Torniai, Il Mosaico Nilotico prenestino

INCONTRI

PALAZZO BARBERINI

PALESTRINA

Il Mosaico Nilotico Prenestino nella Palestrina dei Barberini Paola Torniai

Incontri a Palazzo Barberini

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PAOLA TORNIAI IL MOSAICO NILOTICO PRENESTINO NELLA PALESTRINA DEI BARBERINI

Edizioni Articolo Nove

Edizioni Articolo Nove di Articolo Nove Arte in Cammino s.r.l.s.

Palazzo Colonna Barberini Via Barberini, 24 Palestrina, Roma www.articolonove.com

In collaborazione con: P.pe Benedetto Barberini Angelo Pinci

Collana Incontri a Palazzo Barberini numero 1 In copertina Anonimo, Veduta di Palestrina, XVIII secolo Su gentile concessione del P.pe Benedetto Barberini

Copyright Š 2016 - Articolo Nove Arte in Cammino s.r.l.s.

Tutti i diritti riservati Stampa: dicembre 2016 ISBN:

introduzione sulla collana

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IL MOSAICO NILOTICO PRENESTINO NELLA PALESTRINA DEI BARBERINI

Il 16 Gennaio del 1630 Don Carlo Barberini acquista il feudo di Praeneste da Francesco Colonna, costretto alla vendita a causa del grave dissesto finanziario in cui versa il casato1. La città, dominata dal Palazzo Baronale che si erge sulla sommità del Tempio di Fortuna e ormai al centro degli interessi antiquari in virtù del celebrato Mosaico Nilotico, entra così nell’orbita del complesso fenomeno della committenza extra moenia, che lega la Campagna all’Urbe2. Alla metà del Seicento il feudo prenestino suscita per le sue emergenze archeologiche ed architettoniche l’interesse dei letterati e cultori dell’antico: se le ipotesi ricostruttive del grandioso Tempio di Fortuna Primigenia sin dal 1450 avevano catalizzato l’attenzione di innumerevoli studiosi ed architetti, la riscoperta nel 1614 del Mosaico Nilotico ad opera del duca Federico Cesi dischiude altri e molteplici orizzonti d’indagine, dalla riflessione intorno all’arte antica, all’analisi dei manufatti in marmi e in pietre dure, all’approfondimento della cultura egizia.

L’attenzione rivolta al Mosaico Nilotico, manufatto di età alessandrina di fine II secolo a.C. (in origine m 4,35 x 6,78, oggi m 4,31 x 5,85), per il cui cartone si ipotizza il nome di Demetrio il Topographos, ovvero pittore di paesaggi, che si stabilisce a Roma nel 165 a.C. e nell’anno successivo accoglie presso la sua residenza il deposto Tolomeo IV Filometore, attesta la determinazione ad approfondire i fitti rapporti che accostano arte e scienza, offrendo preziose indicazioni di metodo. Praeneste, crocevia di culture, si fa laboratorio di studio dell’antico condotto sulle testimonianze dirette ed il Mosaico Nilotico, paradigma di un fecondo sincretismo, è tra i temi elettivi per i Savantes della Res Publica Literaria.

In tale contesto, Cassiano dal Pozzo3, Maestro di camera e Coppiere del Cardinal Francesco Barberini, svolge un ruolo preminente quale promotore delle arti non soltanto a Roma, bensì nella zona di Campagna, nella committenza barberiniana extra moenia.

La fisionomia della Civitas Praenestina con il Principe Taddeo e suo figlio Maffeo è interessata da imponenti interventi urbanistico-architettonici, mentre Cassiano favorisce la diffusione dello stile Barberini a Palestrina dal 1630 al 1657, in particolare attraverso la produzione di uno degli artisti più versatili del suo atelier, l’architetto e disegnatore Francesco Contini. All’iniziativa di Cassiano si deve la documentazione del Mosaico Nilotico attraverso le riproduzioni commissionate ai suoi artisti –tra i quali il Maestro di casa Vincenzo Leonardi- con precise intenzioni conservative, segno di un sentire culturale che riconosce al disegno valore gnoseologico.

Il Mosaico Nilotico originariamente pavimentava l’Aula absidata, l’edificio che sorge nel Foro intramuraneo, in direzione orientale e simmetrica all’estremo opposto al

P. Petrini, Memorie Prenestine disposte in forma di annali, Palestrina 1795, pp. 233-234 e pp. 258–259.

A. Mignosi Tantillo, Introduzione, in AA.VV., L’arte per i papi e i principi nella campagna romana. Grande pittura del ‘600 e del ‘700, Vol. I, Roma 1990, pp.17–19.

