2015: Fuga da EXPO (racconto breve)

2015: Fuga da EXPO

Un racconto di Wine Ming

Ore 6:30 «Ce l’hai tu il biglietto?»

«Boh, fammi vedere. Sì, eccolo qui. Fresco fresco, stampato ieri sera in ufficio.»

«Come funziona, c’è un numero?»

«No, c’è uno di quei disegni strani che leggi con il cellulare.»

Sono le 6:30 del mattino, io e Anna siamo in coda da venti minuti. Davanti a noi, ad appena 50 metri, il varco d’ingresso, cancello D8.

Tutto intorno, l’EXPO si sta lentamente svegliando. Gli spazzini raccolgono cicche e resti di cono gelato spiaccicati sull’asfalto. Gli addetti alla sicurezza fumano la prima sigaretta di giornata e commentano le partite del turno infrasettimanale.

«Pensavo peggio. A leggere i titoli dei giornali sembrava che oggi tutto il mondo dovesse essere in coda qui.»

«Meglio, così ci facciamo un giro veloce in tutti i padiglioni e per le sette riusciamo a essere fuori, che dobbiamo andare a cena da mia madre.»

Che palle, spero che dentro non ci sia campo, quella è capace di iniziare a chiamare alle due del pomeriggio per chiedere se faremo ritardo.

«Mi piacerebbe portare qualche specialità orientale, magari poi facciamo un giro dalle parti della Mongolia, o della Cina. Che ne dici?»

«Ma se quella volta che abbiamo provato con il sushi tua madre si è alzata a metà cena per andare in bagno e non è più tornata...»

«Ma che c’entra dai, quella volta ci sarà stato qualche pesce avariato, non fare il cretino.»

Il cretino, io. E prendiamolo, allora, questo cibo orientale, così alla signora Luigina le prende un cagotto che se lo ricorda per un pezzo.

Anna ha negli occhi l’entusiasmo dell’emigrato appena sbarcato a New York. Da mesi telegiornali, giornali, riviste, il Papa, il Premier, i vicini di casa, i colleghi di lavoro... Tutti indistintamente non fanno altro che parlare dell’EXPO. I primi mesi era una gara tra chi lo vedeva chiuso in un mese e chi immaginava per l’Italia scenari da Grecia post-olimpica, trascinata in fondo al baratro da un flop catastrofico.

Poi il bombardamento pubblicitario ha fatto presa e nel palazzo, o forse nell’intero quartiere, solo io e Anna non siamo ancora stati qui.

Intanto alle mie spalle la coda per entrare è arrivata fino al tunnel della Metro, forse continua anche all’interno.

Ore 9:30 «Alzati, dai, che la fila si sta muovendo.»

«Cosa?»

Metto via le cuffie e mi alzo. Poco più in là sembra che ci sia del movimento, devono aver finalmente aperto i cancelli.

«Dai che sennò ci passano tutti davanti.»

La fila inizia a muoversi piano piano, un passo dopo l’altro, tipo processione religiosa. Mentre eravamo seduti e io cazzeggiavo con il cellulare, Anna ha fatto conoscenza con una coppia di Bollate Brianza. Luigi lavora alle Poste, Eleonora è casalinga, avevano un biglietto aperto ma sono riusciti a venire solo oggi perché prima Luigi doveva accudire l’anziana mamma malata.

«Condoglianze.»

«Grazie. Guarda, ovviamente ci dispiace tantissimo... è brutto dirlo ma da un certo punto di vista è stata anche una liberazione per tutti, a partire da mia madre.»

«Beh, certo, a volte questi mali...»

«E poi rischiavamo di non riuscire a usare i due biglietti, ce l’abbiamo fatta proprio oggi che è l’ultimo giorno utile!»

«Mi fa piacere...»

«Credo che mia madre sarebbe felice di vedere che siamo riusciti a entrare.»

Continuiamo a camminare lentamente in fila indiana, Prima si erano formate decine di file parallele. Poi, una volta superati i tornelli di ingresso, sono confluite in un’unica massa indistinta di folla che avanza strascicando i piedi.

