Khadija

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state deposte nella cappella mortuaria, provvisoriamente in un colombario in attesa del ricordo di marmo. Abbi cura di te e fammi sapere”. Chiusi la lettera. Faticavo a tollerare quelle parole che tutte annegavano la sete di conoscenza che in me era entrata. Non v’era posto per coloro che volevano dominare quella terra. Essa aveva già la sua storia. Passai alcuni pomeriggi in compagnia di Valentich. Non parlava d’altro, comunicandomi di continuo le novità. “Legga, legga. C’è chi ha il coraggio di fare la satira”, mi diceva porgendomi fogli stracciati e ingialliti dal viaggio. “Alcuni giornali tedeschi hanno anche scritto che è una specialità degli italiani lasciarsi trucidare in questi paraggi. Ma quel che peggio, è che ora è in gioco la nostra credibilità”. Bevve un caffè fumante e si calmò. “La sua giovane hararina la vede ogni tanto?”. Mugugnai una risposta che non era tale. “Lei non vuole capire che qui le schiave non sono un capriccio”, mi ripeté scuotendo il capo. Poi i suoi pensieri tornarono alla spedizione. “L’annientamento di questa spedizione è stato accolto con troppa indifferenza dal mondo, come si vede dai giornali. Tutti annunciano freddamente il fatto senza aggiungere parole di rammarico per l’eroismo e pel sacrificio senza profitto di quei martiri dell’amore per l’esplorazione. L’Harar è qualcosa che si può afferrare, che si può raggiungere e non già un deserto di nomadi irrequieti che si aggirano qua e là. La strada è perfettamente nota, si sa dove sono i nemici. Ha ragione la «Kölnische Zeitung» quando scrive che ora si dimostrerà se l’Italia saprà cogliere a tempo l’ultima occasione di un impero coloniale”. Avvertivo le parole di Moreno Valentich come un brusio d’api, un fastidioso divagare da ciò che mi circondava. Sentivo più che mai viva quella terra; ero dilaniato dalla sofferenza e dal dispiacere di avere perso i miei amici, ma mi sentivo più che mai entro le mura di Harar e non volevo perderle, né mi potevano coinvolgere le questioni internazionali che sempre più assomigliavano ad una confusa e triste speculazione sulla pelle di questa gente che stavo imparando ad amare. Perciò me ne andai. 163


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