3 C. R. Dati, Delle lodi del Commendatore Cassiano dal Pozzo. Orazione di Carlo Dati, Firenze 1664; F. Solinas (a cura di), Cassiano Dal Pozzo, Atti del Seminario Internazionale di Studi, Roma 1989; per gli aggiornamenti sul tema P. Torniai, Le Tavole del Museum Chartaceum. Fortuna e ricezione del Mosaico Nilotico Prenestino nella Roma Barocca, in corso di pubblicazione.

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2. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale (Sala XVI), Mosaico Nilotico fine II sec. a.C.

Ninfeo dei Pesci. Si tratta di uno spazio rettangolare con copertura a volta alternata a semicupola, dedicato si presume ad Iside, culminante in un’abside addossata alla roccia e articolata in tre nicchie in basso, che disegnano così un dinamico triconco nella parete di fondo, e due in alto.

In una prospettiva a volo d’uccello, con studiati effetti coloristici, virtuosismo tecnico e maestria esecutiva si raffigura, in prossimità della stagione delle inondazioni e tra gli speroni rocciosi delle cateratte, il corso del Nilo dalla Nubia, che si estendeva dalla prima cateratta alla sesta, comprendendo parte dell’odierno Egitto meridionale e del Sudan settentrionale, l’Alto Egitto, e il Basso Egitto, prossimo al delta4. Il tema rimanda sia alle nozze tra il Nilo e la terra dell’Egitto, dono del Nilo, come recita l’Inno citato da Erodoto nelle Storie, nonché al dominio dei Tolomei.

In alto, nelle vicinanze della VI cateratta, alcuni Pigmei danno la caccia ad animali ai limiti dell’invenzione fantastica (affini a talune descrizioni di Plinio Seniore nell’XI libro della Naturalis Historia), tanto da necessitare la didascalia in greco, preludio all’organizzazione tassonomica che Claudio Eliano, colto prenestino della Seconda Sofistica in grado di parlare un fluente greco attico, riproporrà tra la fine del II e la I metà

N. Agnoli, S. Gatti, Palestrina. Il Museo Archeologico Nazionale, Milano 1999.

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del III sec. d. C. nel suo Περὶ Ζῴων Ἰδιότητος ovvero La natura degli animali5.

Con gradualità la scena cambia e alla natura selvaggia della fascia sommitale, popolata di giraffe e serpenti dalle forme iperboliche, onocentauri, scimmie, coccodrilli, rinoceronti africani, creature insolite che paiono espunte dai Bestiari o dai trattati di zoologia ellenistici, subentrano scene dell’Egitto antropizzato. Nella parte mediana c’è un grande tempio serrato tra possenti mura, forse il santuario di Osiris a Canopos oppure un edificio liturgico a Memphis, la città dei traffici mercantili alla quale farebbero pensare la nave da trasporto a vela quadrata e vari astanti affaccendati in operazioni di carico e scarico delle merci. Un’altra città, sempre cinta da mura in questo caso merlate, si accampa sulla sinistra assieme ad un tempio con due obelischi, probabile rappresentazione del Santuario di Iside a Philai.

Accanto a questa scena si scorge il celebre riquadro dell’«Historietta di quelli che mangiano sotto una pergola», per usare l’espressione di Cassiano, la rappresentazione di un convito che si svolge sotto un pergolato che ricopre un canale, sito forse nei pressi Canopo, il noto sobborgo di Alessandria. L’immagine è risultato del restauro condotto dal vercellese Giovan Battista Calandra dopo il 1628, allorché il Cardinal Magalotti donò l’originale, oggi ai Musei di Berlino, a Ferdinando II de’ Medici, Granduca di Toscana, giunto in quella data a Roma.

Lo sguardo scorre in basso verso destra ed incontra lo snodo tematico più significativo del Mosaico; si tratta della rappresentazione del porto di Alessandria, città dalla straordinaria cultura e centro propulsore dell’Ellenismo. Un imponente edificio si affaccia sul porto: è la residenza dei Tolomei, i sovrani dell’età dei Diadochi che regnano in Egitto dal 323 a.C. alla morte di Alessandro Magno. Nei pressi del palazzo una sacerdotessa precede un gruppo di soldati macedoni (si allude forse alla vittoria dei Tolomei sui Seleucidi); più in alto una processione rituale, animata da sacerdoti che recano una portantina, suonatori di timpani e tibie ed astanti con statue di animali, oltrepassa un’edicola sorretta da quattro colonne. Si scorgono gli alloggiamenti per la flotta, l’isola di Faro e capo Lochiàs, una nave da guerra, forse guidata da Tolomeo I Sotèr (323-283 a.C.), sovrano divinizzato e istitutore delle feste celebrate ogni cinque anni e descritte con tutta probabilità proprio nel Mosaico Nilotico Prenestino, ed altre imbarcazioni.

