giovannini. Vincitrice di quattro David di Donatello e sei Nastri d’argento come migliore attrice protagonista. Il 28 maggio 2003 l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, la insignisce del grado di commendatore nell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Perché gratitudine? «Perché nessuno aveva cercato di approfittare del mio entusiasmo, della mia ingenuità. E in ogni caso vigilava mio padre, vigile urbano. Quante volte è venuto a prendermi per le orecchie e a portarmi a casa. Abitavamo lì vicino, in via Montebello. A volte bastava un cenno. Appariva sulla soglia, in divisa, e via andare. Ma non l’ho mai sentito come una presenza repressiva, anzi lo sentivo più vicino di mia madre. Poche parole, lui, però mai uno schiaffo, mai un urlaccio. E com’era bello, coi baffi curati: un David Niven in divisa di ghisa. È morto che avevo appena cominciato a fare l’attrice, giusto qualche particina. Sapevo che era fiero di me, che veniva a vedermi di nascosto. Ci rimase male la sera della prima di Settimo, ruba un po’ meno con Dario Fo. Sul cartellone tra gli ultimi c’era il mio nome con l’indicazione della parte: “la prima puttana”. Da quella sera, mentalmente, ogni prima la dedico a lui. Si chiamava Adolf Hoening, radici ad Hannover, cognome italianizzato in Melato sotto il fascismo. Era stato internato a Dachau. Ci pensavo recitando Il dolore, tratto da Marguerite Duras, la prima volta che accetto un monologo così lungo, perché quando ho cominciato il monologo lungo era roba da primedonne e io ho cercato di starne alla larga, sempre, anche adesso credo di avere ancora da imparare ed è forse questo atteggiamento che mi rallenta l’invecchiamento». Una donna lo teme? «Io no. Sa cosa diceva la Magnani al truccatore che voleva ridurle le rughe? “A Core, nun me le toccà che ciò messo una vita per avelle”. Quindi il mondo dei sempre abbronzati, di quelle rifatte e botulinizzate, di cui è reponsabile Berlusconi, proprio non è il mio. Io ho il terrore, di perdere il controllo del cervello, dei pensieri, dei sentimenti. Stavo dicendo del lungo monologo: solo una donna dimessa in scena, io, a parlare per due ore nell’attesa che un uomo torni da un lager. È stato un grande successo a Napoli, a Roma, a Genova, in settembre lo porterò a Milano. È anche la riprova che esiste un’altra Italia, come s’è capito anche dagli ascolti del programma in tv di Fazio e Saviano».

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Agli inizi, pensava di avere tanto successo? «Mi ero iscritta alla scuola di recitazione di Esperia Sperani. All’esame recitai Prévert (Cet amour) naturalmente truccata da Greco e alla Sperani venne l’idea che fossi parente di Maria Melato, attrice su cui scrissero una canzone in Brasile e la cui carriera fu schiantata dalla Duse. Mi chiese: “Parente, vero?”. E io emisi un “Eeeurq” che lei interpretò come un sì. “Brava, siete proprio uguali” disse, e io lo presi come un complimento, salvo poi scoprire che la Melato era un cesso, poverina. Ma ormai era andata. E comunque avevo sempre la Rinascente». In che reparto? «Abbigliamento uomini, pianterreno. Le commesse più giovani e carine le mettevano lì. Ma io non ero brava a fare gli interessi della ditta, davo consigli disinteressati, tipo “lasci perdere, questo colore non le dona”, oppure “mi spiace, la giacca casca male”. Così mi trasferirono al reparto abbigliamento bambini. Un giorno arrivò Joséphine Baker con una ventina di ragazzini, ne aveva adottato una tribù, ma ero così emozionata che non riuscii a piazzare nemmeno due calzini». E poi? «Alla Rinascente l’ultimo gradino prima del licenziamento era il reparto arredamento. Mi è stato


a tagliarti i capelli?”. “Anche i piedi, conte, anche i piedi” risposi. La prontezza è una dote che non mi è mai mancata. Come dice la mia amica Franca Valeri, una grandissima, è l’ordinazione veloce che fa la vera signora. Con mia madre Visconti parlava in dialetto: “La sua tosa la farà carriera, sciora. L’è bela e la sta semper atenta”». Ed era vero? «Vero cosa?».

risparmiato, sono diventata vetrinista e modestamente non ero male. Ma in parallelo cercavo un posto sul palcoscenico. La mia prima esibizione è stata al Nebbia Club: “I love you, rana toro”, testo di Enrico Vaime. Poi ho cominciato come trovarobe ed ero già soddisfatta. Se mi dicevano di trovare un abat-jour di cristallo e un divano azzurro, io a teatro guardavo il divano e l’abat-jour e non prestavo attenzione agli attori. Con la compagnia di Fantasio Piccoli, a Bolzano, ero trovarobesuggeritrice e avevo anche una particina in “O di uno o di nessuno”. Ero la signora Pedoni. La parte consisteva in due parole: entravo con un vassoio e una bottiglietta di Marsala e dicevo: poso là. Mi chiamavano signorina Posolà. Un giorno si è ammalata la primattrice e hanno promosso la suggeritrice. Una discreta botta di culo per una principiante. Poi sono arrivati i Fo, i Visconti, i Ronconi, ma il fosso l’ho saltato a Bolzano». Com’era Visconti? «Incuteva rispetto, se non timore, con quella voce profonda che sembrava venisse da sottoterra. Per La monaca di Monza fece un provino a Roma, al Valle. Eravamo trentacinque ragazze e io mi sentivo la più brutta di tutte. In ballo c’era la parte della novizia poi uccisa dallo sciagurato Egidio. Voce dalla platea, o da sottoterra: “Questa smortina ha due coglioni così”. Ero io. Poi una domanda: “Per avere la parte saresti disposta

Bella e sempre attenta. «Nei momenti migliori mi sentivo non bella ma interessante, un tipo. Avevo anche il complesso della voce da maschiaccio, tanto che al Jamaica mi chiamavano Satchmo, come il jazzista Louis Armstrong, ma anche l’Occhio. Attenta sì, sempre: ai cani per non ripetere gli stessi errori e a quelli bravi per imparare». Chi erano per lei quelli bravi? «Facciamo poca strada, stessa compagnia diretta da Visconti, per onestà devo dire che non fu uno dei suoi capolavori. Comunque, un po’ si ripete Bolzano». Seconda botta di culo? «Già. Se ne va Valentina Fortunato, la Monaca di Monza, lei in persona. L’altra l’abbiamo pronta in casa, dice Visconti. Io, che passo da novizia a monaca lussuriosa con quel tanto di cambiamento che il ruolo comporta. Alle prove, per cinque giorni di fila, Lilla Brignone legge ostentatamente il giornale. Era il mio mito, la Brignone. Un’attrice moderna, tagliente come una spada. Io sul palcoscenico, lei in prima fila col quotidiano sotto il naso. Avrei dato un anno di vita perché mi dicesse qualcosa, anche di brutto, ma niente, era come se non ci fossi, neanche uno sguardo. La sera della prima usciamo

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in gruppo a raccogliere gli applausi e lei, a mezza bocca, mi dice: “Scusami”». Lei ha fatto molto cinema e molto teatro. In base a che si regola nelle scelte? «In base alla parte e alla mia curiosità, alla mia voglia di cambiare. Posso essere Medea per anni e poi sgambettare e cantare in “Sola me ne vo”. Detto francamente, non è che il cinema italiano alla mia età offra grandi ruoli. Se devo truccarmi da quarantenne per fare la madre o la zia di una squinzia qualunque, no grazie». Come sta il cinema italiano? «Peggio di Portogallo e Spagna messi insieme, ma almeno la Spagna ha un regista come Almodovar. Noi abbiamo una generazione di carini, bravini, precisini, preoccupati di non uscire dai ranghi, di vivere di rendita. Nel teatro, anche se molti impresari andrebbero avanti solo con Shakespeare, Goldoni e Pirandello, si rischia un po’ di più. Ma è anche il teatro in sé ad essere più rischioso». In che senso? «Il cinema riempie la giornata, una scena venuta male si può ripetere decine di volte. Un bravo regista in un primo piano riesce a far vedere anche i tuoi pensieri. Il teatro non ha replay, si recita senza rete di salvataggio. E ti lascia libera quasi tutta la giornata. Molti attori giovani la usano per dormire, io non sto mai ferma. Se sono a Carrara vado a cercare gli anarchici che restano, o a godermi le cave. Se sono a Napoli vado per musei, o m’informo sulla pizza migliore. Tanto so che regolarmente tra le 18 e le 20 c’è il periodo peggiore, quello dei dubbi. La paura di non essere all’altezza di quello che il pubblico s’aspetta o alla mia altezza, per quello che posso dare. Magari la sera prima ho sbagliato un’intonazione e non mi sono piaciuta, oppure ho colto in platea un attimo di freddezza. Non c’è mai una sera uguale a un’altra. Man mano che s’avvicina l’orario d’inizio mi isolo. Mi piace ascoltare il silenzio prima dell’inizio, ormai sono brava a decifrare i silenzi. C’è quello diffidente, quello ostile, quello fiducioso, quello teso, quello caldo. È bellissimo passare dal “vogliono la guerra” al “li ho in pugno”. A teatro, la cosa più importante è la gestualità e il saper occupare lo spazio. La dizione viene dopo. Per Maisie ho ricevuto molti elogi per come recitavo la parte di una bambina di sei anni. Avevo studiato come rattrappirmi. Mi è costato una periartrite, ma pazienza. La Blanche di Un tram che si chiama desiderio è piaciuta per la leggerezza dei movimenti. Ma nessuno ha notato che mi muovevo sulle punte. L’affare Makropoulos mi fa litigare con Luca Ronconi. Interpreto il ruolo di una donna di 337 anni, ma a lui non va bene come mi muovo. “Cazzo, ti muovi come una donna normale, ricordati che hai 337 anni”. E io: “Ditemelo voi come si muove una di 337 anni”. Alla fine mi sono concentrata sulle ossa, accentuando le difficoltà di movimento, sbandando di anca, un po’ alla Dietrich. È andata bene». Lei spesso interpreta ruoli, da donna forte, autonoma, che non ha paura della solitudine. «Abbastanza spesso, è vero. Ma nella vita di tutti i giorni sono piena di fragilità che so mascherare bene. Ogni tanto mi arriva una botta di solitudine o di malinconia, ma la faccio passare. Non rinnego le mie scelte: non

essermi sposata, non avere figli. Sono cresciuta con l’idea dell’indipendenza. Penso ancora che una donna possa realizzarsi pienamente senza essere moglie e madre. Sono convinta di non aver cercato seriamente un marito perché un complesso edipico avrebbe accostato quell’uomo al ricordo di mio padre. E avrebbe vinto mio padre, il senso di sicurezza e di protezione che sapeva trasmettermi. A volte mi sono sorpresa di non essere gay. Con gli uomini della mia vita sono stata selettiva, non credo di aver perso tempo o diviso la vita con un cretino». Ho letto che è ricominciata la storia con Renzo Arbore. «Forse non era mai finita. Renzo è stato uno dei miei grandi amori: sette anni insieme, mi sembrava un record. Poi sono stata dodici anni con un altro uomo, di cui non faccio il nome. Dopo sette anni con Renzo avevamo deciso di convivere: un mese e ci eravamo già separati. Niente di veramente grave, ma la sensazione che la fiamma si stesse affievolendo. E niente di drammatico nell’ammetterlo. “Sai, ho pensato che...”, gli ho detto una mattina. “Sì”, ha risposto lui. Renzo ha un garbo innato, una gentilezza spontanea che pochi uomini hanno. Anche quando avevamo un altro compagno, un’altra compagna, chi aveva bisogno dell’altro lo ha sempre trovato. Era buffo, Renzo, quando lavoravo al Piccolo con Strehler: El nost Milan. “Io vengo a vederti, ma non capisco una parola del dialetto milanese”. “Stai tranquillo, ti siedi di fianco a mia madre e ti traduce tutto”. Alla fine viene in camerino: “Sei stata bravissima ma non ho capito una parola”. “E mia madre?”. “Tua madre mi ha tradotto il milanese antico dello spettacolo in milanese moderno”. Un tipo, mia madre. Molto severa, mai soddisfatta. Anche in quella circostanza, mi disse che parlavo malissimo in dialetto e che quasi certamente Strehler mi avrebbe licenziata. Poi venivo a sapere dalla sue amiche che era andata da loro col petto in fuori: “T’è vist la mè toseta?”». Che progetti ha nel cassetto? «Torno a lavorare con Ronconi e a settembre porto Il dolore a Milano. Progetto di fare solo spettacoli necessari. Grazie anche a quei coglioni di negazionisti, molti giovani non sanno cos’è stato davvero l’Olocausto. Dunque è necessario dirglielo». Che rapporti ha con Milano? «Ci ho comprato casa, in San Marco, ma non la riconosco più. La Milano da bere è diventata una Milano da vomitare, quindi sono legata a una città sparita, coi suoi tassisti simpatici, i tailleur eleganti, la bellezza segreta dei cortili, il calore della gente, il suo senso dell’ospitalità. Non ci vado da due anni, finiva che per non incazzarmi stavo chiusa in casa. È un’altra città, senza solidarietà, nemica della cultura. Di tutte le città d’Italia è quella scesa più in basso, e nel mio cuore stava molto in alto. È involgarita, piena di gente finta, e anche per questo possiamo ringraziare il nostro capo». Proprio nulla da salvare? «I ricordi e le bancarelle del mercato di piazza San Marco dove vado a rifornirmi il guardaroba, altro che Armani. Guardi, è passato del tempo, ma il gesto del direttore