«Dai che ci siamo, questa via lunghissima è il Decumano, come negli accampamenti romani.»

Anna avanza decisa, la sua determinazione è inalterata.

«Quello laggiù è il primo padiglione, il Qatar, guarda che bello!»

Sopra alle teste delle folla, vedo due torri cilindriche in mattoni. Mi chiedo come faremo ad entrare tutti. Anche Anna forse inizia a farsi la stessa domanda.

«Inizia a tenere un po’ la destra, sennò poi non riusciamo ad entrare nel padiglione.»

E’ una parola. Siamo compressi come pendolari all’ora di punta, ho già messo il portafoglio nella tasca davanti perché quello dietro continuava a toccarmi il culo, non so per quale motivo.

«Su facebook un mio amico ha scritto che oggi siamo in trecentomila!»

Luigi è raggiante, continua a fare foto alla folla e a pubblicarle su internet. Io vorrei morire.

Anzi, vorrei già essere a pranzo con mia suocera anche se non sono ancora le undici, stravaccato su un divano a bere Martini bianco e snocciolare olive.

Davanti c’è un gruppo di ragazzi in gita. Se ne fregano della coda, loro. Di sicuro sono felici di stare in questo casino anziché seduti ad un banco ad annoiarsi. Uno con il chiodo e una toppa con scritto “Ramones” continua a lanciare poc-corn sulle teste di chi gli sta davanti, finché un anziano si gira e si mette a urlare agitando il bastone. L’insegnante urla anche lei verso il ragazzo con il chiodo, prova ad avvicinarsi minacciosa ma non riesce a passare, la massa è troppo compatta.

«Guarda che bello quel video, sembra di essere alla Biennale di Venezia.»

Senza che me ne accorgessi, siamo entrati nel padiglione del Qatar. Anzi, forse siamo già nel cuore del padiglione, però io riesco solo a vedere la cupola dorata e qualche video, quelli più grossi e posizionati più in alto. Anna è più fortunata di me, si è spostata qualche fila avanti e può guardare anche i mille monitor alle pareti.

Sono due ore che camminiamo allo stesso ritmo, lentissimo. Luigi ha letto su un sito che oggi l’organizzazione ha deciso di eliminare tutte le barriere e i varchi di accesso ai padiglioni.

«Dai che più avanti ci distribuiamo un po’. Questo è il primo padiglione e ci siamo entrati tutti, per quello che non si va avanti.»

«Speriamo. Ma tua moglie, dov’è?»

«Non lo so, ci siamo persi di vista un quarto d’ora fa. Ho provato anche a chiamarla ma non c’è linea, mi sa che qua dentro siamo in troppi che stiamo usando il cellulare.»

«Anna! Non ti allontanare!» Urlo con tutto il fiato che ho in corpo «Anna, Anna!»

«Dai Anna, dai, ancora!»

«Godo, Anna, godo!»

I ragazzi mi stanno sfottendo alla grande, ora sono almeno in dieci ad urlare “Anna! Anna!”.

Dopo Anna, è la volta di Adriana, poi una serie di nomi maschili, infine se la prendono con la professoressa Piselli che, poverina, non ha il cognome più indicato per il suo mestiere.

La professoressa è sempre più lontana, ora la vedo in mezzo a un gruppo di giapponesi, cerca di farsi largo mentre urla minacce e punizioni di ogni tipo, ma è troppo esile per farcela.

Roby, il ragazzo con il chiodo, fa un balzo verso l’alto e si appende a una delle stalattiti che penzolano dalla volta del padiglione, ricostruzione di qualche grotta naturale del Qatar. La colonna di cartapesta si rompe con un “crack” netto, e il ragazzo la fa roteare in aria trionfante, colpendo sulla testa i compagni di classe.

