
10 minute read
Intervista alla Bellanova: «La lib ertà delle donne è adesso!»
MARIA PIA ROMANO
“Un dato è ass o luta men t e certo: non possiamo aspettare il 2156 per una vera parità del genere nel nostro Paese. Dobbiamo correre, correre, correre. E soprattutto guardare al Recovery come un’occasione straordinaria per incidere su tutti i punti di criticità in fatto di occupazione femminile e diritto delle donne al lavoro. La libertà e l’autonomia delle donne sono adesso. Il da fare è chiaro: questo obiettivo deve essere trasversale a tutti gli assi che caratterizzano il rilancio del Paese e i risultati andranno costantemente monitorati per essere nella condizione di rafforzare e correggere anche in corso d’opera la strategia messa in campo”. Teresa Bellanova, viceministra alle infrastrutture e mobilità sostenibili, presidente di Italia Viva, non ha dubbi: serve un nuovo welfare per sostenere, rilanciare, implementare l’occupazione femminile nel nostro Paese, ridurre il gender gap, garantire alle donne, a tutte le donne, di poter essere valore aggiunto dovunque, in tutti i settori sociali, economici, produttivi, nei gangli istituzionali come nei luoghi della politica.
Advertisement
Vice Ministra Bellanova, i dati Eurostat diffusi in questi giorni sono preoccupanti: vera parità di genere nel nostro Paese non prima del 2156. A causa della pandemia che ha colpito duramente soprattutto l’occupazione femminile.
Preoccupanti è dire poco. Confermano
«La libertà delle donne è adesso!»
quanto già altri Osservatori autorevoli ci hanno restituito: le donne hanno pagato e rischiano di continuare a pagare, se non metteremo in campo strategie e strumenti adeguati, il prezzo più alto della pandemia e lo scotto di un Paese che non riesce a ribaltare un paradigma antichissimo e fuorviante.
Quale?
Abbiamo sempre detto, ed è comodo pensare, che la penalizzazione delle donne sul mercato del lavoro fosse l’esito della crisi economica che nei decenni scorsi si è abbattuta sul nostro Paese. E’ vero esattamente l’opposto: fra i motivi della crisi economica, la carenza delle donne è una causa, non un esito. E d’altra parte non smette di dircelo l’Ocse: una bassa occupazione femminile è un pesantissimo freno alla crescita.
Le analisi Eurostat sono recenti ma in questi mesi, come lei dice, anche da altri Osservatori autorevoli sono arrivate stime e valutazioni preoccupanti.
Intanto è bene ricordare come questa debolezza non la scopriamo certo oggi. La pandemia ha aggravato e ampliato uno stato di cose. Già nei mesi scorsi l’allarme lo avevano lanciato le Consulenti del lavoro, avvertendo come tra aprile e settembre fossero 402mila i posti di lavoro persi dalle donne in Italia a causa della pandemia. Poi sono arrivati
«La libertà delle donne è adesso!»
i dati congiunturali Istat di dicembre: 101mila lavoratori in meno registrati a fine 2020, di cui 99mila donne. Quindi la perdita rilevante di lavoro femminile è stata confermata anche dalla nota congiunta Banca d’Italia-Ministero del Lavoro, che ha indicato come tra marzo 2020 e febbraio 2021 i posti di lavoro delle donne, a differenza di quelli maschili aumentanti per 44mila unità, fossero diminuiti di 76.000 unità, con 120.000 posizioni in meno; e quanto sulla minore partecipazione delle donne incidesse anche le difficoltà di conciliazione tra attività lavorativa e carichi familiari. In ultimo, il milione di posti di lavoro perduti nel 2020, stime Istat, e l’altissima percentuale di imprese che ritiene compromessa la possibilità di sopravvivenza: due dati che, se incrociati, sono significativi soprattutto per l’occupazione femminile. Posti di lavoro perduti, si badi bene, nonostante il blocco dei licenziamenti, segno evidente che quanto a lavoro delle donne c’è una doppia fragilità, dovuta ai segmenti coinvolti, dal manifatturiero ai servizi; alle tipologie contrattuali; alla difficoltà e in alcuni casi impossibilità della conciliazione tempi di vita-tempi di lavoro.
