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DOSSIER

La SFIDA della RIPRESA

IL PRIMO WINE & FOOD SUMMIT FIRMATO PAMBIANCO–PWC HA PORTATO SUL PALCO DI PALAZZO MEZZANOTTE, SEDE DI BORSA ITALIANA, I PRINCIPALI PLAYER DEL SETTORE. LE ANALISI E LE TESTIMONIANZE HANNO RACCONTATO COSA È CAMBIATO E COSA ANCORA DOVRÀ CAMBIARE DOPO GLI STRAVOLGIMENTI DELLA PANDEMIA.

1° WINE & FOOD SUMMIT PAMBIANCO - PWC

LE NUOVE ABITUDINI DEL VINO

IL PRIMO SUMMIT ORGANIZZATO DA PAMBIANCOPWC E DEDICATO AL SETTORE DEL WINE&FOOD HA RACCOLTO LE TESTIMONIANZE DEI MAGGIORI PLAYER DEL SETTORE, DISEGNANDO IL FUTURO POST-PANDEMIA DI UNO DEI PRINCIPALI MOTORI DEL SISTEMA ECONOMICO ITALIANO, CHE AD OGGI VALE OLTRE 140 MILIARDI DI EURO. DOPO UNA BATTUTA D’ARRESTO LO SCORSO ANNO, SI GUARDA CON RINNOVATO OTTIMISMO AL DOMANI, FACENDO TESORO DI QUANTO IMPARATO NEGLI ULTIMI MESI.

di Sabrina Nunziata

“I settori del Wine & Food e la sfida della ripresa. Le risposte delle aziende, della ristorazione e del retail nel nuovo contesto competitivo”. È questo il titolo che definisce il primo Wine&Food Summit firmato Pambianco–PwC. Moderato da David Pambianco, CEO Pambianco, l’incontro ha portato sul palco le testimonianze di una serie di player appartenenti a uno dei settori centrali dell’economia italiana. Come illustrato da Alessio Candi, responsabile delle divisioni consulting e M&A in Pambianco, il settore wine&food in Italia vale infatti 143 miliardi di euro, frutto di una crescita composta annua (cagr) pari all’1,4% negli ultimi 10 anni, la quale ha subito una comprensibile battuta d’arresto, pari al -1,4%, nel 2020. La testimonianza della rilevanza del settore per il sistema Italia lo dimostra il valore dell’export, cresciuto dell’1% anche lo scorso anno, superando quota 35,5 miliardi, pari all’8,3% del totale Italia, dopo che nel periodo 2017-20 ha realizzato una crescita composta annua del 4,2 per cento. Scindendo i comparti, il valore del wine è pari a 11,9 miliardi (-4,7% su 2019), mentre i restanti 131 miliardi sono stati generati dal food (-1,1 per cento). Entrando più nello specifico del settore wine, l’export, in controtendenza sul dato complessivo dei due comparti, è risultato in costante flessione dal 2017 a oggi (-5%), e nel 2020 è sceso del 2,4 per cento. I primi tre Paesi di destinazione del vino Italiano sono Stati Uniti, Germania e Regno Uniti, con rispettivamente un valore di 1,4 miliardi di euro (-5,6%); 1 miliardo (-3,9%); e 714 milioni (-6,4%) che nel complesso generano il 52% delle esportazioni. A livello di prodotto, Veneto, Piemonte, Toscana e Trentino-Alto-Adige sono le regioni che esportano di più,

rappresentando il 77% del totale. Facendo un confronto con gli altri principali player del sistema vino nel mondo, l’Italia risulta il primo Paese per produzione nel 2020, con un valore pari a 49,1 milioni di ettolitri, seguita da Francia (46,6 milioni) e Spagna (16 milioni). I primi tre Paesi della classifica, quindi, rappresentano in volumi più della metà della produzione mondiale di vino, pari a 260 milioni di ettolitri. Paragonando l’export di questi Paesi, l’Italia è prima per volumi (con 20,8 milioni di ettolitri, -2,8%) ma seconda per valore (6,2 miliardi, -2,4%) alla Francia, che ha esportato 13,6 milioni di ettolitri per 8,7 miliardi di euro (-10,8 per cento). La differenza del prezzo medio al litro è infatti consistente: sebbene quello italiano si cresciuto dello 0,4% lo scorso anno a 3 euro, il vino francese viaggia a 6,4 euro, pur avendo subito una flessione del 6,2 per cento. Per quanto riguarda l’anno in corso, le stime vogliono il wine salire a quota 12,9 miliardi (superiore al valore 2019 di 12,5 miliardi) che, unito ai 138 miliardi del food, porterebbe a complessivi 151 miliardi, contro i 145 miliardi del 2019. Ha fatto seguito l’intervento di Omar Cadamuro, director consumer markets PwC che ha illustrato la 12° Global Consumer Insights Pulse Survey condotta a marzo e giugno 2021 in 24 Paesi. Ne sono emersi cinque trend, di cui due già in atto (la propensione al green e al digital) e altri tre indotti e particolarmente accelerati dalla pandemia. Per quanto riguarda il digitale, a livello di consumi tutti i canali (es. mobile, pc, etc) sono cresciuti accentuando di conseguenza l’attenzione da parte dei consumatori alla consegna veloce e alla disponibilità in stock, che continuano ad essere fattori di scelta primari per chi fa acquisti online. Di riflesso, le aziende, tra cui proprio quelle del vino, hanno investito per la propria digitalizzazione, introducendo o implementando, oltre all’e-commerce, anche altri servizi complementari, come le degustazioni virtuali. Il 50% dei consumatori ha invece dichiarato di essere più ecofriendly. Non a caso, per gli acquisti di generi alimentari, il 44% dei consumatori è disposto persino a pagare di più per un imballaggio ecologico o sostenibile e il 36% per un

Alessio Cardi Omar Cadamuro

prodotto realizzato in maniera green. In ogni caso, il fattore prezzo rimane il principale ostacolo per questa tipologia di acquisti, e proprio ai ‘prezzi’ si riferisce un altro dei nuovi trend emersi durante la pandemia, con più della metà degli intervistati che dichiara di essere diventato più attento al risparmio. Soprattutto, il prezzo rimane il principale driver degli acquisti online per la maggior parte delle categorie, anche se in modo meno marcato per i generi alimentari. In ogni caso, i consumatori si aspettano comunque di aumentare la loro spesa per i generi alimentari e per il take away, collegati non a caso a stretto filo. Un altro trend riguarda l’attenzione alla salute, con un quarto dei consumatori che proprio per questo si aspetta di orientare la propria spesa in primis ai generi alimentari. Questi consumatori sono anche quelli maggiormente propensi a fare acquisti online. Infine, la pandemia ha spinto le persone a ‘diventare locali’, e quindi a scoprire le proprie regioni e il cibo da ristoranti di prossimità così da compensare, molto probabilmente, l’impossibilità di viaggiare.

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Fattore contatto ‘HUMAN’

“Il Vino e la sua Human Customer Intimacy” è la ricerca presentata da Sergio Scornavacca, director industrial market and northern Italy lead di Minsait, società del Gruppo Indra attivo nella consulenza negli ambiti della digital transformation e delle information technologies. L’analisi parte dallo studiare ciò che si dice del vino sui social media italiani: è emerso che le conversazioni sui vini Docg, in un anno, hanno totalizzato 668.600 messaggi (volumi molto alti se confrontati con i formaggi che, tra le tematiche più discusse, ne totalizzano 1,1 milioni) e la maggioranza delle conversazioni si sviluppa attorno a Franciacorta e Prosecco. Il social più utilizzato è Instagram, anche se YouTube, pur sviluppando pochi contenuti, ha un alto tasso di visualizzazioni. L’analisi si arricchisce poi di un esperimento in cui, tramite mistery calling, sono state chiamate le prime 40 aziende del vino per fatturato, chiedendo loro diversi quesiti, da consigli di wine pairing per una cena tra amici a dove poter reperire il loro vino. È emerso che il 100% delle aziende ha chiesto se l’utente fosse b2b o b2c, il 20% ha chiuso la chiamata quando ha capito che si trattava di acquirenti ‘al dettaglio’, il 10% ha fornito risposte esaustive e di queste il 5% ha dato indicazione sulla navigazione del sito. Nota particolarmente negativa: lo 0% ha chiesto informazioni su chi chiamava. Ciò che sottolinea Minsait, è che oggi esiste un enorme valore dato dal contatto ‘human’ con il cliente finale, a prescindere che sia b2b o b2c. È quindi fondamentale gestire il customer service ed avere i necessari strumenti digital: Crm, presenza web e social attiva, data platform, ecommerce, e puntare su un capitale umano preparato in comunicazione e in digital.