In un attimo, nel padiglione si crea il panico generale. Un gruppo di ragazzi inizia a pogare sulle note del motivetto orientale di sottofondo e almeno un paio di anziani non reggono alle spallate e cadono a terra tra le urla di riprovazione di tutti i presenti. Per non cadere sono costretto a pogare anche io, e mio malgrado do spallate a destra e a sinistra. Butto a terra prima un’anziana signora e poi, al secondo ritornello, il marito che stava ancora cercando di tirarla su.

Per nostra fortuna il pogo si muove lentamente verso l’esterno, e uscito da sotto la cupola ritrovo Anna insieme a Luigi, che ha un occhio tumefatto e sanguinante.

«Uno di quei bastardi mi ha dato una gomitata nell’occhio. Figli di una grandissima puttana!» Urla verso la scolaresca, che nel frattempo si è allontanata portando con sé una decina di stalattiti e un sacco pieno di datteri che ora arrivano come proiettili sulla folla.

Stiamo per entrare nel padiglione del Belgio, i ragazzi devono avere finito i datteri e ci lanciano patatine fritte e bustine di maionese.

«Che facciamo, Anna? Guarda che la coda non accenna a diminuire, io ne ho già le palle piene di questo casino.»

«Non so, amore, proviamo ancora un paio di padiglioni? Avranno pensato a qualche sistema, non può essere tutto così.»

«Ma che sistema? Ma hai visto che qui ognuno fa quel cazzo che vuole? Non so dove siano finiti gli addetti, io non vedo nessuno, qui è il caos totale.»

Lei prova a convincermi a continuare, io provo a convincerla a fermarci da qualche parte.

Alla fine troviamo un compromesso. Dal basso, vedo che nel padiglione del Belgio ci sono delle torri molto alte, non so cosa siano, rappresenteranno qualche campanile fiammingo o chissà cosa. Ogni torre ha una serie di affacci, balconcini a sbalzo in cemento armato rivestiti di verde. Intorno alle torri non c’è tanta gente, probabilmente perché non portano da nessuna parte.

Convinco Anna a salire per fermarci un attimo, visto che sono quattro ore che non ci sediamo.

La vista dall’alto è impressionante. Migliaia di formichine fino all’orizzonte, non c’è un solo spazio libero, la gente ha riempito tutto, dalle vie principali agli anfratti più nascosti, le aree di deposito merci, le aiuole, tutto. Code ovunque, dentro e fuori i padiglioni, nelle piazze, sui tetti piani dei padiglioni più bassi e persino sul tetto a falde inclinate dello chalet della Svizzera.

Anna ha capito la situazione, nel suo sguardo c’è panico puro.

«Oh merda, amore. E ora che cosa facciamo? Che facciamo! Cazzo, cazzo, dì qualcosa, cosa facciamo?»

«Tranquilla, stai tranquilla, possiamo solo aspettare che torni la calma. Quanti saranno? Centomila? Trecento? Fa lo stesso, dobbiamo solo aspettare che la folla defluisca un po’.»

«Defluisca un cazzo, dottò. La radio dice che oggi entrerà un milione e mezzo di persone.»

Sul terrazzo verde di fianco al nostro, un uomo sui settant’anni mi guarda rassegnato. Ha una felpa con su scritto “Gruppo Anziani Afragola. Anche noi a EXPO 2015”.

«Quando c’era ancora il signor Vincenzo con la sua radiolina, dicevano che gli organizzatori e il Premier vogliono battere il record per l’EXPO più visitata di sempre. Alle 8 del mattino il Presidente del Consiglio in persona ha stabilito che oggi possono entrare tutti gratuitamente.»

Mentre parla, alle spalle dell’anziano scorgo una fila lunghissima di auto, la nuova bretella a otto corsie è diventata un enorme parcheggio. Fin dove arriva il mio sguardo, vedo macchine ferme e colonne di persone che si dirigono a piedi verso di noi. Più in lontananza, la metropoli, probabilmente vuota come in un ferragosto anni ‘70. La lunga fila di profughi si snoda per chilometri e tra le sagome distinguo alcuni gruppi monocromi, il verde degli alpini, le tenute rosse di qualche gruppo sportivo, le suore in bianco e nero, le bandierine sventolanti dei giapponesi.

