ST7POM...............22.04.2005.............19:56:55...............FOTOC27 La Nuova
la Cultura
L’
intervista è appena finita, il taccuino degli appunti già messo da parte. È il momento dei saluti, assieme ai ringraziamenti all’ospite dell’incontro, lo scultore Pinuccio Sciola, che ha aperto le porte della sua casa di San Sperate per l’appuntamento con Pablo Volta, il fotografo italoargentino famoso per i reportage sui paesi del malessere negli anni Cinquanta e Sessanta. Solo allora dalla cartella che Volta ha portato con sé spunta un piccolo album con foto dei suoi anni parigini, più o meno dello stesso periodo delle inchieste sulla Sardegna. E allo stupore, nel cronista subentra la sensazione di un servizio mancato, il timore di aver bucato la notizia, anche dopo una chiacchierata di oltre un’ora con testimonianze eccezionali sulla Sardegna di cinquant’anni fa. Perché guardare quelle immagini, bellissime fra l’altro, è un po’ immergersi nella storia dell’arte e della cultura europea di quegli anni, quando Parigi era ancora un porto di mare per ogni tipo d’avanguardia. Davanti all’obiettivo di Pablo Volta sono passati artisti, poeti, scrittori, registi, attori: trovi Marcel Duchamp accanto a Man Ray, Marc Chagall, Salvador Dalì, Joan Mirò, Jean Harp, Alexander Calder, André Breton nella sua famosa casa con fare da imperatore (e tale era ancora, nella Parigi intellettuale di quegli anni), Le Corbusier; ci sono Louis Aragon, Jean Cocteau, Marguerite Duras, Eugène Ionesco, Pierre Klossowski, Françoise Sagan, Tristan Tzara, Giuseppe Ungaretti, Boris Vian. Ma anche una splendida Sofia Loren, Anna Magnani che ride in un bistrot, Flaiano con Fellini, Visconti in posa con due giovanissimi Alain Delon e Romy Schneider; o Cathy Barberian con Silvano Bussotti, poi Pierre Cardin. E tanti altri ancora. «Ma perché — dice Pablo Volta, un po’ stupito — le interessa anche questo?». E’ uno dei maggiori fotoreporter del Novecento, questo signore classe 1926 che ha scelto, ormai da vent’anni, la Sardegna come sua seconda patria (vive a San Sperate). Ha la saggezza di un uomo che ha girato e conosce il mondo, e la riservatezza di chi non ostenta trascorsi e amicizie importanti, che però saltano fuori così, naturalmente, tra un discorso e l’altro. Come quando dice che la moglie, rimasta a Parigi, dirige la fondazione Erik Satie, «sa, un musicista», come se non stesse parlando di uno dei più raffinati compositori del Novecento. O quando ricorda il libro fotografico realizzato proprio con Ornella, la moglie, su Breton e la sua casa-museo, diventato testimonianza preziosa quando in anni recenti quei tesori sono finiti all’asta. Pablo Volta è così: sembra che faccia finta di essersi trovato per caso, in tutti quei momenti cruciali del ’900, un po’ come lo Zelig di Woody Allen armato di macchina fotografica. È nato a Buenos Aires, ma soltanto la madre era argentina. Il padre, toscano, era lì al seguito della famiglia che si occupava di importazione di prodotti italiani. Sono tornati in Italia, a Roma, che Pablo aveva appena sei anni, e da allora in Argentina non c’è più andato. Il padre poi è diventato un grande inviato, ha lavorato alla Gazzetta del Popolo, La Stampa, Il Corriere della Sera, è stato corrispondente da Mosca, Berlino e Parigi. Finita la guerra, dove è stato partigiano appena diciottenne, Pablo inizialmente segue le orme paterne, lavora al quotidiano comunista Milano Sera, indeciso se diventare cronista o fotoreporter. Farà l’uno e l’altro, per un po’, con qualche incursione nel cinema: è assistente operatore in uno dei primi film di Fellini, Lo sceicco bianco. Sul set nasce l’amicizia con un altro grande della fotografia italiana, Franco Pinna, da allora
Ritratti
Sabato 23 aprile 2005
d’artista di Paolo Merlini
Un certo sguardo sul mondo L’album parigino di Pablo Volta, il fotografo famoso per i reportage nella Barbagia degli anni Cinquanta Accanto e sopra alcune immagini scattate da Pablo Volta In basso a sinistra, la stazione dei pullman di Nuoro nel 1954 e, sopra, Anna Magnani a Parigi In alto, da sinistra Marguerite Duras e Man Ray con Marcel Duchamp Qui sotto, il fotografo oggi
stretto collaboratore del regista. Insieme fondano la Fotografi Associati, la prima cooperativa di professionisti in Italia. Lavorano per giornali di sinistra, perlopiù, perché «la mia attività — dice — non è mai stata disgiunta dall’appartenza ad una fede politica, all’impegno e alla denuncia sociale». La collaborazione più duratura e prestigiosa è con Il mondo di Pannunzio, dove cura anche la rubrica Il mestiere di fotografo. «Ma allora — racconta — i fotografi venivano poco considerati, le immagini erano ritenute un semplice supporto dell’articolo, erano pagate poco e non venivano mai firmate. Ricordo che per un certo periodo la selezione delle foto, al Mondo, spettava a Ennio Flaiano, allora redattore capo. Andavo con una decina di immagini, e lui ne sceglieva sempre tre, non una di più né una di meno. Finiva che le altre gliele rifilavo la volta successiva e lui, preso da mille pensieri, non se ne accorgeva».