LUNELLI corre

in Usa e Formula 1

di Sabrina Nunziata

IL GRUPPO NON SI È MAI FERMATO, NEANCHE IN TEMPO DI PANDEMIA. HA CONTINUATO A INVESTIRE, A PARTIRE DALLA PARTNERSHIP CON LA FORMULA 1 FINO ALL’ACQUISIZIONE DI CEDRAL TASSONI. E CON LE SUE BOLLICINE, SI PREPARA A CONQUISTARE ANCHE GLI STATI UNITI La storia imprenditoriale della famiglia Lunelli prende il via nel 1952, quando Bruno Lunelli rileva da Giulio Ferrari una piccola cantina fondata a Trento nel 1902. A Cantine Ferrari si sono affiancate, nel corso degli anni, altre realtà, quali Surgiva, i vini delle Tenute Lunelli, Bisol 1542 e infine Cedral Tassoni. Matteo Lunelli, presidente e CEO Ferrari Trento – CEO Gruppo Lunelli, racconta i prossimi passi del gruppo, che si pone l’obiettivo di diventare un polo di eccellenze del bere italiano.

Come è cambiato il consumatore in questi ultimi 18 mesi caratterizzati dalla presenza della pandemia?

Siamo sicuramente tutti un po’ cambiati perché questa è stata una vicenda senza precedenti. Io credo che il consumatore e l’appassionato di vino escano da questo periodo con una maggiore attenzione ai valori, per esempio alla sostenibilità. Ci si è poi

avvicinati sempre di più al digitale, abituandoci a utilizzare la tecnologia, in molti casi già esistente ma non pienamente sfruttata. Nel nostro campo, questo si traduce in una crescita significativa delle vendite online. Il digitale, anche se non rappresenterà la maggioranza delle vendite, influenzerà comunque quasi per intero l’acquisto di vino e cibo.

In questi mesi, c’è qualcuno che si è avvantaggiato?

Nell’uscita da questo periodo saranno avvantaggiate le aziende che hanno avuto la forza e il coraggio di continuare a investire. Pensando al gruppo Lunelli e a Cantine Ferrari, abbiamo avuto la fortuna di attraversare la tempesta all’interno di una barca solida. Noi non abbiamo interrotto gli investimenti ma anzi abbiamo fatto scelte molto forti come quella di stipulare in piena pandemia un accordo triennale con la Formula 1 per fornire, al termine di ogni gara, una bottiglia di Ferrari Trentodoc per celebrare i vincitori, in quanto sicuri che la convivialità sarebbe tornata e pieni di fiducia nei confronti dei nostri marchi. Inoltre in questo momento abbiamo un cantiere aperto per allargare la nostra cantina. È un progetto molto ambizioso tanto che dovremmo anche spostare la strada che ci passa davanti. Non solo, in un momento di incertezza come questo, ha avuto un vantaggio anche chi poteva contare su un brand forte. È infatti più facile emergere quando si ha un nome riconosciuto, soprattutto quando la vendita non è intermediata, poiché i consumatori tendono ad andare verso i marchi più forti.

Com’è il vostro rapporto con l’estero?

Per Ferrari l’Italia è ancora di gran lunga il primo mercato, l’export è cresciuto in questi anni ma è ancora una quota minoritaria. Bisol, invece, vende sopratutto all’estero, con Regno Unito come primo Paese e gli Stati Uniti verso il sorpasso. Per Ferrari, l’operazione con Formula 1, della durata di tre anni, ha l’obiettivo di far crescere l’awareness e il posizionamento del nostro brand oltre confine. La Formula 1 è una piattaforma straordinaria, con oltre 500 milioni di fans nel mondo, e l’idea è quella di avere una piattaforma dove Ferrari sarà sul podio di tutti i gran premi e in tutti i momenti di convivialità.

Di recente avete acquisito Cedral Tassoni. Qual è la vostra strategia in tema di acquisizioni?

L’idea è quella di costruire un gruppo delle eccellenze del bere italiano, ovvero con aziende che condividono qualità ed eccellenza del prodotto, tradizione, legame con il proprio territorio. Nel vino è un elemento caratteristico di Ferrari, Bisol, dei vini Tenute Lunelli, della nostra grappa Segnana, ma lo è anche nel non alcolico con Surgiva e Tassoni. L’idea è quella di mantenere ogni azienda indipendente, soprattutto dal punto di vista produttivo perché ogni realtà è radicata nel territorio e deve mantenere lì le radici altrimenti perderebbero la propria identità. Come gruppo d’altro canto pensiamo che si possano creare sinergie importanti, per esempio sul lato distribuzione e comunicazione.

La costruzione del polo è un progetto in itinere quindi...

Si, ma dobbiamo lavorare anche sui nostri brand già in portafoglio. In questo momento le sfide per noi sono molto chiare: per Ferrari guardiamo soprattutto alla crescita internazionale. Sta andando bene e abbiamo i giusti segnali ma è una sfida da costruire nel tempo soprattutto perché vogliamo posizionarlo come un marchio di eccellenza con un prezzo che va vicino e in alcuni casi supera quello dello Champagne. Per Bisol invece abbiamo alcuni mercati completamente da costruire. Siamo molto orgogliosi di avere appena venduto, per la prima volta nella storia dell’azienda, la milionesima bottiglia negli Stati Uniti, questo anche grazie al nostro prosecco rosé. Mentre sta ancora soffrendo il Regno Unito, complice anche la Brexit, che per noi è stata da sempre il nostro primo mercato. Con Tassoni ‘sky is the limit’, ci sono tantissime idee, è una realtà tutta italiana e l’estero è da costruire. Per quanto riguarda invece i vini delle Tenute Lunelli abbiamo molto spazio di crescita, mentre con Surgiva stiamo guardano a diversi mercati esteri.

Voi siete stati l’antesignani della contaminazione, con manager e collaboratori provenienti da tutti i settori. È una leva importante per svilupparsi?

Penso di si. Io credo molto nella contaminazione di competenze soprattutto nelle nostre aziende dove ci sono già tante professionalità legate al mondo del vino. Portare manager da altri settori è stimolante e porta valore aggiunto, soprattutto se sono settori che hanno affinità con il mondo del vino, per esempio se si tratta di temi come la gestione del brand. E anche la cantina andrebbe contaminata di ingegneri. Qui l’enologo rimane il re, ma avere un occhio in più per raggiungere certi livelli di qualità non sarebbe male.

Per IWB la chiave è la diversificazione

IL PRESIDENTE E CEO DI ITALIAN WINE BRANDS, ALESSANDRO MUTINELLI, DEFINISCE LE PROSPETTIVE DELLA PUBLIC COMPANY NATA CON LA MISSION DI AGGREGARE SOCIETÀ NEL MONDO DEL VINO.

di Giulia Mauri

Con 170 milioni di bottiglie prodotte annualmente, oltre 50 marchi di proprietà e una quota export pari all’80%, Italian Wine Brands è tra i principali player del vino italiano. Il presidente e CEO Alessandro Mutinelli ha raccontato, sul palco del Summit Pambianco, il percorso di sviluppo: dalla quotazione in Borsa nel 2015 a oggi il gruppo è cresciuto in maniera organica e per acquisizioni (Svinando, Raphael Dal Bo, Enoitalia), passando da un fatturato di circa 140 milioni di euro a oltre 400 milioni, mentre la capitalizzazione di borsa è più che quadruplicata, raggiungendo circa 420 milioni di euro.

Come sta andando il titolo in Borsa?

Questi ultimi dodici mesi sono stati particolarmente brillanti in Borsa. Ci siamo quotati a gennaio 2015, per cui abbiamo sei anni di storia e di esperienza sul mercato borsistico italiano. Allora la

capitalizzazione di Borsa era di 65 milioni di euro, ultimamente abbiamo superato i 400 milioni, registrando una performance interessante per i nostri azionisti.

Come si spiega questa crescita del titolo?

Nel corso degli ultimi anni abbiamo sempre presentato numeri in crescita e quindi molto probabilmente abbiamo anche rassicurato gli investitori sul fatto che Italian Wine Brands fosse un buon titolo su cui allocare le proprie risorse. In questo periodo di crisi pandemica abbiamo chiuso due acquisizioni, di cui una (Raphael Dal Bo Ag, ndr) in Svizzera nel 2020, all’inizio di marzo. Poi, lo scorso luglio, è entrato nel nostro gruppo Enoitalia che ci ha consentito di fare un salto dimensionale importante, raddoppiando il fatturato e oltrepassando i 400 milioni di euro. L’operazione sicuramente ha dato un bel boost al progetto che avevamo già presentato al momento della quotazione.

In quali canali distributivi operate?

Siamo un player globale, che realizza l’80% delle vendite nei mercati internazionali, ma riteniamo che la diversificazione dei canali commerciali sia fondamentale. Oggi, dunque, siamo presenti nella grande distribuzione, nelle vendite dirette in quasi tutti i Paesi europei e, con l’ultima acquisizione, siamo anche entrati in alcuni Paesi nel canale horeca. Lo scorso anno nel canale horeca non eravamo presenti e questo ha giocato a nostro favore perché i canali della grande distribuzione e della vendita diretta hanno premiato.