«Scusate se non mi sono presentato, dottò. Enzo Esposito, del Gruppo Anziani di Afragola.

Non si preoccupi, signora, davvero, non volevo farvi preoccupare.»

«Grazie signor Esposito. Vedo che anche lei come noi ha deciso di fermarsi un po’ qui, ad aspettare.»

«Eh sì. Io veramente volevo andare al padiglione della Francia, dove alle 14 c’è un gran gala con le ballerine del Moulin Rouge. Però poi mi sono fermato in un angolo, sa, per fare un

bisognino... e quando mi sono girato non c’era più nessuno del mio gruppo.»

«Tranquillo signor Enzo, alla peggio li ritroverà nel tardo pomeriggio, al parcheggio.»

Anna mi dà uno strattone e mi fa segno di guardare verso il basso. La zona degli ingressi è avvolta da una fitta coltre di fumo attraverso la quale non si vede nulla, ma si sentono bene le sirene della polizia. Quando il fumo si dirada, vedo che una massa enorme di persone sta scavalcando i cancelli di accesso, mentre la polizia non può fare altro che arretrare.

«Oh mio Dio, chi sono quelli, i black block?»

«Signò, io forse non ci vedo benissimo, ma quella mi sembra gente come me e lei, solo un po’ più incazzata.»

Il fiume di gente arriva fino all’orizzonte, sembra inarrestabile, e forse chi è sotto i cancelli può fare una cosa sola. Entrare a tutti i costi, per non rimanere schiacciato.

«Anna, prova un po’ a vedere se il tuo telefono funziona o se riesci almeno ad andare su internet. Cerchiamo di capire cosa succede.»

«Il telefono non va, però mi dice che c’è rete internet, adesso provo.»

«E’ tutta colpa di quegli aggeggi. Una volta a queste fiere ci venivamo solo noi pensionati, ora è pieno di gente che viene qui apposta per farsi i cosi... come si chiamano?»

«I selfie, signor Enzo.»

«Sì, proprio quelli. Ci siamo ridotti a questo punto, i giovani vanno in giro a farsi foto davanti a questo e a quello, e noi pensionati forse è meglio se restiamo a casa, d’ora in poi.»

Il ragionamento del signor Enzo non fa una grinza. Di fianco a me, Anna sta fotografando la bolgia infernale sotto di noi.

«Allora, che dicono i siti di informazioni? Ci sono notizie?»

«Sì. Un attimo che carico un paio di foto, e ti dico...»

Ore 12:30 La situazione è questa.

Dopo il tweet del Premier alle prime luci del giorno, circa tre milioni di persone si sono messe in viaggio verso l’EXPO. Le forze di polizia ne avrebbero bloccate circa un terzo, erigendo sbarramenti stradali a 50 km dalla città e dirottando o fermando ogni treno o aereo diretto verso l’EXPO. L’opposizione accusa il governo di aver messo in scena un’enorme operazione di voto di scambio, offrendo a tutti l’ingresso gratuito in cambio del voto elettorale.

Di certo la situazione è sfuggita di mano a tutti, e dieci minuti fa il Premier è apparso in TV per un discorso a reti unificate, invitando tutti a lasciare il sito dell’EXPO e riprendere ordinatamente la strada di casa.

Qui sotto la situazione è sempre più drammatica. La folla non è più densa come prima, ma a parte questo le cose non sono molto migliorate, anzi. In lontananza si vedono altissime colonne di fumo, un paio di padiglioni devono aver preso fuoco.

In tanti ora cercano di tornare indietro, con il risultato di scontrarsi con chi ormai, dopo ore di fila, vorrebbe entrare, scatenando risse e scazzottate continue.