Se è Federico Cesi il committente della prima rappresentazione grafica in due tavole, poi incise in rame, del Mosaico Nilotico di Praeneste, i rami pubblicati nel 1655 dal Suarez in Praenestes antiquae, libri duo, la vera e propria documentazione dell’opera musiva si deve al Linceo Cassiano dal Pozzo, che fa riprodurre il prezioso manufatto in diciannove tavole, diciotto delle quali sono descritte sempre dal Suarez nei suoi volumi.

Malgrado le incertezze è possibile sia stabilire un terminus ante quem per la redazione delle Tavole, ovvero gli anni 1627–1628, in quanto Cassiano partecipa alle legazioni in Spagna e in Francia tra il Marzo e il Dicembre del 1625 e tra il Febbraio e l’Ottobre del 1626 (risulta difficile supporre una committenza lontano dall’Italia), sia ipotizzare che la copia del pergolato preceda la donazione del Magalotti, documentata al 16286.

Le Tavole, facenti parte del Museum Chartaceum e ritenute a lungo perdute, sono state riscoperte soltanto negli anni Settanta da Helen Whitehouse e da lei analizzate E. La Rocca, Lo spazio negato, Milano 2008, p.19.

Per ogni aggiornamento da riferirsi a Cassiano e al Museum Chartaceum si rimanda a http://warburg.sas. ac.uk. e alle pubblicazioni in corso dal 1996 di The Paper Museum of Cassiano dal Pozzo, a Catalogue Raisonnè, Drawings and Prints in the Royal Library at Windsor Castle, the British Library, the Institut de France and the other Collections, Londra.

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con rigore e attenzione7; oggi, dopo varie traversie, sono conservate alla Royal Library del Windsor Castle. I diciotto disegni a penna, inchiostro seppia, acquerello, gouache su carta bianca (al volume Delle Antichità di Nettuno appartengono due tavole ad inchiostro con i contorni a punta di grafite), facenti parte della Sezione Archeologica, si legittimano quale documentazione volta a salvaguardare l’integrità dell’opera che di lì a poco verrà smontata per essere portata a Roma, e testimoniano la modernità di un approccio metodologico al manufatto, inteso nella sua interezza tematica, materica e formale8.

L’inventario del Cardinal Francesco Barberini (III. Barb. Lat.5635), redatto tra il 1631 e il 1636, attesta la presenza nelle collezioni cardinalizie di frammenti musivi da Palestrina9; poco prima, sempre lo stesso foglio, riferisce di «un quadretto di Musaico antico» del Calandra, Accademico di San Luca dal 1630, restauratore del Mosaico Nilotico. Le misure di tale quadretto, così pure il soggetto, sono compatibili con i temi figurativi del Mosaico Nilotico e consentono l’accostamento del pezzo quadro proprio all’Historietta ceduta dal Cardinal Magalotti al Cardinal Padrone e poi da questi donata al Granduca di Toscana. Tali analogie, benché non suffragate da fonti documentarie, inducono a pensare, come ipotizza la Whitehouse, che il progetto iniziale fosse della suddivisione del cosiddetto manufatto sillano (Cesi aveva erroneamente identificato il Mosaico Nilotico con il lithostroton di Silla del quale parla Plinio nel Libro XXXVI della Naturalis Historia) in sezioni, per convincersi in seguito dell’opportunità di una sua ricomposizione, integrando le parti mancanti.

Il Cardinal Padrone, in possesso del Mosaico Nilotico, sceglie dunque, come attestano Giustificazioni, Giornali di pagamento, Libri dei mandati di pagamento, Libri Mastri di pagamento definitivi conservati nell’Archivio Barberini, il vercellese Calandra, del quale possiede nella sua collezione privata due quadri in mosaico, La consegna delle Chiavi a San Pietro (1624) e La Madonna con bambino (1632). Questi, attivo nella Fabbrica di San Pietro, si è già distinto con successo nella ristauratione, conclusasi nel 1625, del Triclinio Lateranense, argomento affrontato, su incarico del Cardinale Francesco, da Nicola Alemanni in De Lateranensibus Parietinis10.