Davanti al suo obiettivo sono passati i maggiori protagonisti della scena culturale europea del Novecento. Il primo arrivo in Sardegna, l’amore per un’isola in cui ha scelto di vivere
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Ma i fotografi a Roma non se la passavano benissimo («un’immagine veniva pagata mille lire»), e a Pablo Volta non andava di fare il paparazzo. Così va a Parigi, dove viene assunto come operatore all’ufficio di corrispondenza della Rai, ma continua a collaborare con giornali e riviste. Nel 1963 è nell’Algeria che ha appena conquistato l’indipendenza dalla Francia. Insegna per otto mesi fotografia in un centro di formazione statale e lavora per il Fronte di liberazione nazionale. In mezzo a tutto questo c’è la Sardegna. Un’esperienza che cambierà la sua vita, come Pablo racconta in prima persona nel bel documentario che il regista Giovanni Columbu gli ha dedicato pochi mesi fa. «La prima volta è stata nel 1954, in dicembre. Dovevo illustrare Banditi a Orgosolo, l’inchiesta di Franco Cagnetta che era già stata pubblicata su Nuovi argomenti e doveva ancora diventare un libro, che però in Italia non uscì e venne invece pubblicato in Francia, anni dopo, quando il film omonimo di De Seta apparse in edizione francese». «Arrivai in nave a Olbia, e di lì — racconta — andai a Nuoro con la corriera. Il primo approccio con il mondo barbaricino, questo mondo così straordinario per me, lo ebbi alla stazione dei pullman di Nuoro. Era un porto di mare per tutti i paesi barbaricini, con le corriere che partivano scortate dalle jeep dei carabinieri o della polizia per evitare rapine. A Orgosolo mi si aprì veramente questo mondo antico di pastori. Avevo con me le lettere di Cagnetta per Peppino Marotto, il poeta, e Umberto Goddi, il barbiere del paese, che fungevano, diciamo così, da base logistica per chi come me arrivava a Orgosolo. Mi colpirono molto le donne, straordinarie, erano delle statue greche, con una dignità che non ho ritrovato altrove. E soprattutto mi colpì la loro indipendenza dagli uomini». Gli chiediamo allora se è d’accordo con quanto sosteneva Maria Pitzalis Picciaro in un saggio che negli anni Settanta suscitò un discreto interesse, In nome della madre. Ipotesi sul matriarcato barbaricino. «Non so bene cosa sia, questo matriarcato barbaricino, però le donne erano speciali», risponde. E il discorso scivola su Graziano Mesina, la cui madre è proprio la figura centrale di quel libro. «La famiglia di Mesina non l’ho potuta conoscere, perché ero in quello che si potrebbe chiamare il clan Muscau, che erano i comunisti, e con i Mesina non c’erano rapporti. Né io pensai di instaurarli». «Mesina — continua — l’ho conosciuto solo qualche mese fa, per caso, dopo la grazia. Sono andato a Nuoro dall’editore Ilisso, che sta curando una monografia su di me, e lui era là, per una semplice visita, mi è stato detto. Ci hanno presentato, lui ha mostrato di capire chi fossi, ma non sono sicuro che mi conoscesse davvero». A Orgosolo, Volta tornerà in diverse occasioni, sino al 1957, anno in cui realizza un famoso reportage a Mamoiada. «Sono stato il primo a fotografare il carnevale con i mamuthones — dice — Ne avevo sentito parlare come di un rito antico e misterioso, ma nessuno dei miei conoscenti che non fosse di Mamoiada c’era mai stato. Fu un’esperienza straordinaria, quelle foto fecero il giro del mondo. Allora i paesi barbaricini erano delle comunità molte chiuse al loro interno. Più di vent’anni dopo, in occasione di una mostra sulle mie foto del carnevale, proprio a Mamoiada, mi si avvicinò un uomo anziano. “Ricordo quando scattò queste foto — mi disse — perché quel giorno istranzos (forestieri, ma anche stranieri, ndr) eravate in due. Lei e una donna di Fonni”. È questa la Sardegna che mi ha fatto innamorare».