Credo che la torre su cui ci troviamo abbia raggiunto il limite della capienza. Sul nostro terrazzo sono arrivati due ragazzi francesi che lavoravano al padiglione del fois gras. Hanno abbandonato il loro posto di lavoro, ormai semidistrutto, e hanno cercato riparo qui. La terrazza del signor Enzo è affollatissima, sono almeno in otto, e tra di loro ci sono Roby il punk e parte della sua allegra comitiva. Non il massimo della compagnia, ma anche loro sembrano aver abbassato parecchio la cresta. Un gigante con l’orecchino al naso e i jeans di 20 centimetri troppo corti è in un angolo che piagnucola, mentre Roby ha fatto una catasta con le stalattiti, ci ha appoggiato la testa sopra e si è addormentato.

Io e Anna non ci parliamo da almeno un’ora ma so che lei ha fame, e sete, proprio come me.

Il signor Enzo si è rannicchiato in un angolo e guarda fisso verso il basso, come se ci fosse un’enorme TV accesa.

Ore 16:30 «Amore, ho sete, cosa facciamo?»

«Provo a scendere per vedere cosa trovo.»

«A scendere? Ma sei sicuro? Non mi lasci qui da sola, vengo anch’io.»

«No, è meglio che tu stia qui. Scendo giù, recupero un po’ d’acqua e torno qui, così resistiamo un altro paio d’ore e poi quando la gente inizia ad andarsene torniamo a casa anche noi.»

«Provo ad avvertire mia madre che facciamo un po’ di ritardo?»

«No, lascia perdere. E tanto il telefono non funziona e tua madre non guarda mai la mail.»

Raccolgo da terra lo zaino e la felpa.

«Scusate ragazzi, faccio un salto sulla vostra terrazza e scendo giù.»

«Mentre ci sei guarda se trovi del fumo da portarci su, che ce l’aveva tutto con sé uno dei nostri, ma non lo troviamo più!»

Roby sta bevendo una lattina di Coca-Cola. I ragazzi non sono scemi, devono aver saccheggiato per bene qualche baracchino, prima di salire qui.

«Quel bastardo di Jack. Scommettete che è nascosto in qualche angolo che si fa fuori tutto il nostro fumo? Bastardo...»

Salto nell’incavo della torre e scendo le scale. Sui gradini c’è altra gente, più o meno tutti cercano di dormire, qualcuno piange, altri armeggiano con i cellulari, provano a chiamare e richiamare all’infinito.

Esco dal padiglione del Belgio abbastanza facilmente, ora si riesce quantomeno a camminare.

Nel grande prato davanti al padiglione del Vaticano si sta tenendo una messa improvvisata.

Un prete sudamericano urla in un megafono, credo stia dicendo il rosario. Poco più in là il padiglione del Messico è andato a fuoco, forse è questo il motivo delle preghiere.

Il personale di servizio è completamente sparito e i visitatori fanno incetta di tutto il cibo che riescono a trovare sulla loro strada.

«Vaffanculo la Svizzera! Solo più cioccolato alla fragola avevano, e quello fa cagare!»

Una signora attempata spinge un carrello della spesa con dentro decine di chili di cioccolati-

ni alla fragola. Dietro di lei, quattro ragazzini la supplicano.

«Dai nonna, ancora uno!»

«No Jerry, ne hai già mangiati dodici, poi ti viene l’acetone come l’altra volta.»

«Ma nonna, io ho fame!»

«Adesso andiamo verso la Toscana, che magari troviamo una bella bistecca!»

Un gruppo di ragazzi sta smontando le scenografie di Dante Ferretti, vogliono portarsi via il carretto del pizzicagnolo, che hanno già caricato di ogni ben di Dio: televisori al plasma da 87 pollici, computer, casse audio, decine e decine di metri di cavo in rame.

Entro nel padiglione degli Stati Uniti, magari troverò una Coca, ma mi accontenterei anche di una di quelle bevande energetiche cui in condizioni normali non oserei neppure avvicinarmi.

Un gruppo di antagonisti, forse gli unici rimasti in Italia, si è dato appuntamento qui. Dal palco, un giovane arringa la folla.

«Bravi! Prendete tutto! E’ sacrosanto che questa fiera imperialista finisca così! La nostra è spesa proletaria, è un nostro diritto...»