A proposito di Enoitalia, le logiche sono state di diversificazione di canale e di mercato?

Sì, ma anche di portafoglio prodotti. Eravamo molto forti soprattutto nei vini fermi e nei vini rossi, con cantine di produzione in Piemonte e in Puglia, mentre eravamo scoperti sui vini spumanti. Con l’acquisizione di Enoitalia, che era molto forte nei vini spumanti e nei vini bianchi, abbiamo completato il portafoglio prodotti. I grandi gruppi di acquisto a livello internazionale cercano dei partner che possano soddisfare l’intero portafoglio prodotti che arriva dall’Italia. Oggi ci possiamo presentare in questo modo, avendo tutti i prodotti che servono per poter essere presenti all’estero.

Significa che potreste valutare in futuro anche acquisizioni di vini più premium?

L’innalzamento dell’offerta è non solo una tendenza del mercato, ma anche la direzione che Italian Wine Brands vuole intraprendere. D’altro canto, ‘Italian Wine Brands’, oltre a un nome, è una promessa. Quindi, per quanto riguarda le acquisizioni, mai dire mai, se c’è qualche brand con la ‘B’ maiuscola, perché no.

Quanto l’e-commerce sarà per voi strategico?

Il digitale sta continuando a crescere anche in questo periodo post-pandemia. L’anno scorso, durante i lockdown, abbiamo registrato una crescita eccezionale, poiché le persone stando a casa ordinavano online. Era un fenomeno già in atto, che continua tuttora. Il nostro business si divide in due parti: vendite dirette e wholesale. Con la parte wholesale si riesce a raggiungere più facilmente un maggior numero di mercati, dove ci sono strutture che hanno la capacità di distribuire il prodotto sul mercato. Nel momento in cui si fa la vendita diretta, invece, bisogna avere strutture proprie su tutti i mercati. Sicuramente è una parte che non trascuriamo, su cui investiamo, stiamo verificando quali nuovi Paesi aprire con la distribuzione diretta. Non ovunque è possibile farlo per questioni regolamentari, però, dove è possibile, investiamo capitali, organizzazioni di persone e in logistica. Non bisogna dimenticare che dietro le vendite dirette c’è una struttura logistica dedicata che è importante.

Si è parlato negli ultimi tempi di vini dealcolati. Cosa ne pensate? State lavorando a questo filone?

Sì, ci stiamo lavorando, i nostri tecnici stanno studiando come realizzare dei prodotti che siano anche buoni. Sul mercato ci sono già tanti prodotti caratterizzati, oltre che dall’assenza di alcol all’interno della bottiglia, anche dal fatto di non essere molto piacevoli da bere. Quindi la vera sfida è una sfida tecnica ed è quella di realizzare prodotti piacevoli, che possano essere riacquistati dal consumatore dopo la prima bottiglia.

Quindi non è facile fare vini dealcolati e buoni, per adesso.

La questione è tutta lì. È una tendenza presente, lo abbiamo constatato anche nella birra. La birra senza alcol c’è già da qualche anno, è un comparto ancora piccolo, ma sta continuando a crescere. È più semplice produrre una birra piacevole senza alcol piuttosto che un vino piacevole senza alcol, però ci stiamo lavorando e ci arriveremo, perché abbiamo richieste da parte del mercato. Finchè non avremo un prodotto distintivo e credibile, in ogni caso, non andremo sul mercato.

Aggregare la FORZA dei singoli BRAND

di Rossana Cuoccio

SERGIO DAGNINO, FONDATORE E AD DI PROSIT, ENTRA NEL VIVO DELLE STRATEGIE DELLA HOLDING CHE MIRA A COMPLETARE IL SUO PORTAFOGLIO CON LE CINQUE REGIONI PIÙ IMPORTANTI PER LA FASCIA PREMIUM DEI VINI ITALIANI. OBIETTIVO: UN POLO DA OLTRE 100 MILIONI ENTRO IL 2022.

Non si arresta la crescita di Prosit. La holding di aziende vitivinicole, partecipata dal fondo Made in Italy Fund, è nata nel 2019, in un settore caratterizzato da un’elevata frammentazione e da aziende di dimensioni medie ridotte, per aggregare cantine di fascia premium, puntando a farle crescere attraverso un supporto finanziario, distributivo e di comunicazione. Attualmente, il gruppo è presente in Puglia, in Abruzzo e in Veneto.

Lei è un manager di lungo corso del settore vitivinicolo, come è nata l’idea di fondare il Gruppo Prosit?

Durante i 16 anni trascorsi in Caviro ho avuto modo di conoscere molte realtà. Nel nostro settore si parla di estrema frammentazione del vino italiano, ma ci sono altrettante piccole cantine con brand validi, caratterizzati da un’ottima qualità e dalla passione dell’imprenditore che le ha fondate, che però non riescono a fare il salto. Nel 90% dei casi non a causa di un problema di finanza, ma di forma mentis, di capacità distributiva, e quindi mi sono detto che forse avrei potuto aiutare quelle cantine che, appunto, il potenziale ce l’hanno ma che non riescono a fare il famoso salto. Così nel 2019 ho costituito Prosit. Ho conosciuto Walter Ricciotti del fondo di private equity Made in Italy Fund, e insieme abbiamo iniziato a lavorare a quella che sarebbe stata la strategia del gruppo.

La vostra strategia è quella di aggregare cantine di eccellenza, con quali criteri?

Il nostro obiettivo è valorizzare i marchi di aziende familiari, con elevato potenziale, affiancando l’imprenditore e apportando all’interno delle aziende partner le necessarie risorse finanziarie e manageriali grazie ad una squadra di professionisti. Vogliamo costituire un portafoglio di brand premium delle cinque regioni più importanti per l’export italiano e metterle in grado di sviluppare tutte le sinergie, non solo di portafoglio, ma anche logistiche, di acquisti, di forza vendita. Si tratta di cantine in cui deve assolutamente rimanere viva l’individualità della famiglia che le ha fondate; ci teniamo che l’imprenditore resti a gestirle e che trasmetta tutta la forza di quella regione, ma che allo stesso tempo capisca l’importanza di fare gruppo.

Da quali cantine è formata la vostra realtà?

Attualmente il gruppo è composto dalla cantina veneta Collalbrigo, dalla pugliese Torrevento e dall’abruzzese Nestore Bosco, che è stata nel 1968 la prima esportatrice negli Usa del Montepulciano d’Abruzzo. Entro l’anno dovrebbero arrivare anche cantine dalla Toscana e dal Nord-Est.

Come chiuderete il 2021?

L’obiettivo di quest’anno, con l’acquisizione dell’importatore statunitense Votto Vines, è di sfiorare i 70 milioni di ricavi. Guardando avanti, il nostro obiettivo è allargare il portafoglio dei marchi superando i 100 milioni di euro entro il 2022.

Avete allo studio altri progetti?

I progetti in mente sono tanti. Proprio perché il vino è estremamente “unbranded”, bisogna iniziare a usare il fatto di essere italiani non come l’unica forza che abbiamo, ma come trampolino di lancio. Prendiamo spunto, ad esempio, dalla moda italiana che è così prestante grazie alla forza dei suoi brand. Ci piacerebbe che anche nel settore del vino fosse così.

La quotazione in Borsa, per voi, può essere una leva per fare acquisizioni e per avere maggiore visibilità?

Mai dire mai, premesso che Made in Italy Fund ci sta supportando a dovere nel nostro percorso di crescita. È chiaro che se ci capiterà in futuro di portare avanti acquisizioni più impegnative, e se la Borsa ci dovesse aiutare a sostenere il progetto, potremmo senza dubbio valutare.

SANTA MARGHERITA: ottimismo per il 2021

di Giulia Mauri

DALL’INTUIZIONE INIZIALE DEL CONTE MARZOTTO SONO TRASCORSI 86 ANNI. OGGI, L’AD GAROFALO SPIEGA CHE IL GRUPPO HA PIENA CONSAPEVOLEZZA DI UN FATTORE STRATEGICO: LA CAPACITÀ DI ABBINARE IL B2C ALLA CULTURA B2B. Fondato nel 1935 dal conte Gaetano Marzotto, Santa Margherita Gruppo Vinicolo raggruppa dieci diverse tenute in alcune tra le regioni più belle dell’enologia italiana. Attraverso i brand Santa Margherita, Torresella, Kettmeir, Ca’ del Bosco, Cà Maiol, Lamole di Lamole, Vistarenni, Sassoregale, Terrelíade e Cantina Mesa, rappresenta uno dei poli più significativi in Italia, con oltre 22 milioni di bottiglie vendute nel 2019. L’AD Beniamino Garofalo, in occasione del Summit Pambianco, ha spiegato le strategie di una realtà che oggi copre i 5 continenti.

Come sta evolvendo il rapporto con il consumatore?