Calandra é impegnato nei lavori di restauro in due fasi, la prima dalla fine del 1626 al 22 Giugno 1639, la seconda dal 27 Giugno 1640 al 16 Settembre 1642. Nell’Agenda del Museo, cioè il Codice Miscellaneo, Cassiano ha parole di lode per l’impresa di Calandra, in particolare per la realizzazione della scena dell’Historietta, rifacimento del pezzo quadro. La tecnica raffinata suggerisce con maestria nel tessuto musivo la plasticità delle figure e la luminosità delle zone cromatiche, rese con un moderato uso di paste colorate sensibili alla modulazione delle sfumature.

7 H. Whitehouse, The Dal Pozzo copies of Palestrina mosaic, in «British Archeological Reports», Suppl. Series 12, 1976, pp.11–97; della stessa si veda Shipwreak on the Nile:a greek novel on a “lost” roman mosaic?, in «American Journal of Archaeology», v.89, n.1, 1985, pp.129-134. L’originale dell’Historietta del Pergolato, oggi al Pergamonmuseum (Inv. Mos. 3), misura 0.95 m. per l’altezza e di 1.02 m. per la lunghezza, a fronte dei 375 x 482 mm della Tavola diciannovesima del Museum Chartaceum, (Royal Library,Windsor Castle).

8 F. Solinas,‘Giovani ben intendenti di disegno’. Poussin e il Museo Cartaceo in Poussin et Rome, Paris 1996, pp.

215-240; F. Solinas Il Museo Cartaceo. 186. Artista del Cinquecento, Vincenzo Leonardi, e altri in AA.VV., I segreti di un collezionista: le straordinarie raccolte di Cassiano dal Pozzo, 1588-1657, Roma 2000, pp. 185-186.

9 Tale documento è copia informale del III.inv.26-31 e riporta la notizia al Fol.79 v., punto P) n.15 M. A. Aronberg Lavin, Seventeenth Century Barberini. Documents and Inventories of Art, New York 1975, pp. 100-123.

10 A. Cifani, F. Monetti, Giovan Battista Calandra (1586- 1644): un artista piemontese nella Roma di Urbano VIII, di Maderno e di Bernini, Torino 2006, p.158 e p.163; P. Torniai, Alcuni quadretti bellissimi di musaico antico, Edizioni Vaticane, in corso di pubblicazione.

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Nell’Historietta l’Artista usa un mosaico minuto con tessere di varie dimensioni ben connesse al fine di limitare le fughe - più grandi per l’incarnato roseo in Marmo di Cottanello o pietra persichina, spesso adoperato in contrasto con il Marmo Palombino, bigio o giallognolo, per lo sfondo e alle membrature architettoniche. La gamma cromatica si ampia, mentre vari accorgimenti, come l’uso di tessere di vetri opachi antiriflesso, la spillatura, ovvero la rifinitura dei giunti tra le tessere di dimensioni sempre più ridotte, eseguita con cera d’api colorata ton sur ton, l’arrotatura - poi perfezionata con l’ uso di pani di piombo per la lucidatura con velatura a cera - e la spoltiglia (un abrasivo sottilissimo, ottenuto dalla mescolanza di polvere microscopica di sabbia, acqua e pietra abrasiva) levigano il tessuto musivo assicurando le condizioni ottimali di visione. La partitura cromatica della scena, laddove il chiaroscuro è la risultante della modulazione del bianco e del nero, è tutta orchestrata sull’uso del cangiante; gli accostamenti dei complementari - giallo/viola, rosso/verde, blu/arancione - stante l’esigua disponibilità dei mezzi toni nel mosaico, smorza l’intensità dei colori, ma assicura comunque una maggiore luminosità, sia pure ridotta rispetto alla pittura, come emerge dal confronto con le Tavole realizzate con tutta probabilità da Vincenzo Leonardi e conservate al Windsor Castle. All’osservazione a luce radente e al tatto, ancora oggi è possibile cogliere quel lievissimo dislivello - già rilevato da Salvatore Aurigemma negli interventi del 195211 - tra le parti originali del Mosaico Nilotico e i rifacimenti, in particolare in questa scena di musaico novo, nonostante l’arrotatura finale, condotta con perizia, abbia lucidato e la superficie rendendo il passaggio agli interventi seicenteschi appena percettibile. Calandra dispone le tessere verticalmente, non già per file orizzontali giustapposte, quasi ad accostare, in modo traslato, l’andamento longitudinale dell’ordito a quello perpendicolare della trama, variando sia l’inclinazione del tappeto musivo, per evitare riflessi eccessivi, che la dimensione delle tessere, imitando l’opus vermiculatum. Il tessuto cromatico si avvale dell’uso del cangiante, con la frequente adozione delle coppie di complementari, che potenziano così gli effetti luministici sulle carnagioni e sugli sfondi. Sempre dall’analisi diretta del manufatto si evince che alcune tessere sono eterogenee, forse di risulta, altre (gli azzurri nelle piume dei germani nella scena della Caccia agli ippopotami) presentano scialbature di colore, altre ancora recano tracce di ritocchi pittorici e le fughe sono colmate con uno stucco risultante dalla mescolanza di calce bianca e polveri di marmo e di travertino, privo di polvere di mattone. L’esame diretto e meticoloso del pezzo quadro rivela interessanti indizi sulla tecnica adottata dal Calandra, che suggerisce i dettagli con una rapidità affine alla pittura compendiaria, affidando all’occhio dello spettatore la ricomposizione unitaria dell’insieme. I tre recumbenti, posti in basso sul lato di sinistra del pergolato, ancor più rispetto agli altri quattro personaggi in alto a destra, evidenziano una fitta tessitura a mosaico minutissimo, in particolare negli incarnati, suggeriti da tessere in pietra persichina di varie tonalità accostata al Palombino per gli sfondi, la panca e le vesti; i giunti tra le tessere sono così sottili da celare ogni fuga, percepibile soltanto al tatto e a favore di luce e l’intensità cromatica si consegue con la resa delle carnagioni a contrasto con gli sfondi e della virtuosistica distribuzione delle tessere che imitano l’andamento delle pennellate.