Di fianco a lui altri ragazzi, forse meno idealisti, si sono impossessati del baracchino a stelle e strisce e preparano hamburger e hot-dog per il pubblico.

«Quanto viene un hamburger?»

«16 Euro, fratello.»

«Alla faccia, ragazzi. Ma non è un po’ troppo, 16 Euro?»

«Zio, prima venivano 14, e di questi 12 andavano diritti nelle tasche di qualche imprenditore di governo. Adesso con i dodici euro finanzi la nostra lotta proletaria, e con gli altri due ci compriamo un paio di latine di birra.»

Esco con i due hamburger e con 32 Euro in meno, ora mi manca solo qualcosa da bere.

Mi immetto nel decumano, in lontananza vedo altri incendi, fumo, gente sui tetti, e poi la sagoma dell’Albero della Luce.

Aspetta un po’... l’Albero della Luce sputa acqua, l’ho visto a qualche TG... oppure me lo sono sognato?

Mi avvicino all’Albero, che effettivamente è immerso in una pozza d’acqua. Il fondo è putrido, ma in superficie sembra abbastanza pulita. Raccolgo da terra un’anfora di plastica, reperto archeologico di qualche scenografia di Dante Ferretti, e la riempio d’acqua.

Ore 19:00 Al mio ritorno, la situazione sulla torre del Belgio presenta non pochi cambiamenti rispetto a come l’avevo lasciata. Il signor Enzo è stato legato alla vita con una fune, e viene usato dai ragazzi come carrucola umana per portare in cima alla torre le casse di birra che hanno accumulato al piano terreno. Enzo piagnucola, dice che gli fa male la pancia, un mese fa gli hanno rimosso i calcoli e secondo lui la corda gli ha riaperto la ferita.

«Guagliù, mettetemi giù. Vi capisco, sono stato giovane anch’io, so che vi divertite, ma non

è così che si fa. Mi fa paura, se cado mi ammazzo!»

Come risposta gli mettono in mano una cassa da 18 birre e lo issano verso l’alto.

«Cade, cade, non ce la faccio più a tenerla!»

«Bello, occhio ce se cade la birra, cadi pure tu!»

«AH AH AH AH!» Anna si è addormentata, cerco di svegliarla con delicatezza.

«Ciao amore, hai trovato tutto?»

«Sì, direi di sì!» le dico con un certo orgoglio «Guarda, qui abbiamo qualche litro d’acqua, e qui ci sono due hamburger che ho rimediato a quello che era il padiglione degli Stati Uniti.»

«Hamburger? Cazzo, ma sei scemo, lo sai che sono vegetariana, no?»

“Lo so amore, ma qui sotto è un casino, non è che potevo chiedere agli squatter di farmi un hamburger vegano. Cazzo, già quelli normali me li hanno messi a 16 Euro l’uno!»

«Lascia stare, guarda. Dico solo che questo dimostra quanto mi conosci, quanto mi ami.»

Beve un sorso d’acqua, poi mi dà le spalle e si gira dall’altra parte.

«Dai, non dire così. Guarda io te lo lascio qui, al limite togli la carne e mangia il pane con la fettina d’insalata.»

Silenzio.

I due ragazzi francesi mi guardano incessantemente, è chiaro che non hanno il coraggio di domandarmelo ma vorrebbero un po’ della nostra acqua. Mangio l’hamburger tenendo lo sguardo basso, poi chiudo gli occhi.

Ore 22:00 Mi sveglio di soprassalto. Un botto, forse un’esplosione. Anna è davanti a me e mi guarda con gli occhi sbarrati. Di fianco a lei il panino non c’è più. Né il pane, né l’insalata, né l’hamburger.

Sotto di noi si vedono tanti falò accesi, si sentono urla, versi animaleschi.

Il signor Enzo dorme in un angolo, sfinito. I ragazzi giocano a colpirlo in testa con i tappi delle birre. All’orizzonte non vedo movimenti, sembra ancora tutto bloccato.

