Palascìa_l'informazione migrante

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Palascìa_l’informazione migrante, quadrimestrale d’intercultura della Società Coop Sociale Métissage iscritto al n° 1045 del Registro della Stampa del Tribunale di Lecce il 27 Gennaio 2010 - Anno 1 / Numero 2 / Maggio - Settembre 2010 - www.metissagecoop.org

Anno 1 / Numero 2 / Maggio - Settembre 2010

SPERANZERESPINTE

Dall’accoglienza ai respingimenti l’immigrazione diventa reato. Asilo, diritti negati, storie dal “mare di mezzo”

RIVISTA GRATUITA

FOTO: © Salvatore Bello, batasuna65@gmail.com


SOMMARIO palascìa 02

3. Editoriale di Andrea Aufieri Primo Piano 4. I mondiali visti dai migranti - Andrea Aufieri/Andrea Ferreri/William Capraro Storie/1 7. Dopo il primo marzo - Andrea Aufieri 9. Dalla Puglia la battaglia per l’uguaglianza - Maria Rosaria Faggiano Dossier 10. Speranze respinte - Andrea Aufieri/Gianpietro Occhiofino/ Mariana Metrangolo/Bema Coulibaly Rubriche 17. Alas - Tonio Dell’Olio L’Unione europea e il diritto d’asilo - Giuseppe Gioffredi 18. Ecosostenibilità digitale - William Capraro Laboratorio di cooperazione italo-elenico - Giuseppe Maggio 19. Il permesso di soggiorno - Fabio Ungaro Tempo di raccolta - Redazione 20. Psichiatria transculturale - Vincenzo Maggiulli 21. Studere? Verbo inadatto - Giacomo Cazzato Ipa, partenariato per le minoranze - Giuseppe Maggio Cittadinanza 22. Fotoracconto/Testimonianze di spiritualità - Lorenzo Papadia 26. Campo rom “Panareo”: in sosta da vent’anni - Antonio Ciniero 27. Inserto centrale staccabile/ Wall-Interculura, Numeri Utili 31. Progetto Leonardo: uno scambio di Culture - Berta Hernando Villanueva Storie/2 32. Via Leuca: una strada, tante culture - Gigi Apollonio 34. Acqua pubblica, la rivoluzione è già qui - Andrea Aufieri 35. Il riscatto della Calabria passa dai rom - Gaetano Liardo 36. Ecomigrazioni:50 milioni di vittime - Aldo Morrone Mètissage informa 37. Bollettino della cooperativa Mètissage Educazione Interculturale (di Emanuela Ciccarese) 38. Il mondo racconta: La leggenda della luna piena 39. L’agorà e il cambiamento interculturale - Giuliano Grande 40. L’italiano nella scuola a Lecce - Emanuela Ciccarese Il Megafono 41. L’ImPAZiente non si tocca Terzo settore 42. Aifo, una vita con gli ultimi - Davide Sacquegna 43. Migrantes, ogni uomo è un uomo - Rosa Leo Imperiale 44. Principi Attivi Cultura 45. Musica/Dalle radici un albero - Marco Leopizzi 48. Letteratura/In ascolto del bisogno - Andrea Aufieri 49. Recensioni/La fabbrica del mondo - Cristina Pappadà 50. Cinema/Migrazioni [ravvicinate] del terzo tipo - Amanda Kastrati 51. Teatro/Astràgali e il sogno di una piccola cosa - Manuela Mastria 52. Visual/La (sottile) linea tra pittura e illustrazione - Margherita Macrì Agenda 53. Eventi dal mondo/Cucina - Cristina Pappadà 54. La tana del satiro - Mauro Biani

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Palascìa_l’informazione migrante Quadrimestrale d’intercultura Anno 1/ Numero 2/ Maggio-Settembre 2010 [Distribuzione gratuita] Iscritto al n. 1045 del Registro della Stampa del Tribunale di Lecce il 27 gennaio 2010 www.metissagecoop.org palascia@metissagecoop.org Direttore responsabile Andrea Aufieri Direttore editoriale Rosa Leo Imperiale Redattori Cristina Pappadà, Rosa Leo Imperiale, Emanuela Ciccarese, Bema Coulibaly Fotografo Lorenzo Papadia Foto di copertina Salvatore Bello (Migranti al porto di Brindisi - 1998) Altre fotografie di Marco Spinelli, Freddy Sanduku, Agenzia Bfake, Gabriele Greco Hanno collaborato Mauro Biani, Tonio Dell’Olio, Aldo Morrone, Davide Sacquegna, Gaetano Liardo, Giuseppe Gioffredi, Betty Greco, Marco Leopizzi, Gianpietro Occhiofino, Andrea Ferreri, Maria Rosaria Faggiano, Vincenzo Maggiulli, Giuseppe Maggio, William Capraro, Fabio Ungaro, Manuela Mastria, Luigi Apollonio, Mariana Metrangolo, Amanda Kastrati, Margherita Macrì,Giacomo Cazzato, Antonio Ciniero, Esterina Marino, Berta Hernando Villanueva, Paolo Mele, Giuliano Grande, Egestina Levani Traduzioni Annalisa Greco (ing), Amanda Kastrati (alb), Bema Coulibaly (fra) Editing Andrea Aufieri Progetto Grafico e Impaginazione Marco Spinelli Stampa Cartografica Rosato, Lecce Editore Métissage soc coop sociale Via E. Menga,16-73100 Lecce info@metissagecoop.org *Le collaborazioni si intendono gratuite e volontarie, la responsabilità esclusiva dei contenuti degli articoli appartiene ai rispettivi autori. L’editore è responsabile solo per i testi di “Redazione”. I testi pubblicati possono essere riprodotti previa segnalazione alla redazione di Palascìa_l’informazione migrante tramite mail (palascia@metissagecoop.org) e segnalazione del credito (Autore/www.metissagecoop.org). Alcuni testi, laddove specificato, possono essere soggetti a Creative Commons o a Copyright e la loro pubblicazione è vincolata alle normative vigenti. Tutto il materiale inviato, anche se non pubblicato, non sarà restituito e rimarrà a disposizione della redazione per eventuale futura pubblicazione. Un ringraziamento particolare ad Antonio Aresta, Chefi Triki, padre Arsenio, Gabriele Del Grande, Astràgali Teatro, Opi Lecce, Michela Almiento, Gianluca Nigro, Alba Monti, i soci della cooperativa Paz, Aifo, Alfredo Giangaspero, Cristian Valle, Cristiano Sindaco, Rossella Piccinno, Migrantes Lecce, Paola Rollo, Billy “cumparema”, Ablaye e a tutti coloro che credono in questo progetto e ci sostengono. Andiamo in stampa nei giorni successivi alla nascita della piccola Gloria, a lei e sua madre Angela dedichiamo questo numero, senza mai scordare il collega Michele Frascaro.


EDITORIALE di Andrea Aufieri palascìa 02

(R)ESISTERE

Il secondo numero di Palascìa ha preso corpo tra il 25 aprile e il 2 giugno, passando per la marcia per la pace del 16 maggio, ed è per questo che è possibile leggervi un fil rouge legato alle molteplici forme di “resistenza”, perché continui a esistere una nazione capace di civiltà e di pace, in una parola di futuro. Il nostro Stivale sembra sempre più improntato a tirare calci in faccia alla dignità di chi arriva o tenta di arrivare sulle sue coste per una nuova opportunità, se non per chiedere rifugio. E allora abbiamo provato a chiederci, nei giorni del mondiale di calcio, cosa può renderci uniti. Un nuovo sapore dato al calcio stesso, come succede un po’ in tutta Europa con le NoRacism Cup. L’istanza figlia del movimento antirazzista, come tutto ciò che è venuto e verrà fuori dal Primo marzo. La rabbia, la sofferenza, la voglia di legalità che sale da Rosarno. La dignità del lavoro, la parità dei trattamenti e delle opportunità, il diritto alla casa e alla salute sono istanze che i cittadini stranieri rivendicano a ragione e con molteplici voci. Proviamo ad ascoltarli e a capire come fare perché si possa dar loro una risposta. Ma una resistenza che si rispetti rappresenta la volontà di camminare sulle proprie gambe. È così che abbiamo ascoltato le immense parole di un giovane senegalese, che non vuole essere un peso in più in un tempo di crisi. È così che a Bari i somali hanno riportato alla vita il Ferrhotel abbandonato. È così che vogliamo unire la resistenza di Rom1995, in Calabria, a quella degli ospiti “in sosta” da vent’anni al campo di Lecce. È così che dall’Aifo e dall’Inmp, che hanno collaborato alla nostra rivista insieme a Libera informazione, arriva il lungo grido degli ultimi, di chi lotta ancora con le epidemie che per secoli hanno falcidiato la vecchia Europa, tentando di scuotere i cordoni delle multinazionali farmaceutiche, di chi tenta di strappare un metro di ossigeno alla desertificazione. Una battaglia che unisce anche gli italiani alle lotte mondiali: la resistenza alla privatizzazione dell’acqua, con il referendum alle porte e gli esempi di chi dalla resistenza incomincia la sua rivoluzione. E mentre un governo completamente avulso dal paese reale disfa le istituzioni di garanzia che lo fondano, la Regione Puglia, pur tra giuste critiche e richieste di partecipazione, lancia il suo assalto a difesa della legge sull’immigrazione, impugnata per conflitto di competenza, ma con l’esortazione a “disobbedire” pervenuta anche dall’Unione europea e dall’Ilo. E mentre il governo annuncia tagli alla cultura e al welfare, oscurando la questione delle ingenti spese militari, qualcuno se ne infischia e organizza reali missioni di pace: navi cariche di aiuti e di know how solcano il “mare di mezzo”, laddove 15 mila persone hanno trovato la morte in vent’anni di disperati tentativi di approdo. Nel clima ferino creatosi all’indomani di un’applicazione perversa della par condicio, durante la trasmissione”Rai per una notte”, Mario Monicelli dichiarava la necessità di una rivoluzione. Nella sezione della cultura abbiamo intervistato il filosofo Mario Signore, che ripudia i tempi imposti dalle rivoluzioni per non perdere la strada già conquistata e guardare avanti consapevoli di forze, debolezze ed errori. Le passioni popolari sono sopite, ma le reti civiche si fanno portatrici di una nuova stagione di semina, di quella speranza che don Tonino Bello chiamava “convivialità delle differenze”, risvegliando i costruttori di pace perché la Puglia ne divenisse l’arca foriera. Cercando di mettere quotidianamente in opera questo insegnamento, Palascìa dedica questo numero ai migranti , e non solo a loro, che bagneranno di sudore le campagne della Puglia quando noi ci rinfrescheremo a mare, perché qualcuno si accorga per davvero di loro, perché lo Stivale serva per camminare insieme e arrivare alla meta di una pacifica interculturalità, magari indicando il sentiero a chi è più indietro.


fotografia - Agenzia Bfake

A kick to racism

Fifa World Cup 2010 seen by migrants 04 05

South Africa is not far away, or maybe yes. Thousands of miles from Lecce national teams from 32 countries from around the world for World Cup 2010 , four years after the Italian victory. Time for Africa is the title of the official Fifa World Cup song: it is high time for Africa? Let’s ask ourselves a reflection on the nation two decades ago when Nelson Mandela came proudly out of prison in which he had been segregated for political reasons, for having suggested the end of apartheid and the conquest of liberty for all men. Before that, just a reflection about po-

sitive values that football can still offer. Of course we talk about a kick to a ball in a football field available to play with friends and by fans, with lots of color. Is an example of what happens in Lecce with Calcio senza confini (Football without borders), an anti-racism tournament whose second edition it was warmly expected. And we talk about NoRacism Cup where teams from around the world come to experience a summer in Lecce. And above all, asking a forecast to immigrants and native citizens of the city, we take a dip in their lives, their expectations and their dreams.


PRIMO PIANO palascìa 02

I mondiali visti dai migranti testo - Andrea Aufieri

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ualcosa permette al calcio di essere ancora popolare, oltre il bombardamento mediatico. Se è vero che gli scandali, le violenze e le misure di sicurezza hanno ridotto l’afflusso dei tifosi nelle gabbie cui sono stati ridotti gli stadi italiani, non si può dire lo stesso del fascino di tirare due calci a un pallone. Sempre meno per strada, sempre più per i numerosi campi delle strutture sportive o degli oratori. Quasi mai in undici: troppi amici da conoscere e concertare, magari in cinque, e davvero su qualsiasi qualità di campo. Se va bene, come vedremo nel caso di “Calcio senza confini”, per un torneo si possono raggruppare otto persone e costringerle a scendere in campo una volta a settimana, ma questo denota passione e quello spirito così ben raccontato da Francesco De Gregori ne La leva calcistica della classe ‘68, che ha reso quella canzone un evergreen. E poi. Non ci sono più le bandiere, sono tutti mercenari, e se esistono non spiccano per sportività e correttezza. Eppure, forse in competizione solo con la musica, è proprio il calcio ad aver globalizzato sul serio certe dinamiche culturali in ogni angolo del mondo. Se prima poteva far sorridere vedere uno straniero indossare la maglia dell’Inter, giocatori della squadra “multinazionale” a parte, oggi si vedono sempre più immigrati indossare le maglie delle proprie nazionali, sempre più competitive. Proprio in quest’ottica la madre di tutte le manifestazioni calcistiche, il Mondiale di calcio Fifa, si gioca quest’anno in Sudafrica. E anche quest’anno ha il suo inno pop, cantato da Shakira: Time for Africa. È davvero il momento dell’Africa? Ecco cosa ne pensano Billy e Ablaye, senegalesi, rispettivamente supporter e portiere parttime del team Afika Unite. Fanno quattro chiacchiere con me poco prima della delicata sfida contro le Kapu Vakanti, primi in classifica del girone di qualificazione A del torneo “Calcio senza confini”. Billy ha 32 anni e ne ha passati a Lecce quasi otto, fino ai 22 è stato un corridore velocista, appassionato di atletica leggera in genere. Tifa Senegal, che dopo i fasti dei mondiali nipponico-coreani ha vissuto un lento declino «ma abbiamo cambiato politica e ci stiamo riprendendo». Seguirà comunque i mondiali e ha tifato Italia, credendo nel bis

e perché «ormai l’Italia è la mia casa: nessun posto è ospitale come il Salento. A Dakar ho fatto altrettanti lavori che in Puglia: dal cameriere al meccanico, fino al bracciante per la raccolta di angurie e pomodori e l’estirpazione di erbacce. Anche se non ci sono soldi e se non ho un lavoro serio da due anni, anche se qualcuno appena sono arrivato ha approfittato della mia poca conoscenza dell’italiano per rubarmi soldi, ho conosciuto tante brave persone che mi hanno aiutato nei momenti difficili e mi hanno dato coraggio, mi hanno convinto a non disperare». Ablaye ha 19 anni, studia come grafico presso l’istituto superiore “Antonietta de Pace”, lavora come assistente presso un anziano leccese, e ama molto il calcio, tanto da venire a parare quando può, anche subito prima o subito dopo alcune giornate un po’ troppo faticose, nelle quali il lavoro o lo studio coincidono. Il team dello Unite, appena lo vede, gli fa una grande festa, nonostante il primo portiere sia molto affidabile e spettacolare. È a Lecce da solo un anno e mezzo: «Qui ho trovato la pace. Sono arrivato su una barca in Spagna, poi sono stato a Milano e a Parma, ma qui ho trovato gente simpatica e conviviale, soprattutto presso l’ufficio Migrantes

e lo sportello per l’immigrazione della Provincia, che mi hanno dato consigli e aiuto per la scuola, per i documenti, per il lavoro». Sul Senegal ha una sua precisa teoria: «Per passare le qualificazioni ci voleva il cuore, e quello da un po’ non ce l’abbiamo, siamo poco umili. Camerun e Ghana si vede che superano i problemi tecnici facendo squadra. Anche per questo ho tifato Camerun». Mi dice di essere molto attivo nel sociale: qui a Lecce ha fondato l’associazione “Teranga-Associazione per l’integrazione partecipativa”: «In questo momento di grave crisi, noi che veniamo qua per quanto ci è possibile dobbiamo evitare di essere un peso per gli altri e per la società, è giusto che ci impegniamo». È venuto per fare gli auguri ai compagni, lui deve scappare al lavoro, ma prima di andare via dà un ultimo sguardo a quel pallone che rotola sul campo di un paese che sente finalmente suo e per il quale ha dato e continuerà a dare tanto. Già, la partita è terminata con una sconfitta di misura (1-0), poi la squadra è stata eliminata. Ma partecipare è importante.

fotografia - Agenzia Bfake


PRIMO PIANO palascìa 02

Sudafrica: la Nazione Arcobaleno testo - William Capraro

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l Sudafrica era abitato dai san (boscimani), cui si aggiunsero i khoikhoi (ottentotti), unendosi nei khoisan, cacciatori-raccoglitori nomadi. Nel 1652 giunsero le navi olandesi della Compagnia delle Indie orientali. In quel territorio che avrebbe preso il nome di Sudafrica, fondarono la città di Cape Town che divenne porto di scalo per le navi che attraversavano l’oceano Atlantico. Con l’occupazione del Capo di Buona Speranza da parte degli inglesi, molti dei commercianti olandesi (boeri) si spostarono a nord fondando la loro repubblica autonoma e sviluppando una propria cultura e una propria lingua, l’afrikaans. Questo causò i primi attriti tra colonizzatori e popolazioni indigene. Gli xhosa, di origine bantu, si espandevano a sud e si scontrarono con i boeri, nella prima guerra di frontiera del Capo, che dal 1779 si infiammò a più riprese nel corso di più di un secolo, e vide prima gli xhosa opporsi ai boeri e poi dall’

inizio del XIX secolo, gli stessi indigeni contrastare l’imperialismo britannico. La scoperta di giacimenti di diamanti e di oro da parte degli inglesi, condusse alla guerra vittoriosa contro i boeri e alla più stretta sottomissione dei nativi costretti a divenire minatori. Tuttavia boeri e inglesi, nel 1910, istituirono insieme l’Unione del Sudafrica, che diventò repubblica nel 1961 dopo il referendum che vide coinvolte esclusivamente le popolazioni di origine europee. Raggiunta l’indipendenza dal Regno Unito nel 1931, avviarono nel 1948 le politiche di apartheid, lo sviluppo separato delle razze in termini di accesso alla sanità, all’istruzione, alle politiche educative differenziate per razza e molto ancora, che favorivano la minoranza bianca a discapito dei neri e dei coloured che di fatto rappresentavano la maggioranza, ma che non avevano alcun potere giuridico e politico. Il National party salì dunque al potere e per l’opposizione, rap-

presentata dall’African national congress (Anc) fu un periodo di repressione e internamento di molti dei suoi leader (uno su tutti Nelson Mandela), che furono relegati alla prigionia per svariate decadi. Lotte interne, insurrezioni, pressioni dall’esterno tramite azioni di boicottaggio da parte dell’occidente portarono il regime a negoziare con l’Anc il cambiamento delle regole, e nel 1994 si giunse alle prime elezioni multirazziali, che videro vincitore l’Anc, tuttora al governo. Si conclude così l’era dell’apartheid, la Rainbow Nation, la Nazione Arcobaleno è il nuovo Sudafrica: il processo di riconciliazione interna è uno splendido esempio per molti su come, anziché occultare il proprio tragico passato, cercare di capire insieme ai nemici di ieri le ragioni che hanno portato a tali avvenimenti costituisca il passo fondamentale verso la coesistenza pacifica, e l’interazione tra i popoli.