Quanto è successo nel 2020 ha accelerato alcuni processi che in parte c’erano e che in Santa Margherita siamo convinti rimarranno anche nei prossimi anni. È necessario che le aziende del vino

passino da una cultura b2b a una cultura più b2c. Come in altri settori, è necessario lavorare su strategie in linea con le esigenze del consumatore. In questo senso, il nostro fondatore, Gaetano Marzotto, fu un pioniere, perché agli inizi degli anni sessanta individuò nel Pinot Grigio un vino con delle caratteristiche più moderne, allineate con i nuovi gusti degli italiani, e adatto a un consumo più conviviale.

Quali fattori contraddistinguono il gruppo?

La fortuna del gruppo è di avere un mosaico enologico di dieci diverse cantine. Un percorso che è stato costruito dal management che mi ha preceduto e dalla proprietà, la famiglia Marzotto, oggi alla terza generazione. Nel corso degli anni sono state acquisite cantine che si pensava potessero rappresentare nuovi trend, ad esempio la Lugana e il Vermentino, che da qualche anno continua ad avere tassi di crescita a doppia cifra, anche con il 3 davanti. Inoltre, oggi abbiamo una presenza internazionale, che ci consente non solo di avere la prima mossa in termini competitivi, ma anche di capire i trend globali. Il gruppo è presente in 95 Paesi, sviluppa il 70% del business all’estero e il 30% nel Paese domestico, e ha una filiale negli Stati Uniti, primo mercato nel mondo del vino. Ma, soprattutto, abbiamo la capacità di essere multicanale e andare a coprire vari segmenti di consumo, premium e upper premium. Questo ci ha favorito anche nel 2020, anno in cui la flessione è stata single digit, dovuta alla chiusura del canale horeca, ma con margini superiori all’anno precedente e quindi un ebitda in crescita.

E quest’anno come sta andando?

Al di là delle mie migliori aspettative, se devo essere onesto. A fine agosto le performance sono state buonissime in tutte le geografie, c’è stato un rimbalzo favorevole ed effettivo, non so quanto strutturale, in tutti i Paesi dove la campagna vaccinale è avanzata in maniera abbastanza spedita. Non si ha una grande visibilità di medio-lungo periodo, però devo dire che il settore del vino sta reagendo molto bene, c’è tanta voglia di convivialità. Per quanto riguarda la chiusura del 2021, rimango ottimista perché credo che non ci saranno le stesse restrizioni che abbiamo subito nel 2020. Come gruppo crediamo di chiudere un anno positivo, maggiore in termini di ricavi rispetto al 2019, che è l’anno di riferimento perché il 2020 è stato talmente straordinario nella negatività che non ha molto senso assumerlo come benchmark, e anche a livello di marginalità crediamo di arrivare a risultati migliori di quelli degli anni precedenti che avevano segnato record storici.

Quale ruolo ha ricoperto e ricoprirà il digitale?

Il digitale non ha rappresentato per noi uno strumento per tamponare le vendite perse nel canale horeca, ma per cercare di comunicare al meglio con i wine lovers e raccontare loro la nostra storia. Sicuramente è un canale che continuerà a crescere, magari con tassi che non saranno gli stessi del 2020, ma è un trend che non cambierà e chi ha deciso di acquistare vini online probabilmente continuerà a farlo. I consumatori, e lo siamo tutti, hanno cercato i brand con un heritage, che davano loro sicurezza, per replicare l’esperienza ‘by the glass’ a casa, anche se ritengo che il vino sia convivialità e che i ristoratori siano i nostri ambassador. Il vino va consumato in compagnia, è l’emblema della convivialità, e noi italiani ne siamo la massima espressione. Pertanto ritengo che il settore tornerà a essere ancora più forte di prima, magari un po’ più riorganizzato per affrontare le nuove sfide del futuro.

Può avere senso sviluppare l’e-commerce in maniera diretta? E che senso può avere?

Il mondo digitale delle aziende del vino è un asset da intensificare, da sviluppare. Credo che l’azienda non possa sostituirsi agli specialisti dell’online, ma devono crescere le partnership ed essere win-win sia per noi che per questi operatori. Le aziende possono dare al consumatore delle esclusività che magari un veicolo generalista con più cantine fa fatica a offrire. Quindi non parlerei di un e-commerce diretto, ma un wine club, per esempio, potrebbe essere un veicolo utile all’azienda per parlare ai consumatori finali offrendo anche dei servizi e dei prodotti molto più specifici e differenziati.

Quali cambiamenti andrebbero introdotti nel settore?

Credo che una riflessione da fare nel mondo del vino sia legata alla managerializzazione, alla contaminazione delle competenze. Facciamo degli ottimi prodotti, ma abbiamo anche delle grandi persone che hanno costruito queste aziende e quindi ‘contaminazione’ ritengo che sia un vocabolo azzeccato. Il mondo del vino per il sistema Italia è un comparto estremamente importante ed è necessario mantenerne la storia, ma, se manca la managerialità, oggi bisogna inserirla.

SANPELLEGRINO

cresce con l’acqua ‘plus’

di Giulia Mauri

LA SOCIETÀ DEL GRUPPO NESTLÉ OCCUPA UN POSTO DI PRIMO PIANO TRA LE AZIENDE ITALIANE CON UNA STORIA DI OLTRE 120 ANNI. IL CEO STEFANO MARINI CONDIVIDE GLI OBIETTIVI DI SVILUPPO E RACCONTA L’IMPEGNO PER LA CURA DELLE RISORSE IDRICHE. Sanpellegrino, con oltre 1.400 dipendenti e un fatturato di circa 893 milioni di euro nel 2020, è una realtà di riferimento nel campo del beverage non alcolico in Italia, con acque minerali, aperitivi analcolici e bibite. Negli anni, ha spiegato il CEO Stefano Marini sul palco del Summit Pambianco, è riuscita ad affermarsi in più di 150 Paesi nel mondo, attraverso filiali e distributori sparsi nei cinque continenti, accreditandosi come ambasciatrice dell’ltalian style.

Siete uno dei principali player del beverage in Italia. Quanto è forte il vostro legame con l’horeca?

Internamente diciamo che l’horeca non è un canale di vendita, bensì il canale di elezione che da sempre rappresenta S.Pellegrino e Acqua Panna. Sanpellegrino, infatti, è nata nel 1899 con la presenza sulle tavole dei ristoranti in Italia e, negli anni successivi,

anche nel mondo. Dunque c’è un legame che va oltre le vendite, motivo per cui, nel momento in cui il mondo dell’horeca è entrato in lockdown, non ha rappresentato solo un danno a livello di fatturato, ma anche a livello di visibilità.

Non è stata, dunque, Nestlé a portare Sanpellegrino nella ristorazione, è stata un’intuizione precedente.

Sì, è così, nei primi anni del Novecento ha iniziato a essere esportata in Svizzera, in Germania, poi negli Stati Uniti, diventando l’acqua di riferimento prima dei ristoratori italiani, poi del fine dining più in generale. Negli ultimi 20-25 anni, abbiamo investito molto soprattutto sul futuro della ristorazione. S.Pellegrino Young Chef ne è la testimonianza, così come la partnership con 50 Best. Ed è ecco perché, durante i lockdown, invece di tagliare gli investimenti per ridurre il danno legato alle mancate vendite, abbiamo scelto di dare un segnale di presenza e di supporto attraverso il programma #SupportRestaurants a un mondo che ha dato tanto alla marca. Abbiamo donato oltre 1 milione di euro in prodotti omaggio per la riapertura e abbiamo lanciato una campagna di comunicazione per invitare a tornare al ristorante.

Come è stata la ripartenza?

Appena si è ripartiti il rimbalzo è stato evidente. Noi esportiamo in oltre 150 Paesi, la quota di export è pari a 2/3 di circa 900 milioni di fatturato. I Paesi che hanno riaperto prima di noi, quindi l’Australia e Israele, ci avevano già dato questo sentore di ripartenza estremamente veloce del sell out. Credo, però, che ci sia una maggiore selettività da parte del consumatore. C’è una minore frequenza di uscita, per cui le persone quando escono vogliono vivere un’esperienza di valore e in sicurezza. Grande fiducia viene riposta nelle marche e nelle insegne.

Si tratta di una selettività trasversale, che interessa sia ristoranti premium sia commerciali?

Sì, è indipendente dalle fasce di mercato. Dal nostro monitoraggio emerge che vengono premiate le occasioni di consumo che offrono un’esperienza differenziante, distintiva. Il ristorante generico, medio, è quello che soffre di più.

Il consumatore è selettivo nei ristoranti, ma lo è anche nei marchi?

Sì, lo è in generale nel mondo del beverage analcolico o delle acque, sia nella ristorazione, nell’horeca, che nella gdo. Sicuramente le marche hanno avuto e hanno una funzione di rassicurazione sulla qualità. È chiaro che un altro elemento fondamentale è quanto queste marche sono percepite come positive per la società. Noi usiamo molto il concetto della ‘force for good’, quindi di essere una forza positiva per la società. Quando parliamo di sostenibilità, ci riferiamo a una sostenibilità ambientale, che è centrale, ma anche a una sostenibilità sociale, di cui la sostenibilità economica è una conseguenza.