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d’orchestra Daniel Barenboim alla prima della Scala, la lettura dell’articolo della Costituzione che parla di cultura, tutto questo fa capire fin dove ci siamo persi. La Scala era e resta un simbolo del Paese. È una vergogna che Bondi non fosse presente». Lei non ha mai nascosto le sue idee politiche. E adesso? «Vengo da una famiglia povera, mia madre faceva la sarta. Era una famiglia di sinistra, ma non è che adesso io vada in giro fasciata nella bandiera rossa. Alla manifestazione del ’94 contro Berlusconi sono andata in piazza, poi no, anche se l’ultima manifestazione era sacrosanta. Solo che poi la presenza in piazza delle facce note fa dire a molti: ecco la solita protesta dei privilegiati. Vai a spiegare che il cinema è un’industria che dà posti di lavoro, che il divo manifesta anche per le maestranze. In famiglia, sentivo parlare di Togliatti, ma anche di Nenni, De Gasperi, come se i politici fossero la parte migliore di noi cittadini, la più colta, la più lungimirante, da una parte o dall’altra disposti a fare il massimo per il Paese. Adesso questi non sanno niente, non fanno niente, uno si candida per non andare in galera, un altro per scopare con più assortimento. La parola cultura

per loro non vale nulla, per me la cultura serve anche a comportarsi meglio. Non sopporto le ingiustizie e questa Italia sembra fondata sulle ingiustizie. Ma prima che col governo dobbiamo prendercela con la nostra immobilità, la nostra schifosa rassegnazione. E poi dirci, in tutta onestà, dopo aver detto il peggio del governo, che dall’altra parte manca una figura carismatica. Tolto Nichi Vendola, che almeno trasmette passione. Da cittadina e da attrice, faccio quello che posso. Se posso far circolare un concetto, lo faccio circolare. Sa cos’è disperante?». Un sacco di cose. «Per esempio, le ragazzine che vengono a trovarmi in camerino, dopo lo spettacolo. Che mi chiedono come si entra in televisione. Dico: “Ma voi cosa sapete fare?”. “Niente – dicono – ma tanto che importanza ha?”. Ecco, questo è il risultato di anni di vilipendio della cultura, non solo quella dei libri ma quella del lavoro, del sacrificio. E poi io non lo so come si entra in

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Dario Fo non è facilmente ascrivibile ad uno schema: molti si ostinano a definirlo come un autore di fantascienza, ma questa definizione non è veramente corretta. Seppure diverse sue opere siano ambientate in un futuro più o meno lontano (ma, tranne che per Cronache Marziane, mai esplicitamamente definito), gli elementi tecnologici e gli spazi cosmici, non interessano Bradbury, questi vengono usati solo come strumenti; non sono che immagini simboliche all’interno di una scelta poetica. Ed infatti egli non si preoccupa eccessivamente della verosimiglianza di una situazione o di una possibile macchina: ogni elemento è funzionale alla creazione di una atmosfera, di un


Filmografia Thomas e gli indemoniati, di Pupi Avati (1969)

L’invasione, di Marc Allegret (1970) Il prete sposato, di Marco Vicario (1970) Rapporto a tre, di Paul Swimmer (1970) Incontro, di Piero Schivazappa (1970) Io non scappo fuggo, di Franco Prosperi (1971)

Basta guardarla, di Luciano Salce (1971) Per grazia ricevuta, di Nino Manfredi (1971) La classe operaia va in paradiso, di Elio

Petri (1971)

Mimì metallurgico ferito nell’onore, di

Lina Wertmüller (1972)

Lo chiameremo Andrea, di Vittorio De Sica (1972)

La violenza: Quinto potere, di Florestano

televisione. So che abbiamo una tv da terzo mondo, fa schifo, tutto è ridotto a plastica e finta felicità, è la foto di un mondo fasullo, di un paese di Cuccagna che non esiste. In compenso, sembra che tutti sappiano cantare, dai neonati ai settantenni. Le capita mai di vedere quelle serate coi cantanti bambini?». Sì, con un certo disagio. «Io sì, ma con molta irritazione. Una volta mi hanno chiesto di fare l’ospite e ho risposto di sì, a una condizione: che mi lasciassero menare qualche bambino se cantava di pazze idee o di far l’amore da Trieste in giù, niente di pesante, giusto un paio di schiaffoni. Non hanno accettato la condizione, peccato. Ma ci pensano i genitori a quel che significa scopiazzare gli adulti cantando testi inadeguati?».

Vancini (1972)

La polizia ringrazia, di Steno (1972) Il generale dorme in piedi, di Francesco Massaro (1972)

Film d’amore e d’anarchia, ovvero stamattina alle 10 in Via dei Fiori nella nota casa tolleranza, di Lina Wertmüller

(1973)

Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, di Lina Wertmüller (1974)

La poliziotta, di Steno (1974) Sterminate “Gruppo Zero”, di Claude Chabrol (1974)

Di che segno sei?, di Sergio Corbucci (1975) L’albero Guernica, di Fernando Arrabal (1975) Faccia spia, di Giuseppe Ferrara (1975) Attenti al buffone!, di Alberto Bevilacqua

(1976)

Caro Michele, di Mario Monicelli (1976) Casotto, di Sergio Citti (1977) La presidentessa, di Luciano Salce (1977) Il gatto, di Luigi Comencini (1977) Saxofone, di Renato Pozzetto (1978) I giorni cantati, di Paolo Pietrangeli (1979) Dimenticare Venezia, di Franco Brusati (1979) Flash Gordon, di Mike Hodges (1980) Oggetti smarriti, di Giuseppe Bertolucci (1980) Il pap’occhio, di Renzo Arbore (1980) Jeans dagli occhi rosa, di Andrew Bergman (1981)

Aiutami a sognare, di Pupi Avati (1981) Bello mio, bellezza mia, di Sergio Corbucci (1982)

Il buon soldato, di Franco Brusati (1982) Domani si balla!, di Maurizio Nichetti (1983) Il petomane, di Pasquale Festa Campanile (1983)

Segreti segreti, di Giuseppe Bertolucci (1985) Notte d’estate con profilo greco, occhi a mandorla e odore basilico, di Lina

Wertmüller (1986)

Figlio mio infinitamente caro, di Valentino Orsini (1987)

Dancers, di Herbert Ross (1987) Mortacci, di Sergio Citti (1988) La fine è nota, di Cristina Comencini (1992) Panni sporchi, di Mario Monicelli (1999) Un uomo perbene, di Maurizio Zaccaro (1999) L’amore probabilmente, di Giuseppe

Bertolucci (2001)

L’amore ritorna, di Sergio Rubini (2004) Vieni via con me, di Carlo Ventura (2005) Alda Merini una donna sul palcoscenico di Cosimo Damiano Damato (2009)

Non lo so. Anche lei ha cantato, ricordo un programma di Baudo in cui entrava in scena dentro una valigia da cui usciva come una Zizi Jeanmaire all’italiana. «Vero e divertente. Ma l’ho detto che mi piace cambiare. Ho anche intepretato Belfiore, una puttana tanto per cambiare. Era Alleluja brava gente, un musical con Gigi Proietti e Renato Rascel, un altro successo di GarineiGiovannini. Non ho ricordi entusiasmanti. Dopo un anno a ripetere “un par de ciufoli” mi prese la solita voglia di cambiare e me ne andai. Il contratto non era chiarissimo e forse era colpa mia, ma la penale me la fecero pagare fino all’ultima lira, compreso un servizio di posate d’argento che mi aveva regalato mia madre. Mi sostituì Daria Nicolodi ed ecco la riprova di quel che dicevo prima, che non si è mai finito di imparare. Belfiore è una prostituta in gabbia, le buttano un tozzo di pane. Io lo lasciavo sul fondo, Daria lo raccoglieva e lo rosicchiava. Bravissima, io non ci avevo pensato». Lei ha lavorato con molti registi. Quali i più grandi? «A teatro Ronconi, può essere spregevole ma è molto affettivo, di una lucidità non comune e di un’intelligenza mostruosa, per un essere umano pieno di difetti. E Strehler, attento ai minimi particolari». I ruoli, invece? «Maisie, Blanche Dubois, l’Ersilia Drei di Vestire gli ignudi, Olimpia». Nel cinema? «Ho fatto film che a me piacevano molto e di scarso successo, come Oggetti smarriti di Giuseppe Bertolucci e Dimenticare Venezia di Franco Brusati. Non posso non citare la trilogia della Wertmüller che mi ha rivelata al grande pubblico, e in particolare Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. Solo che abbiamo girato in un settembre molto freddo, molto spesso ubriachi di fil’e ferru. Ricorda? Io facevo la parte di Raffaella Pavone Lanzetti, signora oca della Milano-bene, e Giannini era Gennarino Carunchio, il marinaio del sud. Avevo copiato, nel parlare, la sorella di Krizia, che mi telefonò dopo la prima: “Sei una stvonza, pevò devo dive che mi hai copiato bene”. Lina ci aveva messo contro, me e Giannini, in tutti i sensi, e quando ci picchiavamo ci

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picchiavamo sul serio. Dopo una settimana di botte ed ematomi sono andata nel camerino di Giannini e gli ho detto: “Da adesso dobbiamo allearci noi contro di lei, altrimenti questa ci ammazza”. Così è andata e siamo sopravvissuti. Giancarlo, tra l’altro, è uno dei migliori in assoluto con cui ho lavorato. Sul set ha qualcosa di animalesco difficile da descrivere». Altri? «Bruno Ganz e Gian Maria Volontè, il più bravo di tutti. Ricordo che in La classe operaia va in paradiso c’era da girare una scena di letto e io continuavo a dirgli: “Mi scusi, ma ho i piedi freddi”. Dopo tre volte lui disse: “Ho capito, ma vediamo di girare meglio che possiamo”. Grande anche quel regista, Elio Petri, troppo in fretta dimenticato. Voglio ricordare anche Monicelli, pessimo carattere ma ottimo professionista, e Steno, con cui girai La poliziotta, un film leggero e garbato. Il produttore era Carlo Ponti. “Vuoi dare la parte a quella picassa?” gli disse la Loren. Bel neologismo, no?». Molto bello. «Lei poi mi disse che era un complimento e la rassicurai: come tale l’avevo percepito. Saranno stati i miei occhi un po’ asimmetrici a farla pensare a Picasso». Crede che la Loren sia stata una grande attrice? «Solo quando il regista era De Sica». Le è piaciuta Hollywood? «Neanche un po’, appena ho potuto sono scappata. Nei camerini degli attori c’erano due vasetti di vetro, in uno una polvere bianca e nell’altro un po’ di sanguisughe». Le chiedo solo a cosa servissero le sanguisughe. «Ogni sera c’era un party in cui Tizio picchiava la moglie o l’amante o ne era picchiato. Le sanguisughe servivano a ridurre gli ematomi». Non si finisce mai di imparare. «Glielo dicevo». Possiamo parlare di femminismo? «Siamo tornate indietro di un secolo, oppure è come se il femminismo non fosse mai nato: da un lato era prevedibile che si scontrasse con la maternità, dall’altro non era prevedibile che l’avere più che l’essere condizionassero tante persone. Sarà che a me le cose costose non sono mai piaciute, pane e salame è meglio del caviale. Come gioielli, non mi separo dalle fedi dei miei genitori, tutti i regalini dei miei uomini, mai importanti, li ho fatti fondere da un amico orafo e ne ho ricavato due anelloni. “Anche i miei nel mucchio?”, m’ha chiesto Renzo. Sì, anche i suoi. Tornando alla sua domanda, e all’ingloriosa fine del femminismo, se molte donne con le labbra a canotto preferiscono farsi usare come posacenere e poi buttar via, non è solo colpa dei biechi maschi né di Berlusconi».