La capitale importanza del ruolo ricoperto da Calandra restauratore nella tutela e nella salvaguardia del Mosaico Nilotico Prenestino è immediatamente chiara; Sante Pieralisi

S. Aurigemma, Il restauro del consolidamento del Mosaico Barberini, condotto nel 1952, in «RPAA», 30-31, Roma 1959, pp.41-98.

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4. J.M. Suarez, Praenestes antiquae. Libri duo, Roma 1655, particolare del Mosaico Nilotico: i soldati e la sacerdotessa.

5. J. M. Suarez, Praenestes antiquae. Libri duo, Roma 1655, particolare del Mosaico Nilotico: il remaiolo.

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6. Palestrina, Museo Archeologico Nazionale (Sala XVI), Mosaico Nilotico, Giovan Battista Calandra, Historietta del Pergolato, I metà del XVII secolo.

riporta la minuta della relazione - lettera indirizzata al vescovo Suarez dal Cardinal Padrone12. Lo stretto rapporto tra gli interventi condotti dal Mosaicista vercellese e i disegni commissionati da Cassiano è la condizione prima di legittimità del restauro, condotto appunto su tale documentazione puteana e riferimenti al Mosaico Nilotico compaiono in molti altri documenti13. I pezzi sedici del Mosaico Nilotico, dopo il lungo e laborioso restauro condotto tra Palazzo Barberini alle Quattro Fontane e il laboratorio vaticano di Calandra, ritornano a Palestrina sul finire del 1639, al termine di un viaggio fortunoso, seguito un intervento della durata di un biennio, condotto in loco per «risarcire et mettere in opera li Musaichi in Palestrina». Durante il trasporto il Mosaico, già lacunoso, subisce ennesimi danni, solo in parte ridotti dalla provvidenziale documentazione fornita dal Museum Chartaceum e dalla sensibilità artistica del Calandra, che si ingegna per conservare l’andamento del vermiculatum nella disposizione delle tessere, provvedendo al reimpiego di qualsiasi frammento possa essere rinvenuto. Il Cardinal Padrone e Taddeo14, al termine dei restauri, dispongono l’allestimento del manufatto all’interno del Palazzo, nella sala centrale ad andamento curvilineo del pianterreno, appositamente ristrutturata dal 1640; per la nuova collocazione il tappeto musivo è ridotto di circa un metro in larghezza. Il 16 Febbraio 1641 Calandra riceve il saldo per l’impegno profuso e

S. Pieralisi, Osservazioni sul Musaico di Palestrina, Roma 1858, cap. IV p. 10.

Inventario del Cardinal Francesco Barberini, Sculture, compilato da Nicolò Meneghini, 1632 – 1640, (III. Menghini. 32 – 40), BAV, Arch. Barb., fol.24r.

14 Taddeo riconosce il ruolo fondamentale svolto dal fratello Francesco per la tutela e per la conservazione del Mosaico Nilotico Prenestino e gli dedica una lapide in caratteri latini; il testo è in BAV, Indice segreto, n.4083, Palestrina, Archivio Barberini.

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nel Giornale della Computisteria del 24 Novembre 1642 è riportato l’«intiero pagamento d’un suo conto de Lauori fatti per Nostro servitio»15.