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Un calcio al razzismo, tra sport e contaminazioni culturali testo - Andrea Ferreri

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n pallone, 18 squadre, 300 atleti con altrettanto pubblico al seguito, corsa, sudore, goal e tante emozioni, possono veramente poco davanti alle scelte politiche e alle leggi che limitano l’integrazione, l’accoglienza e il rispetto di ogni uomo. Ma poco è meglio di niente in ogni caso, e “Calcio senza confini” è un piccolo progetto che dal basso, ogni fine settimana per tre mesi l’anno, tenta di mettere in relazione varie realtà presenti sul territorio salentino legate al rispetto delle diversità. Partito l’anno scorso con la prima edizione, quest’anno si è consolidato diventando un evento atteso. Il numero delle squadre è salito da 14 a 18, sempre composte da comunità migranti, associazioni culturali, gruppi informali: senegalesi, montenegrini, brasiliani, rifugiati politici, studenti Erasmus, associazioni come Zei, Knos, Bfake, squadre nate in luoghi d’incontro come la Lavanderia Jefferson, il pub Prophet o semplicemente in strada tra amici. Calcio reale, vero, senza nessun filtro, pochi muscoli tanto cuo-

re, passione, attaccamento, tra giocate da campioni e tiracci che spaccano finestre, tra numeri da Champions League e numeri da baraccone, in mezzo ad un pubblico rumoroso con ovazioni che enfatizzano ogni giocata, anche la più brutta e strampalata. Gente festante, mamme, bambini liberi di vivere spazi relegati in passato a più tristi vicende e oggi resi socialmente dinamici, creativi. Infatti “Calcio senza confini” ogni fine settimana propone dimensioni musicali, artistiche, culturali e non si limita alle sole partite, che tuttavia sono il cuore dell’intero evento. Un progetto all’insegna dell’antirazzismo e contro ogni forma di discriminazione, che non parla di integrazione quanto di relazione, che non parla di competizione ma di fair play, che mettendo un pallone a centrocampo lancia la sfida sociale che ci vede impegnati tutti allo stesso modo: senza barriere, senza pregiudizi. “Calcio senza confini” è un progetto organizzato da Bfake ma delegato alla responsabilità di ognuno. La nostra associazione si oc-

cupa - dalla sua fondazione - di cultura e sport sociale legato ai valori quali l’antirazzismo e il rispetto delle diversità, siano esse sessuali, religiose, culturali e si pone come obbiettivo l’abbattimento delle barriere che ne impediscono la relazione, la contaminazione, in quanto crediamo che una cultura chiusa su se stessa non produrrebbe altro che sterili conservazioni dei costumi e degli usi: la sua stessa fine, insomma. Bfake produce idee e progetti partecipati, in cui ognuno è un soggetto attivo e lo sport in questo senso è un veicolo straordinario che permette contatto, scambio, relazione. Con questa convinzione quest’anno dal 9 al 14 agosto a Gagliano del Capo organizzeremo Noracism Cup, il nostro primo progetto internazionale, un mondiale antirazzista di calcio a 5, in cui saranno ospiti diverse realtà legate a questi valori provenienti da tutto il mondo. Nel frattempo, con l’idea che anche poco possa trasmettere tanto, “Calcio senza confini” continua da dove è partito con un calcio ad ogni forma di discriminazione.


STORIE/Approfondimenti palascìa 02

fotografia - Gabriele Greco

Dopo il primo marzo L’immigrazione che “cresce” testo - Andrea Aufieri

Circa sette milioni di manifestanti sono scesi nelle piazze d’Italia per il “Primo marzo 2010, sciopero degli stranieri”. Un’etichetta, quella apposta sulla parola “stranieri”, fuorviante per molti partecipanti perché non rende esattamente la cifra del coraggio di tanti immigrati, che hanno scelto di incrociare le braccia, ma anche della solidarietà ricevuta da molti italiani, nel camminare fianco a fianco in una manifestazione come nell’affrontare le difficoltà quotidiane. Fuori da ogni pregiudizio o ipocrisia di sorta. E tutto questo senza sponsor politici, ma d’altronde si sa, gli immigrati (per ora) non portano voti, al massimo li tolgono. Entusiasma quello che è accaduto in ogni parte d’Italia: diffusione via internet delle iniziative,

comitati sorti e rappresentati da immigrati, passaparola e tam tam contro ogni intimidazione. E poi? La presidente del movimento, Stefania Ragusa, scrive sul sito dell’iniziativa delle tappe di una strutturazione internazionale per reti e politica. Chi non vedeva quello degli immigrati come uno sciopero politico probabilmente ha bisogno di un paio di occhiali. Si possono tener fuori i partiti, come è accaduto, per fare rete. Ma non la politica, perché è proprio su questa che ricadono le istanze dei manifestanti. Lotta alla discriminazione, pari opportunità, lavoro dignitoso, diritto alla casa: istanze non condivisibili da nessun altro in Italia? La capacità e la responsabilità di fronte a questi problemi e le modalità inclusive o meno

con le quali questi saranno affrontati nell’immediato futuro daranno la cifra della maturità di questo paese. E non bisogna dimenticare che questo è stato un movimento internazionale e glocale al tempo stesso: non si dovranno perdere i contatti con tutte le reti, ma al tempo stesso sarà possibile confrontare le modalità operative di ogni comitato per agire in modo sempre più esteso e approfondito al tempo stesso. Lecce, per esempio. La manifestazione cittadina ha rappresentato un elemento di novità per la massiccia partecipazione, un passo in più verso la consapevolezza della maturità, processo avviato almeno da un paio d’anni, con le fiaccolate antirazziste. Com’è andata?


Intervista a Katia Lotteria

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bbiamo intervistato Katia Lotteria, una delle coordinatrici della rete antirazzista locale, per capire quali strade potrà percorrere la rete, e con quali strumenti. Com’è andato il Primo marzo leccese? Benissimo, come sempre quando si mettono insieme i movimenti e le loro risorse in questa città, anche perché le manifestazioni visibili sono normalmente il frutto di molti incontri, del lavoro capillare di rete fra diverse realtà sociali già esistenti sul territorio. Un Primo marzo più che partecipato, non da tutte le comunità del territorio, ma certo come pirma grande azione pubblica e impegnativa non possiamo lamentarci. Devo precisare, però, che a Lecce non si è aderito al movimento nazionale, ma c’è stata un’iniziativa delle comunità che hanno voluto partecipare. Con quali strumenti di comunicazione? Congiunti: alcune persone di associazioni autoctone, in provincia, hanno usato meglio i canali telematici e i comunicati stampa classici. Per gli immigrati meglio il faccia a faccia e il passaparola. I rappresentanti delle comunità straniere hanno partecipato in prima persona? Totalmente. Io ero titubante sulla manifestazione perché il nodo era la partecipazione, invece alcune partecipazioni chiave come le comunità senegalesi e marocchine hanno dato un sostegno concreto. Comunità a parte, poi, possiamo dire che ci sono membri politicamente attivi o no. Inoltre, a parte le persone chiamate a raccolta dai referenti, dobbiamo segnalare molte altre persone non appartenenti a nessun gruppo particolare, che si sentivano di aderire e si sono preoccupati di far partecipare altre persone. L’iniziativa però ha visto partecipare solo un migliaio di persone: dove erano gli altri 13 mila immigrati di Lecce? Ci sono state assenze significative? Il Primo marzo a Lecce può essere considerato un evento minoritario, se ragionato sul numero dei lavoratori immigrati. Ma intanto consideriamo che la rete antirazzista qui è antecedente all’evento, ha

un suo percorso originale ed è destinato a crescere step by step, facendo cultura e fornendo spunti sull’ingiustizia di questo stato di cose, sperando di far presa sui singoli. Per il resto, sappiamo che gli srilankesi sono politicamente molto attivi, che in maniera autonoma organizzano momenti di riflessione collettiva e pubblica sullo Sri Lanka. Per questo riteniamo che nella loro assenza abbia pesato l’interferenza di chi non condivideva la scelta, e si è creato forse un timore di ritorsioni. C’è da dire anche che gli srilankesi dei ristoranti non hanno potuto lasciare il posto di lavoro. Questo per la rete antirazzista è stato causa di riflessione? Io conosco queste persone da molti anni e questo legame fa sì che non ci si scontri mai e pure per questo mi è stato detto che si trattava di lavoro. E può anche essere che di tutte le manifestazioni cui hanno partecipato si fossero un po’ stancati. Alcune volte si chiede troppo, perché per esempio le badanti non erano tante, perché non tutte hanno regolari contratti, allora la ricattabilità è altissima e non andare a lavoro un giorno è una questione di rischio. Si sono verificati episodi di questo genere? E di quale gravità? Funzionali. La comunità più nuova per noi è quella delle badanti rumene. In questa sedimentazione delle altre comunità, ciascuno di loro ha legami con la sfera civile e politica e magari ci sono state polemiche per l’appartenenza partitica. Ma anche questo è funzionale a una realtà composita: ci sono divisioni persino sul pacchetto sicurezza, ma questo serve per capire che non è che debbano essere tutti di sinistra. Per noi è doveroso e non solo utile cercare un dialogo con gli immigrati anche in opposizione a qualcosa che non riteniamo giusto. Su questo si fa rete e si va avanti. Eventuali benefici andranno poi a tutti. In che modo si è sentita l’assenza di sindacati e partiti? Si può parlare, a Lecce, della costituzione di un vero e proprio movimento? Il movimento nazionale ha coinvolto i primi perché sono loro che devono pro-

clamare lo sciopero. Noi abbiamo escluso questa scelta, ma molti sindacalisti hanno partecipato singolarmente. Da noi si è fatta rete, siamo ancora piccoli, il movimento è in nuce, è una prospettiva, ma non ancora una realtà. Per quanto riguarda i partiti, credo che le reti funzionino più di una sola realtà politica. La rete antirazzista è anzitutto un movimento nazionale. Se mettiamo insieme Lecce, Bari e Foggia ci aspettiamo di poter fare pressione attraverso strumenti democratici che necessitano di tempi più lunghi. Con quali possibilità di contrattazione? Nelle reti confluiscono le realtà politiche. Si è di più, ci sono varie espressioni della società civile e si è più forti, perché conta l’obiettivo, non la provenienza, per questo sono più efficaci. Che ne sarà delle istanze del Primo marzo? Proseguiranno con maggiore impeto, perché insieme ci si dà un impulso per cambiare le cose. Per la prima volta si è parlato di lavoro in maniera autonoma, scioperando per questo. Ci si discosta da altre manifestazioni perché in Italia spesso le leggi hanno guardato più alla repressione che ad altro. E per la prima volta, con il pacchetto sicurezza, la destra pone interrogativi che non si erano mai proposti dopo il fascismo. È per questo che il Primo marzo non è una manifestazione antirazzista, ma più complessa. Le persone che l’hanno desiderata partivano dalla consapevolezza che il loro modo di vivere cambia. Sulla base del dissenso abbiamo messo a punto delle iniziative in seguito alle quali vogliamo crescere.


STORIE/Approfondimenti palascìa 02

Dalla Puglia la battaglia per l’uguaglianza La Regione non ritorna sui suoi passi per la legge sull’immigrazione

testo - Maria Rosaria Faggiano, avvocato patrocinante in Cassazione | fotografia - Lorenzo Papadia

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l Consiglio dei Ministri ha impugnato innanzi alla Corte costituzionale la legge n. 32/2009 della Regione Puglia che contiene “Norme per l’accoglienza, la convivenza civile e l’integrazione degli immigrati in Puglia”. Si ritiene che la legge impugnata violi l’art.117 della Costituzione nella parte in cui estende una serie di interventi agli immigrati presenti, a qualunque titolo, sul territorio della Puglia. Secondo il governo gli interventi previsti dalla legge regionale non sono di competenza dell’ente territoriale, che estende tali benefici anche agli immigrati privi di permesso di soggiorno, considerati genericamente “irregolari e clandestini”. Per comprendere meglio i termini della questione è necessario individuare quali norme della legge n.32/2009 prevedono la loro estensione a “tutti gli immigrati presenti sul territorio regionale”. Tra queste spiccano quelle in materia sanitaria, che ricalcano la normativa nazionale nell’assegnazione del “codice Stp” agli stranieri temporaneamente presenti non in regola con le norme relative all’ingresso e al soggiorno: si tratta di un codice alfanumerico per l’accesso a determinati servizi sanitari di pronto soccorso e di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva. La novità contenuta nella legge regionale è l’estensione ai possessori di codice Stp dell’erogazione di cure essenziali e continuative anche attraverso la scelta di un medico e di un pediatra di base. La scelta politica attuata dalla regione Puglia è quindi in stridente contrasto con le logiche politiche, prevalenti in parte dell’Italia, e che hanno condotto all’approvazione del decreto sicurezza nel quale in un primo momento era stato previsto per i medici l’obbligo di denuncia di “clandestini e irregolari” nel momento in cui si fossero rivolti ad una struttura pubblica. Invero, proprio la legge nazionale, precisamente l’art.35 comma 5 D.lgs. n.286/98 (Testo Unico in materia di immigrazione), vieta ai medici di denunciare chi si rivolge alle strutture sanitarie pubbliche per ricevere prestazioni sanitarie. Il diritto alla salute è peraltro garantito anche dalla nostra Costituzione. Altre norme della legge n.32/2009 sono state emanate seguendo la stessa scelta politica che si può riassumere nello slogan “In Puglia nessuno è

straniero” con il quale è stato intitolato l’articolo sul precedente numero di Palascìa contenente l’intervista all’assessore Elena Gentile. A proposito di istruzione, è previsto che “i minori stranieri in età di obbligo scolastico presenti sul territorio regionale” hanno diritto all’accesso ai servizi per la prima infanzia e ai servizi scolastici, compresi gli interventi in materia di diritto allo studio. È notorio che anche in questo caso la legge nazionale impone l’obbligo scolastico a tutti i minori e la discriminazione attuata sulla base del possesso o meno del permesso di soggiorno è contraria alle norme della nostra Costituzione, che garantisce il diritto allo studio. Anche le misure della legge regionale per le vittime di tratta, violenza e schiavitù si estendono a tutti gli immigrati presenti sul territorio regionale che, peraltro, sono tutelati anche dalla legge nazionale sull’immigrazione la quale prevede la concessione di un permesso di soggiorno a coloro che denunciano gli sfruttatori. La Corte costituzionale già nel 2005 con la sentenza n.300 ha chiarito quali sono i limiti delle competenze regionali in tema di immigrazione: in alcune materie, come

sanità e istruzione, le regioni hanno potestà legislativa esclusiva o al massimo concorrente quando occorre coordinare le norme con quelle statali, come previsto dalla legge nazionale (D.lgs. n.286/98). È significativo un passaggio della sentenza: “La stessa legge statale quindi disciplina la materia dell’immigrazione e la condizione giuridica degli stranieri proprio prevedendo che una serie di attività pertinenti la disciplina del fenomeno migratorio e degli effetti sociali di quest’ultimo vengano esercitate dallo Stato in stretto coordinamento con le Regioni, e affida alcune competenze direttamente a queste ultime; ciò secondo criteri che tengono ragionevolmente conto del fatto che l’intervento pubblico non si limita al doveroso controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio nazionale, ma riguarda necessariamente altri ambiti, dall’assistenza all’istruzione, dalla salute all’abitazione, materie che intersecano ex Costituzione, competenze dello Stato con altre regionali, in forma esclusiva o concorrente”.

L’assessore regionale Elena Gentile


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Ingresso del Cie di Restinco (BR)

SPERANZERESPINTE Se la migrazione diventa un reato

di Andrea Aufieri | foto - Lorenzo Papadia

A

lla libera circolazione di beni e merci non corrisponde il diritto delle persone a spostarsi alla ricerca di una vita dignitosa. Almeno non fuori da certi organismi internazionali, chiusi nonostante siano inseriti nel sistema del libero mercato. È su queste basi che la logica dell’accoglienza dello straniero involve sempre più nella caccia al clandestino. Noncuranti della millenaria costituzione etnoantropologica dell’Italia, una sequela di leggi e provvedimenti, di pari passo con un mercato culturale scellerato, ha ingurgitato in fretta il nostro passato di migranti e fomentato paure e derive securitarie, favorendo una dialettica deviata sull’immigrazione, basata sull’ipocrita dicotomia “regolare/irregolare”. Questo a sua volta alimenta intolleranze persino da parte dei “bravi” immigrati, quelli regolari, per non parlare di sinistre e movimenti “civili”. Si va verso l’inesorabile clandestinizzazione degli immigrati e verso la criminalizzazione dell’atto stesso della migrazione. Eppure quello della migrazione è considerato un atto quasi endemico della natura umana, tanto da essere favorito all’interno dei circuiti comunitari europei, per esempio. In attesa che il centro del dibattito possa mirare a scardinare queste semenze di odio, prima di argomentare sulla questione dei richiedenti asilo, riteniamo opportuno quanto meno menzionare tutti quei migranti ritenuti clandestini, o peggio irregolari. Quelli che per effetto di leggi, “illegali” in uno stato di diritto, si ritrovano a essere semplicemente invisibili, 650 mila secondo la fondazione Ismu, ma è ovvio che si tratta di un dato aleatorio. Quelli che tentano di arrivare e muoiono in mare, circa 15 mila dal 1988 secondo Fortress Europe. Quelli che senza poter esercitare i loro diritti sono semplicemente ributtati indietro, magari in territori dove non esiste alcuna garanzia per la loro incolumità (circa 1400 in sei mesi dall’Italia alla Libia). Quelli che attendono la loro sorte potendo permanere al massimo sei

mesi nei 1806 posti disponibili nei tredici Centri di identificazione ed espulsione (Cie), e che magari fino a ieri producevano reddito e accudivano un’intera famiglia, quella sì “regolare”.

Se una notte di primavera sei “viaggiatori”… La notte del 5 aprile approda al molo “Giovanni Bausan” di San Teduccio (Napoli) la nave cargo “Vera D”. Bandiera liberiana, armatore tedesco, committente israeliano, comandante russo, manovali e marinai filippini. In questa babele devono essersi accorti davvero molto tardi che tra i container trasportati si erano accampate clandestinamente nove persone, tre ghanesi e sei nigeriane. Con l’aiuto di Cristian Valle, avvocato di Soccorso legale a Napoli, cerchiamo di capire cosa è successo: «Solo in Italia, nell’atto delle operazioni di scarico, i marinai si sarebbero accorti dei clandestini, che logica farebbe pensare possano essersi imbarcati al porto ivoriano di Abidjan. A quel punto il comandante informa la questura di Napoli, ritenendo di non poter più ripartire per il venir meno del numero legale». «Il fermo della nave produce vari problemi, quello principale è il blocco delle attività portuali, le cui conseguenze sono la perdita di circa mezzo milione di euro per la compagnia tedesca e soprattutto lo sciopero dell’11 aprile a opera dei marittimi. Intanto la questura, senza aver accertato l’età dei clandestini e dell’eventuale status di richiedenti asilo, ha emesso in fretta un decreto di respingimento». Prima che il respingimento sia effettivo, però, è già scoppiata la protesta del movimento antirazzista campano e della Cgil, perché lo sciopero del porto ha fatto sì che i motivi del blocco divenissero


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di dominio pubblico. Scatta il presidio della nave e il sindacato si offre da intermediario, incaricando l’avvocato Valle di occuparsi dei diritti dei clandestini. Si avviano così trattative su più fronti: con l’armatore, il sindacato tedesco e la polizia di frontiera perché la nave non sia allontanata e per avere l’autorizzazione a salire a bordo. Solo dall’avvocato Valle i migranti vengono a conoscenza dei loro diritti: tutti e nove si dichiarano rifugiati, e sei di loro anche minorenni non accompagnati. «A questo punto formalizzo la mia nomina e invio le richieste d’asilo con un esposto formale alla questura e alla capitaneria. Intanto solo tre dei sei dichiaratisi minorenni sono sottoposti all’esame biometrico del polso all’ospedale Santobono, che assegna loro un’età di circa 19 anni. Siccome questo tipo di esame ha una fallibilità di due anni circa ed è in uso solo in Italia, quando sarebbe magari più opportuno sostituirlo con quello dell’arcata dentaria, ci aspettavamo almeno la presunzione di minore età, ma la questura non era di questo avviso e ha agito come se fosse stata scartata la fallibilità. A questo punto abbiamo denunciato la cosa e l’ufficio stranieri ha accolto la formalizzazione della richiesta di protezione. Gli immigrati hanno lasciato la nave e si è cominciata a valutare l’ipotesi di portare tutti presso uno Sprarr. Improvvisamente, forse per ordine diretto del Viminiale, dalla questura un passo indietro: tutti e nove i richiedenti avrebbero dovuto attendere la decisione della Commissione rifugiati in condizione di trattamento al Centro di identificazione ed espulsione di Brindisi-Restinco». È la notte del 16 aprile: la gente che presidia l’ufficio stranieri si accorge che qualcosa non va. Appena il blindato diretto a Restinco arriva in strada, i picchetti tentano di non farlo partire. Sono momenti di tensione, il missionario comboniano Alex Zanotelli dichiara che per deportare i migranti la polizia sarebbe dovuta passare sul suo corpo, e subito viene spinto, e si procura delle ferite lievi. Il mezzo arriva a Restinco, dove di primo mattino la Cgil improvvisa un sit-in ricevendo la solidarietà di diverse delegazioni della rete antirazzista salentina e dei partiti di Sinistra e libertà e Rifondazione comunista. L’avvocato Valle chiede immediatamente udienza dal giudice di pace del Cie, Mario Gatti, cui espone una serie di violazioni di cui bisogna tener conto: la mancata presunzione di minore età e lo spostamento presso un Cie, entro le cui mura non possono restare minorenni e la violazione del respingimento “preventivo”, prima cioè di informarsi sulla volontà dei migranti di chiedere protezione. Il giudice riconosce la minore età per tutti e sei coloro che l’hanno dichiarata, decretandone l’immediato trasferimento presso le strutture preposte in Italia, ma non accetta le altre motivazioni per concedere la protezione ai restanti tre adulti, che restano all’interno del Cie e per i quali Valle ha fatto ricorso al Tar, nonostante il costo della procedura (1500 euro), e al tribunale di Bari perché la commissione per la valutazione della richiesta d’asilo ha intervistato i suoi assistiti in sua assenza. Questa storia si sarebbe chiusa nel più assoluto silenzio nel giro di pochi giorni, e ciò denota come le cose possono essere fatte in fretta e senza nessun controllo da parte dei cittadini. Soltanto l’attivismo pone un baluardo di resistenza. Ora sei ragazzi cesseranno di essere numeri per poter raccontare una storia. Un privilegio negato a molti come loro.