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Parigi contro

Luciano Del Sette foto Giulio Di Sturco di

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La linea del metrò è la numero due, fermata Ménilmontant, Ventesimo arrondissement, Belleville, periferia. Da lì deve cominciare il viaggio dentro la Parigi dei ribelli che fecero le rivoluzioni con le barricate, il pensiero, la musica, la pittura, il teatro, il cinema, la poesia. Da lì deve cominciare, perché le periferie sono ribelli per antonomasia, e Belleville ne rappresenta esempio perfetto: melting pot dell’emigrazione di ieri e di oggi, disordine urbano, palazzi nati dalla speculazione edilizia. Dell’antico villaggio di provincia rimane qualche bella memoria: vie strette, case basse nel verde, scalinate, bistrot, vecchi negozi. Così era Belleville fino alla metà dell’Ottocento, quando il Barone Haussmann, l’urbanista, decide di modernizzare Parigi e caccia dal centro, con la scusa del “risanamento”, il popo-

bitazione, l’Apache Manda, operaio lucidatore, abborda Amélie, fidanzata con l’Apache Leca. Che il 10 gennaio del 1904 viene accoltellato. Leca accusa Manda. La vicenda del “triangolo”, unita alla fama sinistra degli Apaches, appassiona l’opinione pubblica. Il processo condanna Manda alla detenzione in Guyana. Nel 1952, la vicenda diventa un film, Casco d’oro, con la regia di Jacques Becker, protagonisti Simone Signoret e Serge Reggiani. Diciottesimo arrondissement. Montmartre turistica, senza ricordi della bohème, senza i mulini, scomparsi dalla sua collina. “È ben breve il tempo delle ciliegie/quando si va in due, a cogliere, sognando/degli orecchini pendenti/ Ciliegie d’amore in abito identico/che cadono sulla foglia come gocce di sangue”. Le temps des cerises, inno della

lo brutto, sporco, cattivo. Buona parte di quel popolo, soprattutto operai, emigra allora a Belleville, che diventa un gigantesco dormitorio. Nel 1860 è linea di frontiera con l’arrondissement 19; frontiera che lotta con la Comune del 1871, ultima barricata a cadere. Il Novecento porta l’immigrazione di armeni, greci, ebrei polacchi. E la nascita, agli albori del secolo, delle bande Apaches. Basco sulla nuca, pantaloni a zampa d’elefante, giacca sbottonata, scarpe lucide, gli Apaches rapinano, taglieggiano, uccidono, affrontano la polizia, disprezzano qualsiasi regola. Accanto hanno donne che non sono semplici spettatrici delle loro imprese. La più celebre si chiamava Amélie Élie, detta Casco d’oro. Abitava al 13 di rue des Cascades, la casa c’è ancora. Davanti a quell’a-

sinistra francese, lo scrisse nel 1885, in un appartamento di rue Lepic 110, Jean-Baptiste Clément, eroe della Comune e poi chansonnier. In fondo alla strada, su una piazzetta intitolata a Clément, un ciliegio dà fiori e frutti. Sempre a Montmartre, c’era una volta un cabaret, Le chat noir, dove suonava il pianoforte uno strano personaggio di nome Erik Satie. In sessant’anni di vita, fondò e fu unico membro dell’Église métropolitaine d’art de Jésus conducteur; fu occultista, rosacrociano, mistico; fu sempre e in ogni modo “contro”. Claude Debussy e Maurice Ravel ne amarono gli spartiti dissacranti e ironici. Si dice che alla sua morte, era il 1925, vennero trovati, nel salone di casa, due pianoforti sovrapposti. Satie, forse, componeva e suonava su due tastiere contemporaneamente. ▲▲ nome Al 157 del piacevole boulevard Ma▲ nome lesherbes, arrondissement diciasset◀ nome

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te, abitò Carolina Otero, la Bella Otero, in una palazzina che oggi ospita il consolato spagnolo e che all’epoca, la Belle Epoque, le venne regalata da un discendente della facoltosa famiglia Rodrigues Pereira. Di lei ha scritto la giornalista Laure Adler: “Da piccola osservava il gallo con le sue galline. Ancora ragazzina, in un pensionato femminile scopriva le delizie dell’amore a tre. All’età in cui si destano i desideri, si faceva violentare da un vecchio”. Dissoluta, cinica, bugiarda, spietata, Carolina, andò ben oltre la figura della femme fatale. Morì a 97 anni, forse suicida per non arrivare ai cento. Chi chiedeva la fine della guerra in Vietnam sfilando nei cortei del Sessantotto,

adesso deve prendere la linea 13 del metrò, ancora arrondì 17, e scendere alla fermata Guy Mochet. Un breve tratto a piedi porta all’Impasse (passaggio) Compoint 9, dove un giovane, sotto il falso nome di Nguyên Ai Quôc, divideva nel 1917 una stanza d’albergo con l’amico Phan Chu Trinh. Il giovane si chiamava Ho Chi Minh, inseguito ovunque dalle polizie, e per questo costretto a cambiare molte identità. Nella stanza era ospite abituale Lev Trotsky. Fumavano, discutevano e Ho progettava la lotta di liberazione dell’Indocina. Montparnasse, arrondissement 14. Luogo verde di mille tigli. Nel cimitero dormono Charles Baudelaire, Julio Cortázar, Simone de Beauvoir, Samuel Beckett.

BOX BIBLIOGRAFIA (con tre foto delle cover) Dick Metena, illustratore olandese per storie di fantascienza, si cimenta con una graphic novel (Parigi 25/44, edizioni Nottetempo, 120 pp., 16 euro) ambientata tra il 1925 e il 1944. Un Jean-Paul Sartre quasi ragazzino e un Ernest Hemingway già calato nel suo personaggio, incontrano Eva, giovane donna costretta a prostituirsi. Alla coppia si aggiungono, nello sviluppo della vicenda, Salvador Dalí, James Joyce, Pablo Picasso, Francis Scott Fitzgerald e Gertrude Stein. Ben disegnato sia graficamente che nell’idea, il racconto di Metena ha un finale forte ed efficace. Non manca, qua e là, una giusta spolverata di ironia. Periferie della Ville Lumière come favelas brasiliane sono quelle che racconta Nicolas Jones-Gorlin in Crepate tutti (Playground, 155 pp., 16 euro), in uscita il 15 marzo. Jean, un giovane poliziotto, finisce all’ospedale dopo aver subito un’aggressione da un gruppo di quindicenni nella banlieue di Montvermeil. Durante la degenza, viene a trovarlo un collega, che lo convince a entrare in uno squadrone della morte, formato da poliziotti. Lo stato è debole, meglio farsi giustizia da sé. Jean uccide, manomette le prove, dà la caccia agli immigrati. Finché, un giorno, un testimone lo sorprende mentre sta per assassinare uno spacciatore. Da lì, la sua vita prende una direzione imprevista. Jean Toulé aveva già reso omaggio a Paul Verlaine con lo splendido O Verlaine, pubblicato in Italia da Nutrimenti, che, dello stesso autore, propone ora Rainbow per Rimbaud (pp. 160, 15 euro). Robert, un gigante di 36 anni, con i capelli rossi e una passione smodata per le poesie di Rimbaud, dorme in un armadio. Quando il padre lo distrugge, scappa a Parigi, dove si innamora di Isabelle. I due decidono di ripercorrere le rotte del poeta, dal Cairo al Senegal, in un delirio surreale, molto simile alla follia. Le periferie del mondo, curato da Marco Pitzen (Punto Rosso, pp. 144, 12 euro), sottotitolo Esperienze metropolitane a confronto, analizza e racconta con il linguaggio della cronaca l’emarginazione in cinque grandi città, tra cui Parigi.

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In rue Gassendi vissero Lev Trotsky e la sua compagna Natalja Sedova. Da quelle parti, rue Marie Rose 4, prese casa Lenin, dopo aver abitato al 3 di rue de l’Estrapade, Quartiere Latino. “Un giovane soldato, bocca aperta, testa nuda/la nuca bagnata nel fresco crescione azzurro/dorme; è disteso nell’erba, sotto la nuvola/pallido nel suo verde letto dove piove la luce/I piedi tra i gladioli, dorme/... Natura, cullalo tiepidamente: ha freddo/I profumi non fanno più fremere le sue narici/Dorme nel sole, la mano sul suo petto, tranquillo/Ha due fori rossi sul fianco destro”. Versi del “maledetto” Arthur Rimbaud, Le dormeur du Val, che nell’arrondì, visse, verso la fine del 1871, in uno squallido hotel di rue Campagne-Première. Il suo capolavoro, Une saison en enfer, 1873, fu l’unica raccolta pubblicata in vita.

Cinquecento copie, nemmeno una venduta. E maledetto era anche Jean Genet, che a ottant’anni venne trovato morto nella sua stanza del Jack’s Hotel, avenue Stephen Pichon 19, nel Tredicesimo, dopo un’esistenza trascorsa tra il carcere, i vagabondaggi per l’Europa e il Nord Africa, le conseguenze di un’omosessualità dichiarata provocatoriamente. Il Jack’s ha affisso una lapide accanto all’ingresso: “In questo hotel, il 15 aprile 1986, è morto Jean Genet”. Ci passano davanti i giornalisti del Le Monde Diplomatique – la redazione è a un passo – camminando tra vie accoglienti, su cui affacciano strutture industriali trasformate in gallerie d’arte e atelier. Un lungo salto porta al Sesto arrondì, Parigi vera, con i colori delle bancarelle, i dehors dei bistrot, i profumi delle brasseries, il viavai delle baguettes dentro le borse della spesa. Se l’ora è quella dell’aperitivo, e un piccolo lusso rientra nelle spese, l’indirizzo giusto è rue Dauphine 33. Dietro al bancone del Laurent, un barman impeccabile miscela cocktail e serve ottimi vini. Ha i capelli brizzolati, perciò ricorda quando il bar si chiamava Tabou. Nella cantina suonavano Miles Davis, Duke Ellington, Charlie Parker. Sulla pedana saliva anche Boris Vian, poeta, musicista (aveva

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BOX DISCOGRAFIA I titoli che suggeriamo sono in vendita nei buoni negozi di musica, o facilmente acquistabili su internet. Cominciamo da Boris Vian. Tre gli album raccomandati: Le déserteur (Philips), Boris Vian chante Boris Vian (Polygram) e Chanson possibles et impossibles (Philips). Magistrale interprete di Vian fu Serge Reggiani, di cui segnaliamo A l’Olympia, 1983 (Universal), e Douze succès originaux, 1967 (Because). Di Erik Satie bisogna ascoltare Piano Music (Brilliant), Piano Works (Sony) e Early Piano Works (Philips), I suoni delle periferie parigine multietniche trovano magnifica espressione nell’album En concert (Virgin) dell’Orchestre Nationale de Barbès, che ha preso il suo nome da una fermata del Metro intitolata ad Armand Barbès, protagonista delle rivolte tra il 1839 e il 1848. Suoni spiazzanti e duri sono quelli di un altro gruppo tra Europa e Nord Africa, Les Negresses Vertes, con il notevole En public (Razzia Disques). Fanno world con accenti francesi, jazz e nordafricani i Paris Combo nel loro Live, 2005, (Drg). Re del rock, ballo trasgressivo per eccellenza, sono stati in Francia, negli anni Sessanta, Les chaussettes noires (I calzini neri). Sterminata la loro discografia, dove spicca Les parisiennes (Barclay), 1962. Come non citare, infine, Manu Chao? Nella Parigi ribelle è a pagina 274, arrondissement 15. Manu nacque nell’ospedale di Saint Jacques, rue des Volontaires. Il suo capolavoro rimane Clandestino (Virgin).

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sempre in tasca una minuscola tromba), scrittore, autore di Le déserteur, capolavoro tradotto e cantato da Luigi Tenco e Ivano Fossati. Il Tabou ha chiuso nel 1993. Chiuso, ma non per questo ostacolo all’emozione, è anche il cancello di rue des Grands Augustins 7, dietro il Laurent. Per quel quadro immenso, trenta metri di superficie, appeso a una parete del suo studio, Pablo non riusciva a trovare un nome. Lo aveva dipinto, era il 1936, sulla traccia dell’angoscia provocata in lui dallo scoppio▲▲ nome della Guerra civile spagnola. Vennero a fargli visita▲ nome ◀ nome il poeta Paul Éluard e il giornalista Christian Zervos. Guardarono il quadro a lungo. Poi, insieme, esclamarono: «Guernica». Sempre nel Sesto, una casa della corta

rue Dubois era il domicilio di Jean-Paul Marat. Resta ignoto il numero del portone varcato da Charlotte Corday per pugnalare uno dei padri della Rivoluzione, mentre nella vasca da bagno cercava di trovare sollievo da un’inguaribile dermatite. Ulteriore indirizzo in tema di Rivoluzione francese è boulevard Saint-Germain 130. Qui si apre un’impasse. Al 9, il palazzo è stato demolito, Joseph Guillotin inventò la ghigliottina come alternativa più “morbida” alla decapitazione con l’ascia. Morbido, senza alcun dubbio, è invece il sapore del rum, che ha il suo tempio parigino nella Rhumerie Martiniquaise, al numero 166 del boulevard. Bisogna andarci non solo per la carta che offre decine di etichette, ma soprattutto per

BOX GUIDA VOLAND (con foto cover)

Il titolo, Guida alla Parigi ribelle, non tragga in inganno. Il volume firmato da Ramón Chao (il papà di Manu) e da Ignacio Ramonet (Voland, 350 pp., 15 euro) è, infatti, un lungo, dettagliato e minuzioso viaggio nella vita o nei soggiorni parigini di oltre ottocento personaggi. I due autori, rintracciando i luoghi dove i ribelli hanno vissuto, raccontano di ciascuno le abitudini, i drammi, i sogni, le lotte, gli ideali, gli amici e i nemici. Il campionario umano, vastissimo, va da François Villon a de Sade, da George Sand a Joséphine Baker, da Casanova al Subcomandante Marcos, da Toulouse Lautrec a Cyrano de Begerac. Sette secoli di storia e di storie, che svelano risvolti umani inaspettati, o fanno emergere nomi sconosciuti ai più. Ad aiutare il cammino del viaggiatore, la divisione in venti capitoli, uno per ciascun arrondissement della città; la segnalazione, per ogni luogo, della linea e della fermata del metrò; una cartina di riferimento dettagliata. Il consiglio, per esperienza diretta, è di scegliere i personaggi che più incuriosiscono. In cinque giorni, siamo riusciti a rendere visita a una cinquantina di loro, concedendoci a pranzo un veloce croque-monsieur.