La città, in questi anni, è al centro di un intervento architettonico ed urbanistico che si sostanzia sulle potenzialità comunicative dell’ars instrumentum regni, discorso retorico volto alla persuasione ed alla compiuta organizzazione del consenso. I nomi degli Architetti del Popolo, degli apparatori, dei tecnici, degli artisti attivi a Roma ricorrono nelle cronache della Campagna, come pure nei documenti prenestini16. Dal 1630 Palestrina è parte integrante di un ben definito programma politico che organizza il territorio con una rete viaria razionalmente funzionale e i Barberini, originari di Barberino in Val d’Elsa, stringono un’intesa diplomatica con le antiche famiglie feudali della provincia; ciò favorisce una distribuzione capillare di conventi e di ordini religiosi.

Il rigoglio barocco di Praeneste si lega tuttavia non già a Taddeo, guidato nelle scelte politiche e culturali dalla famiglia e dai suggerimenti del Marchese Enzo e del cardinale Guido Bentivoglio, bensì al Cardinal Padrone e al suo Coppiere17, Cassiano dal Pozzo, consapevoli di un’interpretazione del mecenatismo quale visualizzazione immediata del potere, veicolo più idoneo a promuovere il consenso, rendendolo duraturo. All’iniziativa di Taddeo, opportunamente consigliato dal Cardinale Francesco e da Cassiano si deve, tra gli anni Trenta e anni Quaranta, la ristrutturazione del Palazzo baronale prenestino, non soltanto per allestire, nella parte centrale dell’emiciclo, ormai inglobato nell’edificio, una sala absidata atta ad accogliere il restaurato Mosaico, ma per realizzare una dimora consona all’automitografia barberiniana18.

Nel feudo prenestino il nome di Taddeo si accosta ai lavori di ristrutturazione in Castel San Pietro, l’arce di Praeneste, agli interventi sulla cinta muraria poligonale e sulle porte urbiche - la Porta del Sole, con l’emblema Barberini sull’angolo meridionale, e la Porta delle Monache o di Santa Maria sul fianco settentrionale - nonché alla realizzazione tra il 1639 e il 1642 di Monastero e Chiesa delle Clarisse, da un progetto di Francesco Contini.

L’animatore del programma barberiniano nel feudo rimane il Cardinale Francesco e accanto a lui è sempre Cassiano, al quale offre un interessante contributo allo studio della città antica il Savant Gerolamo Aleandro il Giovane, per vent’anni al servizio del Cardinale Ottavio Bandini, vescovo di Palestrina tra il 1621 al 1624, ed intenzionato a scrivere un trattato sull’Oracolo prenestino. Sempre in questi stessi anni lavora in BAV, Arch. Barb., Computisteria, Giornale, (1641– 648), n.70, p. 246. Il Mosaico Nilotico rimane al pianterreno del Palazzo Baronale fino al 1853, allorché Don Francesco Barberini ne affida un nuovo restauro all’architetto Giovanni Azzurri e agli esperti mosaicisti sanpietrini Castellini e Volponi, disponendo il suo trasferimento in un palazzo di proprietà della famiglia Barberini, sito nei pressi di Porta Santo Spirito. Nel 1855 il Mosaico, contornato da una fascia antichizzante con una coppia di imprese Barberini su disegno dell’ Azzurri, è collocato al primo piano in una sala dalle pareti rosso cupo. Q. Leoni, Il famoso Mosaico Prenestino restaurato sotto la direzione del Prof. Architetto Cav. Giovanni Azzurri, in «L’Album di Roma», Distribuzione 8, Anno XXIII,1858, pp.

90-92. Tuttavia, tra il 10 e l’11 Dicembre del 1943, Salvatore Aurigemma decide il provvidenziale trasferimento del Mosaico, sezionato in trentatré pezzi, nei depositi del Museo Nazionale Romano, per procedere, al termine del II conflitto mondiale e dopo i tragici bombardamenti di Palestrina il 22 Gennaio e il I Giugno 1944, alla sua ricomposizione previa un ulteriore e accurato restauro. Oggi il Mosaico è esposto alla parete della Sala XVI all’ultimo piano del Museo Archeologico Nazionale, inaugurato nel 1956 con l’allestimento di Furio Fasolo e Giorgio Gullini e riorganizzato nel 1998, in armonia con i più aggiornati indirizzi museologici e museografici, secondo criteri tematici e cronologici, dall’allora Direttore Archeologo Sandra Gatti e dall’architetto Roberto Pinci.

16 M. A. Lavin, op. cit., nota 1 cap. IV. 17 F. Haskell, Patrons and Painters: a Study in the Relations between Italian Art and Society in the Age of the Baroque, Londra 1963.