In Italia si naviga a vista In Italia non esiste una legge organica che possa facilitare e comprendere, magari con umanità, tutte le dinamiche legate al settore dell’immigrazione, e questo porta a effetti e dispositivi kafkiani. Come l’istituzione dei Cie. O peggio, a valutazioni superficiali, come è possibile leggere nel report dell’Istituto affari internazionali (Iai) per il Senato nel gennaio 2009 sul Trattato di amicizia, cooperazione

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e partenariato con la Libia: la Libia ha le sue impostazioni culturali, mica può firmare una convenzione internazionale a garanzia dei migranti. E poi non è un problema italiano, ben altri sono i contenuti preponderanti del trattato. Di avviso opposto, tanto Amnesty International, che ritiene l’Italia responsabile della sorte dei migranti respinti, quanto la Commissione per la prevenzione della tortura (il cui acronimo, purtroppo, è Cpt) del Consiglio d’Europa (Coe), che ha espresso notevoli preoccupazioni a riguardo e cui l’Italia ha replicato asserendo che nessun migrante preso a bordo delle navi italiane ha fatto richiesta d’asilo. In merito a questa asserzione potremmo obiettare che se il metodo è quello della “Vera D” ben poca voce in capitolo possono avere i migranti. E a sostegno di questa impressione possono venire l’inchiesta di Riccardo Iacona “Respinti” andata in onda nel programma “Presadiretta” del 6 settembre 2009 (dove si afferma che i migranti respinti il 30 agosto, molti dei quali ricorrenti presso la Corte europea, non sapevano nemmeno di essere stati riportati indietro), e che qualcosa di anomalo possa essere avvenuto lo conferma la citazione in giudizio da parte della Procura della Repubblica di Siracusa di Rodolfo Ronconi, direttore della Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere del ministero dell’Interno, e di Vincenzo Carrarini, generale della Guardia di finanza con mansioni di Capo ufficio economia e sicurezza del terzo Reparto operazioni del Comando generale della Guardia di finanza. E non è tardata a venire nemmeno una dichiarazione di Laurens Jolles, rappresentante per il Sud Europa dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), a commento della replica italiana al Coe: «Preoccupa l`affermazione secondo la quale nessuno tra i migranti respinti in Libia abbia avuto l’intenzione di fare una domanda d’asilo e che, quando ciò è accaduto, la domanda è stata esaminata dalle autorità italiane», perché pare che dal presidio dell’Unhcr in Libia siano arrivate ben altre voci. E proprio dalle carceri libiche provengono le testimonianze giornalistiche di Gabriele Del Grande (“Il mare di mezzo”) e di Laura Boldrini (“Tutti indietro”), a spegnere certe speranze.

Al largo della speranza Secondo l’Unhcr nel 2008 nel mondo si sono registrate 839 mila domande di richiedenti protezione internazionale, ed è salito a 10,5 milioni il numero di rifugiati e a 26 milioni quello degli sfollati interni. Sono 34,4 i milioni di rifugiati sotto la protezione dell’Unhcr e 4,7 quelli sotto la responsabilità dell’Agenzia per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi (Unrwa). Contrariamente a quanto si possa pensare, il problema dei profughi riguarda per l’80% migrazioni interne ai paesi in via di sviluppo (pvs), che scappano principalmente da problemi di matrice occidentale (Afghanistan e Iraq) per rifugiarsi soprattutto in Pakistan, Siria e Iran. A 51 paesi industrializzati, invece, il compito di provvedere a 383 mila domande di protezione. Negli Usa sono 49 mila, mentre in Italia, quinta nella classifica delle destinazioni nei paesi industrializzati nel 2008, sono 30 mila. Il totale degli ingressi di immigrati in Italia registra solo un 10% per vie marittime, ma di questa percentuale fa parte il 70% dei richiedenti asilo, 36 mila persone. Di queste, due su tre hanno richiesto protezione sul posto o successivamente. Al 50% dei richiedenti è stata riconosciuta una qualsiasi forma di protezione. Possiamo dunque concludere che un terzo degli arrivi via mare è stato riconosciuto bisognoso di protezione. I paesi di provenienza, nel caso dell’Italia, sono: Nigeria, Somalia, Eritrea, Afghanistan, Costa d’Avorio, Ghana. Agli arrivi l’Unhcr fa fronte con ben 496 associazioni partner italiane, dal 2006 con il progetto “Praesidium”, finanziato dall’Ue e dal Ministero dell’interno, operativo dal 2008 anche in Puglia, e dal 2007 è stato anche indetto il premio “Per mare” per quelle imbarcazioni private che hanno il


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Sit-in CGIL di fronte al Cie di Restinco (BR)

coraggio di salvare vite umane, in barba anche alle pericolose leggi statali in materia. Come evidenzia l’ultimo rapporto Frontex, nel corso del 2009, a partire dall’entrata in vigore degli accordi con la Libia, in Italia si è registrato un vistoso calo degli arrivi per mare, che l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Ue ha stimato intorno al 33% in meno rispetto al 2008. Di fronte a questo allarme il ministro Roberto Maroni non ha trovato di meglio che polemizzare sul bilancio di Frontex. Comunque, solo pochissime persone sono riuscite a far valere i propri diritti: dei 1409 respinti presso la Libia, solo 24 sono potuti ricorrere alla Corte europea. Eppure la storia delle tutele internazionali per i migranti, accetta un principio fondamentale della legge del mare, quello del non refoulement, il divieto di respingimento, che secondo Amnesty “non implica nessuna limitazione geografica, si applica a tutti gli agenti statali operanti all’esterno o all’interno del proprio territorio. Non si deve respingere né verso il luogo di temuta persecuzione né verso paesi senza guarentigie”. A parte quanto detto nella rubrica ospitata su questo numero, il docente di Diritto internazionale presso l’Università del Salento Giuseppe Gioffredi precisa che: «Il Trattato sul funzionamento dell’Ue (TfUe) prevede lo sviluppo di una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino e a garantire il rispetto del principio di non respingimento, il‘sistema europeo comune di asilo’. Un sistema comune volto alla garanzia per tutte le tutele e le protezioni previste del diritto, procedure e criteri comuni anche per gli accordi di partenariato e cooperazione con paesi terzi per gestire i flussi migratori speciali». Inoltre: «Qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di

emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro interessato». Un ultimo proposito che deve destare l’attenzione degli organismi internazionali e dei cittadini, perché sembrano essere al via accordi tra Ue e Libia da monitorare con attenzione.

Fabbricare ponti per la “Fortezza Europa” Intervista a Gabriele Del Grande

Il giornalista Gabriele Del Grande ha fondato l’osservatorio sulle vittime delle emigrazioni Fortress Europe, e ha condotto inchieste importanti, poi pubblicate per Infinito edizioni, come “Mamadou va a morire”(2007) e “Il mare di mezzo”(2010). Come nasce la riflessione sul Mediterraneo, la “culla della civiltà”, come immenso cimitero nel quale dal 1988 hanno perso la vita circa 15 mila immigrati? “Il mare di mezzo” nasce a metà del 2005, quando per Redattore Sociale conduco una ricerca sulla stampa internazionale sui morti delle carrette del mare nel Canale di Sicilia. Nel 2006 nasce Fortress Europe e nell’autunno dello stesso anno mi sono dedicato alla storia di Mamadou, una vittima del mare, poi pubblicata nel libro del 2007. “Il mare di mezzo” è un viaggio lungo le frontiere estere e in quelle interne all’Italia, poi nei Cie e nei Cara. I respingimenti sono un dramma soprattutto se avvengono verso la Libia. Come ha documentato Amnesty International, nelle carceri libiche c’è gente non libica che avrebbe titolo per chiedere asilo politico, ma è stata respinta e posta sotto il controllo e gli abusi della polizia del paese di Gheddafi. Restano spesso abbandonati lì nigeriani e piuttosto eritrei e somali.


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Ma gli accordi tra Italia e Libia si fermano alle coste? Se Amnesty riconosce l’Italia come responsabile di ciò che accade ai respinti in Libia, perché il governo non ha previsto delle garanzie per i respinti? La tua è una domanda legittima di chi crede di essere in uno Stato di diritto. Come è possibile leggere sul Rapporto 2009 di Amnesty, l’attuale trattato di amicizia, cooperazione e partenariato sussistente tra Italia e Libia è il risultato di un processo avviato dal primo governo Prodi, e c’è stato tutto il tempo di compiere visite in Libia da parte dei diversi schieramenti che si sono alternati a Palazzo Chigi. E che sappiano delle condizioni delle carceri libiche è certo perché ci sono testimoni oculari e perché c’è l’agenzia europea per il controllo della costa mediterranea (Frontex), che esprime preoccupazione per quegli accordi. Poi ci sono la legge italiana, che vieta il respingimento a chi vuol fare domanda di asilo e tanto meno il “respingimento preventivo”, e quella libica, che non prevede alcuna garanzia per i rifugiati e nessuna ratifica della Convenzione del 1951. In tale contesto, come è possibile avere una minima conoscenza delle storie e delle persone che tentano di arrivare qui? Adesso è possibile solo visionare i comunicati del Ministero dell’Interno, che riportano le cifre sui respingimenti, senza poter conoscere nemmeno nomi e nazionalità. Il 30 agosto 2009, 75 persone, tra cui donne, bambini e minorenni non accompagnati, sono stati respinti senza alcuna identificazione. Eppure le espulsioni collettive sono vietate dal quarto protocollo aggiuntivo della Carta europea dei diritti umani. Solo 24 di loro hanno potuto fare ricorso alla Corte europea, ma questa è più una sconfitta per coloro che non sono riusciti a ricorrere piuttosto che una vittoria del diritto, solo una minoranza vi è acceduta. Ogni tanto la giustizia batte un colpo, come è accaduto per le citazioni in giudizio emessa dalla Procura di Siracusa proprio per i fatti di agosto. Ma è una goccia nel mare, quella stessa citazione non è una condanna e potrà finire in archivio. E ci sono storie di opposizione a una “legge illegale” come la definisci tu. Sì, è il caso dei salvataggi a opera di numerosi pescherecci italiani al largo di Mazara del Vallo. Per effetto della legge sull’immigrazione del’98 siamo arrivati a una situazione di assurdo conflitto: il divieto di portare a terra clandestini, passibile di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, contro l’obbligo di prestare sempre soccorso sancito dalla Convenzione Sar (Search and rescue) del ‘79. Una legge variamente interpretata dalla guardia costiera: può an-

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dare bene ai pescatori italiani, malissimo ai sette tunisini che nel 2007 soccorsero alcuni naufraghi. Furono arrestati e le loro navi poste per mesi sotto sequestro a Lampedusa, dimezzate così del loro valore, provocando infine licenziamento e disoccupazione dei malcapitati. E ci sono poi storie che non vorremmo mai sentire, quando nemmeno la legge del mare può nulla contro il terrore instaurato dalla legge reale: è il caso del peschereccio di Mola di Bari, il cui capitano ributtò a mare un naufrago che dopo poche bracciate annegò sfinito. Era il gennaio del 2008. Al di là di questi casi limite, penso che non ci sia solo un problema di legge, ma proprio di comunicazione. La gente non conosce i propri diritti ed è trattata come se ogni vita avesse un peso o un valore differente. Come è possibile sviluppare una resistenza a questo stato di cose, come fare che la “fortezza Europa” stenda i suoi ponti e diventi una piazza? Anzitutto bisogna prendere coscienza che l’immigrazione è solo una “parete” di questa fortezza. Tuteliamo da sempre la libertà di circolazione dei beni e delle merci, non lo facciamo allo stesso modo per le persone. Eppure i ponti si costituiscono con l’apertura. Il futuro è in un’altra finanza, in cui la vecchia Europa non giocherà più un ruolo di primo piano: l’interesse si sposterà sempre più sull’Africa e sul resto del mondo. Il rischio per l’Europa è quello della crisi e del collasso. Altri paesi crescono velocemente. Si può ancora trovare un equilibrio: è il caso dei gemellaggi tra i porti di Genova e Tangeri. La redistribuzione della ricchezza dovrà avvenire e passerà anche grazie al ruolo degli immigrati. fonti Perrone Luigi: “Da straniero a clandestino”, Liguori editore, 2005; Unhcr: Dossier Asylum, levels and trends in Industiralized Countries 2008; www.coe.int: rapporto sulla visitia in Italia e risposta del governo; www.iai.it : “Il trattato Italia-Libia di amicizia, partenariato e cooperazione”; www.amnesty.it “Rapporto 2009”; www.frontex.europa.eu “General Report 2009”; repubblica.it “Immigrati: Maroni, Frontex rischia di essere eurocarrozzone”; www.ismu.org; www.aduc.it “Onu durissima con l’Italia: viola diritto d’asilo e mente”; fortresseurope.blogspot.com; Del Grande Gabriele, “Il mare di mezzo”, Infinito, 2010; Boldrini Laura, “Tutti indietro”, Rizzoli, 2010; Presa diretta.rai.it puntata “Respinti” del 6 settembre 2009;

Quando il rifugio è fai-da-te Le esperienze del Ferrhotel e del “Socrate“ a Bari di Gianpietro Occhiofino

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a politica è l’arte della convivenza. Difficile e nobile come tutte le arti, ma necessaria oggi più che mai, quando convivenza significa soprattutto vita in comune tra diversi. Compresenza, cioè, sullo stesso suolo, di culture, etnie, religioni, storie collettive e personali differenti. Data per acquisita la natura strutturale dei flussi migratori e la loro ineluttabilità, bisogna adoperarsi perché la politica, con chiare scelte e con concreti interventi, possa aiutare ciascuno a confrontarsi con l’altro senza avere paura. È comprensibile che, vi-

vendo in un nuovo paese, percepito a volte come ostile, gli immigrati spesso scelgano d’isolarsi. Nella città di Bari, che pur conosce ancora l’emigrazione, chi arriva non sa dove andare o non può più andare via. La presenza del Cara pone, molto spesso, le amministrazioni locali in una situazione di grande imbarazzo. Nel garantire la “seconda accoglienza” i dormitori e le mense del Comune di Bari si rivelano insufficienti. Emergenza abitativa, sopravvivenza, indifferenza della politica sono le motivazioni che hanno spinto decine di richiedenti


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asilo, presenti in città, all’autorganizzazione dal basso. Dopo aver cercato senza successo di trasferirsi in Svezia, dormito per quasi un mese per strada, il 19 ottobre 2009, circa quaranta somali, tutti rifugiati politici, hanno occupato il Ferrhotel. Un vecchio edificio abbandonato, vicino alla stazione centrale, di proprietà di Trenitalia. Nella struttura hanno dormito per anni i senzatetto baresi, ma nel 2007 è stato sgomberato. Da allora si è trasformato in una pattumiera. I somali l’hanno ripulita rendendola parzialmente abitabile. All’inizio mancava l’acqua, poi ripristinata, continua a non esserci la luce. Un generatore a benzina sopperisce a questa mancanza. Gli occupanti hanno trascorso l’inverno al freddo, cucinando sui fornellini a gas, facendo luce con le candele. Eppure il Ferrhotel è pieno di vita. All’interno i rifugiati, grazie anche al supporto della “Rete Antirazzista”, organizzano assemblee, raccolta fondi per l’autofinanziamento, feste multietniche e concerti. Si sono aperti alla città che ha accolto favorevolmente la loro presenza. Ma il numero delle immigrate e degli immigrati è alto. Per cui, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, sessanta richiedenti asilo e rifugiati politici provenienti dall’Eritrea, dall’Etiopia e dal Sudan

hanno occupato il plesso dell’ex liceo classico “Socrate”. Anche qui si è registrata la solidarietà da parte delle cittadine e dei cittadini baresi. Viveri, indumenti, coperte, prodotti igienici sono stati loro donati. I residenti del “Socrate”, però, vivono ora questa situazione con grande preoccupazione. È degli ultimi giorni, infatti, la notizia della messa in vendita dell’immobile da parte del Comune. Dopo un passato di sofferenze, li attanaglia un presente caratterizzato da incertezza. Le due citate iniziative sono esempi reali d’integrazione multietnica e interculturale. “Contenitori” vuoti e abbandonati, che riprendono vita grazie al lavoro e all’impegno degli immigrati. Molto c’è ancora da fare, soprattutto in termini di lungimirante ed alta politica. Il nostro auspicio consiste nel credere che la “convivialità delle differenze”, visione profetica, invocata per lungo tempo da don Tonino Bello, il vescovo della pace e dei poveri, possa a breve realizzarsi. Bisogna crederci fermamente. La speranza, in verità, è senza confini, non ha colore né cittadinanza.

O il mare o la morte Storie di rifugiati di Bema Coulibaly, Rosa Leo Imperiale, Mariana Metrangolo

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toria di C.

Sedici mesi di viaggio, di cui quattro di prigione in Libia. Quasi 3000 euro pagati. Attraversamento del deserto, disagi, difficoltà. Ma la paura della guerra nel proprio paese, unita alla speranza di una vita migliore per sé e per la propria famiglia, lo hanno aiutato ad affrontare ciò che noi italiani possiamo solo provare a immaginare. La storia che segue ci racconta di un rifugiato politico, un ragazzo di ventisei anni, che ha accettato di raccontarci la sua avventura. Una storia comune, purtroppo, a milioni di altre storie di uomini e donne che arrivano a stenti sulle nostre coste, e che la legge italiana in vigore consente di respingere in mare. Il nostro amico,che chiede di non pubblicare le sue generalità, parte da uno dei paesi dell’Africa nera, attraversa il deserto con mezzi di fortuna, lavora per pagarsi i viaggi e da vivere, fino a tentare la traversata dalla Libia per l’Italia per ben due volte. Fermato in mare a pochi chilometri dalle coste libiche, affronta la prigione e le dure torture che le carceri libiche riservano ai loro “ospiti”. La speranza e la forza d’animo lo aiutano ad arrivare finalmente in Italia, e a costruire pian piano il proprio futuro. R. L. I. Pourquoi et quand tu as décidé de partir de ton pays? Pour deux raisons: la première, pour ma sécurité vu que mon pays traversait une crise entre le sud (chrétien) et le nord (musulman); venant d’une famille chrétienne et converti à la religion musulman je ne me sentais plus en sécurité; second pour avoir une vie meilleure. Je suis parti de mon pays en juin 2007 pour objectif l’Espagne, en faisant la première étape au Mali à Bamako où j’ai été hébergé par un compatriote pour quelques jours. C’est ainsi que je me suis informé pour la traversée du désert. Et tu n’as pas eu peur de tous ce qu’ils t’ont raconté sur la traversée du désert africain? Non, pas du tout pare ce que j’avais la bénédictions de ma famille. Comment s’est passé ton aventure dans le désert africain? En partant du Mali pour l’Algérie j’ai payé la somme de 15000fcfa.