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rendere omaggio alla memoria di un cliente speciale. Si chiamava Antonin Artaud: pittore, scrittore, attore. Ai tavolini della Rhumerie, costruita per l’Esposizione coloniale del 1933, Artaud amava sedersi quando usciva dagli ospedali dove lo rinchiudeva una follia aggravata da alcol e droga. L’autore de Il teatro e il suo doppio morirà a 56 anni, rimpianto da amici come Joan Mirò. Il Quinto non offre nulla di speciale. Ma chi è in cerca di ribelli, deve sapere che qui vennero erette le prime barricate della storia di Parigi, il 12 maggio del 1588, dai cattolici che avversavano la salita al trono del protestante Enrico di Navarra, dopo la morte del cugino Enrico III di Valois. Sospeso tra enologia e storia, il termine “barricate” deriva proprio dagli ostacoli che i rivoltosi frapposero alle truppe reali: le barriques, cioè le botti. Le fermate del metrò sotto il centro di Parigi, area non proprio assimilabile a quella che indica il centro delle nostre città, si chiamano Bourse, Opéra, Bonne Nouvelle, Sentier. Secondo arrondisssement: al 63 di rue de Richelieu, Hôtel de Malte – una targa lo attesta orgogliosa – soggior-


nò Simón Bolívar, El libertador di Colombia, Venezuela, Ecuador, Bolivia e Panama. Via via che il cammino si avvicina al cuore della Ville Lumière, si scopre, amaramente, che molte tracce dei ribelli sono state cancellate. Non resta memoria del Café Tortoni, Boulevard des Italiens 22, frequentato nel 1874 da José Martí, scrittore e combattente per l’indipendenza cubana. In rue du Sentier 29, un orrendo edificio è stato costruito sulle macerie della casa di Eugène Pottier, autore dei versi dell’Internazionale, scritti durante la lotta della Comune. Al posto del glorioso Café Momus c’è un laboratorio di analisi mediche. Il palazzo al 12 di Place Vendôme, dove morì Frédéric Chopin, è oggi lo showroom

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di una celebre griffe. Un negozio senza storia ha sostituito il bar di rue Coquillière, teatro delle discussioni tra Marx e Proudhon. Malintesa e becera interpretazione del concetto di progresso? Scriveva Bertolt Brecht: “Felice il Paese che non ha bisogno di eroi”. Ma questi, e tanti altri, erano ribelli. Gente che con gli eroi nulla aveva da spartire.

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Moby Prince testo

Lelio Bonaccorso

illustrazioni

Marco Rizzo

Livorno, 10 aprile 1991. A poche miglia dal porto, la nave traghetto Moby Prince, diretta in Sardegna, si scontra con la petroliera Agip Abruzzo prendendo fuoco. Nel rogo muoiono 140 persone tra membri dell’equipaggio e passeggeri. Nonostante la vicinanza alle banchine, nessun mezzo di soccorso tenta l’abbordaggio. Nell’immediata inchiesta la Capitaneria di porto indica tra le cause del disastro la presenza di nebbia, smentita da numerosi testimoni

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La buona novella

di

Dino Buzzati

illustrazioni di

Enki Bilal

1 novembre - Ostia

Pier Paolo Pasolini viene ucciso nella notte fra l’1 e il 2 novembre, sul lungomare di Ostia. Vedi http:// www.reti-invisibili.net/pasolini/

5 e 6 novembre - Trieste

La polizia anglo-americana spara sui manifestanti a favore del ritorno della città all’Italia, uccidendo lo studente di 16 anni Pietro Addobbati e il lavoratore Antonio Zavadil. Il giorno successivo si registrano altri disordini, con l’uccisione di Saverio Montano, Erminio Bassa, Francesco Paglia e Leonardo Manzi. Diversi i feriti, di cui alcuni gravi.

11 novembre - Arezzo

Gabriele Sandri è in viaggio con amici per assistere a un incontro di calcio. In un autogrill vicino ad Arezzo un agente della Polstrada esplode un colpo di pistola dalla parte opposta della carreggiata, uccidendolo. I primi lanci di agenzia alludono a “scontri tra tifosi con un morto”, senza menzionare il poliziotto che ha sparato. Una mancanza di chiarezza che si trascina per ore, culminando in una conferenza stampa del Questore di Arezzo (che vieta ai giornalisti di porre domande), dove si accenna a due colpi in aria. La sentenza di primo grado ha condannato l’agente a sei anni di reclusione per omicidio colposo aggravato.

14 novembre - Roma

Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale.

15 novembre - Avola

Sciopero generale a cui Avola partecipa in massa. I blocchi stradali effettuati sulla statale vedono uniti braccianti e operai. Da Catania arriva la celere, che spara lacrimogeni a cui i manifestanti replicano col lancio di sassi. La risposta delle forze dell’ordine è violenta e porta a un bilancio tragico: uccisi due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, decine i feriti.

20 novembre - Casalecchio di Reno

Un aereo militare compie un esercitazione sorvolando il paese. Probabilmente vittima di problemi meccanici, perde quota e il pilota abbandona l’aereo, mentre questo precipita sulla succursale dell’Istituto Tecnico “Salvemini”. La Strage dell’Istituto Salvemini registra 12 vittime. Numerosi i feriti, fra cui molti subiranno invalidità permanenti. A tutt’oggi non ci sono colpevoli o responsabili per quella strage. La polizia anglo-americana spara sui manifestanti a favore del ritorno della città all’Italia, uccidendo lo studente di 16 anni Pietro Addobbati e il lavoratore Antonio Zavadil. Il giorno successivo si registrano altri disordini, con l’uccisione di Saverio Montano, Erminio Bassa, Francesco Paglia e Leonardo Manzi. Diversi i feriti, di cui alcuni gravi.

23 novembre - Milano

Una bomba esplode all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura: è la strage di Piazza Fontana, snodo cruciale della strategia della tensione. Il bilancio iniziale è di 13 morti e un centinaio di feriti. Si aggrava nei giorni seguenti; un altro uomo morirà alcuni anni più tardi in conseguenza dell’attentato, portando il bilancio a 17 vittime. La diciottesima è il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura durante un interrogatorio, nella notte fra il 15 e il 16 dicembre.

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24 novembre - Bondeno (FE)

Manifestazione per chiedere la gestione diretta del collocamento al lavoro: le forze di polizia aprono il fuoco uccidendo il contadino Fernando Ercolei.

28 novembre - Bari

Aggressione di un gruppo di squadristi ai danni di alcuni militanti di sinistra. Ad avere la peggio è Benedetto Petrone, giovane militante del PCI, accoltellato a morte. Gabriele Sandri è in viaggio con amici per assistere a un incontro di calcio. In un autogrill vicino ad Arezzo un agente della Polstrada esplode un colpo di pistola dalla parte opposta della carreggiata, uccidendolo. I primi lanci di agenzia alludono a “scontri tra tifosi con un morto”, senza menzionare il poliziotto che ha sparato. Una mancanza di chiarezza che si trascina per ore, culminando in una conferenza stampa del Questore di Arezzo (che vieta ai giornalisti di porre domande), dove si accenna a due colpi in aria. La sentenza di primo grado ha condannato l’agente a sei anni di reclusione per omicidio colposo aggravato. Gabriele Sandri è in viaggio con amici per assistere a un incontro di calcio. In un autogrill vicino ad Arezzo un agente della Polstrada esplode un colpo di pistola dalla parte opposta della carreggiata, uccidendolo. I primi lanci di agenzia alludono a “scontri tra tifosi con un morto”, senza menzionare il poliziotto che ha sparato. Una mancanza di chiarezza che si trascina per ore, culminando in una conferenza stampa del Questore di Arezzo (che vieta ai giornalisti di porre domande), dove si accenna a due colpi in aria. La sentenza di primo grado ha condannato l’agente a sei anni di reclusione per omicidio colposo aggravato. Gabriele Sandri è in viaggio con amici per assistere a un incontro di calcio. In un autogrill vicino ad Arezzo un agente della Polstrada esplode un colpo di pistola dalla parte opposta della carreggiata, uccidendolo. I primi lanci di agenzia alludono a “scontri tra tifosi con un morto”, senza menzionare il poliziotto che ha

29 novembre - Torremaggiore (FG)

Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale.

29 novembre - Bagheria (PA)

I carabinieri intervengono nel corso di una manifestazione contadina, aprendo il fuoco e uccidendo la contadina Filippa Mollica Nardo. trascina per ore, culminando in una conferenza stampa del Questore di Arezzo (che vieta ai giornalisti di porre domande), dove si accenna a due colpi in aria. La sentenza di primo grado ha condannato l’agente a sei anni di reclusione per omicidio colposo aggravato.

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Mad in Italy di Gianni Mura

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei

niente baci a Spotorno 10/14 B Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere

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l’inchiesta

In vendita, real estate di

Dino Buzzati

illustrazioni di

Enki Bilal

16/26 B Felpe, videogiochi ed educazione nelle scuole, la propaganda militare punta ai giovanissimi, perché… pendi frase della Gelminuna sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una m

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se

Signori, si vende. Forti, caserme, arsenali, fari, terreni, poligoni. Addirittura isole. Centinaia di immobili militari, per decine di miliardi di euro, sono sul mercato. In vendita, comodato o concessione. E in tutta Italia: da Palazzo Brasini a Taranto alla caserma Lamarmora di Torino. La maggior parte è a Roma, con le caserme Gandin, Medici, Ruffo, Piccinini; con l’ex forte Trionfale e parte del forte Boccea. Ma c’è anche una parte dell’Arsenale di Venezia, l’ex carcere militare di Palermo, un ex convento (quello di Santa Teresa a Roma), nonché il castello Svevo di Brindisi. Con una parola d’ordine – fatturare – e una brochure patinata sottobraccio, l’anno scorso il ministro Ignazio La Russa e il sottosegretario Guido Crosetto, accompagnati dai vertici dello Stato maggiore della Difesa, hanno portato nelle fiere del settore la dote immobiliare. Scegliendo il top europeo del real estate: la Mipim di Cannes e la TrE di Venezia. In entrambe le occasioni veniva fatto sfoggio del depliant “Il patrimonio immobiliare del ministero della Difesa, un’eredità di valore”. Foto e dettagli delle strutture di pregio del demanio militare illustravano i gioielli oggetto – in tutto o in parte – di futura dismissione. «Naturalmente – diceva il ministro La Russa a Cannes – non siamo qui per vendere, ma per far conoscere la possibilità di investimenti consistenti a chi vorrà assicurarsi immobili di grande prestigio». Eppure nella brochure è testualmente scritto “immettere gli stessi (immobili, ndr) sul mercato mediante specifici avvisi pubblici di vendita”. A Venezia, la fiera, dedicata allo sviluppo immobiliare del turismo di lusso si è tenuta – guarda caso – nell’Arsenale militare, di proprietà della Difesa: proprio in quest’area, l’ex caserma dei sommergibilisti diventerà un albergo da 180 stanze e 400 posti letto, con annessa foresteria per 200 persone, piscina, palestra e ristorante. Costo del progetto: 30 milioni di euro.

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Livorno

direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe

Per gestire il patrimonio militare è stata creata due anni fa la Difesa Servizi Spa, società per azioni ideata dal sottosegretario Guido Crosetto. Un esempio di finanza creativa in salsa militare comprensiva delle soluzioni legali, burocratiche e finanziarie per “creare valore”. Difesa Servizi, istituita nel dicembre 2009, è modellata sul calco di quella Patrimonio Spa che dieci anni fa permise a Giulio Tremonti di cartolarizzare gli immobili pubblici. Nel 2001, il ministro dell’Economia mise sul mercato ben undici miliardi di patrimonio immobiliare per risanare il deficit dello Stato. Dopo aver mendicato per anni quattrini al collega («Tremonti si metta una mano sul cuore e pensi ai militari», implorava La Russa prima dell’approvazione della Finanziaria), il ministro della Difesa oggi non ha più bisogno di elemosine: applica la ricetta risanatrice di Crosetto al magro bilancio militare mettendo a profitto gli immobili del ministero. Grazie alla legge 133 del 2008 (inserita nella Finanziaria 2010), il ministero della Difesa può infatti effettuare, in autonomia, “l’attività di alienazione, permuta, valorizzazione e gestione dei propri beni”. E può farlo attraverso la nuova Spa, magnificata in tutte le salse dai vertici militari, grati a La Russa e Crosetto per aver dato loro la possibilità di fare cassa. Di passare finalmente “dalla cultura della spesa a quella dell’entrata”, secondo quanto recitano le presentazioni in PowerPoint

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che lo Stato maggiore della Difesa esibisce con gran vanto a seminari e convegni. A presiedere Difesa Servizi c’è un generale, Armando Novelli. In consiglio di amministrazione siedono funzionari statali, come Gaetano Caputi, capo dell’ufficio legislativo del ministero dell’Economia, ma anche imprenditori come il patron della Campari, Luca Garavoglia. Con la nomina del Cda a febbraio, il meccanismo della fatturazione è entrato in una fase operativa. Tuttavia, per trasformare la permuta di immobili in concessione o in vendita, non è formalmente indispensabile una società per azioni. Almeno nell’immediato, basta un protocollo d’intesa, e poi un fondo immobiliare dove piazzare le strutture. Anche prima della costituzione di Difesa Servizi, la penna di La Russa non ha mai lesinato inchiostro. I protocolli per cedere gli immobili militari sono stati siglati, nel 2010 e a inizio 2011, con i Comuni di Roma, Milano, Torino, Venezia, La Spezia, Parma, Marsala, Rovigo, Ravenna e Civitavecchia, oltre che con piccoli centri come San Lorenzo Isontino (Gorizia) e Villa Vicentina (Udine), nel Friuli della Grande guerra. L’incubo nel quale erano precipitati i sindaci italiani, dopo i tagli dei trasferimenti statali in conto capitale, sarebbe quindi finito. Con la bacchetta magica del federalismo demaniale lo Stato torna infatti a erogare risorse alle casse degli enti locali attraverso la “valorizzazione” degli immobili