Elemento che proprio i dati Eurostat portano in prima linea.
Senza possibilità di equivoci. Il nostro Paese è al 63esimo posto su 153 nelle classifiche relative al divario di genere. Una donna su due non lavora, e quelle che lavorano guadagnano in media il 9% in meno dei colleghi uomini.
Tempi di vita-tempi di lavoro. Può essere lo smart working una delle soluzioni?
A sentire le donne che in questi mesi hanno lavorato da casa, sembrerebbe di no. La soluzione è una sola: politiche attive. Per le donne e le nuove generazioni soprattutto, e per consentire la permanenza sul mercato del lavoro di chi il lavoro lo perde. Ma andiamo con ordine. Se il lavoro agile o lavoro a distanza è considerato uno strumento che può contribuire alla conciliazione, lo è perché aiuta a tenere insieme vita e lavoro: riducendo per esempio gli spostamenti per un’organizzazione più flessibile del tempo, o anche introducendo modalità più flessibili nella gestione del lavoro, sostiene e agevola la presenza delle donne e le loro prospettive di carriera. In questi mesi invece abbiamo registrato, proprio a causa della pandemia, una sovrapposizione e

una confusione tra smartworking e telelavoro, con una diffusione a tappeto non del primo ma del secondo, molto più rigido. Il rischio evidente è di riportare le donne decine di passi indietro, rinchiudendole in un ambito esclusivamente domestico, a quel punto tornando ad essere divise tra cura della casa, cura dei figli, gestione della didattica a distanza, qualità dell’impiego, legittime aspirazioni professionali. La conferma ci viene peraltro da una indagine Inps condotta tra agosto e settembre 2020: le donne che scelgono di lavorare da casa si sentono cristallizzate nella tradizionale divisione dei ruoli all’interno delle famiglie, con risultati critici quanto a benessere, produttività, prospettive di lavoro professionale. Il che come si intuisce non agevola e determina una distribuzione impari dei vantaggi e degli svantaggi, tanto da piacere, ci dice l’indagine, soprattutto agli uomini.
Significherebbe un passo indietro pericolosissimo.
Che non possiamo né vogliamo subire. An drebbero in fumo anni e anni di battaglia e di impegno delle donne e delle forze politiche più avvedute e riformiste. Meno autonomia e libertà delle donne significa rischio di maggiore violenza di genere, anche domestica, meno possibilità di autodeterminarsi nelle scelte; una società più povera e più asfittica, una democrazia rachitica.
Può aiutare, secondo lei, il welfare di secondo livello, con singoli accordi nelle singole aziende?
E’ uno strumento sicuramente utile e importante ma qui c’è bisogno di una strategia complessiva e di nuovi innovativi strumenti per favorire l’ingresso e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro in tutti i settori produttivi. L’accordo siglato tra Autostrade per l’Italia e parti sociali che riconosce ai lavoratori delle società in smart working e con figli occupati nella didattica a distanza di potersi staccare temporaneamente dalle connessioni di computer e telefonino per seguire i figli è un segnale interessante che aiuta appunto a mettere a fuoco la contraddizione e la difficoltà in cui si dibattono soprattutto le donne. Noi dobbiamo essere capaci di affrontare e dirimere quella contraddizione. Se la pandemia porterà ancora donne, soprattutto, e uomini a lavorare da casa, sarà obbligatorio affinare e integrare gli strumenti e i perché la conciliazione vita – lavoro, anche nelle case, e finché l’emergenza sanitaria lo rende necessario, sia a misura di donna. Di tutte le donne, e quindi con una flessibilità delle opzioni e un ampio raggio delle soluzioni.
Sta pensando alle ricadute positive che avrà il Family Act?
Il Family Act è uno degli strumenti strategici e in questo il passaggio dei Decreti attuativi sarà determinante, al Governo e nel Parlamento. L’obiettivo che abbiamo è la messa in campo di una tastiera ampia e flessibile, capace di rispondere pienamente ai bisogni delle donne e al diritto di una totale conciliazione vita-lavoro. Piena occupazione, sostegno familiare, incentivi al lavoro femminile, pari dignità e pari opportunità sono obiettivi irrinunciabili. Per le donne e per gli uomini. Che possono essere i nostri migliori alleati. La piena inclusione delle donne nel mondo del lavoro va di pari passo con la creazione di una società più inclusiva e giusta e di un nuovo welfare. Non possiamo aspettare e mai come in questo caso bruciare le tappe è una priorità assoluta per il Paese.