18 P. Waddy, Palazzo Colonna–Barberini, in Seventeenth–Century Roman Palaces, New York 1990, pp. 272-282.

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territorio prenestino Pietro da Cortona, artista prediletto dal Cardinal Francesco, intento insieme allo stesso Pontefice a promuovere la diffusione della cultura nel Feudo, incrementando i fondi della già ricca Biblioteca - ancora oggi fruibile - fondata dal Priore Generale dell’Ordine Carmelitano Sebastiano Fantoni e annessa al Convento di S. Antonio Abate19.

A Palestrina il Principe Maffeo accosta il suo nome a cantieri architettonici ed urbanistici di rilevanza20, condotti secondo un modello di intervento specificamente barocco. Nel 1593, con una scelta urbanistica assai efficace, era stata resa carrozzabile la strada che dalla Chiesa di Santa Lucia, snodo tra la città alta e la parte bassa dell’abitato, il Quadrilatero, conduce alla Cortina, la piazza antistante al Palazzo Colonna Barberini, sulla quale affaccia la teatrale cavea - scalinata. Maffeo, in un articolato programma di razionalizzazione viaria, inaugura nel 1656 la Strada Nuova Barberiniana, l’attuale Via del Tempio, che dal versante occidentale della città porta a Piazza della Cortina, vera e propria cour d’honneur del Palazzo baronale. Ricordata nelle cronache perché «ad uso de’ cocchi», la strada, concepita con modalità propriamente barocche, enfatizza gli snodi essenziali del contesto urbano (piazza - tracciato viario - edifici) che è luogo teatrale e palcoscenico della sfilata del potere. Il tessuto connettivo della città, connotato dalle preesistenze edilizie, dominato dal Palazzo, fondale scenografico d’eccezione e meta monumentale, si trasfigura attraverso una metodologia d’intervento espressa nella rinnovata definizione planimetrica di vie e piazze. La forma urbana, traduzione tangibile dell’autorità politica, si carica di significazioni interrelate e valori rappresentativi di alto contenuto referenziale, paradigmatici di una dinamica persuasiva che si esprime nell’individuazione di mete monumentali, vie, edifici. Preneste, il suo spazio cittadino scandito da elementi architettonici e urbanistici di forte coinvolgimento psicologico ed emotivo, sono ora un sistema in espansione, una forma aperta pronta a recepire le esigenze dettate dall’incremento demografico, dallo sviluppo delle attività terziarie, dalle ricorrenze liturgiche, dagli appuntamenti della vita pubblica21. Maffeo favorisce un intervento capillare sull’agglomerato urbano che dia alla città un assetto geometrico immediatamente percepibile, centralizzato sull’unità di via ed edificio - da intendersi quale chiesa, palazzo, casa - che si strutturi come quinta scenografica, laddove le strade non sono inflexae o sinuosae, ma perimetri recti, posti a collegamento tra il Foro intramuraneo, sul quale affaccia il Duomo di S. Agapito, e il Tempio, sul quale insiste dal Medioevo il Palazzo Baronale.

Francesco Contini, disegnatore ed architetto dell’atelier puteano22, riceve dal Principe Maffeo la conferma dell’incarico già concesso dal padre Taddeo per la realizzazione della Cappella di Palazzo dedicata a S. Rosalia, edificata tra il 1657 e il 1660. La costruzione non è soltanto concepita come chiesa annessa alla residenza, ma deve assolvere, al contempo, funzione funeraria e di ex voto, edificata per «non tralasciare gli aiuti celesti», come si legge nei documenti, al termine dell’epidemia di peste bubbonica, che, propagatasi tra il 1656 e il 1657, aveva causato un elevato numero di vittime nel feudo. La Cappella palatina, che in un tripudio di quasi centocinquanta Apes Barberinae scolpite o incise sui muri, sul piano di calpestio, sulle sculture celebra la gloria del P. Petrini, op. cit., pp. 242–243; P. Torniai, Antonio Pennazzi e il Convento Nuovo di S. Antonio in Palestrina, in «Carmelus» 61, 2014, fasc.1, pp. 29-52.

Ibidem, pp. 252-254.

21 E. Guidoni, A. Marino, Storia dell’urbanistica. Il Seicento, Roma–Bari 1979; M. Fagiolo Dell’Arco, L’immagine al potere, Roma-Bari 2004.