J’’étais avec autre cinquante clandestins de divers nationalité dans une 4x4 couvert avec une bache. A chaque village le chauffeur s’arrêtait et nous demandais de payer de l’argent. Arrivé en Algérie, j’étais sans argent. En travaillant pendant 2 mois, j’ai su qu’en Libye il y avait des bateaux faciles pour l’Italie et c’est ainsi que j’ai décidé de partir pour l’Italie, payant150 Dinar pour la première ville de la Libye. Arrivé à quelques kilomètres de la frontière de la Libye, le chauffeur nous a indiqué comment arriver au delà de la frontière. Nous nous sommes divisés en plusieurs groupes , moi je suis resté avec deux autres compatriotes; nous avions marché pendant plusieurs heures. Une fois en ville on a trouvé un foyer des immigrés où on s’est arrêté. Cette ville s’appelait Agathe, là j’ai fais la mécanique qui est mon métier, j’ai économisé pour continuer le voyage. Pour partir sur l’Italie j’ai payé 900 dollars ,avec plus de 100 autre personnes sur un petit bateaux, nous avions embarqué a 5h du matin. Mais après quelques heures de mer on a été arrêtée par la police Libyenne, porté en prison dans la ville Moussata; on a subi des tortures pendant un mois dans la première prison, puis porté en tribunal et envoyé dans une autre prison où j’aiais 2 mois puis libéré. Et je suis allé à Tripoli; j’ai continué à faire la mécanique pendant 7 mois pour économiser et pouvoir retenter ma chance. Quand j’ai été informé d’un départ avec un grand bateaux, j’ai payé 1200 dollars. Nous sommes parti au environs de 3h du matin de la Libye pour 2 jours en mer certains étaient affaibli d’autres malades. A peine arrivé en Italie, comment tu as été accueilli? Arrivé en octobre 2008 à Lampedusa on a été découvert par la “guardia di finanza”sur les cotes Italienne , et qui on dit “ Vous etez sur le territoire Italien, ne paniquais pas, nous allons vous porter sur la rive”. On était tous content parce-que on a su que c’était la fin du calvaire qu’on a vécu en Libye et en mer. Ils nous ont donné des gilets de sauvetage , pris en photo, poser des questions sur notre identité, filmer et nous on fait monter sur leur navire en nous fouillant. Arrivés au port on a été accueilli par la croix rouge ceux: qui étaient affaibli et malade ont été transféré a l’hôpital nous au-


DOSSIER/Asilo

tres transportés dans un centre où on a reçu des habits, des cartes téléphoniques pour appeler nos parents au pays. On a passé trois jours, puis transféré par un avion sans nous dire la destination. Là, on a eu peur pensant à un rapatriement, et c’est ainsi qu’ on s’est trouvé en Pouille. Dans un hôtel on été logé bien suivi par la croix rouge, les policiers Italien en nous voyant dans la ville nous posaient des questions du genre «Pourquoi tu es parti de chez toi?», « D’où viens-tu? ». Mais avec une tranquillité qu’ont était surpris de la gentillesse de la police en notre regard, parce que les policiers Arabes nous ont fait voire de toutes les couleurs. Aujourd’hui juin 2010 tu réside encore dans cet hôtel? Non, depuis l’année dernière on a été obligé de laisser l’hôtel. Entre temps moi j’ai eu un séjour de 6 mois comme réfugier politique et un avocat qui m’a été par la croix rouge. Comment tu te trouve en Italie? Je me trouve bien, j’ai fais des petits boulots, actuellement je suis en essaie dans une usine, j’espère qu’il me prenne comme ça je pourrai renouveler mon permis de séjour car ça se périme dans peu de temps. Qu’est ce que tu dis a ceux qui veulent encore venir en Italie? Je ne peux pas les conseiller de faire tout le parcours que j’ai fais car le risque est très grand. Je leur dirai d’avoir un métier, être instruit, chercher des contacts et faire une demande de travail. Comment aimerais-tu que soit ton futur? Avoir un permis de séjour, un travail, une maison. Avoir la possibilité de circuler et aller sans problème a l’hôpital.

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Un mot à la loi italienne sur l’immigration. Mettre en règle les immigrés parce que travaillant avec le séjour on paye les taxes, ce qui est contraire avec le travail au noir! B. C.

Storia di G. ed E.

Me lo hanno detto da subito: «Qui in Italia stiamo bene, l’unica difficoltà è trovare un lavoro che ci permetta di vivere con i nostri figli». Ho conosciuto E. e G. in una mattina soleggiata che profumava di primavera e quella luce l’ho trovata anche nei loro sorrisi, nella risatine delle parole italiane pronunciate con impegno e nel modo in cui, premurosi, hanno cercato di raccontarmi la loro storia. E. e G. sono una giovane coppia di origine turca, di circa 45 anni; la storia dei loro viaggi inizia in maniera separata ma, nei fatti, segue lo stesso percorso: nati a Martin Savur, in Turchia, i due bambini sono costretti già all’età di 1-2 anni a fuggire dalla città con le rispettive famiglie per motivi religiosi: la dittatura turca, infatti, li costringe a Beirut, in Libano, dove, vivono per circa vent’anni. «Era la città più bella del mondo, prima che fosse rovinata dalla guerra», mi dicono gli occhi e le parole di E. con un misto di orgoglio e malinconia. E proprio a Beirut, E. e G. si conoscono grazie all’amicizia che lega le loro famiglie. Gli anni successivi sono l’occasione per creare un nucleo familiare più stabile: E. e G. si sposano e nasce la prima figlia, H. che oggi è una bella ragazza di 21 anni. Ma la permanenza a Beirut, che sembrava definitiva, si rivela solo la prima tra le tappe provvisorie della loro vita: il primo che è costretto a fuggire dal Libano è proprio E., il capofamiglia, poiché la guerra appena scoppiata obbliga tutti gli uomini ad arruolarsi. Lui ha solo 19 anni quando dalla Turchia scappa in maniera rocambolesca, aiu-


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DOSSIER/Asilo

tato da amici che gli danno l’opportunità di arrivare in Germania: il viaggio, seppur fatto in aereo, diventa difficile e doloroso soprattutto per la difficoltà di reperire i documenti di espatrio. Ma l’arrivo in Germania segna un nuovo inizio, dal momento che viene da subito riconosciuto ad E. lo stato di rifugiato politico e la macchina dei servizi sociali tedesca si attiva per aiutarlo concedendogli un alloggio e delle sovvenzioni comunali. Nel frattempo, E. trova anche lavoro come autista e la sua famiglia decide di raggiungerlo in Germania. La vita in Germania scorrerà per altri vent’anni, scandita dalla nascita di altri otto figli e dal pensiero costante di un permesso di soggiorno che si rinnova ogni sei mesi. E. e G. mi parlano in maniera positiva della loro vita in Germania, mi raccontano che sono stati accolti molto bene e hanno ricevuto aiuti significativi dalle istituzioni, ma, ricorda E.: «In fondo, ogni tanto, ci sentivamo sempre un po’ diversi». È il senso dell’instabilità, della precarietà delle situazioni che accompagna certe vite, in cui l’unica consapevolezza è che, prima o poi, bisogna andare e ricominciare in un altro luogo. È così che succede alla famiglia di E. e G., che non si vedono più rinnovato il permesso di soggiorno e sono costretti a cambiare ancora, a cambiare tutto. È sempre E. che, per primo, va via in cerca di una condizione migliore; questa volta, arriva in Italia aiutato da un camion di fortuna che lo accompagna fino a Forlì: «Sono venuto in Italia perché mi avevano raccontato che qui la gente mi avrebbe aiutato. E poi quando sono arrivato ho scoperto che potevo finalmente respirare un po’ di democrazia, potevo parlare liberamente senza che nessuno mi giudicasse». A Forlì, E. inizia a lavorare come verniciatore in una fabbrica che si occupa di costruire barche. È l’inizio di una nuova speranza di stabilità, tanto che dopo qualche mese torna in Germania a riprendere la sua famiglia con la quale resta a Forlì per un mese e da dove poi tutti ripartono per Trepuzzi ed essere inseriti in un programma di protezione . Oggi, dopo un anno di permanenza, E. e G. si dicono molto soddisfatti della loro vita qui in Italia ma un po’ scoraggiati per un lavoro che tarda ad arrivare e che non consente loro di sperare in un futuro più certo. È passato del tempo mentre ascolto questi racconti, si è anche svegliato il piccolo A., cinque mesi, l’ultimo nato della famiglia, che dormiva accanto a noi, nel suo passeggino, mentre mamma e papà mi raccontavano delle loro fughe; tra tante incertezze, forse è lui lo specchio riflesso di un futuro che attende di concretizzarsi da una vita intera. M.M.

Storia di M.

Quando ho incontrato M. ho avuto da subito l’impressione di oscillare su un’altalena fatta di grandi e piccoli spazi. L’ho percepito dai suoi occhi di un nero lucente simile al cielo di certe notti limpide d’Oriente, occhi grandi ma non abbastanza da contenere i luoghi, la gente, i viaggi che l’hanno portata fin qui. M. è una bella donna afghana di 48 anni, che circa un anno e mezzo fa è riuscita ad arrivare in Italia e ad entrare nel programma di protezione per rifugiati politici. Nata a Kabul ma vissuta di fatto a Herat, M. cresce conoscendo l’Afghanistan sia prima che dopo l’avvento dei talebani, uno spartiacque, questo, di non poco conto per la vita di una donna: solo questo è, per la dittatura talebana, il primo motivo per cui vivere una vita ai margini con la continua percezione della paura per sé e per la propria famiglia, costantemente minacciata per ragioni che sembrano appartenere più alla ‘legge del più forte ‘ che a reali motivazioni religiose ed economiche. M. è una di quelle tante donne che ha solo il desiderio, legittimo, di sognare qualcosa in più per la propria esistenza e l’unica possibilità di farlo è sognarlo altrove, ovunque, ma non nel proprio Paese. Un ‘altrove ‘ che ha il nome dell’Europa democratica e civile, della Svizzera benestante e piena di lavoro. Questo le avevano raccontato e questo si è permessa di sognare. Ed è per questo che M. scappa da Herat; aiutata

dal marito che, con il supporto di un amico, le permette di andare via con i loro tre figli e che subito dopo viene catturato dai talebani senza che M. sappia a tutt’oggi il motivo e il destino che lo ha atteso. Il viaggio sarà uno tra i più lunghi e faticosi della sua vita: partita con una macchina di fortuna con gente sconosciuta, arriva in Iran, prima tappa del suo viaggio, ed è subito costretta a vagare di notte tra piccole città iraniane per essere poco visibile ai controlli della polizia. Sono giorni lunghi, fatti di piccoli spostamenti, di visi clandestini che si muovono aiutati dal buio dei grandi cieli iraniani. Il viaggio prosegue verso la Turchia, attraverso incontri con improbabili autisti che accompagnano M. e i suoi due figli minori per altre città, fino a rendere sempre più concreta la possibilità di avvicinarsi all’Europa: è attraverso un viaggio in mare che si realizza questa speranza, che porta M. verso le coste italiane e poi a Como, una tra le città più vicine alla Svizzera, e che ha l’unico merito di farle rivedere la figlia maggiore che un controllo di polizia le aveva sottratto in Turchia. Ma questo incontro è così breve che M. non fa neanche in tempo a rendersi conto che, per la seconda volta, sua figlia le viene sottratta senza che lei abbia, ancora oggi, sue notizie. Ma, a dispetto dei suoi sogni, M. la Svizzera la sfiora solo in treno, perché dopo una settimana di sosta a Como viene mandata a Gorizia dove troverà una struttura che la accoglie. Il senso di precarietà della sua vita e del suo viaggio, trova un momento di stasi solo cinque mesi dopo, quando da Gorizia arriva a Trepuzzi e può finalmente iniziare un percorso di vita più stabile. Oggi ha una casa in cui abitare con i suoi due figli adolescenti che hanno iniziato a frequentare la scuola e dove lei stessa ha l’opportunità di cercare un reale inserimento. Alla fine, dopo tante domande, ho voluto solo chiedere a M. oggi come sta e come si trova qui in Italia. Ho trovato quegli stessi occhi inquieti dei primi minuti di conoscenza che le sue parole non hanno tradito: mi ha raccontato di essere felice perché i suoi figli stanno frequentando la scuola qui in Italia, ma di portarsi dentro la tristezza per suo marito, per sua figlia, per il lavoro. Ed ora sogna di poter andare in Australia dove le sono rimasti alcuni parenti e dove le condizioni di vita e di lavoro sembrano migliori. M. sogna di nuovo. In fondo solo quello per cui ha lasciato il suo Paese: il senso di una casa che ancora non c’è. M.M.


DIRITTI UMANI/ Rubriche

Alas testo - Tonio Dell’Olio, responsabile Libera Internacional

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n spagnolo significa “ali” ma di fatto è un acronimo che sta per “America Latina Alternativa Social” e questa volta non ha bisogno di traduzione! Una rete di organizzazioni di base, associazioni, realtà locali e nazionali che vogliano offrire il proprio contributo per diffondere la cultura della legalità e della giustizia in America Latina. Ancora una volta si tratta di una sfida grande come quella che ha visto impegnate tante organizzazioni attorno a Libera dalla metà degli anni ‘90 e che ha generato anche Flare – Freedom legality and rights in Europe che adesso conta più di 50 organizzazioni provenienti da tanti Paesi europei. La sfida latinoamericana è particolarmente importante, perché quello è un continente fortemente segnato dalla presenza dei cartelli dei narcotrafficanti e dalla corruzione. Si può dire che non vi sia settore della vita sociale delle

nazioni latinoamericane che non siano condizionate pesantemente dalla presenza delle mafie sudamericane. Informazione, politica, economia: tutto è posto sotto il giogo pesante dei cartelli colombiani e messicani (ma anche brasiliani, argentini, guatemaltechi, boliviani eccetera) che ormai da tempo hanno una dimensione globale e che sono fortemente favoriti dalla crisi economica e finanziaria che apre loro spazi, mercati, opportunità impreviste per poter penetrare nell’economia e nella società. Una mafia globalizzata richiede che anche la società civile si globalizzi per poter costruire reti di solidarietà e collaborazione, scambiarsi esperienze e mettere a frutto competenze e conoscenze. Un esempio tra tutti è la legge fortemente voluta da Libera e che prevede l’uso sociale dei beni confiscati. Con opportuni adattamenti ai diversi contesti, potrebbe

essere proposta anche in Argentina, Bolivia, Perù, perché in Italia si è rivelato un elemento determinante nel contrasto alle mafie e abbiamo speranza che possa funzionare anche altrove. Non dobbiamo dimenticare che quella legge colpisce al cuore (ovvero nei loro interessi) le organizzazioni criminali, crea posti di lavoro, con la formazione di cooperative giovanili per coltivare le terre sottratte ai boss, pone dei segni importanti sul territorio in modo che la gente possa godere del vantaggio di stare dalla parte della legalità e della giustizia. Non si tratta di “esportare” un progetto ambizioso e importante, ma di congiungere le forze per rendere più efficace il cammino della giustizia e dei diritti umani compromessi o minacciati dalla presenza e dall’azione delle mafie.

DIRITTO INTERNAZ/ Rubriche

L’Unione europea e il diritto di asilo testo - Giuseppe Gioffredi, ricercatore di Diritto internazionale - Università del Salento

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l primo strumento fondamentale in materia di diritto d’asilo a livello comunitario è stato il regolamento (reg.) 2725/2000 sull’istituzione dell’Eurodac, sistema informatizzato per la raccolta delle impronte digitali dei richiedenti asilo. Nel gennaio 2003 è stata adottata la direttiva (dir.) 2003/9 contenente le regole minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo, nel febbraio 2003, invece, è stato adottato il reg.343/2003 detto anche Dublino II, il quale ha sostituito la Convenzione di Dublino del 1990, che creava uno strumento specifico ai fini dell’individuazione dello Stato competente ad esaminare la domanda d’asilo. Come per la Convenzione, la funzione del Dublino II è duplice: garantire al richiedente asilo che la propria domanda venga esaminata da un Paese

membro e impedire la proposizione da parte dello stesso soggetto di molteplici domande d’asilo in Paesi membri. Esso individua la “one chance rule”, la regola per cui ogni individuo che entri nel territorio dell’Ue ha diritto a un’unica possibilità di esame della propria domanda d’asilo. Il 1° dicembre 2005 è stata poi adottata la dir. 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato. Più recentemente, il 6 giugno 2007, la Commissione europea ha presentato il Libro verde sul futuro regime europeo in materia d’asilo. Tra le garanzie previste a tutela dei richiedenti, nel reg. Dublino II è stata inserita la “clausola umanitaria”, la quale prevede che uno Stato membro possa richiedere a un altro

Stato membro di esaminare una domanda di asilo, allo scopo di riunificare membri della stessa famiglia o altri parenti a carico, in particolare nel caso di individui che siano dipendenti dall’assistenza di un’altra persona, o minori; se il secondo Stato membro acconsente alla richiesta prima che avvenga il trasferimento, i richiedenti asilo devono dare il loro consenso. La politica europea in materia, però, ha dato adito a numerosi dubbi, perché nonostante l’impegno dimostrato dagli Stati membri dell’Ue nell’adottare procedure in grado di armonizzare la legislazione e le pratiche in questa delicata materia, molto resta ancora da fare prima di poter giungere ad una vera e propria politica comune.


Rubriche/COOPERAZIONE

Ecosostenibilità digitale testo - William Capraro, presidente Ainram ong

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l trashware è la pratica di recuperare vecchio hardware, mettendo insieme anche pezzi di computer diversi, e di renderlo nuovamente funzionante ed utile. A molti di voi sarà capitato, nelle aule universitarie, negli uffici pubblici e privati, o più semplicemente all’interno delle vostre case, di imbattervi in vecchi personal-computer inutilizzati. Depositati, accatastati da qualche parte perché il più delle volte obsoleti, spesso sostituiti da nuove tecnologie informatiche. Cosa farne? Smaltirle sembrerebbe la via più ovvia (e costosa), ma non è il caso di essere frettolosi. In alcuni casi è quasi impossibile pensare che possano davvero servire ancora, tuttavia spesso, anzi, la maggior parte delle volte, non è detto che ciò che stiamo “abbandonando” sia effet-

tivamente un rifiuto inutilizzabile. La stessa legge italiana in materia di smaltimento dei rifiuti elettronici, con il decreto legislativo del 25 luglio 2005, n. 151, non specifica quando un determinato tipo di materiale possa essere considerato rifiuto. Avviare allo smaltimento una “macchina elettronica” può essere un errore, un danno all’ambiente se prima non si è verificato che questa sia priva a tutti gli effetti di materiale ancora utilizzabile. Più del 5% di tutti i rifiuti che giornalmente produciamo è di natura elettronica. In Italia solo nel 2006 sono state prodotte ben 800 mila tonnellate di materiale elettrico ed elettronico di scarto, di cui solo 108 mila sono state raccolte e smaltite adeguatamente. Siamo davanti a un problema ambientale dovuto a molteplici fattori, il

più importante dei quali è la nostra corsa sfrenata verso la tecnologia avanzata, che sovente più che di veri e propri progressi si rende semplicemente più accattivante. Ainram Puglia a questo proposito, ha deciso di raccogliere personal-computer inutilizzati, di valutarne l’effettivo possibile reimpiego, da destinare, successivamente alle opportune verifiche e modifiche, ad iniziative di beneficienza e progetti di cooperazione internazionale. contatti Per interpellare il Dott. Capraro è possibile contattarci all’indirizzo email palascia@ metissagecoop.org scrivendo “Cooperazionone” nel campo “oggetto”.