Giorno 2 - Ore 7:00 Mi alzo che il sole è già alto sopra i padiglioni.

La notte è stata lunga, non è facile dormire all’aperto a venti metri d’altezza, con un sottofondo di urla, lamenti, boati improvvisi che non si sa da dove provengano.

Di fianco a me Anna dorme ancora, spossata, decido di lasciarla riposare. Per fortuna il tempo è stato clemente e non abbiamo patito il freddo, altrimenti sarebbero stati guai.

Scendo dalla torre per un bisogno fisiologico e per trovare la colazione.

Lungo il decumano, migliaia di persone giacciono a terra dove fino al giorno prima c’erano code infinite. Altri si aggirano guardinghi come predatori nella savana, in cerca di un pò di

pane da mettere sotto i denti. Un gruppetto di ragazzi con la maglia di Slow Food, seduti per terra in cerchio, fa il punto della situazione.

«Abbiamo perso il controllo del padiglione della pizza, ieri si sono portati via tutto.»

«E quello della birra?»

«Quelle più buone sono sparite tutte. Per capirci, ci è rimasta solo più qualche cassa dello sponsor, la Boretti. Idem negli altri padiglioni. Niente di commestibile, abbiamo solo più grandi pastoni, sacchi di spezie immangiabili e strane varietà di riso dell’Africa e dell’Asia. E quelle, prima che siano cotte, passano due ore e mezza.»

«Cazzo! Io ho fame adesso!»

«Io ve l’avevo detto che venire qui era una cazzata! Almeno ci avessimo guadagnato due lire!»

«E’ fighissimo qui! Pensa quando lo racconteremo!»

«Sarà fighissimo per te, che nella notte ti sei bombato Alessia.»

Li lascio litigare tra di loro e mi allontano.

Davanti al padiglione della Colombia trovo una lunga fila. Mi avvicino curioso, pare che in questo angolo dell’EXPO non sia successo nulla e che le cose procedano in modo razionale e composto. Possibile che ci sia ancora voglia di visitare i padiglioni? Possibile che qui non abbiano ancora rubato tutto? Al centro del padiglione si erge un monolite misterioso laccato di nero, che emette strani rumori e attira a sé centinaia di persone.

Mentre osservo l’enorme macchina del caffè della Colombia, scorgo tra la folla Eleonora, la moglie del Luigi di Bollate Brianza. E’ avvinghiata a un tipo di carnagione scura, forse un colombiano.

I due si baciano con passione, poi li vedo sparire nella ricostruzione della giungla equatoriale.

Turbato da quanto visto, decido di ritornare alla torre, da Anna.

Giorno 2 - Ore 16:00 I pochi che hanno ancora batteria del cellulare cercano avidamente notizie sul web.

Pare che il piano del governo sia di evacuare lentamente la zona, al ritmo di non più di centomila persone al giorno, per evitare disordini e caos. Però la bretella autostradale è paralizzata da decine di migliaia di automobili abbandonate, e la stazione ferroviaria è inagibile a causa degli incendi.

In pratica, siamo bloccati qui.

Con una seconda escursione riesco a impossessarmi di un chilo di riso bianco scotto, una bottiglia di sake che probabilmente nessuno aveva ancora avuto il coraggio di prendere, una confezione di carne di coccodrillo sottovuoto.

Giorno 3 La notizia del giorno è che tra i visitatori bloccati, insomma tra di noi, stanno iniziando a crearsi forme di autogoverno. Niente di democratico o illuminato, tutt’altro.

Semplicemente, i più robusti tra i maschi adulti si autoproclamano capi, e guidano gli altri in un saccheggio un po’ più razionale e meno distruttivo di quello dei giorni scorsi. Oggi mi sono associato a un gruppo di ultras dell’Inter e abbiamo fatto irruzione negli interrati del padiglione del vino. Alla faccia di quanto riportato dai giornali circa il successo enorme di questo padiglione, a terra giacevano ancora decine, centinaia di casse sigillate.