22 H. Hager, Francesco Contini, DBI, 1983.

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casato, presenta un impianto planimetrico fortemente condizionato dal Palazzo Baronale su un lato e dagli alloggi di servizio sull’altro e si affaccia direttamente sulla strada, seguendone l’andamento: ne risulta pertanto l’asimmetria del podio e dei suoi cinque gradini d’accesso. Con la realizzazione della chiesa, caratterizzata da un fronte di facciata che mette in comunicazione struttura architettonica e contesto urbano, Piazza della Cortina si connota di accenti teatrali, componendo una suggestiva quinta scenica, meta e culmine del percorso ascensionale scandito dalla successione delle terrazze, coperto secoli prima dal fedele in pellegrinaggio verso il Santuario di Fortuna.

Maffeo Barberini, intorno al 1660, incarica Francesco Contini, che già ha dato prova della sua maestria nella riorganizzazione per Don Taddeo del parco nella Villa alli Bastioni sul Gianicolo intorno al 1641, di realizzare il Ninfeo nel giardino annesso al Palazzo Baronale. I lavori si concludono prima del 1669, come documenta ammirato, nella sua relazione Bastiano Casini, segretario dell’Ambasciatore di Spagna, al momento ospite del Principe23.

Nell’edificazione della Chiesa di Santa Rosalia, del Triangolo ai Prati e degli annessi Casali, costruiti con tutta probabilità già tra il 1640 e il 165024 e del Ninfeo si esprime con ampiezza di accenti la pratica architettonica del Contini, che proprio in territorio prenestino combina insieme un rigoroso metodo compositivo impostato geometricamente e corroborato dalla pratica del rilievo puteano e nella tiburtina Villa Adriana, la concezione scenografica dell’urbanistica e la volontà di coniugare i modi formali e costruttivi del Cinquecento attardato con un moderato sperimentalismo barocco che rende Praeneste significativo esempio dello stile Barberini.

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ILLUSTRAZIONI

� FIG. 1, p. 8 - Palazzo Colonna Barberini - Museo Archeologico Nazionale: la cavea, Palestrina � FIG. 2, p. 10 - Museo Archeologico Nazionale (Sala XVI), Mosaico Nilotico (fine II sec.a.C.), Palestrina � FIG. 3, p. 12 - Palestrina, Aula absidata: triconco, originariamente pavimentato dal Mosaico Nilotico (fine II sec.a.C.) � FIG. 4, p. 15 - Joseph Maria Suarez, Praenestes antiquae. Libri duo, Roma 1655, particolare del Mosaico Nilotico: i soldati e la sacerdotessa � FIG. 5, p. 15 - Joseph Maria Suarez, Praenestes antiquae. Libri duo, Roma 1655, particolare del Mosaico Nilotico: il remaiolo � FIG. 6, p. 16 - Museo Archeologico Nazionale (Sala XVI), Mosaico Nilotico,Giovan Battista Calandra, Historietta del Pergolato (I metà del XVII secolo ), Palestrina � FIG. 7, p. 18 - Palazzo Colonna Barberini - Museo Archeologico Nazionale e Piazza della Cortina, Palestrina � FIG. 8, p. 20 - Francesco Contini, Chiesa di Santa Rosalia: facciata 1660, Palestrina, � FIG. 9, p. 21 - Francesco Contini, Chiesa di Santa Rosalia: interno 1660, Palestrina.

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L’AUTORE

Paola Torniai Laureata, specializzata in Storia dell’Arte moderna e PhD con una tesi di dottorato dal titolo Le tavole del Museum Chartaceum.

Fortuna e ricezione del Mosaico Nilotico Prenestino nella Roma Barocca alla ”Sapienza” di Roma, è stata cultrice della materia presso la cattedra di Letteratura Artistica nella stessa Università dal 1984 al 1996. Recensore del settore Estetica di Bibliographie de Philosophie dal 1988 al 2005, dal 2009 al 2011 dell’ANISA nella Commissione Ricerca, sperimentazione, innovazione didattica e Commissione Olimpiadi del Patrimonio, collabora a riviste ed istituzioni culturali, tra le quali Bollettino Tematico dell’Arte (Sapienza, Roma), Horti Hesperidum (Tor Vergata, Roma). Attualmente lavora ad un progetto editoriale con l’Archivio della Reverenda Fabbrica di San Pietro e presta la sua attività di consulente scientifico Zanichelli per la revisione del II volume dell’edizione blu di Itinerario dell’Arte, Cricco-Di Teodoro. Vincitore del concorso di Ispettore Storico dell’Arte per la Toscana (D.M.1/85), è docente di ruolo ordinario di Storia dell’Arte nella sezione classica dell’I.I.S. ElianoLuzzatti, Palestrina; già nel comitato organizzativo del Certamen Archeologico Prenestino, è tutor interno per le attività di alternanza scuola-lavoro presso il Museo Archeologico di Palestrina e il Polo museale romano.

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