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio,

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militari presenti sul territorio comunale. Per intuire il colossale giro d’affari che nei prossimi anni graviterà intorno al ministero della Difesa (e ad alcuni Comuni italiani) basta prendere come esempio il regalo che La Russa ha fatto allo storico compagno di partito, il sindaco di Roma Gianni Alemanno: 700 milioni di euro, un importo corrispondente al Piano di rientro della capitale per colmare il buco di bilancio. Un regalo reso possibile proprio grazie al protocollo firmato tra Comune e Difesa nell’aprile 2010 e ratificato dal consiglio comunale di Roma a fine ottobre dello stesso anno. Il Comune avrà il 20 per cento dei ricavi ottenuti dalla valorizzazione di quindici immobili, in prevalenza caserme e forti. Al ministero della Difesa andranno quasi due miliardi di euro. Il bando ministeriale per il consulente che dovrà “comporre” il fondo in cui finiranno gli immobili è stato vinto da Bonelli-Erede-Pappalardo: si tratta del primo studio legale italiano, con un fatturato di 147 milioni di euro. “Valorizzare” significa in sostanza cambiare destinazione d’uso a un immobile. Trasformarlo in qualcos’altro al fine di massimizzarne il valore. E poi venderlo. Conviene a tutti. Ai Comuni, che vedranno rimpinguati i bilanci perché potranno ottenere fino a un quinto delle somme incassate dalla vendita e recuperare spazi (e cubature) finora riservati alle attività militari. Ai privati, che, oltre a comprare, grazie a principeschi appalti potranno ristrutturare, ricostruire, rimodernizzare, gestire e, soprattutto, fatturare cifre esorbitanti. E alla Difesa, che grazie alle vendite (o alle svendite) finalmente potrà emanciparsi dalle elargizioni del ministero dell’Economia e vantare un bilancio degno di una grande potenza, con l’ovvia conseguenza di poter aumentare le spese militari a proprio piacimento e senza il controllo di altri organi dello Stato. Mario Breglia ha gestito con la Scenari immobiliari, società che presiede, la “valorizzazione” degli immobili militari in Liguria, quando era ancora il demanio civile a gestirli: «Sono almeno dieci anni che i militari cercano di avere una cassa autonoma. Già negli anni Ottanta furono fatti tentativi per vendere le caserme così com’erano, una cosa praticamente impossibile, perché, date le condizioni e la natura degli immobili, o ci andava un altro esercito o si trasformava completamente la caserma. Oggi, invece, la si può vendere, anche a prezzi molto bassi: la si conferisce a un fondo immobiliare, si fa gestire il fondo a una società specializzata che si occupa di valorizzarla e il gioco è pressoché fatto». Ci sono aspetti del processo di alienazione, di per sé lungo e complicato, che non quadrano. Il primo è di carattere giuridico. Il protocollo del ministero della Difesa con i Comuni prevede che la destinazione d’uso degli immobili militari possa essere cambiata con la semplice deliberazione comunale. Lo dice la già citata legge 133. In soldoni: qualora si decidesse di trasformare strutture come il faro dell’isolotto di Palmaiola in Toscana, o quello di Punta Scorno all’Asinara in alberghi di lusso, potrebbe bastare il solo voto del consiglio comunale. Per velocizzare la procedura di “valorizzazione e alienazione” di veri e propri gioielli architettonici, potrebbero essere saltate le verifiche di conformità della Regione, ora necessarie per legge. Qualcuno ha protestato, sostenendo che queste semplificazioni sono pericolose mentre i controlli sulla politica del territorio quantomai necessari, soprattutto da parte di enti sovraordinati rispetto ai Comuni. La Regione Toscana ha fatto ricorso alla Corte costituzionale e l’ha vinto. Vanna Console, dirigente dell’avvocatura generale della Regione Toscana, spiega perché: «Quando il ministero della Difesa ha pensato di fare accordi com i Comuni per alienare i beni e riconvertire gli immobili, si è dimenticato delle Regioni. Un atto illegittimo e la Corte ci ha dato ragione. Faccio un esempio: se il piano strutturale di un Comune ha vincoli di livello superiore, come il piano di indirizzo territoriale regionale, la Regione deve esserne informata. Se metto un vincolo, la pianificazione comunale si deve adattare. Ma qui succede l’opposto». Il ministero della Difesa va avanti, la sentenza della Consulta viene ignorata e i protocolli d’intesa vengono firmati a ogni pié sospinto. «Con le Regioni esistono gli accordi di programma – spiega Paolo Berdini, docente di Urbanistica a Tor Vergata – e oggi possono bastare quelli per far diventare automatica la variante di destinazione d’uso. È così che la nozione di pubblico scompare. È così che un immenso patrimonio costruito in centocinquant’ anni di unità viene venduto al mondo degli immobiliaristi e della speculazione edilizia. Questi amministratori possono far saltare tutte le regole urbanistiche: come allora lo Stato unitario espropriò i beni che gli servivano per costruire la nazione moderna, così oggi, con lo stesso metodo, questa classe dirigente compie il percorso inverso, svendendoli al privato». È lo stesso sottosegretario Crosetto a confermare che «il presupposto per le alienazioni

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sono le variazioni urbanistiche». «Il rapporto con i Comuni – riferisce Crosetto a E – è un collo di bottiglia, perché la variante urbanistica può impiegare fino a quattro anni per l’approvazione». Gli obiettiamo che queste operazioni possono facilmente prestarsi a speculazioni. «Si presterebbero molto di più se il ministero non avesse deciso, prima di vendere, di concordare con i Comuni la fine che faranno le strutture». Il ministero non sarà più ricco? Investirà in armi? «No. Il 15-20 per cento andrà agli enti locali, il 40 per cento al Tesoro, e l’altra parte verrà reinvestita in patrimonio immobiliare. Con il ricavato delle dismissioni non si possono fare spese correnti». E allora a che serve Difesa Servizi? «Per esempio a incassare, per conto del ministero, l’affitto di una struttura in concessione». E una volta che ha incassato? «Potrà investire dove gli dirà la Difesa». Appunto. Ci sono poi i vincoli naturalistici degli immobili militari. Se La Russa avesse consultato il suo omologo all’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, avrebbe scoperto che molti dei tesori in vendita sono protetti, vincolati, blindati. In una parola, intoccabili. Prendiamo l’isoletta di Palmaiola col suo faro: non solo fa parte del Parco nazionale dell’arcipelago toscano, ma è compresa dal Piano del parco in una zona a protezione integrale, dove la legge impedisce qualsiasi modifica di destinazione d’uso. «Che vendita e vendita! – tuona Umberto Mazzantini, responsabile Legambiente per le isole minori – qui vendono il nulla. Il Piano del parco viene prima delle delibere comunali. Qui siamo al paradosso: una parte dello Stato istituisce un’area protetta, un’altra parte la mette in vendita. Non si può toccar nulla, La Russa mi sembra Totò quando nel film Totòtruffa riesce a vendere la Fontana di Trevi a un turista». Stesso discorso per l’Asinara. Per il faro di Capo Scorno, secondo la stampa locale (L’Unione Sarda, 7 aprile 2010), Crosetto ha scritto direttamente al sindaco di Porto Torres: «L’immobile potrebbe essere posto sul mercato per essere gestito direttamente dal ministero con finalità turistico-alberghiere». Per dormire in una struttura analoga, il faro di capo Spartivento, diventato hotel a cinque stelle, si pagano minimo 400 euro a notte. Potrebbe fare la stessa fine anche il forte sull’isola della Palmaria, davanti a Portovenere, patrimonio Unesco dal 1997, e anch’esso all’asta? Crosetto puntualizza che non tutti i beni pubblicizzati verranno venduti: «Nella lista ci sono diverse tipologie. Alcune strutture verranno cedute, altre no. Quelle storiche sostanzialmente non verranno cedute». Gli immobili militari sono spesso di gran pregio. Medievali, rinascimentali, barocchi. Veri e propri documenti della storia del nostro Paese. Per questo l’alienazione deve essere approvata dalle direzioni regionali del ministero dei Beni culturali, mentre in caso di concessione il ministero deve controllare che l’immobile sia correttamente restaurato e che non sia sottratto al godimento pubblico. Non è un caso, dunque, che il presidente di Italia nostra, il magistrato di Cassazione Giovanni Lo Savio, nutra qualche preoccupazione: «Caserme e arsenali non devono essere gestiti a cuor leggero. Paesaggio e patrimonio storico-artistico sono valori assoluti, che non possono abdicare ad altri valori. L’articolo 10 del codice dei Beni culturali stabilisce che anche un immobile militare è un bene culturale. La difesa della patria corrisponde a un periodo storico fondamentale e quanto vi è correlato ha assunto da tempo valore identitario. Anche una caserma è un bene che permette al cittadino di identificare lo Stato. Se viene venduta è un pezzetto di Stato che se ne va. Purtroppo, nonostante il nostro sistema offra una tutela perfetta, assoluta, la pratica di gestione di questi immobili è gestita in modo condiscendente ad altri interessi. Per questo non si può sacrificare il patrimonio della Difesa alle esigenze finanziarie di uno Stato in affanno». “La diffusione sul territorio di siti, monumenti, luoghi simbolici del processo di indipendenza e unificazione nazionale è il primo dato di cui tener conto”: così recita il sito ufficiale per le celebrazioni dell’Unità d’Italia (www.iluoghidellamemoria.it). Il centocinquantenario porterà con sé un’abbondante dose di retorica sull’esaltazione del Risorgimento. Lega permettendo, altrettanta retorica verrà impiegata da La Russa e colleghi per difendere l’unità conquistata e l’amor di patria. Patria e patrimonio sono la stessa cosa, derivando dal latino pater. Come difendere l’una e svendere l’altro?

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Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio,


l’Italia è una repubblica

di

Dino Buzzati

illustrazioni di

Enki Bilal

Guastalla (Reggio Emilia), 2 febbraio

Pratola Serra (Avellino), 7 febbraio 2008

Stelica Maftei, un operaio romeno di 45 anni addetto all’installazione di impianti termoidraulici, è morto per una caduta in un capannone industriale dell’azienda Padana Tubi.

Raffaele Maffei, 44 anni, stava lavorando alla costruzione del solaio di una abitazione privata quando è rimasto folgorato da una scarica elettrica di 20mila volt. Pare che a toccare i cavi dell’alta tensione sia stato il braccio della betoniera.

Caduta letale nel capannone Viaggiano (Potenza), 2 febbraio

Schiacciato da un rullo

Adriano Angelone, 39 anni, è morto in serata in seguito alle ferite riportate mentre lavorava nell’azienda plastica Vibac, dove lavorano circa 200 persone. L’uomo è stato schiacciato da un rullo.

Novafeltria (Pesaro Urbino), 2 febbraio

Muore sotto il carrello

Marino Mordenti, 65 anni, socio della ditta Demo, è rimasto schiacciato sotto il carrello elevatore di un muletto. Il mezzo, che stava movimentando dei carichi, si è improvvisamente rovesciato, investendolo.

Ferrara, 5 febbraio

Investito da un muletto

Un operaio di 54 anni, Giuseppe Bonati di Rovigo, è deceduto per le ferite riportate sul lavoro. Bonati stava lavorando a un muletto sollevatore nella Carpenteria Cmg, quando il mezzo lo ha travolto.

Carignano (Torino), 6 febbraio 2008

Muore 20 metri sott’acqua

Pietro Russo, camionista 52enne, è morto nelle Cave Germaire. Stava trasbordando della terra dal suo mezzo a un bacino d’acqua artificiale, quando il camion è finito nell’invaso, cadendo a circa 20 metri di profondità.

Brindisi, 7 febbraio 2008

Morte in cantiere

Cosimo Suma, 51 anni, è rimasto vittima di un incidente mortale in un cantiere.

Sant’Egidio (Terni), 6 febbraio 2008

Quattro vittime dei fuochi

Un’esplosione ha distrutto la fabbrica di fuochi di artificio Cignelli, a conduzione familiare. Le vittime appartenevano tutte alla famiglia: Fiorenzo Cignelli, 58 anni, la moglie Elisabetta Tirinnanzi, 53, il loro nipote Renato Cignelli, 44, e sua moglie Rosanna Abbatematteo, 31. La fabbrica aveva le prescritte autorizzazioni.

Vittoria (Ragusa), 12 febbraio 2008

Cade sui mattoni

Il titolare di un’impresa edile, Nicolò Roberti, 54enne, stava lavorando sulla parete di una casa in costruzione quando è caduto battendo il capo su un mucchio di mattoni.

Arenzano (Genova), 6 febbraio 2008

Travolto in autostrada

Aveva 31 anni Pasquale Filona, l’operaio investito da un Fiat Ducato sull’autostrada A10 al km 19. Con un bastone luminoso stava segnalando la presenza di un cantiere notturno quando il furgone lo ha travolto lasciandolo a terra senza vita.

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Ruffia (Cuneo), 7 febbraio 2008

Scarica da 15mila volt

Un operaio polacco di 27 anni, impegnato in lavori di potatura in un pioppeto, ha toccato i cavi dell’alta tensione alzando il braccio mobile del trattore. Una scarica da 15mila volt lo ha investito, la morte è stata istantanea.

Folgorato in cantiere

San Martino di Lupari (Padova), 7 febbraio

Un morto in una segheria

Un operaio romeno di 46 anni, Vasile Danc, è morto a causa di un incidente all’interno di una segheria. È stato ferito mortalmente alla testa da un pezzo di legno mentre stava lavorando a una macchina utensile. Vasile era padre di tre bambini.

San Salvo (Chieti), 8 febbraio 2008

Muore sotto il rimorchio

Antonio Argentieri, autotrasportatore 50enne, è morto sotto le ruote del rimorchio che stava tentando di agganciare alla motrice, nel piazzale della Sabatini Autotrasporti. Argentieri, sposato e padre di due figli, è deceduto durante il trasferimento all’ospedale.

Pomezia (Roma), 8 febbraio 2008

Morte in fabbrica

Piotr Opala, operaio polacco, 34 anni, è morto mentre lavorava all’interno di una fabbrica di marmi, colpito alla testa da una lastra di cemento armato. Era regolarmente assunto. La lastra è caduta per la rottura dell’impalcatura che doveva sorreggerla.