Ho portato su tre bottiglie, io e Anna ci siamo ubriacati insieme ai ragazzi francesi evocando le nostre vacanze a Parigi e guardando dall’alto i mille falò dell’EXPO.

Giorno 4 Il governo pare sull’orlo delle dimissioni e la polizia, accusata di avere mal gestito la situazione, ha abbandonato l’area della fiera.

In compenso iniziano ad arrivare aiuti dall’esterno. Gruppi di volontari sono partiti a piedi dalle città più vicine e attraversando a piedi i campi ci hanno raggiunto portando con sé latte, pane, formaggi.

Sotto, sembra di essere nella zona arrivi di un grande aeroporto internazionale: centinaia di persone agitano cartelli con su scritto “Luigi”, “Don Mario”, “Manuela”, “Willy e Peter”...

Sono parenti che da giorni non riescono a rintracciare i loro cari, a causa della lenta, inesorabile moria dei telefoni cellulari. Anna ha passata la giornata affacciata alla torre, ha anche visto alcuni cartelli con il suo nome, ma dietro a nessuno di essi c’era mia suocera.

Giorno 5 Anna vuole provare a lasciare l’EXPO. Enzo, che ha un cellulare vecchissimo e quindi è l’unico di noi ad avere ancora batteria, dice che ha parlato con uno del suo gruppo.

«Quei bastardi non hanno trovato le ballerine francesi, ben gli sta! Ora sono in cammino verso Milano, stanno al chilometro 25 ma non è semplice, Antonio che aveva un pacemaker non ce l’ha fatta, pace all’anima sua.»

Decidiamo di aspettare ancora.

Giorno 7 Siamo ancora qui, non so come spiegarvelo. Davvero, non so dirvi il perché.

Ogni giorno che passa sono tanti quelli che riescono a uscire da qui, eppure c’è ancora più gente che decide di unirsi a noi. Portano coperte, vestiti, qualcuno arriva addirittura con la cassetta degli attrezzi, per riparare le strutture danneggiate.

E’ successa anche una cosa bellissima. Il signor Enzo ha prestato il cellulare a Roby e gli ha lasciato gli ultimi 80 centesimi di credito telefonico per chiamare la madre, che compiva 50 anni.

Roby si è commosso, piangeva come un bambino. Ha preso tutto quello che aveva e lo ha regalato al signor Enzo. Quattro casse di birra, un trancio di salmone affumicato, cinque sacchetti di patatine e una coperta di lana merino.

Giorno 10 Sopra di noi volteggiano gli elicotteri della Polizia.

Ci dicono di uscire, che la situazione è tranquilla e che possiamo tornare alle nostre case.

Ma credo che qui nessuno abbia voglia di tornare alla vita di prima.

Roby è diventato un leader carismatico. Le torri B-C-D del padiglione del Belgio sono sotto il suo controllo, e giorno dopo giorno si dimostra un capo democratico e generoso.

Enzo è il suo Socrate, il suo maestro di politica, lo consiglia continuamente sul da farsi.

Oggi i ragazzi hanno preso i semi inutilizzati esposti nell’Arca della Biodiversità e hanno piantato pomodoro, mais e insalata sull’enorme tetto del padiglione dell’Australia.

Giorno 12 Questa mattina mia suocera ci ha raggiunti e ha cucinato all’orientale per noi, i ragazzi francesi ed il signor Enzo.

Mentre pranzavamo sul terrazzo della torre, e mentre mia suocera era impegnata in bagno, alla TV il nuovo Presidente del Consiglio ha annunciato che verrà presto in visita alla Nuova EXPO, così l’ha chiamata. Ha detto che siamo l’orgoglio del nostro Paese nel mondo, che qui è nato un nuovo modello di società, fatto di cooperazione, di impegno civico e di solidarietà.

Domani alle 9:30 i cancelli riapriranno.

Vi aspettiamo tutti qui.

Per qualche strano motivo questo racconto ti è piaciuto?

1) preoccupati 2) visita il sito http://www.stuffilm.com/wineming/ e leggi “IL MOSTRO DELLA CANTINA”