Quindi il goodwill della marca ricade sul ristorante, è un rafforzativo dell’esperienza.

Sì, fa parte dell’offerta complessiva, dell’esperienza sul punto di consumo che è fatta di servizio e di preparazione gastronomica, ma anche di indicatori di marca, che danno un segnale al consumatore del livello di qualità che quel determinato punto di consumo vuole trasferire.

I vostri clienti, quindi l’horeca, come si sono comportati sul digitale?

Il digitale è stato un elemento fondamentale durante i periodi di chiusura. Ora è diventato un elemento dell’offerta complessiva, dimensionalmente non rilevante, che però ha permesso di catturare il consumatore da un punto di vista più intimo. Al di là del fatturato derivante dal delivery o dall’asporto, c’è un tema di legame e, di conseguenza, di dialogo che si può iniziare con il consumatore, attirandolo piuttosto che offrendogli delle esperienze personalizzate.

Quali sono i driver di sviluppo di Sanpellegrino?

Non si cresce soltanto perché si ha il nome ‘Sanpellegrino’, è importante continuare a investire e farlo con un’ottica di medio termine. Le due aree fondamentali su cui noi vogliamo investire sono l’innovazione e la sostenibilità. Per la prima volta tre anni fa abbiamo toccato la candida acqua S.Pellegrino mettendo una goccia di flavour e l’abbiamo chiamata S.Pellegrino Essenza, un’acqua aromatizzata che è stata lanciata principalmente negli Usa e che ha già raggiunto la soglia minima per cui nel Paese un lancio è considerato rilevante, ossia i 100 milioni di dollari di fatturato. Andremo in questa direzione delle acque ‘plus’. Sul fronte della sostenibilità, l’altro grande progetto è quello di ampliamento del sito produttivo, la Flagship Factory di San Pellegrino Terme, in modo da renderlo 100% sostenibile nell’ambito dei trasporti e dell’imbottigliamento, ma anche rispetto alla capacità di generare valore per le comunità locali e per la valle circostante.

L’e-commerce italiano si allarga all’ESTERO

di Sabrina Nunziata

NUOVE SEDI, PARTNERSHIP E ACQUISIZIONI STRATEGICHE. LE PIATTAFORME TANNICO ED XTRAWINE RACCONTANO I LORO PIANI DI SVILUPPO, ACCUMUNATE DALLA VOGLIA DI AFFERMARSI OLTRE CONFINE. Le piattaforme italiane dedicate all’e-commerce di vino vogliono espandersi all’estero, che sia tramite partnership, acquisizioni o aprendo direttamente nuove sedi. Tannico, che nel 2020 ha gestito oltre 400mila ordini chiudendo l’anno con un fatturato che ha superato i 37 milioni di euro (+82%) di cui il 15% generato dall’estero, nel giro di poco più di un anno ha stretto delle partnership con due multinazionali. In primis, nel 2020, con Campari Group che è entrato in Tannico con una partecipazione del 49 per cento. Nel 2021, è arrivato il deal con Lvmh, nello specifico con la sua divisione vini e liquori. Moët Hennessy e Campari Group hanno formato una joint venture 50/50 al fine di creare un player paneuropeo premium nel canale e-commerce di wine&spirit attraverso Tannico. Diverso è invece il discorso per Xtrawine, digital company specializzata nella vendita di vino online con oltre 8mila etichette e partecipata da Made in Italy Fund, il fondo di Quadrivio & Pambianco che ne ha acquisito la maggioranza. L’azienda fin da subito ha avuto un approccio internazionale tanto che l’estero a oggi genera circa il 50% del fatturato. “La nostra strategia di espansione non passa per le acquisizioni, puntiamo a lavorare sul

brand portandolo all’estero”, spiega il CEO Alessandro Pazienza durante la prima tavola rotonda del summit. Nel 2015, Xtrawine ha aperto una sede a Hong Kong e negli scorsi mesi anche in Svizzera. “Ora guardiamo con attenzione l’Inghilterra che, fino al 2020, era il nostro primo mercato estero, ma con la Brexit sono nate alcune difficoltà, pertanto vorremmo una sede anche lì”. Inoltre, “l’anno prossimo vorremmo aprire anche in Corea, dove stimiamo di chiudere l’anno con un fatturato di 1 milione di euro, contro i 15mila dello scorso anno, un boom realizzato grazie a una recensione fatta a inizio anno su un popolare social del Paese, in cui un utente ci faceva i complimenti. Da lì il mercato è esploso”. Rimanendo in tema, Xtrawine sta lavorando molto sulla comunicazione e sulla creazione di contenuti online grazie a un proprio blog che quest’anno ha raggiunto oltre 2 milioni di visitatori unici.

FATTORE SOURCING L’acquisizione della piattaforma di e-commerce francese Venteàlapropriété, messa a segno ad aprile 2021, ha permesso a Tannico di accedere a una vasta selezione di vini francesi, anche di nicchia. “Questa azienda - precisa il CEO di Tannico Marco Magnocavallo - è il nostro omologo in Francia, tra l’altro entrambe hanno un fatturato simile e superiore ai 30 milioni di euro, ma ha un modello di business differente che la rende complementare: noi ci basiamo su assortimento e catalogo, mentre loro hanno pochi prodotti e ogni giorno ne presentano e raccontano uno nuovo”. In questo modo “la piattaforma francese accede al sourcing italiano e viceversa, che è importante se si vuole costruire un player leader a livello paneuropeo”, prosegue il manager. “Noi disponevamo già di un bell’assortimento in Francia, e di fascia alta, oltre a una sezione di vini da collezione. Ma Venteàlapropriété ha al suo interno il miglior sommelier di Francia, che provvede a una qualità

Alessandro Pazienza

Marco Magnocavallo

LA PIATTAFORMA E-COMMERCE FRANCESE VENTEÀLAPROPRIÉTÉ PUÒ COSÌ ACCEDERE AL SOURCING ITALIANO E VICEVERSA, CHE È IMPORTANTE SE SI VUOLE COSTRUIRE UN PLAYER LEADER A LIVELLO PANEUROPEO “

estrema nella scelta delle etichette, anche quelle più di nicchia”. Non solo, Tannico sta anche lavorando alle importazioni dirette così da saltare gli intermediari e offrire un prodotto con il 15/25% di prezzo in meno. Proprio la categoria dei vini importati direttamente genera circa il 20% del fatturato.

SCONTRINI E MARGINI La sostenibilità di una piattaforma online passa dai propri margini che, a loro volta, dipendono da una serie di fattori, tra cui quello inerente alla gratuità della spedizione oltre una certa soglia di scontrino. Anche in questo caso, l’estero gioca un ruolo chiave nel determinare questo valore. “Per noi di Xtrawine lo scontrino deve essere di almeno 120 euro”, spiega Pazienza. “Questo dipende in primis dalla nostra forte presenza estera e in Paesi dove la capacità di spesa è più alta che in Italia e, non a caso, anche il nostro mix di prodotti parte da un prezzo minimo a bottiglia di circa 7 euro”. Tannico, d’altro canto, ha abbassato l’asticella dagli 89 a 29,90 euro. “Un paio di anni fa - spiega Magnocavallo - lo standard era sui 90 euro, poi abbiamo provato ad abbassarlo e usarlo come leva di marketing, così da dare la possibilità a più persone di usare il servizio”.

SGUARDO AL FUTURO E come si prospetta, in generale, il futuro del settore? “Credo che tenderà a concentrarsi, con i principali player esistenti che resteranno tali e diventeranno sempre più grandi”, spiega Pazienza. “Si sono infatti create barriere all’ingresso per i nuovi operatori, e non è una questione di milioni investiti ma anche di tecnologie a disposizione”.

CREDO CHE IN FUTURO IL SETTORE TENDERÀ A CONCENTRARSI, CON I PRINCIPALI PLAYER ESISTENTI CHE RESTERANNO TALI E DIVENTERANNO SEMPRE PIÙ GRANDI. PER I NUOVI OPERATORI, SI SONO CREATE BARRIERE ALL’INGRESSO “

L’opportunità DIGITALE resta APERTA

di Rossana Cuoccio

VALERIO PEREGO, MANAGER DI FACEBOOK ITALIA, SPIEGA COME LA PANDEMIA HA RESO IL DIGITALE IL CANALE PIÙ IMPORTANTE E COME OGGI LE AZIENDE POSSANO SFRUTTARLO AL MEGLIO PER AUMENTARE LA PROPRIA VISIBILITÀ E I PROPRI PROFITTI.