Roma, 9 febbraio 2008

La ruspa lo schiaccia

L’imprenditore Roberto Gianni, di 65 anni, è morto schiacciato da un escavatore in un cantiere edile a Roma. Gianni stava lavorando su una rampa in pendenza, quando è precipitato in un fosso con la ruspa rimanendo schiacciato dal mezzo.

Spilinga (Vibo Valentia), 9 febbraio 2008

Muore travolto dal trattore condotto dal figlio

Tragedia di lavoro e di famiglia: Gennaro Arena, 55 anni, è morto schiacciato da una ruota del pesante trattore condotto dal figlio. La vittima era al lavoro in un terreno agricolo di sua proprietà.

None (Torino), 10 febbraio 2008

Fatale caduta dal tetto

Vittorio De Candia, 36 anni, è caduto dal tetto di un capannone, dove stava montando una telecamera per la videosorveglianza, ed è morto sul colpo dopo un volo di 5 metri. Era salito sul tetto senza imbracatura ed elmetto. Il fratello ha assistito alla tragedia.

Orte, 11 febbraio 2008

Carbonizzato in officina

Il 41enne Kouam Yean Marie, ingegnere del Camerun, imprenditore, è morto nella sua officina ai confini tra il Lazio e l’Umbria a causa di un violento incendio probabilmente dovuto a una fuga di gas.

Salemi (Trapani), 11 febbraio 2008

Il muletto si ribalta e lo uccide

Un operaio 50enne, Giovanni Gandolfo, sposato e padre di due figli, stava guidando un muletto che si è ribaltato uccidendolo. Per liberare il suo corpo sono dovuti intervenire mezzi dei vigili del fuoco.

Felettis di Bicinicco (Udine), 11 febbraio

Cade da una scala in cantiere

Octavio Barossi, artigiano di origine argentina è morto dopo essere caduto da una scala. L’uomo era titolare di un’impresa edile. L’incidente è avvenuto in un cantiere all’interno di un complesso residenziale.


fondata sul lavoro Torino, 12 febbraio 2008

Schiacciato contro il soffitto

Luigi Belmondo, 44 anni, è morto in un’azienda di stoccaggio alimentare. L’operaio si trovava su un carrello elevatore ed è stato schiacciato contro il soffitto. Il meccanismo dell’apparecchiatura si è inceppato e per l’uomo non c’è stata possibilità di salvezza.

Guidonia (Roma), 12 febbraio 2008

Corriere contro un camion

Aveva 28 anni il corriere finito contro un autocarro in sosta nei pressi di un cementificio a Guidonia. Era alla guida di un furgone, ha perso il controllo del mezzo colpendo una recinzione e poi l’autocarro. Il giovane è morto sul colpo.

Casteldardo di Besenzone (Piacenza), 12 febbraio

Il trattore scatta in retromarcia e lo travolge

Un imprenditore agricolo di 39 anni, Roberto Garavelli, è morto mentre tentava di mettere in moto un trattore, con un piede sul cingolo. Il mezzo è improvvisamente scattato all’indietro, trascinandolo sotto di sé. L’incidente è avvenuto nella rimessa dell’imprenditore.

Lutrano di Fontanelle (Treviso), 13 febbraio

La macchina lo schiaccia

È morto a 30 anni Filippo Segat, dipendente della Friul Intagli, azienda specializzata nella lavorazione del legno. La macchina per schiacciare e tagliare il legno si era bloccata. Mentre la vittima cercava di sistemarla, gli ingranaggi hanno ripreso a funzionare.

Faenza (Ravenna), 13 febbraio 2008

Travolto dal cancello

Antonino Scudella, 41 anni, è rimasto vittima di un cancello uscito dal binario, che lo ha travolto. Un muletto della ditta Tarlazzi Lane, azienda che realizza materassi, ha urtato il cancello scorrevole facendolo crollare sull’operaio che passava in quell’istante.

Firenze, 14 febbraio 2008

Pensionato, ma al lavoro. Precipita in cantiere

Un operaio in pensione di 67 anni è caduto dal secondo piano in un cantiere edile a Firenze. Ha perso l’equilibrio precipitando da quasi venti metri. La vittima non risulta a libro paga dell’azienda incaricata della ristrutturazione.

Fornaci (Parato), 21 febbraio 2008

Cade nella scarpata

Orazio Vivarelli, 60 anni, è morto schiacciato dalla ruspa che stava manovrando, precipitata in una scarpata di 70 metri.

Piazza Armerina (Enna), 14 febbraio 2008

Violento colpo di pala

Un edile di 45 anni, Salvatore Rausa, è stato colpito in pieno volto dal braccio di una pala meccanica, mentre lavorava con altri muratori all’edificazione di alcuni capannoni in un fondo privato. Il colpo lo ha scagliato in un fossato profondo 3 metri. Inutili i soccorsi.

Spinadesco (Cremona), 14 febbraio 2008

Un edile cade da 15 metri

Aveva 27 anni e lavorava per la Abs System. Il marocchino Ramdaui Mourad è caduto da circa 15 metri mentre lavorava nel cantiere della nuova acciaieria Arvedi. La procura della repubblica ha aperto un’inchiesta. Il giovane era sposato e aveva una bambina.

Campobello di Mazara (Trapani), 16 febbraio

Operaio travolto da un crollo

Aveva solo 22 anni Claudio Ingoglia, il manovale travolto dal crollo di un arco in una antica masseria in ristrutturazione. Era impegnato nel montaggio di un ponteggio quando il crollo lo ha ucciso.

S. Agata dei Goti (Benevento), 16 febbraio 2008

Una sbarra sfonda il vetro

Un operaio addetto al trasporto di rifiuti è morto trafitto dalla sbarra di ferro che limita l’accesso al sito di stoccaggio. Il palo, forse spinto dal vento, ha sfondato il parabrezza del furgone e ha trafitto l’uomo al torace. Michele Truocchio, 44 anni, lascia moglie e due figli.

Catania, 16 febbraio 2008

Autista dell’Amt travolto

Con giubbetto catarifrangente e bandiera, Giuseppe Conti, 50 anni, stava segnalando un incidente stradale tra un’auto e un autobus quando è stato preso in pieno da una Smart guidata da un trentenne, che poi ha sbattuto contro due vetture.

Biella, 19 febbraio 2008

Carrello killer in un lanificio

Lavorava per una società di manutenzione presso un’azienda tessile biellese. Alessandro Oppizzi, 41 anni, è salito su un carrello per verificare il funzionamento del controllo-pezze e il mezzo, senza rispondere ai comandi, lo ha spinto contro una colonna in cemento procurandogli lesioni mortali.

Villasmundo (Siracusa), 19 febbraio 2008

Precipita in galleria

Incidente mortale in un cantiere dell’autostrada Siracusa-Catania: Gaspare Maganuco, di 32 anni, ha perso la vita precipitando dall’impalcatura. Stava lavorando alla costruzione di una galleria artificiale.

Cesio Maggiore (Belluno), 20 febbraio 2008

Trovato il corpo di un agricoltore

Un agricoltore di 70 anni è morto in un incidente sul lavoro. Il corpo dell’uomo è stato trovato alle prime ore dell’alba, accanto al trattore ribaltato, in una stradina di campagna.

Misano (Rimini), 20 febbraio 2008

Muore al tornio un artigiano

Dino Campagna, 70 anni, è morto per infortunio nella sua azienda. Stava lavorando al tornio, quando un colpo del laminato sfuggito dalla macchina gli ha provocato lo sfondamento della scatola cranica. A trovarlo a terra, in una pozza di sangue, è stato il figlio.

Borgoricco (Padova), 24 febbraio 2008

Schiacciato dalla taglia-fusti

Michele Grassivaro di 41 anni è morto per le conseguenze di un grave trauma alla testa, riportato all’interno di un’azienda di gommapiuma, la Loima. Per un malfunzionamento, la parte mobile di un macchinario per il taglio dei fusti di gommapiuma ha schiacciato il capo dell’uomo.

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febbraio 2010

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incidenti sul lavoro morti


Raccontalo a tua zia di Enrico Bertolino

Abbiamo visto che l’operaio duranteuna sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente

la metamorfosi del senatore K 10/14 B Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle) Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza

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Conversazione con

Mark

Lacy

L’estetica dell’emergenza di

Nicola Sessa

foto

Michael Wolf

Mark Lacy Nasce il 17 febbraio 1973 in Gran Bretagna. Docente di Teorizzazione di sicurezza e guerra, all’Università di Lancaster, nel Lancashire, è attualmente impegnato nella stesura del saggio, Paul Virilio and Critical Security Studies. Ha già pubblicato: Security and Climate Change: International Relations and the Limits of Realism (2005); Global Politics in the Information Age (2006); The Geopolitics of American Insecurity: Terror, Power, and Foreign Policy (2008).

Una volta erano il pallone e le figurine Panini, oggi sono gli AK-47 e le bombe a grappolo virtuali dei videogiochi per PS3 e Xbox a intrattenere i più giovani nella vita quotidiana. I grandi, invece, guidano i Suv Hummer, che tanto ricordano i veicoli da guerra, nascondendosi sotto i caschi della Diesel, tipo Top Gun. Giorgio Armani, il re dell’alta moda, veste gli agenti della polizia di Stato, e la gente va in giro in abbigliamento mimetico e giubbotti antineve tagliati a mo’ di quelli antiproiettile. Mark Lacy, professore di Teorizzazione di sicurezza e guerra all’Università di Lancaster, ci spiega i fondamenti di questa nuova società militarizzata

Professor Lacy, lei sta studiando le sovrapposizioni tra sicurezza, tecnologia ed estetica che hanno dato vita a un “design” dettato dall’emergenza e dalla sicurezza. Può spiegarci cosa intende quando fa ricorso a espressioni come “estetica dell’emergenza” e “società militarizzata”? «Mi riferisco al lavoro di alcuni intellettuali che analizzano il ruolo svolto dalla politica contemporanea in un periodo in cui coesistono diversi tipi di emergenze: economiche, sociali, culturali e di sicurezza. Questa stessa politica è chiamata a far passare misure che modificano profondamente le nostre società, la nostra idea di democrazia, di comunità, uguaglianza e libertà. L’ossessione

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del terrorismo, in particolare, porta alla costituzione di una società militarizzata e paranoica che influenza ogni aspetto della vita dal divertimento all’educazione, dalle politiche sulla sicurezza al nostro relazionarci con gli altri, soprattutto con quelli che sono ‘diversi’ da noi». Negli anni Settanta, Paul Virilio prefigurava un futuro fatto di “Stati ai minimi termini” concentrati sulla privatizzazione di ogni aspetto della vita favorendo l’emergere di “società recintate”. A oggi, quanto è avanzato questo processo in Italia? «Io non sono un esperto della politica e della storia italiana, ma l’Italia continua a produrre oggetti molto interessanti in termini di “estetizzazione della vita politica” e di “consumismo militarizzato” (si pensi per esempio ai caschi per moto prodotti dalla Diesel che sembrano disegnati per un pilota di jet o al fatto che Armani presti la sua matita per disegnare le uniformi della polizia). Non c’è dubbio che in Italia si stia incoraggiando un tipo di sicurezza su base privata e individuale: come dimostra l’impiego dei vigilantes per garantire l’ordine e la sicurezza a Milano e in altre città». A proposito, sa che durante la parata militare del 2 giugno ai Fori Imperiali, la sicurezza è stata affidata a una compagnia di vigilanza privata e non ai soldati dell’esercito? «Non ci posso credere. Ma ciò conferma quanto ho appena detto».

Paul Virilio Nasce a Parigi il 4 gennaio 1932. È filosofo di fama internazionale, scrittore, urbanista e teorico culturale. Profondamente influenzato dalla guerra lampo e dalla guerra totale, durante il secondo conflitto mondiale ha plasmato la sua comprensione del movimento e della velocità che struttura la società moderna. “Velocity” è la parola chiave del suo pensiero, il tesoro post-moderno, e la capitale della società moderna. È autore di molti libri tra cui: War and Cinema: The Logistics of Perception (Verso, 1989) e Strategy of Deception (Verso, 2000).

Walter Benjamin Nasce a Berlino il 15 luglio 1892 in una famiglia alto-borghese di origine ebraica. Il suo pensiero sostiene la necessità che le classi rivoluzionarie sappiano svolgere il loro compito teorico e pratico senza cullarsi nell’illusione di riforme graduali e indolori, ma assumendo invece una responsabilità epocale: quella di capire e far capire che viviamo in uno “stato di emergenza”.