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Rubriche/ESPERIENZE

Laboratorio di cooperazione italo-ellenico testo - Giuseppe Maggio, responsabile laboratorio di cooperazione italo-ellenico

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l laboratorio di cooperazione italoellenico rappresenta una struttura di rete permanente per la cooperazione Italia-Grecia con estensione all’intera area del bacino del Mediterraneo e coinvolge associazioni culturali, enti pubblici, agenzie per lo sviluppo del territorio ed enti di formazione. Esso rappresenta l’area della Progettazione comunitaria della Comunità ellenica di Brindisi, Lecce e Taranto, una ong la cui sede è a Brindisi in viale Regina Margherita, 45. Lo scopo di questa associazione è quello di rafforzare gli antichissimi legami tra il popolo greco e italiano e le loro culture attraverso scambi sociali, culturali e commerciali; favorire i contatti per migliorare la conoscenza reciproca tra la comunità italiana

e quella greca promuovendo viaggi, convegni, mostre, conferenze, concerti, spettacoli e ogni tipo di manifestazione che attui lo scambio socio–culturale fra i due popoli. Lo scopo del laboratorio è generare, sostenere e realizzare nuovi progetti di cooperazione fra Puglia e Grecia e fra i Paesi dell’area balcanica in diversi ambiti di intervento (culturale, storico, religioso, musicale, scientifico, sociale) in modo da favorire la conoscenza reciproca delle realtà artistiche e culturali di Puglia, Grecia e dell’area balcanica; proporre e realizzare progetti di cooperazione in collaborazione con enti pubblici e privati dislocati nelle aree individuate; realizzare iniziative mirate alla sensibilizzazione del territorio (Info-day sui programmi comunitari, mini

corsi informativi sui bandi e sulle modalità di presentazione delle proposte progettuali). Il percorso intrapreso ha portato, nell’arco di un anno, alla realizzazione di numerose iniziative e alla presentazione di diverse proposte progettuali che hanno rafforzato la validità e l’importanza di questo laboratorio, inteso come strumento di progettazione partecipata orientato alla costituzione di una rete di scambio e condivisione di servizi tra gli aderenti.


L’AVVOCATO/ Rubriche

Il permesso di soggiorno testo - Fabio Ungaro, avvocato titolare dell’omonimo studio legale

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l decreto legislativo del 25 luglio 1998, n. 286, meglio noto come “Testo unico sull’immigrazione”, disciplina l’accesso in Italia dei soggetti non appartenenti all’Unione europea, quindi, di coloro che non hanno la cittadinanza di uno degli stati “Schengen”. È utile ricordare che, in base al suddetto provvedimento legislativo (più volte modificato e integrato da leggi e decreti), esistono diversi tipi di permessi di soggiorno, per motivi altrettanto differenti. Il permesso di soggiorno più comune e ambìto, ma al tempo stesso tra i più difficili da ottenere, è quello rilasciato per motivi di lavoro. Il permesso di soggiorno per motivi di lavoro (subordinato, anche di carattere stagionale, e per lavoro autonomo), infatti, sottostà a delle quote, le quali sono comunicate con decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Dette quote sono molto restrit-

tive rispetto al numero dei richiedenti. Si pensi che per il 2009 non sono stati previsti neppure flussi, poiché sono stati assorbiti quelli del 2008. La strada migliore per ottenere il permesso di soggiorno è quella di presentare presso lo sportello unico per l’immigrazione, istituito presso la prefettura della provincia di residenza, ovvero di quella in cui ha sede legale l’impresa, la richiesta nominativa di nulla osta al lavoro. Tale istanza deve pervenire da parte di un datore di lavoro che possa garantire allo straniero idonea sistemazione alloggiativa. La richiesta dovrà contenere anche la proposta di contratto di soggiorno menzionando le relative condizioni, comprensiva dell’impegno al pagamento da parte dello stesso datore di lavoro delle spese utili per il ritorno dello straniero nel paese di provenienza. Tale domanda verrà esaminata e, se rientrerà nelle quo-

te stabilite dal cosiddetto decreto “Flussi”, sarà approvata. Si tenga presente che a depositare la richiesta, presso lo sportello unico della prefettura, può essere anche un datore di lavoro straniero regolarmente soggiornante in Italia. È importante sapere che il permesso di soggiorno può essere rilasciato anche allo straniero irregolare che sia stato vittima di violenza o di grave sfruttamento. In questi casi si può ottenere un permesso che ha la durata di sei mesi e può essere rinnovato. Se allo scadere del permesso di soggiorno l’interessato dimostra di avere in corso un rapporto di lavoro, il permesso può essere ulteriormente prorogato. contatti Per interpellare l’avvocato Ungaro, invitiamo a scriverci una mail con oggetto “Avvocato” all’indirizzo: palascia@metissagecoop.org

LAVORO/ Rubriche

Tempo di raccolta testo - Redazione

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l lavoro stagionale chiama alla raccolta numerosi immigrati da ogni parte d’Italia verso la Puglia. Alcune categorie di lavoratori, tra le quali i cittadini stranieri cosiddetti “regolari”, possono accedere a questo tipo di lavoro, detto “occasionale accessorio”, con il sistema dei voucher, buoni cartacei ritirabili presso gli uffici postali pensati per porre un limite al lavoro nero, e in generale fino a un limite economico di 5.000 euro netti, che scendono a 3.000 se i lavoratori sono destinatari di altri tipi di sussidio economico integrato statale. La stagione di cernita, raccolta e vendemmia pugliese è molto varia e anche molto intensa. Si comincia tra maggio e giugno dalla raccolta di ciliegie nel foggiano e

sull’Alta Murgia, proseguendo con gli ortaggi praticamente per tutto l’anno, pomodori e cipolle, ma anche angurie e pesche fino al massimo a settembre, quando comincia la raccolta e la vendemmia di uva, sia da vino che da tavola. È inutile tergiversare intorno all’argomento spinoso della tutela dei diritti e della dignità dei lavoratori immigrati impegnati nei campi pugliesi. Il nostro consiglio è quello di rivolgersi presso i più vicini sportelli per informarsi delle possibilità e delle tutele, sanitarie e legali. La Regione Puglia ha inoltre istituito un numero minimo di alberghi diffusi per garantire l’alloggio e la permanenza dei lavoratori in condizioni dignitose. Per questo rimandiamo al sito della Regione www.regione.puglia.it. Per la

ricerca di aziende e la selezione di annunci consigliamo invece di consultare la Pagine Gialle, on-line all’indirizzo www.paginegialle.it, e una guida specifica per il settore dell’agricoltura, la guida Monaci, contenente indirizzi di consorzi, cooperative, cantine sociali e associazioni di produttori agricoli, consultabile gratuitamente anche on-line all’indirizzo www.guidamonaci. it. Altre informazioni sono reperibili presso i Centri per l’Impiego della provincia: per Lecce segnaliamo pugliaimpiego.it e la Rete ionico-salentina per l’occupazione www.riso.puglia.it. Per i giovani dai sedici anni in su, i centri Informagiovani presenti nel Salento.


Rubriche/SALUTE

Psichiatria transculturale testo - Vincenzo Maggiulli, medico dirigente di Psichiatria del Dipartimento di Salute mentale - Asl Brindisi

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el maggio 2009 veniva siglato un protocollo di intesa tra il consorzio di cooperative Connecting people, ente gestore del Centro di prima accoglienza per immigrati di Restinco vicino a Brindisi, e il dipartimento di Salute mentale della Asl brindisina per fornire un servizio di consultazione psichiatrica. Era l’epoca degli arrivi in massa via mare dalla Libia di centinaia e centinaia di immigrati provenienti dall’Africa subsahariana e orientale. Quelli che appena arrivati in Italia si ammassavano a Lampedusa. Una parte di loro veniva mandata a Brindisi. Il mio primo impatto fu con la cultura magica dei giovani subsahariani, tutti maschi fra i 18 e i 26 anni, che all’inizio scambiai per disturbo psichiatrico. Per non correre il rischio di psichiatrizzare comportamenti che in Africa sarebbero stati condivisi socialmente, comportamenti che erano parte di una cultura etnica, fu necessario richiamare a me stesso il ricordo dei maestri della mia formazione psicoterapica, che mi avevano insegnato a dimenticare la psichiatria nel rapporto con i sofferenti, e il ricordo dei maestri della psichiatria transculturale, che con i loro scritti avevano messo in guardia dal considerare patologia psichiatrica ciò che apparteneva ad una cultura. Fu così che riuscimmo a tollerare, io insieme alla psicologa, all’assistente sociale, alla mediatrice linguistico culturale e a tanti altri, che Emmanuel allucinasse per molti mesi la sorella morta nella traversata del Sahara, senza fissarci sulla inefficacia della terapia psicofarmacologica. Con lei parlava e lei gli parlava, lui la vedeva in carne ed ossa accanto a sé soprattutto di notte, quando non era distratto dai rumori e dagli impegni del giorno. Pianse per tutto il tempo, mesi e mesi. L’attraversamento del deserto che univa la Nigeria ai paesi del Maghreb da cui era poi possibile raggiungere la Sicilia era un passaggio obbligato quanto insidioso e letale. Lì Emmanuel aveva perso la sorella in circostanze tragiche. Capimmo che era importante che lui ci sentisse vicini, non che una potente terapia farmacologica cancellasse la sua disperazione e il suo dolore. Fu così che Kennedy, nigeriano di 23 anni che presentava tristezza, insonnia con incubi e facilità al pianto, riuscì a non ri-

cevere antidepressivi perché riuscì a rivelare di essere vittima di una maledizione attribuitagli da un oracolo in cui credeva. L’oracolo gli aveva detto che sarebbe stato necessario sacrificare una parte del suo corpo, il pene, e che avrebbe dovuto andare con gli uomini. Lui andò con gli uomini e fu per questo arrestato e cacciato dal suo villaggio. In Nigeria l’omosessualità è un reato. Quando andava con gli uomini lui si sentiva posseduto dagli spiriti, non riusciva a controllare il proprio comportamento che era guidato da loro. Non si sentiva omosessuale, ma spinto ad esserlo da entità più forti di lui. L’approccio fu solo psicologico. Dopo alcuni mesi Kennedy accettava più egosintonicamente una identità di genere omosessuale, anche se continuava a temere che la maledizione affiorasse e lo spingesse ad abusare di adolescenti: in quella occasione abbiamo dovuto riflettere sulle determinanti culturali nella costruzione e nell’ acquisizione delle specifiche identità di genere che non sono dappertutto le stesse. Fu così, senza dover usare farmaci antipsicotici, che scomparve da sotto la pelle di Cyril quella entità misteriosa che tanto dolore gli procurava quando penetrava nel suo intestino per poi tornare ad affiorare, visibile solo per lui, sotto pelle. Fu così, dimenticando la psichiatria, che capimmo che la depressione inibita di Seydi, giovanissimo, appena 18enne, piccolo di statura, che non sembrava un africano, di carattere modesto e riservato, di bei lineamenti, si era strutturata perché lui parlava solo il dialetto del popolo peul. I peul in Africa sono un popolo di 15 milioni di nomadi sparsi in tutta l’Africa occidentale, che occupano la regione del Sahel, presenti in particolare in Senegal e in Nigeria. La Nigeria è come era la Jugoslavia prima dell’unificazione europea: è composta da più di 250 etnie e vi si parlano oltre 60 lingue: il pulaar è una di queste. Seydi originario del Senegal aveva perso l’amico trasferito in un’altra struttura, l’unica persona che, oltre al pulaar, parlava anche l’arabo, l’unica persona che lo poteva mettere in contatto con il mondo nuovo. Rintracciare l’amico e permetterne la ricongiunzione divenne il nostro compito prioritario, non aspettarci che funzionasse la terapia psichiatrica. Fu così, senza

dover usare antidepressivi e antipsicotici, che scomparvero la depressione, l’insonnia e la paura apparentemente paranoide di Amadi, un giovane yoruba animista del sud-ovest nigeriano, che temeva che i poteri del capo della comunità a cui apparteneva lo potessero raggiungere anche in Italia per determinarne la morte, come già era avvenuto al suo villaggio per il fratello maggiore, per il quale il capo della comunità aveva decretato la morte sacrificale e come era già avvenuto per il secondo fratello morto durante la traversata del Sahara. Abbiamo noi stessi dovuto recuperare un pensiero magico che era appartenuto ai nostri genitori e ai nostri nonni per provare un’empatia altrimenti impossibile con questi giovani africani imbevuti di cultura animista. Lo stesso pensiero magico di cui erano imbevuti i giovani italiani che negli anni ‘50 emigravano in Svizzera dai paesi di Abruzzo e che Michele Risso, uno psichiatra italiano che lavorava alla clinica psichiatrica di Berna, descrisse nel bellissimo “Sortilegio e delirio”. Gli africani di oggi in Italia erano gli italiani di ieri in Svizzera! Viene da pensare che fra cinquant’anni non vedremo più differenze culturali. Aveva ragione Italo Calvino quando nella presentazione a “Le città invisibili” scriveva “…oggi che l’altrove si può dire che non esista più e tutto il mondo tende ad uniformarsi” ? contatti Per interpellare il dottore Maggiulli, invitiamo a scriverci una mail con oggetto “Salute” all’indirizzo: palascia@metissagecoop.org


DIRITTO STUDIO/ Rubriche

Studere? Verbo inadatto! testo - Giacomo Cazzato, rappresentante Unione degli universitari

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l diritto allo studio è un presupposto indispensabile per tendere al pieno sviluppo umano e sociale della persona e della società civile tutta. Impacchettato in più forme dalle istituzioni, a seconda delle occasioni viene presentato con il fiocco dell’europeismo, dell’innovazione, della ricerca e del divertimento. Tutti ne parlano: si alternano riforme universitarie ad ogni politicante di turno; nascono, si solidificano e sublimano le agenzie; sono nominati e dimissionati assessori che non hanno nemmeno il tempo di realizzare la situazione contingente per progettare interventi. Il disagio dello studente si amplifica quanto più si va a sud, trovando il suo apice nelle università calabresi che in quanto a bilanci non ridono di gioia. La rabbia si mesce alla rassegnazione di chi non ha più la forza di contestare, tutti si adeguano imbrigliati in un maledetto sistema che annulla l’aspirazione al nuovo,

alla ricerca e al mutualismo. Tutto sfocia in una combustione cerebrale che rende l’università un semplice esamificio, o meglio, mero ammortizzatore sociale. Parlando di diritto allo studio, Lecce non gode certo di un servizio efficientissimo. La giunta Vendola ha aumentato il numero di borse di studio, fondando un’unica agenzia con sede a Bari. Non si può però affermare che il governo regionale, nonostante abbia dato la possibilità all’Università del Salento di non essere commissariata, abbia applicato delle politiche modello. La figura dell’idoneo non vincitore è ancora presente, e i sacrifici sono tanti, il primo anno, per quei “poveri meno poveri” che non riescono a vincere l’agognata borsa. I posti alloggio negli studentati sono insufficienti, poco più dell’1% della popolazione studentesca, che conta 30 mila unità. Non si garantisce nemmeno un posto per dormire ai numerosi Erasmus, costretti a

trovare sistemazioni alternative durante le feste. Le residenze universitarie non danno poi agli studenti la libertà di organizzare il proprio tempo, poiché non esistono piani cottura e la loro giornata è vincolata dagli orari delle rispettive mense. Infine, in un mondo globalizzato in cui l’accesso alla rete viene considerato un diritto, sono partiti solo di recente i lavori per le reti wireless estese alle intere strutture nelle residenze universitarie. Tralasciando i compensi astronomici dei locali dirigenti Adisu, consultabili su internet, se ci addentrassimo nella penuria di servizi universitari in termini di didattica e di strutture ad essa relative, non credo basterebbe lo spazio concessomi. contatti Per segnalazioni scrivete all’indirizzo: palascia@metissagecoop.org con oggetto “studio“

BANDI/ Rubriche

Ipa - partenariato per le minoranze testo - Giuseppe Maggio, consulente in Progettazione comunitaria

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’obiettivo del bando è promuovere lo sviluppo di partnership e reti sostenibili fra organizzazioni della società civile (Cso) allo scopo di contribuire a un maggiore coinvolgimento e alla responsabilizzazione tanto delle Cso quanto dei cittadini. I progetti dovrebbero concentrarsi sulle priorità in termini di acquis comunitario affrontando il tema dell’inclusione sociale, economica e culturale delle minoranze e dei gruppi vulnerabili; rafforzamento dei diritti umani; salvaguardia della loro identità e del loro patrimonio culturale. Le azioni ammissibili sono: prestazione di assistenza alle Cso dei paesi Ipa per accrescere la consapevolezza dell’acquis comunitario; assistenza tecnica per potenziare le attività tipiche di rappresentanza(politica di sensibilizzazione, diffusione e analisi di infor-

mazioni pertinenti di settore, promozione e creazione di reti); assistenza tecnica per rafforzare la gestione/capacità (anche finanziaria) delle Cso nei paesi Ipa(piano di lavoro sostenibile e miglioramento o acquisizione di nuove tecniche di gestione in relazione alle attività delle Cso dei paesi Ipa); formazione dei formatori per l’efficace divulgazione e analisi di informazioni rilevanti. Le attività finanziabili sono: formazione e consulenza di esperti (es: valutazione dei bisogni, dialogo con le minoranze e i gruppi vulnerabili); organizzazione e realizzazione di eventi di sensibilizzazione sulla discriminazione (seminari, workshop, conferenze); sviluppo delle informazioni, reti e offerta di conoscenze (es. sito web, database, pubblicazione). I beneficiari del bando sono persone giuridiche senza scopo di

lucro rientranti in una delle seguenti categorie: organizzazioni della società civile (Cso) che promuovono gli interessi delle minoranze o dei gruppi vulnerabili; Cso che hanno funzione di sorveglianza (per esempio sui diritti umani, su temi culturali) con un ambito di attività a livello nazionale/comunitario; centri di istruzione superiore o istituti di ricerca; organizzazioni internazionali. Il contributo comunitario può coprire sino all’80% delle spese ammissibili, per un massimo di 300 mila euro. Una proposta progettuale deve prevedere la partecipazione di almeno tre Cso di tre diversi Stati Ipa e (almeno) una Cso dell’Ue. contatti Per informazioni e chiarimenti scrivete a palascia@metissagecoop.org con oggetto “Bandi”


Testimonianze di spiritualità Moschea di Via Roma - Lecce

fotoracconto - Lorenzo Papadia

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’idea di un fotoracconto legato alla spiritualità in terra salentina, nasce dalla personale esigenza di ritrarre in qualche pagina un aspetto a mio avviso fondamentale che abita il nostro territorio. Questo è avvenuto documentando la testimonianza delle diverse comunità che qui vivono la propria identificativa spiritualità, convogliando questa mia esperienza in un racconto per immagini. Siano le istantanee riprese nella moschea mussulmana, nel venerdì di preghiera, o per strada, durante il rito cattolico della processione dei “Misteri”, o ancora in una chiesa dove si tiene il rito domenicale ortodosso, mia intenzione, fin dall’inizio del lavoro, è stata quella di documentare la presenza di realtà spesso ideologicamente differenti tra loro e che pure, in molti istanti, ho sentito a me talmente affini e vicine, da permettermi di poterle accostare, proponendovele, nelle immagini che seguiranno. E così, durante i riti sacri, mani e piedi sembrano muoversi con la medesima grazia e con lo stesso andamento rallentato. Le parole dell’Imam possono riuscire a scuotere il più profondo dei silenzi interiori dei presenti; le “trozzule”, come le trombe e i tamburi che segnano il procedere dei confratelli nella processione del venerdì santo, scandiscono i passi di coloro che vi prendono parte, e ti entrano dentro, roboanti, più di un imponente rintocco delle campane. L’odore d’incenso che si respira nel rito ortodosso, le movenze del padre spirituale, il suo spezzare il pane, il fraterno rapporto con i fedeli, non possono non esprimere, a vederlo, una sensazione di grandissima, umana vicinanza. Credo che queste realtà siano spesso sconosciute ai più. Eppure è tutto qui, presente nella nostra città, a pochi passi da noi. L’accoglienza che tutte le comunità mi hanno riservato è forse quello che mi ha riempito maggiormente e la fotografia non è stata che il compimento ultimo, che ha trasformato personali emozioni in scrittura con la luce.