Facebook (che comprende anche Instagram e Whatsapp) svolge sempre di più un ruolo importante per le aziende non solo come vetrina, ma come sostegno concreto alle vendite, sia online che offline. Valerio Perego, sector lead Cpg, pharma, retail Facebook Italia, racconta come anche le realtà del wine&food stiano studiando questa opportunità.

Facebook vanta un osservatorio unico a livello mondiale, che tipo di tendenze avete avvertito negli ultimi mesi?

Tutti noi, nell’ultimo anno e mezzo, abbiamo cambiato il nostro modo di interagire. Il digitale ha rappresentato il canale primario, durante la pandemia, attraverso il quale abbiamo lavorato, creato, giocato. Innanzitutto, si è particolarmente sviluppato il tema della conversazione, quindi chiamate e videochiamate, e questo ha visto crescere i nostri servizi di messaggistica istantanea come Messenger e Whatsapp. Il consumatore è cambiato, vuoi perché ha avuto più tempo, vuoi perché ha avuto più curiosità, tutti noi abbiamo imparato qualcosa durante questi mesi particolari. Specialmente nel settore del food e del wine, questa tendenza ha dato sfogo a un interesse verso tutte quelle che sono le maestrie tipiche italiane. Penso, ad esempio, alla ‘panificazione’ che è stata un po’ la keyword di questo periodo. Interessante poi è stato lo sviluppo della relazione che il consumatore ha avuto con le aziende. Non si parla più solo di call center, ma di utilizzare i servizi di messaggistica istantanea, quindi comunicazioni via whatsapp e messanger direttamente con le aziende stesse. Allo stesso tempo abbiamo visto crescere anche il mondo delle community. Hanno agito bene le aziende che hanno partecipato attivamente a queste forme di aggregazione con contributi e creando valore.

E l’e-commerce?

Anche l’e-commerce ha avuto una forte accelerazione. In particolare in Italia, dal 2010 al 2020, la quota di e-commerce è passata dal 7 al 20%, crescendo del 13 per cento. La stessa quota è cresciuta di un’ulteriore 13% da gennaio 2020 a maggio 2020. È stata un’accelerazione che non ci aspettavamo: all’interno del canale e-commerce, una persona su due ha speso più soldi, e sei persone su dieci hanno comprato su nuovi siti sperimentando quindi nuove esperienze.

Il food&wine è un settore votato all’export. Le aziende come possono sfruttare il canale digitale per aumentare la loro visibilità internazionale?

Quello che il mondo di Facebook vuole portare nel mondo del business è la semplicità di creare delle piattaforme che siano semplicemente scalabili e possano lavorare su più Paesi. Noi come Facebook Italia, per quelle che sono le aziende che vogliono spingere sul concetto di export, lavoriamo nella gestione non solo del Paese italiano, quindi non con il classico accounting Paese per Paese, ma accompagnando le aziende su più Paesi. Riteniamo che l’e-commerce non possa essere un asset di business stand alone, ma che debba essere integrato in quella che è una strategia aziendale parte del piano industriale e non una parentesi relativa solo al periodo della pandemia. Un altro aspetto importante è l’analisi dei dati. Facebook mette a disposizione moltissimi dati che devono essere utilizzati per comprendere come dialogare meglio con i nostri consumatori in termini di segmentazione, di interesse, di contenuto. In particolare, per tutto lo scorso anno abbiamo investito con l’istituto di ricerca internazionale Nielsen per il Nielsen Media Impact, uno strumento che permette alle aziende di capire quali sono i loro consumatori, che share di consumatori ci sono all’interno dei diversi canali, affinché si possano ridurre inefficienze legate al fatto di non riuscire a raggiungere il proprio target di riferimento.

MASI AGRICOLA apre a nuovi consumatori

LA SUA STORIA INIZIA NEL 1772, QUANDO I BOSCAINI ACQUISTARONO VIGNETI NELLA VALLE DENOMINATA ‘VAIO DEI MASI’. L’AZIENDA È TUTTORA DI PROPRIETÀ DELLA FAMIGLIA, CHE OGGI OPERA ATTIVAMENTE CON LA SESTA E SETTIMA GENERAZIONE.

di Giulia Mauri

Radicata in Valpolicella Classica, Masi produce e distribuisce Amarone e altri vini ispirati ai valori del territorio delle Venezie. La società, dal 2015 quotata nell’Aim Italia, ha lanciato nel 2021 sui mercati internazionali Fresco di Masi, due vini biologici interpreti di una rinnovata visione di sostenibilità e basati su una produzione ‘per sottrazione’ che minimizza l’intervento dell’uomo sulla natura. Un ritorno alle origini e all’essenza del vino, ha spiegato Raffaele Boscaini, marketing director, intervenuto al Summit Pambianco.

Cos’ha notato di rilevante in questi mesi di cambiamento?

Ho visto la forza della marca, che significa che anche nella grande difficoltà che abbiamo subito nel 2020 la ruota ha continuato a girare per inerzia, per cui si sono mantenute le relazioni con il consumatore finale ma anche con tutti gli intermediari della

filiera. Motivo per cui alla ripartenza c’è stato quasi un effetto molla, si è ripartiti con uno scatto molto importante. Inoltre, ho notato con piacere, che si sono infranti certi dogmi a favore di una trasversalità. Non ci sono quasi più i prodotti esclusivi off trade e i prodotti esclusivi on trade, ma c’è una contaminazione positiva per tutti, perché alla fine è un servizio rivolto al consumatore finale che è il protagonista dei movimenti del vino. È chiaro poi che, io dico sempre, ‘ogni albero fa la sua ombra’, ogni azienda, ogni brand, ogni categoria avrà i suoi spazi di movimento.

Dunque, più un marchio è forte, più si instaura un rapporto diretto con il consumatore. Uno stimolo a far ragionare le aziende sempre di più in un’ottica b2c. Anche voi ci state ragionando?

Assolutamente sì. In questo senso, appena dopo la quotazione, abbiamo sviluppato la Masi Wine Experience, un canale specifico per dialogare direttamente con il consumatore finale, senza però dimenticare che gli intermediari, i ristoratori, i distributori, sono comunque sempre coinvolti a ogni livello della filiera, anche comunicativa. La Masi Wine Experience consiste nell’apertura di luoghi fisici di irraggiamento del nostro messaggio, ristoranti e wine bar, come a Zurigo nel 2015, Tenuta Canova sul Lago di Garda nel 2016, nel 2018 Cortina d’Ampezzo sulle piste del Monte Tofana e lo scorso giugno a Monaco di Baviera, in Germania.

Avete in programma di aprire altri wine bar?

Abbiamo in mente, a seconda delle occasioni che ci si presentano, di aprirne uno all’anno, in località diverse: dove Masi è già presente e magari è anche un marchio maturo, al quale si possono associare ulteriori significati, oppure nei mercati in cui ha ancora bisogna di sviluppo e nei quali può essere una testa d’ariete.

Avete un Investor Club. Di cosa si tratta?

Il Masi Investor Club nasce dalla constatazione che, dopo lo sbarco in Borsa, i nostri titoli sono andati per la maggior parte nelle mani di risparmiatori privati. E quindi è un modo per ingaggiare questi appassionati della marca, che non sono investitori in cerca di profitto, ma consumatori mossi dalla passione. A queste persone - ad oggi sono circa un migliaio a essere entrati nell’investor club - rispondiamo dando, tra virgolette, le chiavi dell’azienda, dedicandogli spazi e momenti in cui sono invitati in via esclusiva.

Un migliaio non sono pochi. Stanno crescendo?

Sì, stanno crescendo e credo che ci sia anche una tendenza al passaparola. L’accesso è molto semplice, tutti coloro che hanno acquistato almeno 1.000 azioni Masi possono entrare a far parte di Masi Investor Club.

Qual è la strategia legata al lancio di Fresco di Masi?

Rispettiamo le nostre origini e il nostro Amarone, che è sempre il nostro cavallo di battaglia, la nostra tradizione, un vino tra l’altro che esprime dei valori territoriali importantissimi. Però, quasi in risposta al cambio culturale che è stato indotto dal Covid, abbiamo lanciato un prodotto più vicino alle esigenze quotidiane. Abbiamo pensato al consumatore giovane, che si avvicina al vino in maniera più semplice. Parliamo di un vino dal sapore molto approcciabile. L’ho definito ‘il vino del contadino finalmente senza difetti’. Quello che si beve fresco, rinunciando a parecchie lavorazioni dal vigneto al calice. Non c’è invecchiamento, non c’è appassimento e non c’è passaggio in legno, i lieviti sono quelli selvaggi dell’uva, ha un grado alcolico contenuto e quindi è aperto a un consumo più libero. Non necessita nemmeno del bicchiere adatto per berlo. A scaffale costa il rosso costa 11,50 euro e il bianco 10,50 euro.

E quali obiettivi avete su questo vino?

Noi ci crediamo e ci stiamo investendo molto. Abbiamo avviato la produzione il primo anno con circa 150.000 bottiglie, abbiamo avuto un successo enorme e in 3-4 anni puntiamo ad arriviare al milione di bottiglie.