Tra il 1930 e il 1940, Walter Benjamin ha approfondito in ogni suo aspetto l’estetizzazione della vita politica nella Germania nazista analizzando i possibili risvolti di una manipolazione della vita reale. Cosa vedrebbe oggi Benjamin esaminando, invece, l’attrazione degli italiani per un determinato tipo di consumismo? «Se Walter Benjamin fosse vivo, probabilmente avrebbe sostenuto che la militarizzazione del consumo rivela qualcosa di molto più oscuro presente nella società italiana. Ma io non credo che gli italiani siano attratti da questo tipo di consumismo molto più degli inglesi, degli americani o dei francesi». Ci può fare qualche esempio di consumismo militarizzato? «Di esempi ce ne sono tantissimi. Alcuni sono molto espliciti e facilmente riconducibili al mondo militare, tipo i caschi della Diesel, i Suv Hummer o tutta l’industria del videogioco tipo Modern Warfare 2. Altri hanno un richiamo molto più sottile, subliminale: per esempio quando alcuni capi di abbigliamento hanno dei dettagli che ci ricordano le uniformi militari. Ma ciò che credo sia veramente interessante è il “mercato della protezione” che mira a entrare nella vita di tutti i giorni. Molti di questi oggetti fanno ricorso alle più avanzate tecnologie: si pensi ai tagging devices utilizzati per sorvegliare i propri figli, o ai produttori di giubbotti antiproiettile che firmano anche capi di abbigliamento, o ancora applicazioni di prodotti tipo iPad che permettono, in caso di furto, di individuare la propria automobile. Ciò che preoccupa è che questi

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strumenti, che una volta venivano considerati paranoici ed estremi, siano diventati normali. In una società individualistica è molto facile che sicurezza e protezione individuale possano essere maggiormente accettate. Non dovremmo sottovalutare la capacità dei media, dei politici e delle corporation di manipolare le nostre paure e i nostri desideri. Allo stesso tempo dobbiamo stare attenti affinché nel nostro consumismo del divertimento non passi l’idea di guerra e violenza come qualcosa capace di intrattenere: guidare un drone in Modern Warfare 2 per Playstation 3 è qualcosa di molto vicino alla realtà. Questo tipo di consumismo contribuisce a banalizzare il concetto di violenza e di guerra all’interno della nostra società. E questo è lo stesso avvertimento che lanciava Walter Benjamin mentre il fascismo prendeva piede in Europa». Come è cambiata l’Italia, se è cambiata, agli occhi di un intellettuale britannico? «Ciò che trovo preoccupante in Italia è che si continua a dimenticare il proprio passato. Nel 2009 ho visitato a Milano una mostra dedicata al Futurismo, aspettandomi di trovare anche qualche informazione sui rapporti tra questa corrente culturale e il fascismo. Niente di tutto questo: forse ciò non vuol dire nulla. Ma un mese prima ero stato in vacanza sul lago di Como e ho notato che nei negozi era possibile acquistare ogni tipo di souvenir con l’immagine di Mussolini: magneti, foto, piatti. Questi prodotti sono spariti dai negozi non appena è iniziata ufficialmente la stagione turistica. Questa è una tendenza molto preoccupante, non solo per l’Italia ma per tutti quegli Stati che cancellano la storia rendendola romantica con una buona dose di arroganza. Dall’altro lato, devo dire che sono rimasto impressionato dalla qualità delle librerie e degli editori italiani e dalla facilità con la quale si possono trovare, più facilmente che in altri Paesi, degli studi molto interessanti. Quindi c’è ancora speranza. Una delle più brutte immagini che io


abbia mai visto negli ultimi anni è la foto di una famiglia su una spiaggia italiana, rilassata al sole, non lontana dal cadavere di un immigrato portato a riva dalle onde. Ma questa indifferenza, a cui Zygmunt Bauman si riferisce con il termine “umanità di scarto” non è certamente riferibile solo all’Italia. Il pericolo più grande è che questo “privilegiato rifugiarsi” in una società paranoica che rincorre la sicurezza si traduca in indifferenza nei confronti di coloro che soffrono intorno a noi». Crede che l’Italia stia rischiando una svolta autoritaria? «Non sono sicuro che l’Italia sia così differente da altre nazioni ossessionate dal terrorismo, dall’immigrazione e da tutte le nuove fonti di insicurezza che nutrono le paranoiche politiche in Europa. Ciò che potrebbe penalizzare l’Italia è forse una apertura all’autoritarismo, alla corruzione politica e al razzismo. Ma può darsi che in Europa ci siano altre forme nascoste di controllo, anche più pericolose e insidiose, per le nostre vite».

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Nigeria

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo

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Sierra Leone

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Sicilia

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Brasile

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Romania

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Laos

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Acqua Agua Water Eau Wasser 520 14/20 Tx Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una

Dino Buzzati foto Ivo Saglietti Samuele Pellecchia Massimo Di Nonno di

situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. 7200 Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del

lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, líuno nella forma del lavoro oggettivato, líaltro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è líespressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dellíoperaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle) Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al

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Abbiamo visto

500 che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La


giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (5400 battute / 3 cartelle) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, líuno nella forma del lavoro oggettivato, líaltro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è líespressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dellíoperaio da parte del capitalista. (7200 battute/4 cartelle)

E

Nigeria foto

Ivo Saglietti

900Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio

Sicilia foto

Massimo Di Nonno

550 Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa

Romania foto

Luana Monte

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del

Brasile foto

Sierra Leone foto

Samuele Pellecchia

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del

Samuele Pellecchia

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto

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Laos foto

Ivo Saglietti

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani


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Casa dolce casa di

Dino Buzzati

illustrazioni di

Enki Bilal

1 novembre - Ostia

Pier Paolo Pasolini viene ucciso nella notte fra l’1 e il 2 novembre, sul lungomare di Ostia. Vedi http://www.reti-invisibili.net/pasolini/

5 e 6 novembre - Trieste

La polizia anglo-americana spara sui manifestanti a favore del ritorno della città all’Italia, uccidendo lo studente di 16 anni Pietro Addobbati e il lavoratore Antonio Zavadil. Il giorno successivo si registrano altri disordini, con l’uccisione di Saverio Montano, Erminio Bassa, Francesco Paglia e Leonardo Manzi. Diversi i feriti, di cui alcuni gravi.

11 novembre - Arezzo

Gabriele Sandri è in viaggio con amici per assistere a un incontro di calcio. In un autogrill vicino ad Arezzo un agente della Polstrada esplode un colpo di pistola dalla parte opposta della carreggiata, uccidendolo. I primi lanci di agenzia alludono a “scontri tra tifosi con un morto”, senza menzionare il poliziotto che ha sparato. Una mancanza di chiarezza che si trascina per ore, culminando in una conferenza stampa del Questore di Arezzo (che vieta ai giornalisti di porre domande), dove si accenna a due colpi in aria. La sentenza di primo grado ha condannato l’agente a sei anni di reclusione per omicidio colposo aggravato.

22 novembre - Roma

Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale.

24 novembre - Bondeno (FE)

Manifestazione per chiedere la gestione diretta del collocamento al lavoro: le forze di polizia aprono il fuoco uccidendo il contadino Fernando Ercolei.

28 novembre - Bari

Aggressione di un gruppo di squadristi ai danni di alcuni militanti di sinistra. Ad avere la peggio è Benedetto Petrone, giovane militante del PCI, accoltellato a morte.

29 novembre - Torremaggiore (FG) Comizio di protesta per delle violenze verificatesi il giorno precedente a San Severo. Le forze di polizia caricano i partecipanti facendo uso di armi da fuoco, uccidendo i braccianti Giuseppe La Medica e Antonio Lavacca.

29 novembre - Bagheria (PA)

I carabinieri intervengono nel corso di una manifestazione contadina, aprendo il fuoco e uccidendo la contadina Filippa Mollica Nardo.

2 dicembre - Avola

Sciopero generale a cui Avola partecipa in massa. I blocchi stradali effettuati sulla statale vedono uniti braccianti e operai. Da Catania arriva la celere, che spara lacrimogeni a cui i manifestanti replicano col lancio di sassi. La risposta delle forze dell’ordine è violenta e porta a un bilancio tragico: uccisi due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, decine i feriti.

6 dicembre - Casalecchio di Reno

Un aereo militare compie un esercitazione sorvolando il paese. Probabilmente vittima di problemi meccanici, perde quota e il pilota abbandona l’aereo, mentre questo precipita sulla succursale dell’Istituto Tecnico “Salvemini”. La Strage dell’Istituto Salvemini registra 12 vittime. Numerosi i feriti, fra cui molti subiranno invalidità permanenti. A tutt’oggi non ci sono colpevoli o responsabili per quella strage.

12 dicembre - Milano

Una bomba esplode all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura: è la strage di Piazza Fontana, snodo cruciale della strategia della tensione. Il bilancio iniziale è di 13 morti e un centinaio di feriti. Si aggrava nei giorni seguenti; un altro uomo morirà alcuni anni più tardi in conseguenza dell’attentato, portando il bilancio a 17 vittime. La diciottesima è il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura durante un interrogatorio, nella notte fra il 15 e il 16 dicembre.

12 dicembre - Milano

Nel primo anniversario della Strage di Piazza Fontan, nel corso delle cariche della polizia rimane colpito a morte da un candelotto lo studente Saverio Saltarelli.

14 dicembre - Montescaglioso (MT) Nel corso di un rastrellamento alla ricerca dei responsabili di alcune occupazioni di terre, avvenute nei giorni precedenti, i carabinieri uccidono il bracciante Giuseppe Novello.

23 dicembre - S. Benedetto Val di Sambro Il Rapido “904” proveniente da Napoli e diretto a Milano è pieno di viaggiatori. La maggior parte va a trovare i propri cari per le feste di Natale. Nella galleria di S. Benedetto Val di Sambro esplode la bomba: 15 morti e centinaia di feriti, molti gravissimi.

31 dicembre - Viareggio

Movimento studentesco e Potere operaio di Pisa organizzano una manifestazione di protesta davanti alla Bussola delle Focette, dove si svolge il veglione di Capodanno. Alla protesta risponde una carica di carabinieri, con esplosione di colpi d’arma da fuoco. Viene colpito alla schiena Soriano Ceccanti, 17 anni: resta paralizzato.

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1 novembre - Ostia

Pier Paolo Pasolini viene ucciso nella notte fra l’1 e il 2 novembre, sul lungomare di Ostia. Vedi http://www.reti-invisibili.net/pasolini/

5 e 6 novembre - Trieste


La polizia anglo-americana spara sui manifestanti a favore del ritorno della città all’Italia, uccidendo lo studente di 16 anni Pietro Addobbati e il lavoratore Antonio Zavadil. Il giorno successivo si registrano altri disordini, con l’uccisione di Saverio Montano, Erminio Bassa, Francesco Paglia e Leonardo Manzi. Diversi i feriti, di cui alcuni gravi.

11 novembre Arezzo

Gabriele Sandri è in viaggio con amici per assistere a un incontro di calcio. In un autogrill vicino ad Arezzo un agente della Polstrada esplode un colpo di pistola dalla parte opposta della carreggiata, uccidendolo. I primi lanci di agenzia alludono a “scontri tra tifosi con un morto”, senza menzionare il poliziotto che ha sparato. Una mancanza di chiarezza che si trascina per ore, culminando in una conferenza stampa del Questore di Arezzo (che vieta ai giornalisti di porre domande), dove si accenna a due colpi in aria. La sentenza di primo grado ha condannato l’agente a sei anni di reclusione per omicidio colposo aggravato.

22 novembre - Roma

Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale.

24 novembre - Bondeno (FE)

Manifestazione per chiedere la gestione diretta del collocamento al lavoro: le forze di polizia aprono il fuoco uccidendo il contadino Fernando Ercolei.

28 novembre - Bari

Aggressione di un gruppo di squadristi ai danni di alcuni militanti di sinistra. Ad avere la peggio è Benedetto Petrone, giovane militante del PCI, accoltellato a morte.

29 novembre - Torremaggiore (FG) Comizio di protesta per delle violenze verificatesi il giorno precedente a San Severo. Le forze di polizia caricano i partecipanti facendo uso di armi da fuoco, uccidendo i braccianti Giuseppe La Medica e Antonio Lavacca.

29 novembre - Bagheria (PA)

I carabinieri intervengono nel corso di una manifestazione contadina, aprendo il fuoco e uccidendo la contadina Filippa Mollica Nardo.

2 dicembre - Avola

Probabilmente vittima di problemi meccanici, perde quota e il pilota abbandona l’aereo, mentre questo precipita sulla succursale dell’Istituto Tecnico “Salvemini”. La Strage dell’Istituto Salvemini registra 12 vittime. Numerosi i feriti, fra cui molti subiranno invalidità permanenti. A tutt’oggi non ci sono colpevoli o responsabili per quella strage.

12 dicembre - Milano

Una bomba esplode all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura: è la strage di Piazza Fontana, snodo cruciale della strategia della tensione. Il bilancio iniziale è di 13 morti e un centinaio di feriti. Si aggrava nei giorni seguenti; un altro uomo morirà alcuni anni più tardi in conseguenza dell’attentato, portando il bilancio a 17 vittime. La diciottesima è il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura durante un interrogatorio, nella notte fra il 15 e il 16 dicembre.

12 dicembre - Milano

Nel primo anniversario della Strage di Piazza Fontan, nel corso delle cariche della polizia rimane colpito a morte da un candelotto lo studente Saverio Saltarelli.

14 dicembre - Montescaglioso (MT) Nel corso di un rastrellamento alla ricerca dei responsabili di alcune occupazioni di terre, avvenute nei giorni precedenti, i carabinieri uccidono il bracciante Giuseppe Novello.

23 dicembre - S. Benedetto Val di Sambro Il Rapido “904” proveniente da Napoli e diretto a Milano è pieno di viaggiatori. La maggior parte va a trovare i propri cari per le feste di Natale. Nella galleria di S. Benedetto Val di Sambro esplode la bomba: 15 morti e centinaia di feriti, molti gravissimi.

31 dicembre - Viareggio

Movimento studentesco e Potere operaio di Pisa organizzano una manifestazione di protesta davanti alla Bussola delle Focette, dove si svolge il veglione di Capodanno. Alla protesta risponde una carica di carabinieri, con esplosione di colpi d’arma da fuoco. Viene colpito alla schiena Soriano Ceccanti, 17 anni: resta paralizzato.

Sciopero generale a cui Avola partecipa in massa. I blocchi stradali effettuati sulla statale vedono uniti braccianti e operai. Da Catania arriva la celere, che spara lacrimogeni a cui i manifestanti replicano col lancio di sassi. La risposta delle forze dell’ordine è violenta e porta a un bilancio tragico: uccisi due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, decine i feriti.

6 dicembre - Casalecchio di Reno

Un aereo militare compie un esercitazione sorvolando il paese.