CITTADINANZA INTERCULTURALE/Fotoracconto palascìa 02


Chiesa Greco-Ortodossa - San Nicola (LE)

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CITTADINANZA INTERCULTURALE/Fotoracconto palascĂŹa 02

Processione dei Misteri - Gallipoli (LE) | www.propugliaphoto.com

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www.propugliaphoto.com

Domenica delle Palme - Alessano (LE) | www.propugliaphoto.com


CITTADINANZA INTERCULTURALE palascìa 02

Campo rom “Panareo”: in sosta da vent’anni testo - Andrea Aufieri

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ntonio Ciniero, ricercatore dell’Osservatorio provinciale sull’immigrazione della Provincia di Lecce, ci racconta storia e quotidianità del campo “Panareo”. «La situazione che vivono i rom a Lecce è il risultato di discutibili scelte fatte negli scorsi anni. Lo stereotipo più diffuso è quello di credere che siano un gruppo omogeneo, ma più che parlarne in generale bisognerebbe considerare i singoli gruppi. Quello dei rom è “un mondo di mondi”, per dirla con Piasere. Nel caso della comunità di campo “Panareo” si tratta di rom khorakhanè shqiptare, rom di tradizione musulmana di provenienza montenegrina e kosovara. Vengono soprattutto da Podgorica, e hanno capito cosa significa vivere in roulotte o in baracca solo qui, visto che in patria vivevano nelle proprie case. Il loro arrivo è avvenuto sulla base dei flussi migratori che hanno seguito la dissoluzione della Jugoslavia, vista la tragica contingenza di guerre fratricide impropriamente chiamate etniche. Molti di loro hanno scelto di non imbracciare le armi e di spostarsi. La scelta del Salento non è stata casuale: alcuni commercianti di abbigliamento compravano qui dei capi di vestiario per rivenderli sulle coste montenegrine, che proprio in quegli anni divenivano meta di flussi turistici. Nel ’95-’96, durante la guerra del Kosovo, arriva un secondo gruppo, ma nessuno se ne interessa, se non il volontariato locale e in particolare la Caritas. Che chiede l’intervento delle istituzioni per migliorare le loro condizioni di vita, ma l’ottica dell’intervento istituzionale resta quella securitaria: si effettuano sgombri delle zone occupate accampando motivi di igiene e ordine pubblico. Le uniche risposte istituzionali sono quelle di realizzare un “campo sosta”: dapprima si individua l’excampeggio di Solicara (1995) e poi dal 1998 si individua la Masseria Panareo». «Oltre a quella demagogica non si cerca mai una reale soluzione. Si sorvola sul fatto che molti rom siano richiedenti asilo, che meriterebbero tutele che di fatto non hanno: alcuni non possono neanche tornare in Montenegro, dove pure hanno delle case di proprietà, perché risulterebbero disertori. È impossibile non ritenere che quello dell’approccio alla questione dei rom sia

un errore di gestione politica. Un esempio di approccio errato alla “questione rom” è l’emanazione dell’ultimo regolamento del campo approntato dalla commissione per i servizi sociali del Comune di Lecce, che li considera ancora soggetti nomadi. Questo perché non ci si è relazionati con la realtà. È dovuto intervenire il portavoce della comunità, Benfik “Beni” Toska, che ha fatto presente che le stesse persone che si credono nomadi sono qui da venticinque anni». «La soluzione dei campi è adottata solo in Italia, la prima cosa che invece dicono i rom è che vogliono uscire fuori dal campo. Il campo e un’istituzione totalizzante sul soggetto. Chi assume un rom in “sosta temporanea”? Il campo non fa che riprodurre i meccanismi della stigmatizzazione e dell’emarginazione sociale. La sua stessa collocazione sembra studiata ad arte, a 7 km da Lecce e da Campi, 4 da Novoli e da Surbo, 5 da Trepuzzi, senza collegamento pubblico con le città. Una situazione di questo genere porta all’emarginazione. Qui c’è l’intera quarta generazione nata e cresciuta all’interno del campo. Quella del campo è una scelta imposta. Ancora oggi, in materia di decisioni politiche, si assiste al solito canovaccio per cui prima si decide cosa e come fare, ma poi ci si deve adeguare a quanto deliberato. In una società democratica, non è possibile prescindere dal costante coinvolgimento e dal confronto con i cittadini rom -in questo caso- ogni qualvolta un’istituzione è chiamata in causa per prendere decisioni che li riguardano direttamente. Per pianificare le politiche migratorie territoriali, esiste poi un luogo istituzionale preposto per legge. È la prefettura con i Consigli territoriali per l’immigrazione. A Lecce questa istituzione latita. Sono anni che si chiede uno specifico tavolo tematico che appronti, assieme a tutti gli attori, istituzionali e non, le questioni poste dalla presenza dei rom sul territorio, per individuare insieme a loro concrete e praticabili soluzioni che vadano nella direzione dell’ inclusione sociale». «È in questo quadro che l’Opi svolge le sue indagini avvalendosi della metodologia della ricerca/azione. Una ricerca militante, che mira alla conoscenza della realtà sociale per poterla modificare insieme ai soggetti/oggetti di ricerca e alle istituzio-

ni locali. Trovare il capro espiatorio nel solo Comune di Lecce, che ha individuato nel campo sosta la soluzione alloggiativa per questo gruppo di cittadini, sarebbe molto facile ma altrettanto sbagliato. La richiesta che viene dal campo è quella di risiedere nel tessuto urbano e sociale dei comuni della provincia. Chi è già uscito dal campo ha visto che la qualità della propria vita è migliorata. Il problema è di riuscire a concertare e pianificare percorsi praticabili a livello istituzionale». «Riguardo al lavoro, uno degli stereotipi più diffusi tra i gagè è quello che i rom rifiuterebbero il lavoro per “cultura”. I rom del “Panareo” si danno da fare, eccome. Sono quasi tutti organizzati con la vendita delle piante presso tutta la provincia, con regolare licenza. Un lavoro congiunturale, però,che richiede autonomia, mobilità, capacità di compravendita, con il quale spesso non si riesce a far fronte alle esigenze economiche di una famiglia. Nel corso del tempo, poi, si ravvisano molte modifiche. Per esempio è venuta meno la logica del manghel (chiedere il denaro per strada), perché i ragazzini nati e cresciuti qui si vergognano di praticarlo. In Italia ancora si attende il riconoscimento dei rom e dei sinti come minoranze linguisticoculturali, come avvenuto per altre realtà. Nel variegato panorama sociale italiano il gruppo più debole è proprio quello dei rom, che pagano gli effetti di un razzismo strisciante presente nella società italiana. Come ci insegna la storia, la logica razzista si basa sul prendere a oggetto il gruppo più facilmente attaccabile, l’anello più debole della catena, per poi colpire gli altri. Quando è andato al potere il governo più xenofobo dal dopoguerra a oggi, da subito i rom sono stati “oggetto d’attenzione”, partita con la montatura come quella del “tentato rapimento” di un bambino a Ponticelli a opera di una ragazzina rom, che ha scatenato un vero e proprio pogrom, con l’avallo politico delle opposizioni (ricordiamo il vergognoso volantino redatto dal Pd di Napoli che sosteneva i pogrom!) che è culminata con l’emanazione di decreti e atti chiaramente razzisti, come l’Europa, in generale, e l’Italia, in particolare, hanno conosciuto solo durante il triste periodo dei totalitarismi».


NUMERI UTILI palascìa 02

1) Questura di Lecce - Divisione Immigrazione | Viale Oronzo Quarta - Lecce Orari di lavoro al pubblico:

Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì

08:30-12:00 09:00-12:00 08:30-12:00 09:00-12:00 08:30-12:00

solo gli stranieri convocati solo per il ritiro soggiorni pronti solo gli stranieri convocati per info e soggiorni cartacei si ricevono solo gli stranieri convocati

2)Prefettura Lo Sportello Unico per l’Immigrazione è competente per:

ASSUNZIONE LAVORATORI STRANIERI ASSUNZIONE DI LAVORATORI NEOCOMUNITARI LAVORATORI SOGGIORNANTI REGOLARMENTE NEL TERRITORIO DELLO STATO RICONGIUNGIMENTO FAMILIARE CITTADINANZA Ubicazione dell’Ufficio: via Templari, 5 Lecce Orari di lavoro al pubblico:

Lunedì Mercoledì Venerdì

10:00 - 12:00 10:00 - 12:00 10:00

3)Comune di Lecce “Lecce Accoglie” | Via Marco Basseo, 1 Palazzo Tamburino - Lecce Orari di lavoro al pubblico:

Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì

09.30 - 12.30 16.00 - 18.00 09.30 - 12.30 16.00 - 18.00 09.30 - 12.30

4)Provincia di Lecce Servizi Immigrazione Salento | Viale Marche, 17 - Lecce Orari di lavoro al pubblico:

Lunedì 17.00 - 19.00 Martedì Mercoledì 09.00 - 12.00 Giovedì Venerdì 09.00 - 12.00

si riceve per appuntamento si riceve per appuntamento si riceve per appuntamento

5)Asl Lecce - Distretto Socio Sanitario | Piazza Bottazzi numero verde 800259897


Vignetta - Betty Greco


Amanda Kastrati, studentessa e interprete

Relazioni positive e processi di conoscenza di una diversità che numericamente cresce ed è culturalmente significativa, ma è limitatamente conosciuta. Spinta territoriale che si costruire luogo per luogo, comune per comune.

Angela Kuppusamy, studentessa

Le culture non sono identità sempre uguali a sé stesse. Sono organismi complessi e molteplici: il rapporto tra esse dipende dalla loro capacità di costruire relazioni e amicizia. Se c’è dialogo c’è contaminazione tra i temi. Se c’è chiusura il rischio è quello della ostilità e dunque dei temi della guerra e dell’annullamento del nemico: di un impoverimento, in sostanza, e di una riduzione della complessità che caratterizza la storia di ogni cultura.

Franco Cassano, professore

Un riconoscimento reciproco e una valorizzazione delle differenze.

Conflitto tra esperienze e vissuti che si traduce in uno scambio positivo.

Silvia Godelli, assessore regionale

Maud de Boer-Buquicchio, vice segretario generale Consiglio d’Europa

Bledar Torozi, architetto

Elena Gentile, assessore regionale

Dal canto delle autorità coinvolgere tutti gli attori dei processi decisionali e sensibilizzare i cittadini allo scambio e al confronto.

Togliamo il prefisso “inter” e parliamo di “culture” come risorse dei popoli senza confini e senza tempo, patrimonio di tutta l’umanità. Potremmo definire tutto come “cultura umana”.

Ormai nel ventunesimo secolo il mondo è diventato davvero piccolo, le nazioni sono multietniche come multireligiose: è una cosa stupenda se non fosse che un’evoluzione in questo senso deve essere accompagnata da una crescita dal punto di vista sociale e individuale, infatti se la legge come le usanze etniche e morali non cambiassero, risulterebbero inutili per una popolazione mista. Le difficoltà si trovano sempre:nella scuola, nel lavoro, nei rapporti sociali: infatti, nonostante esistano le leggi che tutelano l’interculturalità, razzismo discriminazione dominano i rapporti tra alcune persone. È assolutamente inaccettabile che si abbiano ancor oggi preconcetti e distinzioni basate sul cognome straniero, sui tratti somatici, sull’appartenenza linguistica.

Cos’ è l’Intercultura?


NUMERI UTILI palascìa 02

6)ASLOC, Ass. Salentina per la Lotta contro il Cancro ONLUS | via Regina Elena, 2 - Lecce Orario di segreteria:

Tutti i giorni 10.00 - 12.00 16.30 - 18.30 Sabato Chiuso Presso l’associazione è possibile, previo appuntamento, usufruire di visite mediche specialistiche e strumentali.

7)Caritas | Vico dei Sotterranei, 2 - Lecce Orari di lavoro al pubblico

lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì:

09.30 - 12.00 16.30 - 18.30 09.30 - 12.00 16.30 - 18.30 09.30 - 12.00

- Servizi: Centro ascolto, Sostegno morale e materiale, Consulenza legale

8) Centro Interculturale Diocesano Migrantes | Via Tasselli,10 - Lecce Orari di lavoro al pubblico:

Lunedì Martedì Mercoledì Giovedì Venerdì :

09.30 - 11.30 16.30 - 18.30 09.30 - 11.30 16.30 - 18.30 09.30 - 11.30

- Servizi: Centro ascolto, sostegno morale e materiale, attività interculturali, Consulenza legale, Scuola di italiano per stranieri, Orientamento al lavoro - L’ambulatorio medico dell’Associazione S.A.L.V.A. è aperto tutti i giorni dalle 17.00 alle 19.00 ,Sabato chiuso

9) Mense Caritas Parrocchiali Parrocchia “S. Maria delle Grazie in S. Rosa” Sede: 73100 Lecce Viale Ugo Foscolo, 29 tel. 0832.399877 Apertura: tutti i giorni: ore 12.00 Parrocchia “S. Lazzaro” Sede: 73100 Lecce Via San Lazzaro, 40 tel. 0832.343523 Apertura: domenica: ore 12.30 Parrocchia “S. Antonio da Padova a Fulgenzio” Sede: 73100 Lecce Via Parini, 1 tel. 0832.311960 Apertura: tutti i giorni: ore 18.00


CITTADINANZA INTERCULTURALE palascìa 02

Progetto Leonardo: uno scambio di culture Uno spazio per riannodare progetti di scambio e di cittadinanza fuori dal Salento testo - Berta Hernando Villanueva, tirocinante Leonardo Da Vinci

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oi studenti abbiamo sempre più interesse a conoscere nuovi posti, a indagare nuovi luoghi, conoscere, sperimentare, mescolarci per curiosità. La ragione di questo interesse viene dal fatto che abbiamo scoperto l´arricchimento personale che tutto questo porta. L’associazione “Link” di Altamura lavora da alcuni anni per la promozione di programmi europei, con l’obiettivo di creare maggiore accessibilità da parte dei giovani agli scambi, e in questo modo favorire l’interazione tra le diverse culture. Tra questi, citiamo il più noto: il servizio volontario europeo “Leonardo da Vinci”, che ha come obiettivo la mobilità dei giovani in Europa. In molti casi i programmi si adattano alle esigenze del singolo, per esempio ai suoi bisogni formativi, ai suoi interessi. Tuttavia, è importante aggiungere che l’obiettivo primario dei vari progetti, oltre a quello della formazione professionale o dell’apprendimento non formale, è la conoscenza personale che ognuno acquisisce tramite l’esperienza che vive in un contesto completamente diverso dal suo. E questo è anche l’obiettivo delle persone con cui ci troviamo a vivere questa esperienza, la quale si realizza semplicemente partendo dal desiderio di imparare (assumendo d´altra parte le responsabilità che tutto ciò comporta). Parlando con Chiara, dell’associazione materana Kafila, presso la quale svolgo il mio tirocinio, colgo una sua affermazione che mi colpisce: «Quando una persona convive con gente di culture diverse e osserva e tenta di capire quello che compone la stessa cultura, trova una parte di quella che gli è sembrata più vicina alla propria sensibilità, per farla propria; così, in maniera naturale, l’identità del singolo si trasforma, evolve». Partiamo dall’idea che l’identità di ognuno è condizionata dalla cultura e dalle esperienze vissute specifiche, perciò riteniamo che è importante far capire che ogni singolo vive e percepisce la realtà di modo diverso, e già questo lo rende unico e differente. Questo ci porta a dire, come aspetto positivo, che sfruttare un viaggio col fine di sperimentare una convivenza tra persone diverse apre la possibilità di comprendere la diversità e accettare la differenza. Curiosamente quello che suc-

cede nel corso del tempo è che non solo si raggiunge la tolleranza tra le differenze che le altre culture possono portarci, ma anche sorprende l’arricchimento che si ottiene con ciascuna di esse. Attualmente a Matera vivo con un’altra tirocinante, anche lei spagnola di nome Eva, in servizio presso l’associazione “Il Beccogiallo”. Anche con lei ho parlato di questo tema, per capire qual è il significato più profondo della nostra esperienza in Italia: «Ci piace interagire con altre culture perché ci permette di condividere e scambiare gli aspetti che consideriamo importanti delle stesse, col fine di imparare e continuare con il nostro processo evolutivo». Quando parliamo di interazione, ci riferiamo a un tutto. Dal comunicare con persone che non parlano la nostra lingua al vivere nuovi costumi, valori, ad avere a che fare con situazioni che non si sono vissute prima. D’altra parte, non è un compito facile, ma non dobbiamo dimenticare che si tratta di un processo, e come tale, richiede tempo. L’attenzione e la perseveranza sono strumenti che se li porti con te, ti garantiranno il raggiungimento dell’obiettivo. Ana è spagnola e sta svolgendo un tiro-

cinio presso l’associazione “Cinefabbrica”. A proposito della sua esperienza ci dice: «Un passo avanti, due passi indietro, due passi avanti e uno indietro, è il ritmo delle circostanze fino a trovare la stabilità. Accettare questo ritmo come parte dell’esperienza di ognuno porta a godere di ogni passo che si fa, sia in avanti che indietro, non importa, perché la cosa principale è che si avanza e soprattutto, che si raggiunge il proprio traguardo». Ottenere l’integrazione in un spazio sconosciuto è significativo perché indica che si è lavorato sugli elementi necessari e che è arrivato finalmente il momento di godere della stabilità che questo porta con sé. L’esperienza in sé è costituita da un insieme di fattori diversi, e come tale si può e si deve godere dall’inizio alla fine. È un’occasione per trovarsi, imparare, e arricchirsi. In definitiva, di crescere. Concludendo, abbiamo molto da condividere e da portare come arricchimento personale: esplorare luoghi nuovi significa “scoprire”, che è una bella forma di aprire la mente, di “svegliarsi”. Un viaggio che non solo ci invita all’avventura, ma anche a vivere il momento.

I ragazzi di Cinefabbrica


Via Leuca: one street, so many cultures

fotografia - Lorenzo Papadia 32 33

A pochi passi dal centro storico di Lecce, comincia già una lunga periferia, quasi anonima e ignorata dai cittadini, se non nel week-end, quando molti di loro la affollano per cercare parcheggio. Su questa strada vivono e lavorano molte comunità di immigrati, che danno un quotidiano esempio della convivenza e dell’interazione tra le culture. Ci sono gli alimentari etnici, la musica hip-hop, le storie comuni e allo stesso tempo straordinarie che siamo contenti di poter raccontare. Conosciamo la famiglia srilankese dei Thevarajah, persone che ogni giorno guadagnano un metro sull’ingiustificato odio razziale che sta avvelenando il nostro paese.

A few steps from the historic center of Lecce, there is a suburb which is almost anonymous and ignored by citizens, except weekends, when many of them flock to search for parking. In this road many immigrant communities live and work, giving a daily example of coexistence and interaction between cultures. There are ethnic food stores, hip-hop music, common and at the same time extraordinary stories that we are happy to tell: Let’s meet the Thevarajah family from Sri Lanka, people who earn daily a meter above unjustified racial hatred that is poisoning our country.