Cosa pensate del dealcolato?

È un fenomeno che osserviamo. Io sono sempre molto attento a queste cose, non sparo mai a zero prima ancora di vederle e penso che ci sia un mercato. Per le esperienze che ho avuto, al momento non ho trovato niente di buono.

Sintetizzando, avete un marchio forte, legato alla tradizione, ma state guardando anche ai nuovi consumatori e a nuovi prodotti che possono rappresentare il futuro di Masi.

Abbiamo scoperto, nel caso di Fresco di Masi, ideato per il consumatore giovane, che conosce poco il vino, che non ha voglia neanche di impegnarsi troppo per capirlo, che sono tanti, anche tra i più anziani, a pensare “finalmente il vino come una volta”.

Nuovi format CIRFOOD e LA PIADINERIA

IL COVID HA INFLUENZATO LE PERFORMANCE DEI DUE PLAYER DELLA RISTORAZIONE, SENZA TUTTAVIA ARRESTARNE I PIANI DI SVILUPPO.

di Giulia Mauri

Crescono a ritmo di acquisizioni e nuove aperture Cirfood Retail e La Piadineria. Le due società hanno lanciato un messaggio chiaro dal palco del Summit Pambianco, dove sono state protagoniste di una tavola rotonda moderata da David Pambianco. L’obiettivo è riprendere il percorso di sviluppo, anche con nuovi modelli di business.

PROGETTI IN CORSO Fondata nel 2019, Cirfood Retail affonda le proprie radici nell’esperienza di oltre cinquant’anni di Cirfood, impresa cooperativa italiana attiva nella ristorazione collettiva, che ha chiuso l’esercizio 2020 con un patrimonio netto di 156,4 milioni di euro e un valore della produzione di 424 milioni di euro. Per affiancare alla ristorazione commerciale di servizio, trainata dal marchio Rita e dai format Tracce e Chiccotosto, la ristorazione commerciale ‘retail’, è stata costituita Cirfood Retail, che oggi annovera tre brand: la gastronomia siciliana Antica Focacceria S. Francesco, Kalamaro Piadinaro, piadina gourmet di pesce, e la patata ripiena all’italiana Poormanger. “L’obiettivo nel medio termine è che

la ristorazione commerciale diventi un pezzo importante del gruppo - ha rivelato Leopoldo Resta, amministratore delegato di Cirfood Retail -. È quello su cui abbiamo iniziato a lavorare alla fine del 2019. Dopo pochi mesi siamo stati colti, come tutti, dallo tsunami. Però devo dire che è stata una bella prova, perché ha subito messo in discussione la scelta strategica del gruppo, che ha retto. Abbiamo proseguito con le acquisizioni, anche se non c’è dubbio che la pandemia ci abbia portato via un po’ di benzina e quindi i programmi siano diversi da quelli che immaginavamo”. Naviga nelle stesse acque anche La Piadineria, catena fast casual food istituita nel 1994 e acquisita nel 2018 dalla società d’investimento Permira. “Durante la pandemia siamo riusciti a proseguire lo sviluppo, chiaramente rallentando. L’anno scorso abbiamo aperto 25 punti vendita, nel primo semestre ne abbiamo aperti altri 30, un’altra ventina speriamo di riuscire ad aprirli entro la fine dell’anno”, ha dichiarato il General Manager e Deputy CEO Andrea Valota. La rete La Piadineria conta oggi più di 290 punti vendita collocati nelle maggiori città italiane e 8 sul territorio francese, tra Nizza e Marsiglia e nell’area attorno a Parigi. “Le prospettive sono positive, anche se molto si giocherà nei prossimi mesi”, ha aggiunto il manager, facendo riferimento alla situazione sofferta nei centri commerciali non soltanto per la diminuzione del numero di visitatori, ma anche per la contrazione del tempo trascorso all’interno delle strutture, con conseguente riduzione delle occasioni di consumo.

FORMAT IN DIVENIRE Una situazione controbilanciata dall’ormai nota accelerazione della trasformazione digitale, che ha coinvolto anche il settore del food, con un’impennata delle piattaforme di consegna a domicilio a partire dai giorni di chiusura per il contenimento dell’epidemia di Covid-19. “Il mercato della delivery tradizionale, per telefono, sommato a quello digitale,

Leopoldo Resta, amministratore delegato di Cirfood Retail

Andrea Valota, General Manager e Deputy CEO del Gruppo La Piadineria

CREDEVAMO E CREDIAMO ANCORA MOLTO NEL SETTORE DEI CENTRI COMMERCIALI. ABBIAMO CONSTATATO LA RIDUZIONE DEL TEMPO DI VISITA AL LORO INTERNO E CREDO CHE SU QUESTO PUNTO BISOGNERÀ LAVORARE “

via app, vale poco meno di 4 miliardi e la delivery digitale si stima che quest’anno arrivi intorno al miliardo con un grosso aumento, pari al 25%, rispetto al 2020 - ha precisato Valota -. Le app sono in forte crescita ed è emerso che l’80% degli italiani ha provato o aveva intenzione di provare durante e dopo il lockdown i servizi di home delivery”. Un orizzonte di sviluppo, dunque, non più trascurabile. “In Piadineria abbiamo cercato di cogliere il momento per iniziare a offrire il servizio di home delivery rendendo questo meccanismo profittevole e risolvendo problematiche operative - ha proseguito Valota -. Abbiamo punti vendita che fanno home delivery dal 5% al 30-35%, quindi adesso stiamo ragionando su nuovi layout affinché i locali risultino ospitali per chi si ferma, ma anche funzionali per chi deve soltanto ritirare il prodotto. Un redesign che coinvolgerà tutti i processi, sia fisici che digitali, attraverso il passaggio da una piattaforma multichannel e solo parzialmente crosschannel a un sistema omnichannel”. Delle tre insegne di Cirfood Retail, che insieme hanno totalizzato poco più di 30 milioni di fatturato nel 2019, Poormanger è la proposta gastronomica che meglio si è prestata alla consegna a domicilio. “Poormanger è un’insegna torinese veramente notevole, perché quando l’abbiamo acquisita aveva soltanto due locali, ma con delle performance economiche incredibili - ha commentato Resta -. Per scelta, ci siamo affidati in esclusiva a Glovo per le consegne, ma la sua capillarità non è bastata a servire la città di Torino durante il lockdown. I taxi erano fermi e quindi abbiamo stretto una partnership con Wetaxi, un bellissimo esperimento che ha funzionato tantissimo”.

CRESCITA ALL’ESTERO Risultati che fanno pensare a ulteriori acquisizioni. “Stiamo ridisegnando adesso il piano industriale, ma abbiamo in testa un numero di cinque insegne in totale - ha proseguito l’AD di Cirfood Retail -. I marchi attualmente in portafoglio sono high street come tipologia, mentre le acquisizioni che abbiamo in mente sono da grandi flussi e da scontrini più ridotti per una logica di diversificazione di portafoglio”. All’orizzonte non manca, inoltre, l’ampliamento all’estero, inizialmente previsto per la Focacceria, in particolare negli Stati Uniti. Focus sull’insegna per accelerarne l’espansione è, invece, il programma della Piadineria. “Stiamo lavorando su uno spin off del brand principale, che è La Piadineria Tasty & Free, dedicata al mondo gluten e lactose free. Ci aspettiamo che ci possa essere un buon ritorno in una nicchia di mercato che è esplosiva”. Nel frattempo, l’obiettivo è procedere a ritmo di “50-80 aperture all’anno” in Italia e riprendere l’anno prossimo lo sviluppo in Francia, per poi “aggredire in modo progressivo anche altri Paesi”, ha concluso Valota.

AL MOMENTO STIAMO RIVEDENDO I NOSTRI PIANI, MA, LADDOVE IL MARCHIO LO PREVEDE E HA SENSO FARLO IN TERMINI DI DIMENSIONE, L’ESTERO È UNA POSSIBILITÀ CHE VALUTIAMO “

ETTORE NICOLETTO, PRESIDENTE E CEO DI BERTANI DOMAINS, SPIEGA I PIANI DEL GRUPPO CHE PUNTERÀ SU CRESCITA ORGANICA, MULTICANALITÀ E VINI SPARKLING. L’OBIETTIVO È REPLICARE L’ESCALATION DIMENSIONALE CHE AVEVA GUIDATO IN SANTA MARGHERITA.

Bertani Domains è un gruppo formato da sei cantine, per una produzione complessiva di 4 milioni di bottiglie. Le cantine sono presenti in Veneto (Bertani, in Valpolicella), in Friuli Venezia Giulia (dove opera Puiatti, a Romans d’Isonzo), in Toscana (Val di Suga a Montalcino, TreRose a Montepulciano e San Leonino a Castellina in Chianti) e nelle Marche (Fazi Battaglia nel territorio di Jesi). Fa capo alla Angelini Holding, che controlla l’omonimo gruppo farmaceutico.