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Un fisico bestiale di Xxxxx Marras

questioni fondamentali 10/14 B Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle)

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Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che


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Danni collaterali di

Dino Buzzati

illustrazioni di

Enki Bilal

Afghanistan 5 e 6 novembre - Afghanistan 1 novembre -

Pier Paolo Pasolini viene ucciso nella notte fra l’1 e il 2 novembre, sul lungomare di Ostia. Vedi http:// www.reti-invisibili.net/pasolini/ucciso nella notte fra l’1 e il 2 novembre, sul lungomare di Ostia.

La polizia anglo-americana spara sui manifestanti a favore del ritorno della città all’Italia, uccidendo lo studente di 16 anni Pietro Addobbati e il lavoratore Antonio Zavadil. Il giorno successivo si registrano altri disordini, con l’uccisione di Saverio Montano, Erminio Bassa, Francesco Paglia e Leonardo Manzi. Diversi i feriti, di cui alcuni gravi.

11 novembre -

Sudan

Gabriele Sandri è in viaggio con amici per assistere a un incontro di calcio. In un autogrill vicino ad Arezzo un agente della Polstrada esplode un colpo di pistola dalla parte opposta della carreggiata, uccidendolo. I primi lanci di agenzia alludono a “scontri tra tifosi con un morto”, senza menzionare il poliziotto che ha sparato. Una mancanza di chiarezza che si trascina per ore, culminando in una conferenza stampa del Questore di Arezzo (che vieta ai giornalisti di porre domande), dove si accenna a due colpi in aria. La sentenza di primo grado ha condannato l’agente a sei anni di reclusione per omicidio colposo aggravato.

14 novembre -

Iraq

Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale.

15 novembre -

Filippine

Sciopero generale a cui Avola partecipa in massa. I blocchi stradali effettuati sulla statale vedono uniti braccianti e operai. Da Catania arriva la celere, che spara lacrimogeni a cui i manifestanti replicano col lancio di sassi. La risposta delle forze dell’ordine è violenta e porta a un bilancio tragico: uccisi due braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, decine i feriti.

20 novembre -

Somalia

Un aereo militare compie un esercitazione sorvolando il paese. Probabilmente vittima di problemi meccanici, perde quota e il pilota abbandona l’aereo, mentre questo precipita sulla succursale dell’Istituto Tecnico “Salvemini”. La Strage dell’Istituto Salvemini registra 12 vittime. Numerosi i feriti, fra cui molti subiranno invalidità permanenti. A tutt’oggi non ci sono colpevoli o responsabili per quella strage. La polizia anglo-americana spara sui manifestanti a favore del ritorno della città all’Italia, uccidendo lo studente di 16 anni Pietro Addobbati e il lavoratore Antonio Zavadil. Il giorno successivo si registrano altri disordini, con l’uccisione di Saverio Montano, Erminio Bassa, Francesco Paglia e Leonardo Manzi. Diversi i feriti, di cui alcuni gravi.

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Afghanistan

23 novembre -

Una bomba esplode all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura: è la strage di Piazza Fontana, snodo cruciale della strategia della tensione. Il bilancio iniziale è di 13 morti e un centinaio di feriti. Si aggrava nei giorni seguenti; un altro uomo morirà alcuni anni più tardi in conseguenza dell’attentato, portando il bilancio a 17 vittime. La diciottesima è il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della questura durante un interrogatorio, nella notte fra il 15 e il 16 dicembre.

24 novembre -

Thailandia

Manifestazione per chiedere la gestione diretta del collocamento al lavoro: le forze di polizia aprono il fuoco uccidendo il contadino Fernando Ercolei.

28 novembre -

Iraq

Aggressione di un gruppo di squadristi ai danni di alcuni militanti di sinistra. Ad avere la peggio è Benedetto Petrone, giovane militante del PCI, accoltellato a morte. Gabriele Sandri è in viaggio con amici per assistere a un incontro di calcio. In un autogrill vicino ad Arezzo un agente della Polstrada esplode un colpo di pistola dalla parte opposta della carreggiata, uccidendolo. I primi lanci di agenzia alludono a “scontri tra tifosi con un morto”, senza menzionare il poliziotto che ha sparato. Una mancanza di chiarezza che si trascina per ore, culminando in una conferenza stampa del Questore di Arezzo (che vieta ai giornalisti di porre domande), dove si accenna a due colpi in aria. La sentenza di primo grado ha condannato l’agente a sei anni di reclusione per omicidio colposo aggravato. Gabriele Sandri è in viaggio con amici per assistere a un incontro di calcio. In un autogrill vicino ad Arezzo un agente della Polstrada esplode un colpo di pistola dalla parte opposta della carreggiata, uccidendolo. I primi lanci di agenzia alludono a “scontri tra tifosi con un morto”, senza menzionare il poliziotto che ha sparato. Una mancanza di chiarezza che si trascina per ore, culminando in una conferenza stampa del Questore di Arezzo (che vieta ai giornalisti di porre domande), dove si accenna a due colpi in aria. La sentenza di primo grado ha condannato l’agente a sei anni di reclusione per omicidio colposo aggravato. Gabriele Sandri è in viaggio con amici per assistere a un incontro di calcio. In un autogrill vicino ad Arezzo un agente della Polstrada esplode un colpo di pistola dalla parte opposta della carreggiata, uccidendolo. I primi lanci di agenzia alludono a “scontri tra tifosi con un morto”, senza menzionare il poliziotto che ha

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Etiopia

Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale. Manifestazione convocata in solidarietà con il Movimento di liberazione nazionale dell’Angola. Alcuni ragazzi si staccano dal corteo per dirigersi verso l’ambasciata dello Zaire, dove intendono dare vita ad una protesta simbolica per poi tornare dentro la manifestazione. Arrivati in prossimità dell’ambasciata, sono fronteggiati dalle forze dell’ordine, che esplodono numerosi colpi di arma da fuoco ad altezza d’uomo. Piero Bruno, 18 anni, colpito alla schiena, resta a terra. Muore il pomeriggio successivo, piantonato in ospedale.

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Afghanistan

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I carabinieri intervengono nel corso di una manifestazione contadina, aprendo il fuoco e uccidendo la contadina Filippa Mollica Nardo. trascina per ore, culminando in una conferenza stampa del Questore di Arezzo (che vieta ai giornalisti di porre domande), dove si accenna a due colpi in aria. La sentenza di primo grado ha condannato l’agente a sei anni di reclusione per omicidio colposo aggravato.


Bari-Matera. In mezzo, un mare di grano di

Dino Buzzati

foto

Fausto Giaccone

24/26 B Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi 9/13 B Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con

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ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice


Abbiamo visto

che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al

coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo

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pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle) Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro


col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (5400 battute / 3 cartelle)

Abbiamo visto

che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del

Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (7200 battute/4 cartelle) 9/13 B Abbiamo visto che l’operaio durante una

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sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella)

tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza

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lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle)Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrreSe egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero


Hotel Mogadiscio Mario Bianchi foto Francesco Cito di

Roma

16/26 GaB Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. GaB 9/13 PoichĂŠ egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una


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che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda

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del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero


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Abbiamo visto

che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una

della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella)

Chiamo dunque tempo di lav

dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso

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crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempvoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, líuno nella forma del lavoro oggettivato, lio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariatvoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, líuno nella forma del lavoro oggettivato, lo. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, líuno nella forma del lavoro oggettivato, líaltro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è líespressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dellíoperaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle) Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non pro

deve lavorare in media sei

La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte e del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che riproduzione. (5400 battute / 3 cartelle) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli

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durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore

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dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve

Chiamo dunque tempo di la

necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazionro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempvoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, líuno nella forma del lavoro oggettivato, lio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariatvoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, líuno nella forma del lavoro oggettivato, lo. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, líuno nella forma del lavoro oggettivato, líaltro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è líespressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dellíoperaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle) Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non pro

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non

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deve lavorare in media sei

La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore


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che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi

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la produzione. Ma poiché nella parte e del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che riproduzione. (5400 battute / 3 cartelle) e dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato.

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Piccoli mostri metropolitani di

Piero Colaprico

illustrazioni di

Enki Bilal

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è

14/20 Tx Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. 10/14 Tx Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. rebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per l GaB 10/14 La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappre-

senta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poteralo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla

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Piccoli mostri metropolitani

forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro

e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle) Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce diret-

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tamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della

propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (5400 battute / 3 cartelle) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di

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Piccoli mostri metropolitani

essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (7200 battute/4 cartelle)

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è

9/13 B Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa

parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (9000 battute / 5 cartelle) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (10800 battute/6 cartelle) Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute)

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Piccoli mostri metropolitani Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è

deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (5400 battute / 3 cartelle) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (7200 battute/4 cartelle)lore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (5400 battute / 3 cartelle) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e

per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per conoscere il pluslavoro, è altrettanto decisivo intenderlo come puro e semplice coagulo di (900 battute) tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavo-

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ro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (7200 battute/4 cartelle)lore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (5400 battute / 3 cartelle) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riprodu-

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9/12 Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media

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operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato

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processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso


processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, 9/12 Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per

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Titolo mini intervista operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della

giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1

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Architettura

Musica 10/13 Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del

Brevi

processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce 9/12 Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre,

Titolo mini intervista

operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato

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eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile


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Design Web

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risponde

Dino Buzzati

emergency 9/12 Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del

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Titolo altro

processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di

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Titolo altro

processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro,

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Emergency numeri


la posta del cuore risponde

Dino Buzzati

tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle) Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per icapitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice

Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la

Quindi, il saggio

Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma

Quindi, il saggio tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto

K Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento.

Quindi, il saggio cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quinl’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle)

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi

C Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma

Quindi, il saggio di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe p

I Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I lavoro in movimento.

Quindi, il saggio scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei

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ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve l

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Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I Quindi, il saggio avorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per icapitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza

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e del fegato risponde

i viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento.

Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la

Quindi, il saggio di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè

tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto

tempo di lavoro soverchio, come pluslavoro semplicemente oggettivato, quanto è decisivo, per conoscere il valore in generale, intenderlo come puro e semplice coagulo di tempo di lavoro, come semplice lavoro oggettivato. Solo la forma in cui viene spremuto al produttore immediato, al lavoratore, questo pluslavoro, distingue le formazioni economiche della società; per esempio, la società della schiavitù da quella del lavoro salariato. Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’operaio da parte del capitalista. (3600 battute/2 cartelle) Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli

Quindi, il saggio

Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma

Quindi, il saggio

Z Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento.

Quindi, il saggio cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma del lavoro oggettivato, l’altro nella forma del lavoro in movimento. Quindi, il saggio del plusvalore è l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza lavoro da parte del capitale, cioè dell’op

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Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi

S Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I due rapporti esprimono la stessa relazione in forma differente, l’uno nella forma

Quindi, il saggio di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo

C Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I lavoro in movimento.

Quindi, il saggio scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo

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Dino Buzzati

di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve l

W Il plusvalore sta al capitale variabile nello stesso rapporto in cui il pluslavoro sta al lavoro necessario. I

Quindi, il saggio avorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per icapitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (5400 battute / 3 cartelle) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente

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Teatro delle operazioni di Gino Strada

Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente

Ahmed, 10 anni, a Marghera 10/14 B Abbiamo visto che l’operaio durante una sezione del processo lavorativo produce solo il valore della propria forza lavoro, cioè il valore dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari. Poiché egli produce in una situazione che poggia sulla divisione sociale del lavoro, non produce direttamente i propri mezzi di sussistenza, ma li produce nella forma di una merce particolare, del refe per esempio, produce cioè un valore eguale al valore dei suoi mezzi di sussistenza, ossia eguale al denaro col quale li compera. La parte della giornata lavorativa ch’egli consuma a questo scopo è maggiore o minore a seconda del valore della media quotidiana dei mezzi di sussistenza che gli sono necessari, dunque a seconda del tempo di lavoro medio richiesto per la loro produzione. Se il valore dei mezzi di sussistenza quotidiani dell’operaio rappresenta sei ore lavorative oggettivate, l’operaio (900 battute) deve lavorare in media sei ore al giorno per poterlo produrre. Se egli non lavorasse per il capitalista, ma per se stesso, indipendente, l’operaio dovrebbe sempre, eguali rimanendo le altre circostanze, lavorare in media ancora per la stessa parte aliquota della giornata, per produrre il valore della propria forza lavoro, e con ciò ottenere i mezzi di sussistenza necessari per il proprio mantenimento, cioè per la propria continua riproduzione. Ma poiché nella parte della giornata lavorativa nella quale produce il valore giornaliero della forza lavoro, dicansi tre scellini, l’operaio produce soltanto un equivalente del valore della forza lavoro già pagato dal capitalista, poiché dunque, col valore di una creazione, non fa che reintegrare il valore variabile di capitale anticipato, quella produzione di valore si presenta come pura e semplice riproduzione. (1800 battute / 1 cartella) Chiamo dunque tempo di lavoro necessario la parte della giornata lavorativa nella quale si svolge questa riproduzione; chiamo lavoro necessario il lavoro speso durante di essa. Necessario per l’operaio, perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e per il mondo del capitale, perché la loro base è l’esistenza costante dell’operaio. All’operaio, il secondo periodo del processo lavorativo, nel quale egli sgobba oltre i limiti del lavoro necessario, costa certo lavoro, dispendio di forza lavoro, ma per lui non crea nessun valore. Esso crea plusvalore, che sorride al capitalista con tutto il fascino d’una creazione dal nulla. Chiamo tempo di lavoro soverchio questa parte della giornata lavorativa e pluslavoro (surplus labour) il lavoro speso in esso. Per

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«Il capro espiatorio è un’appassionante variazione sul tema del doppio condotta da una romanziera di classe.» Irene Bignardi, la Repubblica

€ 17,00 pp. 384

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