STORIE palascìa 02

Via Leuca: una strada, tante culture testo - Gigi Apollonio

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osì vicino ma così lontano. Potrebbe definirsi così l’ex quartiere Leuca, quel pezzo di Lecce che ruota attorno al vecchio ospedale e finisce all’inizio di Porta San Biagio. A passarci di sera sembra imbattersi nella periferia più nascosta della città, non un locale, non un bar aperto, il vuoto. L’unico momento in cui la zona vive è il sabato sera, quando l’orda di consumatori notturni cerca parcheggio, solo quello. Forse in pochi lo sanno, ma dietro quei palazzi così “vissuti”, si nasconde un mondo intero, composto da leccesi si, ma anche e soprattutto da immigrati, extracomunitari, bambini di tutte le nazionalità che giocano per strada, alimentari con i prodotti orientali, negozi di oggetti africani e una chiesa evangelica composta e gestita dalla comunità srilankese. La questione dell’integrazione in queste strade si configura in una modalità particolare perché sembra non esistere. È una piccola città Lecce, è vero, e questo favorisce le relazioni umane, riduce il rischio criminalità – non stiamo certo parlando di Milano o Roma – ma il potere mediatico di semina della paura non conosce dimensioni e comunità, colpisce tutti, senza distinzione. Chi non conosce la zona Leuca crede ancora che gli stranieri siano un peso o un problema, ma se aprisse gli occhi per un momento si renderebbe conto che qui non esistono immigrati da integrare, esistono solo culture che convivono, nazionalità che si mescolano. Prendiamo ad esempio la famiglia Thevarajah, con la quale abbiamo scambiato quattro chiacchiere nella loro abitazione. Loro sono qui da circa vent’anni, vengono dallo Sri Lanka e, come spesso avviene, il primo a trasferirsi a Lecce è stato il padre, poi dopo il matrimonio è arrivata la moglie con il primogenito di quattro mesi che oggi lavora e studia all’università. Il secondo figlio è nato qui a Lecce e ora frequenta la terza media. Ci raccontano della loro vita italiana, mai un problema, nessun episodio di razzismo:«qui ci vogliono tutti bene» dice Peruwal, il padre. Parlano della comunità srilankese composta da circa duecento persone, perfettamente integrate nel territorio tra le quali alcune hanno dei negozi di generi alimentari nella zona. Qualcuno potrebbe pensare che queste comunità tendono a ghettizzarsi, a

rimanere rinchiuse nel loro gruppo d’origine, e invece no. Lavorano con italiani, alcuni dei quali assunti all’interno degli alimentari. Può sembrare così normale tutto ciò, ed effettivamente lo è: è proprio quello che caratterizza questo posto, la normalità della convivenza, del vivere assieme al di là della provenienza. Parlare di integrazione solitamente vuol dire affrontare tematiche relative ai rapporti umani e sociali, spesso problematiche. Vivendo qui, invece, osservando giorno dopo giorno le dinamiche del quartiere e parlando con i diretti interessati, la problematicità sembra non esistere, si ha quasi difficoltà a parlarne, è imbarazzante. È come se qui l’argomento non esistesse. Ci sono poi indiani, senegalesi e nordafricani in generale tra le nuove generazioni nate qui a Lecce. Nascono i primi amori che qualcuno ancora si ostina a chiamare “misti”, ma misti tra cosa? Tra cani e gatti? Tra marziani e venusiani? No, qui i ragazzi amano, giocano insieme, ascoltano hip-hop (come il piccolo Thevarajah) e usano Facebook, tutto normale, appunto. I problemi però non mancano, e sono importanti. La gran parte degli stranieri svolge lavori di scarso livello con basse retribuzioni e ha poche possibilità di risalire la china di una

scala sociale che pare, per loro, irreparabilmente immobile. Inoltre tutte queste comunità non hanno i loro momenti di aggregazione pubblica, giorni riconosciuti in cui festeggiare le ricorrenze, in cui esercitare pratiche e tradizioni culturali, e questo è un aspetto importante che non va sottovalutato. Manca, insomma, il ruolo delle istituzioni pubbliche, pronte a organizzare feste patronali oceaniche tralasciando altri usi e costumi appartenenti non a stranieri, ma a cittadini veri e propri che contribuiscono allo sviluppo della città esattamente come gli altri. Se solo si provasse ad osservare più a fondo questi quartieri, quindi, si comprenderebbe il vero significato dell’interculturalità, l’esistenza nella stessa strada, nello stesso quartiere di più culture, più popolazioni che condividono insieme la loro vita. Un paese che rifiuta questo concetto è destinato all’autodistruzione, perché più un gruppo viene emarginato più tenderà ad assumere comportamenti “difformi”, mentre quando una comunità prosegue la sua vita nella normalità, come un incantesimo, ogni problema si dissolve nel nulla.


Acqua pubblica: la rivoluzione è già qui Un piccolo grande esempio leccese testo - Andrea Aufieri

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’attenzione alle tematiche del risparmio energetico e della tutela del patrimonio idrico, percepito come bene comune, pubblico, fuori dal mercato, è di sicuro impatto sui cittadini di tutto il mondo. Ne è esempio la Bolivia, dove si è tenuta la Conferenza mondiale dei popoli sui cambiamenti climatici e per i diritti della Madre Terra, durante la quale il presidente Evo Morales, a dieci anni dalla “battaglia dell’acqua” di Cochabamba, ha ribadito la necessità d’impegno contro le multinazionali e la messa in vendita del patrimonio idrico delle nazioni, Italia compresa. Che l’appello non sia caduto nel vuoto lo dimostra la campagna referendaria promossa dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua, già autore di una proposta di legge che i referenti politici hanno dimenticato, ma talmente forte da poter mobilitare diverse migliaia di persone nelle piazze. Anche questa volta il Forum ha colpito nel segno: 200 mila firme nei primi cinque giorni di campagna, 700 mila, ovvero l’obbiettivo stimato, quando manca un mese alla chiusura. I tre quesiti referendari abrogherebbero tre articoli di legge che hanno spinto la nazione sul baratro della privatizzazione: l’articolo

23 bis della Legge n. 133/2008, che prevede la privatizzazione di almeno il 40% di ogni servizio pubblico di rilevanza economica. L’articolo 150 e parte del comma 1 dell’articolo 154 del Codice dell’ambiente, che permettono l’affidamento del servizio idrico, la gara e la gestione anche ai privati, e che dispongono che la tariffa per il servizio idrico sia determinata tenendo conto dell’ “adeguatezza della remunerazione del capitale investito”. Abrogare queste norme significa impedire che si faccia mercimonio di beni vitali come l’acqua. Ma in attesa che la lunga marcia istituzionale del referendum si compia, come ci si può difendere? È possibile proporre una visione sostenibile e autonoma in contrapposizione, agli sprechi, ai dazi e alle proprietà ora vigenti? Una soluzione c’è, e a segnare la strada è un ragazzo leccese non ancora laureato, ma con ottime idee. In contrada Maccandrino, sulla strada che porta da Lecce a San Pietro in Lama, sarà presto operativa una rete dal nome tanto pretenzioso quanto pieno di speranza per il futuro: la comunità “Alba”. La rete avrà l’obiettivo di incidere a tutto tondo sulle spinose questioni poste dall’imprenditoria sociale. Roberto Paladini, studente di In-

gegneria dei materiali e presidente di CulturAmbiente onlus, sta mettendo a punto un progetto di ambientalizzazione di tutta la struttura, una bella masseria riportata alla funzionalità da tutta la rete. La perla di questo progetto è l’attenzione dedicata al recupero e alla riduzione del consumo di acqua. «Per la riduzione dei consumici spiega Roberto- bisogna comprendere solo una cosa basilare: che i rubinetti hanno una portata di oltre dieci litri al minuto. Lasciarli aperti quando ci radiamo o insaponiamo ci farà sprecare più di trenta litri di acqua per volta. Per questo ho ritenuto opportuno dotarli di riduttori di flusso, poi ho modificato anche gli scarichi dei servizi igienici, riuscendo a risparmiare circa l’85% di acqua, oltre al costo di sostituzione di dieci dispositivi per lo scarico. La riduzione è significativa, perché si aggira intorno agli undici litri per volta, impiegandone solo due». Un’importante riflessione lo ha portato poi a ridurre ulteriormente costi e sprechi, riuscendo a riutilizzare l’acqua piovana:«Con l’uso di filtri meccanici, carboni attivi e lampade UV, riusciamo a depurare le acque piovane recuperate per alimentare i bagni. Anche il metodo di recupero ci ha permesso di riportare alla loro funzione alcuni mezzi che diversamente avremmo dovuto sostituire con tecnologie meno sostenibili. Ho infatti recuperato le vecchie cisterne e le ho messe in comunicazione tra loro e con le grondaie. Anche le acque di scarico sono riutilizzate, per l’agricoltura, dopo un processo di fitodepurazione». Questo ciclo si chiude aggiungendo che i detergenti e i prodotti impiegati per la pulizia del corpo sono biodegradabili e acquistati alla spina, la carta igienica è biodegradabile, gli asciugamani sono prodotti in fibra naturale e lavati anch’essi con detersivi biodegradabili, da elettrodomestici a risparmio energetico». Non solo, Roberto si è spinto più in là:«Ho realizzato esperimenti per raccogliere anche l’acqua che si condensa sulle superfici fredde come il ferro e il marmo e ho messo a punto anche dei piani colturali sostenibili perché impiegano colture autoctone e nel rispetto delle appropriate stagionalità».


STORIE palascìa 02

Il riscatto della Calabria passa dai rom Due storie di beni confiscati alle ‘ndrine

testo - Gaetano Liardo, redattore nazionale - Libera informazione

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he la confisca dei beni alla criminalità organizzata sia uno strumento efficace di contrasto è un’idea consolidata nella mente degli italiani. Che il riutilizzo sociale degli stessi sia un segnale di riappropriazione del controllo del territorio da parte dello Stato, anche. Ma non è una pratica semplice da portare a compimento. Soprattutto in quei territori dove la supremazia delle mafie è talmente forte e invasiva da sostituirsi all’autorità della Repubblica. Creare circuiti economici virtuosi da beni confiscati alla malavita organizzata al sud è una sfida ai clan. Una sfida che le mafie non possono permettersi di perdere. Una cooperativa che coltiva un terreno sottratto alla famiglia mafiosa del luogo, creando lavoro pulito e un indotto economico per l’intero territorio, significa creare presupposti di sviluppo economici alternativi allo sciacallaggio mafioso. Costituire una cooperativa che coniuga sviluppo economico e integrazione sociale significa mettere in discussione lo strapotere dei clan. Sono due esempi che raccontano la Calabria, due tra le tante storie positive di riscatto di un territorio soffocato dalla ‘ndrangheta. La storia della cooperativa Valle del Marro di Polistena e quella della cooperativa Rom 1995 di Reggio Calabria. Storie di una Calabria che cerca di resistere nonostante la ‘ndrangheta e gli impedimenti burocratici. La Valle del Marro gestisce dei terreni confiscati al potente clan dei Piromalli nella Piana di Gioia Tauro. Coltiva prodotti di agricoltura biologica che rispecchiano la tradizione agricola della regione, poi lavorati e venduti nel circuito commerciale di Libera Terra. Il “Giusto di Calabria”, melanzane sottolio, pesto di peperoncino, olio d’oliva, e numerosi altri prodotti. Un lavoro che ai clan non piace, perché quei terreni sono stati di loro proprietà. Non piace perché è una sfida aperta alla loro “sovranità”. Non piace, infine, perché è un segnale di emancipazione. Un chiaro messaggio che i calabresi onesti possono vivere, creare lavoro e sviluppo liberandosi dal cancro delle mafie. Periodicamente la ‘ndrangheta lancia messaggi allarmanti alla Valle del Marro. Furti di attrezzi di lavoro, danneggiamento delle colture, furto delle auto dei soci. Una spada di Damocle che

dissangua le già risicate finanze della cooperativa, ma che non scalfisce la voglia di cambiamento dei giovani soci. Quella della Rom 1995 è un’altra bella storia, il cui finale, però, rischia di non essere bello. La cooperativa è costituita nel 1996 dai volontari dell’Opera Nomadi di Reggio Calabria con l’intento di creare occasioni di riscatto sociale per la comunità rom reggina. Con il patrocinio del Comune di Reggio Calabria e con i finanziamenti della Commissione europea, la cooperativa lancia un progetto di formazione professionale, il progetto Lacio Gave (la buona città), di giovani rom per la raccolta e lo smaltimento di rifiuti ingombranti. Occasione professionale, quindi lavoro, coniugata con interazione e integrazione sociale. I rom, da sempre vissuti ai margini della società, considerati pericolosi, offrono alla città dello Stretto un servizio. Si tolgono rifiuti e si creano ponti con la comunità. Si tolgono dalla strada ragazzi che, senza reali opportunità di inserimento lavorativo, sarebbero potuti diventare manovalanza dei boss. Nel 2003 la cooperativa ottiene in gestione un bene confiscato che utilizza come magazzino di stoccaggio, all’interno del quale viene

realizzata un’isola ecologica. Inoltre, con l’avvio di laboratori di falegnameria e di tappezzeria è istituita una ricicleria, dove si riparano e si rendono utili mobili vecchi e divani sfondati. Ma l’amministrazione comunale di Reggio Calabria, nel rinnovare la gestione della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti, affida il servizio ad un’azienda municipalizzata. Nel far ciò il bando comunale prevede che l’azienda aggiudicatrice dell’appalto non possa subappaltare servizi a terzi, tranne nel caso del recupero di materiale ferroso ingombrante. Cosa che l’azienda municipalizzata, controllata al 51% da diciotto comuni del reggino, ha deciso di non fare, preferendo intervenire direttamente nel recupero di rifiuti ingombranti. Mettendo a repentaglio, in questo modo, un’attività economica di rilevanza sociale, proprio in quella Calabria sfregiata dai pogrom di Rosarno. La violenza mafiosa, le “barriere” burocratiche, rischiano di inceppare un meccanismo positivo di riscatto sociale, economico, storico, di un meridione d’Italia che abbandonato dal governo del cieco federalismo nordista, rischia di trasformarsi, inesorabilmente, in una grande Gomorra. Soci della Coop “ROM 1995“


STORIE palascìa 02

Ecomigrazione: 50 milioni di vittime testo - Aldo Morrone, presidente Inmp

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migranti sono persone che, per vari motivi, vivono temporaneamente o permanentemente fuori dal Paese di origine. Nel mondo, secondo l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), sono circa 200 milioni1 . Tra questi vi sono i migranti ambientali che, sempre secondo l’Oim, sono “persone o gruppi di persone che, a causa degli improvvisi o progressivi cambiamenti dell’ambiente che incidono negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono obbligate a lasciare le loro case, o scelgono di farlo, temporaneamente o definitivamente, per spostarsi sia all’interno del loro territorio che all’estero”2. Le stime indicano circa 50 milioni di persone coinvolte entro il 20103 e 200 milioni entro il 20504, mentre altre fonti stimano fino a 700 milioni di persone entro il 2050. Secondo la Croce Rossa, migrano più persone a causa dei disastri ambientali che per le guerre5. Si tratta di individui estremamente vulnerabili poiché non tutelati dalle leggi internazionali: la definizione classica dei rifugiati (persone in fuga da guerre e da regimi autoritari) non li include. Lo spostamento di uomini, donne e bambini è influenzato dai cambiamenti climatici attraverso l’intensificazione delle calamità naturali, o con l’aumento del riscaldamento e della siccità, danneggiando la produzione agricola e impedendo l’accesso all’acqua potabile. Anche l’innalzamento del livello dei mari, che rende inabitabili le zone costiere e aumenta il rischio di inabissamento degli Stati insulari, può cambiare la vita delle persone. Infine, la competizione per le risorse naturali può causare conflitti e sfollamenti. Nonostante siano i terremoti, gli tsunami e i cicloni a catturare principalmente l’attenzione dei media, i cambiamenti ambientali graduali hanno maggiore impatto sullo spostamento delle persone e, secondo gli esperti, lo avranno ancora di più in futuro. I migranti ambientali sono quelle persone che sono obbligate a fuggire dalle loro case e dai propri mezzi di sostentamento a causa di fattori ambientali, come ad esempio gli abitanti di Tuvalu e delle Maldive. Oppure persone il cui tradizionale habitat e stile di vita sono sempre meno praticabili a causa di processi ambientali lenti

ma devastanti, come la desertificazione in Tunisia e Marocco. Vi sono poi i migranti ambientali temporanei, che migrano a causa di eventi ambientali estremi ma transitori, come i sopravvissuti all’uragano Katrina o allo tsunami del 2004. Infine le migrazioni ambientali possono essere causate da conflitti dovuti alle limitate risorse ambientali, come in Sierra Leone o in Angola; ma quest’ultima categoria viene spesso convogliata in quella più ampia degli sfollati interni o dei rifugiati, categoria che prevede anche obblighi di protezione internazionale da parte dei paesi di accoglienza e delle agenzie Onu, che negli altri casi non sono ancora stati formalizzati6. Sono state individuate alcune zone particolarmente vulnerabili alle conseguenze dei cambiamenti ambientali7: le regioni aride in Africa, le reti fluviali in Asia, le coste e l’entroterra di Messico e Carabi e le isole basse degli oceani Indiano e Pacifico. Ma la vulnerabilità delle persone ai cambiamenti ambientali è soggettiva e riflette l’interazione tra le capacità di adattamento, la sensibilità individuale e il livello di esposizione. Il grado di vulnerabilità, quindi, cambia non solo da Paese a Paese, ma tra diverse comunità e persino all’interno dello stesso nucleo familiare. Le risposte dei governi possono essere difficili da realizzare in quanto il problema non può essere combattuto soltanto dal paese che ne subisce le maggiori conseguenze, ma deve essere una risposta condivisa. I paesi più poveri sono quelli che pagano maggiormente l’onere delle conseguenze dei cambiamenti climatici, anche se hanno contribuito in misura minore a determinare il problema. Ogni soluzione, inoltre, rischia di portare con sé effetti che possono vanificare l’obiettivo finale e cioè di migliorare la qualità della vita della gente. Per contribuire a cambiare la situazione, è necessario adottare approcci multidisciplinari ed un nuovo modo di considerare la problematica, tenendo conto che il cambiamento climatico potrà essere arginato tramite comportamenti virtuosi, quali la riduzione di emissioni di gas ad effetto serra; bisognerà investire nella resistenza e nella resilienza delle persone ai cambiamenti climatici, permettendo loro di non dover

migrare. Inoltre è importante proteggere i diritti fondamentali dei migranti ambientali, integrando i cambiamenti climatici nei trattati in vigore. note 1 Iom– World Migration 2008 2 http://www.iom.int/jahia/Jahia/definitio nal-issues 3 stima Onu, 2009 4 stima Oim, 2009 5 stima Red Cross, 2001 6 Nicole Marshall, professoressa dell’Università di Alberta http://www.towardsrecognition. org/2010/02/translating-environmentalmigrants’-rights-from-philosophy-to-policy/ 7 In Search of Shelter - Mapping the Effects of Climate Change on Human Migration and Displacement. UN, Care and Columbia University of New York, 2009


METISSAGE palascìa 02

Palascìa, un progetto di rete

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ante sono le iniziative a cui la cooperativa Métissage ha partecipato in questi mesi. Incontri, occasioni di scambio, esperienze che ci hanno arricchito personalmente e hanno dato il via alla creazione di una rete. La presentazione di Palascìa ci ha coinvolto tantissimo, dandoci l’onore e l’onere di far conoscere la realtà editoriale che abbiamo creato. Prima uscita ufficiale della rivista è stata la partecipazione al Bollenti Spiriti Camp il 6 febbraio 2010, che ha segnato il battesimo del primo numero di Palascìa, con la consegna di una copia al presidente Vendola e all’assessore Minervini. L’associazione di promozione sociale “Stradegiovani” ha invitato la cooperativa il 22 febbraio a portare la propria esperienza di giornalismo sociale all’incontro di formazione sociopolitica “Potere dei media e controinformazione”. Il 23 marzo la cooperativa ha partecipato ad uno degli appuntamenti della Fabbrica dei gesti di San Cesario. Oltre ad essere uno spazio culturale, un contenitore la Fabbrica dei Gesti grazie al progetto/evento “MartedInFabbrica”, che è diventato uno spazio pubblico, di contaminazione e aggregazione, un luogo intimo dove l’arte abita e fa crescere. Quello che ci ha coinvolti è stato un appuntamento particolarmente interessante e toccante perché, oltre alla presentazione di Palascìa e ad un approfondimento sulla tematiche del lavoro, della cultura e della musica balcanica, grazie agli interventi di Cristina Pappadà, Andrea Aufieri, Sara De Giorgi e Marco Leopizzi, si è ricordato Michele Frascaro, giornalista vicino alla Fabbrica, alla cooperativa e scomparso recentemente. Ad aprile, nonostante la pioggia, “Eco Parti” la festa di inaugurazione della coop. Ecotopie, che opera nell’ambito del turismo sostenibile e ha dato spazio a vari stand per la presentazione dei propri prodotti. Palascìa ha voluto sottolineare l’importanza della sostenibilità della cultura e dell’intercultura allargando lo sguardo verso orizzonti ancora inesplorati della società. Maggio ci ha visto partecipi di incontri legati alla presentazione del nuovo Bando regionale “Principi Attivi”, per raccontare la nostra esperienza e presentare il progetto. La testimonianza concreta molto spesso aiuta gli altri a diventare consapevoli della possibilità reale della

realizzazione di un progetto. La cooperativa Métissage ha accettato di raccontare l’idea progettuale durante gli “Info Day Bandi Regionali e Comunitari” organizzati dal Comune di Torchiarolo con l’intento di dare concretezza a un’idea progettuale e far conoscere il bando a quante più persone possibile. A cavallo fra la fine di maggio e la prima settimana di giugno, Palascìa che già nel primo numero si è occupata di contaminazioni tra la musica balcanica e quella salentina, ha presenziato anche all’inaugurazione della Casa della musica “Livello Undiciottavi”, una nuova esperienza che si apre al territorio e alle produzioni locali per promuovere e valorizzare la cultura del fare coinvolgendo artisti, associazioni ed enti secondo il principio della pari dignità e opportunità. Tante attività hanno visto la cooperativa Métissage attiva, lavorare fianco a fianco con altre realtà salentine con l’idea di sviluppare la sensibilità al diverso, all’intercultura e alla comunicazione sociale. Validissima è stata la collaborazione con il progetto “Greci d’Occidente” che intende portare il Salento in giro per l’Italia con il suo camper e che insieme a specialità culinarie e ottimi vini delle nostre terre presenterà la rivista in ogni sosta da nord a sud. Importante tassello è stato la collaborazione con il Cospe per due progetti di comunicazione sociale. Il Cospe, nei mesi precedenti, ha stilato una ricerca sui media e le migrazioni dal titolo “Mediattori” chiedendo a tutte le realtà del settore di rispondere a vari questionari tematici. Il momento conclusivo prevederà un incontro in Puglia tra tutte le persone e le esperienze esistenti sul territorio, interessate alla prosecuzione delle attività sui temi dei mediatori e per promuovere la diversità culturale nei media. Nell’ottica dell’educazione e dell’attenzione alle nuove generazioni, la cooperativa Métissage lavora quotidianamente, anche al fianco delle scuole e delle agenzie educative: la rivista è stata presente anche durante la prima edizione de “Il veliero parla...n... te”: un convegno e una mostra di libri prodotti nelle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo grado della provincia di Lecce, in programma il 28 e il 29 maggio a Copertino. In occasione del quarantesimo anniversario della costituzione della