Dopo tanti anni trascorsi nel gruppo Santa Margherita è approdato da Bertani Domains, cosa l’ha attratta del progetto della famiglia Angelini?

A marzo 2020, in piena pandemia, ho accettato la sfida di entrare alla guida di Bertani Domains. Mi ha attratto prima di tutto la sfida dimensionale. Bertani Domains è una realtà di medie dimensioni nel settore vitivinicolo che appartiene alla famiglia Angelini e che fa parte di un gruppo multi- industry che sviluppa 1,7 miliardi di fatturato. La proprietà ha voluto fortemente un manager che avesse fatto un percorso importante in altre aziende con la volontà di far cresce il suo ramo vitivinicolo. Oggi Bertani Domains è una realtà da 25 milioni di euro di fatturato con l’obiettivo di arrivare a quadrupicarlo e questa è, in sostanza, la parte più importante del mio mandato. È una grande sfida, molto impegnativa, non è certo facile passare da una realtà da 200 milioni di euro di fatturato a una da 25 milioni, ma le complessità sono le stesse. Sono molto ottimista, vorrei replicare qui quello che ho fatto nei 16 anni che ho trascorso in Santa Margherita.

Come pensa di raggiungere i 100 milioni di fatturato?

Sono molto fiducioso sulla crescita organica perché ci sono marchi che hanno un potenziale inespresso. Dobbiamo poi sviluppare molto meglio la multicanalità e dobbiamo anche allargare il perimetro, e quindi arrivare a denominazioni dove non siamo presenti, e presidiare meglio alcune occasioni di consumo. Ad esempio, la categoria degli sparklings, sia per quanto riguarda l’area charmant che il metodo classico, non ci vede protagonisti e con questo gap di portfolio perdiamo delle occasioni di consumo importantissime.

Come ci si può muovere sul fronte dell’m&a?

Abbiamo individuato tre strade: la prima è quella di identificare delle realtà che sviluppino fatturati piccoli e piano piano acquisirle per creare una mini costellazione. È un lavoro molto difficile perché queste realtà, da 4-5 milioni di euro di ricavi, sono spesso destrutturate, molto familiarizzate, senza controllo di gestione e questo complica molto l’attività di m&a dal punto di vista dell’integrazione all’interno di una realtà come la nostra. L’altra strada è quella di portare avanti acquisizioni importanti, verso realtà intorno ai 50 milioni di fatturato, che quindi richiedono una dotazione importante dal punto di vista finanziario, ma che ti permettono però di fare velocemente il famoso salto dimensionale. Una terza strada è quella di stimolare una potenziale combinazione o partnership con un altro gruppo.

Qual è il vantaggio ad entrare in un gruppo come il vostro?

Uno dei problemi che affligge il nostro settore è il passaggio generazionale. Spesso le famiglie proprietarie non hanno chi può ricevere il loro testimone e quindi si trovano in serie difficoltà. Noi offriamo assistenza, struttura e organizzazione, ma soprattutto diamo alla parte venditrice anche la possibilità di rimanere nell’equity, nella parte gestionale o in veste di ambasciatore. Riteniamo che sia molto importante mantenere questo rapporto con le radici e con chi ha fondato il business.

LANGOSTERIA

il mercato è il mondo

IL MARCHIO DI FINE DINING FONDATO DA BUONOCORE SI PREPARA A NUOVE LOCATION OLTRE CONFINE. DOPO LA RECENTE APERTURA A PARIGI, IL RISTORANTE MILANESE GUARDA IN PRIMIS ALL’EUROPA, MA CON IL SOGNO STATI UNITI.

di Sabrina Nunziata

Fondata e guidata da Enrico Buonocore, Langosteria conta oggi cinque locali che spaziano da Milano alla Liguria fino a Parigi, dove lo scorso settembre, in collaborazione con Cheval Blanc Paris, è stato aperto il primo ristorante all’estero. Affacciato sulla Senna, è al settimo piano dell’hotel e a regime punta a incassare 10 milioni di euro l’anno. Buonocore spiega che, questa apertura, rappresenta il primo passo di un percorso che punta a posizionare il brand in location strategiche a livello globale.

Quanti e quali sono i ristoranti a insegna Langosteria?

A Milano abbiamo via Savona come location storica, poi il Bistrot in via Privata Bobbio che quest’anno ci sorprenderà a livello di numeri in quanto ha praticamente sempre lavorato grazie al dehor e al servizio Langosteria a Casa che, tra l’altro, ha avuto un successo incredibile. A quest’ultimo, infatti, daremo casa il prossimo Natale, realizzando non

una dark kitchen ma un negozio, chiamato Langosteria Cucina, dove gli ospiti potranno venire a comprare ciò che abbiamo iniziato a presentare durante la pandemia. Si aggiunge il nostro Café in centro, che ha avuto le maggiori difficoltà avendo lavorato pochissimo durante il 2020, ma che dallo scorso giugno, con la possibilità di tornare a consumare all’interno, sta dando risultati. Poi abbiamo il fiore all’occhiello della stagione 2021, ovvero Paraggi che quest’anno sta facendo risultati incredibili. Infine, abbiamo appena aperto a Parigi il nostro quinto ristorante, la prima Langosteria all’estero.

Cosa si intende con “risultati incredibili” a Paraggi?

Rischiamo di fare quasi quattro milioni in quattro mesi, numeri dati da una certa continuità e credo anche dal fatto che quest’anno fosse difficile viaggiare. Qui abbiamo inoltre acquistato negli scorsi mesi gli storici Bagni Fiore, affidandone la gestione al gruppo Belmond, parte del colosso francese Lvmh, e i risultati ottenuti ci danno l’energia di progettare le prossime stagioni e di investire ancora, così da costruire in quella baia un’esperienza ancora più importante. Proprio in questa zona, infatti, sono arrivati anche altri colleghi come Carlo Cracco e Vittorio che hanno seguito la nostra scia, e ora fare qui un weekend è diventato interessante anche dal punto di vista gastronomico. Questa cosa mi riempie di orgoglio perché vuol dire che ci abbiamo visto giusto cinque anni fa a investire in questo luogo sì fantastico, ma che aveva bisogno di un po’ di spirito e modernità.

E per quanto riguarda la nuova apertura di Parigi?

Questo progetto doveva nascere tempo fa, ma con la pandemia abbiamo dovuto rimandare, finché l’8 di settembre abbiamo aperto. Tutti pensavano che la prima Langosteria all’estero sarebbe stata aperta a Londra, ma Parigi è la città in cui ho sognato Langosteria tanti anni fa e che adesso ci ha accolto con entusiasmo. Qui abbiamo l’occasione di essere ambasciatori di una nuova Italia organizzata, portando il ritmo e l’esperienza di Langosteria in una città in cui ci sono tanti ristoranti gastronomici e in cui la ristorazione è un culto, ma dove penso che il nostro segmento sia da costruire. Dobbiamo portare l’italianità di cui loro sono innamorati, ma con un atteggiamento internazionale nei servizi e nella scelta di materie prime.

Quali sono gli obiettivi per Parigi, quando sarà a regime?

Il budget iniziale prevedeva numeri simili a quelli milanesi. Oggi penso sia un locale che possa superare i 10 milioni di euro l’anno.

Anche in Francia ci sono problemi legati al reperimento di personale?

È un dramma. Penso che il nostro settore abbia la necessità di far diventare questo lavoro un mestiere e non un ripiego. Noi abbiamo iniziato da anni un progetto di normalizzazione del ruolo e del tempo, perché il balance tra lavoro e famiglia è importante, e quindi tutti i collaboratori passeranno a lavorare cinque giorni a settimana su sette. E questo è importante perché bisogna trovare un bilanciamento tra sacrificio, professione e passione che deve essere in grado di portare a casa il risultato. A Parigi abbiamo un nostro team che poi implementeremo con l’apertura a pranzo. In Italia abbiamo già fatto un round di nuove assunzioni, dovendo fare i conti con il fatto che durante la pandemia molti ragazzi sono dovuti tornare al Paese d’origine. Attualmente i dipendenti sono in tutto 250.

Vi piacerebbe lanciare altri format oltre a Langosteria?

Ogni tanto insieme ai miei soci pensiamo anche a cose diverse, ma Langosteria ha bisogno di massima concentrazione e di eseguire un piano industriale così da essere portata in location premium.

Dopo Parigi, in quali altre città pensate di esportare Langosteria?

Parigi 2. Come abbiamo fatto a Milano, crediamo che una città possa avere due insegne, anche per creare massa critica. Stiamo anche cercando location in montagna così da dare una seconda stagionalità invernale ai nostri ragazzi di Paraggi, magari nel 2022, e in generale guardiamo all’Europa. Poi il mio sogno è sbarcare tra qualche anno negli Stati Uniti, che credo sia un luogo dove Langosteria possa affermarsi con grande successo.