Che libro (romanzo, poesia, saggio o altro) consiglia a chi vuol approfondire il complesso rapporto tra donne e lavoro o, più in generale, addentrarsi nell’universo femminile.
Le posso dire quello che sto leggendo in questo momento e che sto trovando bello e coinvolgente: “Il cambiamento che meritiamo”, di Rula Jebreal. Bello perché Rula mette a fuoco il valore e la forza dell’alleanza e delle reti tra donne, che “insieme possono” e perché focalizza quella verità che ognuna di noi custodisce ma che magari non riusciamo a dire con nettezza, specialmente quando si è vittime di violenza, fisica o meno: noi meritiamo il cambiamento. Che è fatto delle storie di ognuna e di come siamo capaci di farle circolare. Mi ha colpito molto una citazione da Chimamanda Ngozi Adichie: “raccontare un’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi ma che sono incompleti: trasformano una storia in un’unica storia”.


Nel devastante anno della pandemia Covid, il virus del gender gap aggredisce pesantemente il già debilitato sistema occupazione femminile in Italia, che ha fatto emergere tutta la sua fragilità e precarietà, sopratutto sul fronte della conciliazione vitalavoro. Su 100 posti di lavoro persi in Europa quelli femminili sono 46, mentre in Italia sono 56. È quanto emerge dal report “Occupazione femminile: si allarga il divario con l’Europa”, realizzato dalla Fondazione Studi Consulenti del Lavoro in occasione della giornata internazionale dei diritti della donna.
“È fondamentale, specie in questo particolare momento storico, introdurre misure per rilanciare il livello di partecipazione delle donne e il rafforzamento delle posizioni lavorative ricoperte” spiega la Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, Marina Calderone. “Per farlo sarà necessario, da un lato, potenziare l’offerta e l’accessibilità ai servizi che favoriscono la conciliazione vitalavoro e, dall’altro, favorire l’innalzamento dei livelli di istruzione femminile e di conseguenza le loro competenze al fine di potenziare la loro capacità contrattuale”, evidenzia la Presidente.
Tra aprile e settembre 2020 l’Italia ha perso 402 mila occupate rispetto all’anno precedente, registrando una perdita doppia a quella europea. Rispetto ad una riduzione del 2,1% in Europa, infatti, nel nostro Paese si registra una contrazione del 4,1% delle lavoratrici tra i 15 e 64 anni. In Italia il differenziale di genere nell’impatto della crisi risulta essere più elevato, con un gap di ben 1,7 punti percentuali tra uomini e donne. Tale dato non ha pari in Europa, dove in media uomini e donne registrano la stessa contrazione occupazionale (-2,1%). Oltre alla scarsa partecipazione al mercato del lavoro, inoltre, in Italia la condizione occupazionale delle donne sconta una condizione di fragilità che finisce per renderle più esposte ai rischi di espulsione rispetto agli uomini e alle colleghe di altri Paesi. L’Italia registra tra le 15- 64enni ancora una bassa presenza di donne tra le professioni a più elevata qualificazione. Su 100 occupate solo il 2,3% svolge una professione di carattere manageriale (in EU il 3,7%), il 19,7% una professionale e intellettuale (22,4% in EU), il 16,5% una tecnica (18,2% in EU): sommando queste tre componenti si arriva al 37,5%, valore molto più basso della media europea (44,4%). Ad essere state fortemente colpite dalla crisi anche le lavoratici autonome: tra aprile e settembre 2020 l’occupazione indipendente femminile è diminuita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente di 103 mila unità (-6,4%), praticamente il doppio di quella maschile. Un calo non registrato in altri Paesi comunitari (in media le autonome sono diminuite dell’1,6% e gli uomini dell’1,9%). Dal report e dal confronto europeo emerge anche un altro aspetto importante: la flessibilità del lavoro, sia contrattuale che oraria, nel nostro Paese ha un ruolo più penalizzante che funzionale alle esigenze delle lavoratrici.