Scuola materna statale, venti istituzioni scolastiche della provincia hanno costituito la rete Infanzia Salento, con l’obiettivo di promuovere il processo di studio, ricerca e valorizzazione delle esperienze delle scuole dell’infanzia salentine attraverso momenti di riflessione culturale, formazione del personale docente e realizzazione di progetti didattici. dove trovare palascìa Parabita: Biblioteca comunale / Informagiovani Lizzanello: comune Casarano: Sportello per l’immigrazione Leverano: Urp Torchiarolo: comune Brindisi: comune Otranto: AnimaMundi Lecce: lavanderia Jefferson/ Pole Star Market (via Birago)/ Tabaccheria di Porta Rudiae /Associazione culturale “Fondo Verri”/ Spazio sociale Arci “Zei”/Pizzeria “Il Pizzicotto”/ Provincia di Lecce/Castello di Carlo V/Officine Cantelmo/Apuliae libreria/Sportello immigrazione Provincia/ Indian Shop/Karim Kebab/ Syrbar/Caffé del Duomo/Bar Martinica/ Tourist Center/”Made in Dignity” Commercio equosolidale/”Afrikan Shop”/”Kalligraphos”/ Caffè “Paisiello”/”Obama” take-away/”Cin Cin” bar/Comune di Lecce e Urp/Università del Salento: edifici “Codacci-Pisanelli”, sperimentale “Tabacchi”,”Parlangeli”/Livello Undiciottavi S.S. 7 ter Lecce- Campi Per altre segnalazioni e per organizzare dei punti di distribuzione contattateci all’indirizzo: palascia@metissagecoop.org

contatti Métissage è su FB e sul sito web www.metissagecoop.org


Il mondo racconta a cura di - Emanuela Ciccarese in collaborazione con la scuola “Dante Alighieri“ di Lecce

La leggenda della luna piena Leggenda Indiana.

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In una calda notte d’estate, un lupo, seduto sulla cima di un monte, ululava a più non posso. In cielo splendeva una sottile falce di luna che si nascondeva tra le nuvole. Gli ululati del lupo erano lunghi e disperati. In poco tempo arrivarono fino alla grande regina della notte che, molto infastidita da quel baccano gli chiese: -Cos’hai da ululare tanto? -Ho perso uno dei miei figli, il più piccolo. Sono disperato…aiutami!-rispose il lupo. La luna allora cominciò lentamente a gonfiarsi. Diventò una grossa luminosissima palla. - Guarda se riesci ora a ritrovare il tuo cucciolo.-disse dolcemente al lupo la luna. Il piccolo fu trovato sull’orlo di un precipizio, con un salto il padre afferrò il figlio e lo strinse a sé. Felice il lupo ringrazio mille volte la luna e sparì nella vegetazione. Per premiare la luna, le fate dei boschi le fecero un regalo: ogni trenta giorni può diventare tonda, grossa e luminosa, e i cuccioli del mondo intero, alzando nella notte gli occhi al cielo, possono ammirarla in tutto il suo splendore. I lupi lo sanno e…ululano festosi alla luna. Da un’idea di Parmeet e Harmeet Singh, III A Sintesi e disegno di Beatrice Lecci

Attenzione! Attenzione!

Palascìa_l’informazione migrante bandisce un concorso per scegliere le storie e le leggende dei vostri paesi. È dedicato ai bambini della città di Lecce, ma possono partecipare gruppi di alunni o intere classi. Le leggende o i miti raccontate ai bambini da nonni, nonne o altri parenti adulti saranno raccolte dalla redazione e di volta in volta saranno pubblicate. Inviate il materiale con oggetto “il mondo racconto“ all’indirizzo mail: palascia@metissagecoop.org


EDUCAZIONE INTERCULTURALE palascìa 02

L’agorà e il cambiamento interculturale La L2 come lingua veicolare

testo - Giuliano Grande | fotografia - Lorenzo Papadia

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i fronte a un fenomeno come quello migratorio e alla trasformazione della nostra società in una società interculturale, un problema molto sentito riguarda l’inserimento degli studenti stranieri nelle scuole italiane, studenti che devono apprendere le materie del curriculum scolastico, utilizzando una lingua che non è la propria, diversa dalla L1 (lingua madre). Quando si deve utilizzare una lingua straniera, poco conosciuta agli studenti, come veicolo per la trasmissione dei saperi disciplinari, ci si pone il problema della limitazione che l’uso della Ls (lingua straniera) può implicare per la comprensione e di conseguenza per l’assimilazione dei concetti base di una disciplina. Infatti, quando si usa una L1, l’insegnante deve fare attenzione soltanto che le nozioni vengano assimilate come tali, concettualmente, anche se questo non è sempre vero, poiché anche in questi casi, a volte, la lingua diventa un ostacolo per la loro stessa comprensione. Qualora l’insegnamento avvenisse in una Ls, oltre al problema del ragionamento concettuale sulla materia a livello cognitivo, si aggiungerebbe anche l’ostacolo di natura linguistica. Lo studente si trova, infatti, alle prese con il discorso orale dell’insegnante in lingua straniera e con il discorso scritto dei manuali. Si rende necessario, quindi, proporre delle attività didattiche che consentano agli studenti stranieri di acquisire l’italiano come lingua seconda e delle competenze essenziali per lo studio delle materie non linguistiche, nonché dei diversi saperi disciplinari. Con seconda lingua, che Pallotti (1998, 13) abbrevia in L2, s’intende un costume linguistico appreso in seguito alla L1 che può essere usata o meno accanto ad essa in situazioni comunicative quotidiane. Si pensi, ad esempio, al contatto linguistico nel caso di un’esperienza migratoria, in cui l’immigrato generalmente parla la propria lingua in famiglia, o con i suoi connazionali e, invece, l’italiano sul luogo di lavoro. A differenza dell’apprendimento di una L1, quello di una L2 generalmente non avviene congiuntamente allo sviluppo cognitivo e sociale del bambino. L’apprendente di una L2, infatti, dovrà imparare nuove parole, ma relativamente pochi concetti. Il possesso della L1 costituisce, dunque, un im-

portante prerequisito per l’apprendimento di ogni altra lingua, nonostante in molti studi sia stata considerata un ostacolo (Ciliberti, 1994). L’apprendimento curricolare di una lingua non materna attraverso una sola lingua veicolare, che non è la sua L1, riguarda solitamente lo studente di recente immigrazione inserito nella scuola del paese che lo ospita. La nuova lingua si apprende non solo nel contesto scolastico, ma anche al di fuori di esso, per strada, giocando, guardando la televisione, parlando con gli amici o con i compagni. È chiaro che quando si usa una L2 come veicolo per la trasmissione dei contenuti di una materia non linguistica, il primo problema che ci si pone è la limitazione che l’uso di una L2 o Ls può implicare per la comprensione dei contenuti della materia oggetto di studio. Si tratta, quindi, di consentire al discente di acquisire, come afferma Coonan (2002: 98), la “competenza linguistica per apprendere”, vale a dire la competenza sul lessico specifico, sulla microlingua della materia. Per questo motivo attraverso l’apprendimento di una materia non linguistica in Ls o L2 si deve cercare di favorire lo sviluppo qualitativo di questa lingua,

promuovendo una competenza Calp (Cognitive Academic Language Proficiency - Cummins 1984): interiorizzare il “saper fare lingua” (Balboni, Luise: 1994), vale a dire la capacità di sviluppare i processi cognitivi che stanno alla base delle abilità di riassumere, di comprendere, di produrre testi, e così via. Il processo di comprensione, sia che si tratti di testi orali o scritti, è un processo cognitivo e linguistico complesso. Il ricevente deve cercare di ricostruire il significato di un messaggio, attivando tutte le sue conoscenze linguistiche ed enciclopediche. Negli anni Ottanta Krashen (1981) constatava che gli apprendenti una L2, per poter progredire nel loro apprendimento, devono ricevere un input linguistico appartenente ad uno stadio immediatamente successivo al proprio stadio di conoscenza, e che, anche se nuovo, venga capito con l’aiuto di informazioni contestuali, linguistiche o extralinguistiche. L’input linguistico avviene attraverso l’elaborazione (Yano, Long & Ross, 1994) e la semplificazione (Parker e Chaudron, 1987). Entrambi favoriscono la comprensione dei testi, e aiutano il lettore ad estrarre le informazioni essenziali dal testo, ma l’elaborazione sembra dare


EDUCAZIONE INTERCULTURALE palascìa 02

maggiori frutti, quando si chiede all’apprendente di fare delle inferenze, dei ragionamenti sul significato di quanto è stato letto (Yano, et al., 1994). La semplificazione dei testi per lettori stranieri porta, dunque, alcuni svantaggi (Sun-Young Oh, 2001). Innanzi tutto, l’uso di un lessico limitato, di frasi corte e semplici in testi semplificati rischia di creare un discorso innaturale, significativamente lontano dall’autentico materiale. Sulla base di queste ipotesi Goodman (1988) arriva a definire il processo di comprensione, riferito alla lettura, un psycholinguistic guessing game. Durante la lettura, infatti, il lettore seleziona l’informazione visiva necessaria a generare delle attese corrette, avvalendosi sia delle sue conoscenze linguistiche del lessico e della sintassi, sia delle sue

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conoscenze extralinguistiche del proprio bagaglio culturale. Il ragazzo che si accinge a leggere un testo, scelto dall’insegnante, generalmente non ha una forte motivazione e tende a rapportarsi al testo in modo passivo. Tende a leggere integralmente il testo, perché non sa cosa cercarvi. Scipioni (1990) afferma, quindi, che la motivazione iniziale è molto importante, anche quando si legge in una L2, dove la lettura rappresenta una grossa difficoltà che non stimola il ragazzo a leggere, a meno che non abbia un interesse particolare per l’argomento. Le difficoltà rappresentate dalla lettura in L2 o in Ls riguardano non tanto la competenza lessicale dello studente, quanto piuttosto le differenze del background culturale, poiché come abbiamo visto in preceden-

za, la comprensione scritta e orale è strettamente legata agli schemi presenti nella nostra memoria. Il testo scolastico,da sempre considerato lo strumento essenziale della divulgazione dei saperi e per l’apprendimento di una disciplina, deve diventare quindi una scelta ancora più accurata e oculata nelle classi con la presenza di studenti immigrati. Molti passi avanti sono stati fatti nella compilazione dei testi scolastici fortemente orientata sul destinatario del manuale,visto oggi come l’interlocutore stesso; maggiormente accattivante è la presentazione grafica, con tavole e illustrazioni multicolore, e si cerca anche di delineare il percorso didattico dello studente con test e verifiche (Serianni 2003, 158).

L’italiano nella scuola a Lecce: pratiche d’intercultura testo - Emanuela Ciccarese

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nche quest’anno l’offerta formativa del Centro risorse per l’immigrazione territoriale (Crit) “Dante Alighieri” di Lecce mira ad un processo d’integrazione degli immigrati nel nostro territorio, in cui fenomeni come l’abbandono e il ritardo scolastico fra gli alunni stranieri, e in particolare le difficoltà e il disagio degli adolescenti alle prese con una lingua che non è la loro lingua d’origine, costituiscono una vera preoccupazione. “Diritti a scuola” è il titolo di uno dei tanti progetti attivati dall’istituto, nato da uno specifico accordo tra il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (Miur) e la Regione Puglia per qualificare il sistema scolastico, prevenire la dispersione, e favorire il successo scolastico. La scuola secondaria di primo grado “Dante Alighieri” è stata impegnata a realizzare il Progetto “Diritti a scuola” con interventi mirati allo sviluppo delle competenze trasversali e relazionali in ambito linguistico e in particolare che favoriscano il successo scolastico attivando

azioni per innalzare i livelli di istruzione nell’area della lettura e della comprensione, migliorare l’autoconsapevolezza, la crescita di stima, la responsabilizzazione, la fiducia nell’uso delle proprie competenze; migliorare i processi motivazione ad apprendere; agevolare l’integrazione degli alunni in difficoltà e favorire la maturazione di scelte consapevoli. Accanto ad un offerta didattica e formativa rivolta agli alunni della scuola, il corpo docenti specializzati nell’insegnamento della L2 (la seconda lingua per gli stranieri, dunque l’italiano) promuove e sviluppa progetti come “L’italiano attraverso cortometraggi” o “Prendere la parola” per sviluppare l’apprendimento dell’italiano come proposta formativa che coinvolge lo straniero attraverso l’utilizzo del linguaggio verbale e non verbale. Azioni importanti che tengono conto delle diverse strumentalità linguistiche con cui devono confrontarsi gli studenti e gli adulti stranieri, ossia l’apprendimento di una lingua per comunicare nella vita quotidiana, e la

lingua italiana specifica, necessaria per la comprensione di concetti per sviluppare l’apprendimento delle diverse discipline. Quello di continuare a puntare ad una certificazione dell’italiano come seconda lingua non può che essere un impegno imprescindibile per un paese come il nostro che “ha scelto la piena integrazione di tutti nella scuola e l’educazione interculturale come suo orizzonte culturale” (circolare ministeriale 205 del 26 luglio ‘90, la scuola dell’obbligo e gli alunni stranieri.) Ma questo diventerà sempre più difficile, se alle tante difficoltà che il corpo docente incontra quotidianamente nel proprio lavoro si aggiunge la precarietà con cui si continua a lavorare nella scuola in seguito alla riforma scolastica vigente. fonti MIUR: linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri MIUR: Documento generale di indirizzo per l’integrazione degli alunni stranieri e per l’educazione interculturale


IL MEGAFONO palascìa 02

Spazio ai network che si occupano di tematiche sociali e di social journalism. Apriamo con Paz e L’ImPaziente, con dedica per Michele Frascaro, presidente di Paz con cui io e altri collaboratori abbiamo condiviso un pezzo di strada. Vicini ad Angela, moglie di Michele, per la nascita della piccola Gloria, che avviene mentre chiudiamo il numero. a cura di Andrea Aufieri

L’ImPAZiente non si tocca!

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ome ci raccontano Matteo Serra e Danilo Scalera, Paz nasce nel 2002 come gruppo di persone appassionate di comunicazione:«In un clima legato al “movimento”, abbiamo creato Radio Paz, la prima web-radio pugliese, che in più occasioni è stata luogo privilegiato di sperimentazione di nuovi modi di intendere la comunicazione nel Salento, e che già dal novembre di quell’anno fu l’unica emittente a essere connessa nel circuito di Radio Popolare per la manifestazione contro il Cpt “Regina Pacis”, ed ebbe modo di filmare anche i segni delle percosse ricevute da alcuni migranti: quelle immagini furono poi acquisite dalla magistratura per il processo. Col tempo Paz si è sempre più specializzata in forme indipendenti di giornalismo d’inchiesta creando nel 2003 la rivista l’ImPAZiente, ancora oggi esempio per giornalisti e cittadini di un giornalismo libero e impegnato. Nel 2005 Paz si trasforma da associazione in cooperativa e compie un salto di qualità verso l’offerta di servizi integrati di comunicazione che oggi rappresentano il cuore del progetto generale». Alcuni dei progetti realizzati e in corso sono: Lavorare in Sicurezza e Piccoli cantieri (per la sicurezza sul lavoro); Gli studenti fanno scuola (multicultura e legalità nelle scuole superiori); A carte scoperte (disabilità nelle scuole superiori); Divieto di discarica (opuscolo sulle discariche a cielo aperto nel Salento); Da qui (rifugiati e richiedenti asilo). Melissa Perrone è la giornalista che prenderà le redini dell’ImPAZiente, è entrata in Paz nel 2005. «Il progetto prosegue, ma comprenderai la difficoltà di raccogliere questa gravosa eredità. C’era un circuito virtuoso di confronto costante, le relazioni non erano di solo lavoro, siamo senza un pezzo dell’ingranaggio, nello specifico il motore principale. L’ImPAZiente, però, non si tocca, nonostante l’eredità gravosa. Ma non molliamo e non vogliamo ingerenze di nessun tipo e si va avanti così come avevamo stabilito con Michele. Sullo scenario locale certamente, ma anche su quello nazionale non è un’esperienza banale, è diversa dal giornalismo di velina o da quello di servizio a qualche partito. Partigiani, ma con una partigianeria legata alla realtà dei fatti e non per partito preso. Siamo sempre stati

una rivista di sinistra senza risparmiare colpi ai partiti. Le modalità di lavoro le trovo rivoluzionarie, perché all’interno c’era una democrazia partecipata e orizzontale sul lavoro editoriale e la scelta dei pezzi; il taglio era chiaro, ma le relazioni che si stabilivano erano il più possibile corrette e chiare. Abbiamo preso strade diverse dalla logica classica delle redazioni, si faceva un lavoro culturalmente avanzato. Una lezione di Michele è che si impara da tutti, se qualcuno dice cose interessanti pubblica subito. L’obiettivo che volevamo e vogliamo raggiungere è quello di svelare verità dando voce ai più deboli: tutta la storia dell’Impaziente è raccontata tramite i reali protagonisti delle vicende, perché un conto è invocare il principio del giornalismo sociale, quello di dar voce a chi non ce l’ha, e altro è renderlo quotidianità: non è facile qui, perché ci scontriamo subito con il problema dell’esistenza. Chi scrive viene querelato, senza copertura, ma ce ne siamo sempre fottuti, valutando sempre di dire piuttosto che non dire. Poi tutte le volte che siamo incappati in una querela eravamo sempre ben preparati, con carte e documenti. E questo avviene perché noi le cose le raccontiamo. Censura no, autocensura nemmeno, uguale problemi. Abbiamo spesso denunciato ciò che qui è considerato normale e che non lo è, incontrando la solidarietà, l’aiuto e la fiducia di tutti. Si è via via consolidata l’autorevolezza del giornale e del nostro lavoro. In tutto il cammino è stato fondamentale l’apporto dei docenti di Scienze della Comunicazione Stefano Cristante e Carlo Formenti, che non hanno mai svolto un “tutoraggio” o una revisione dei pezzi, ma una riunione con loro era fondamentale anche solo per avere punti di vista differenti e qualificati». «Scegliere il lavoro più compiuto è come scegliere tra i propri figli quello cui si vuole più bene. Difficile tirare le somme, l’ImPAZiente è ora un’esperienza unica di giornalismo nel Salento. Penso che questa terra si meriti un giornalismo diverso dal quello marchettaro. Il problema non è il giornalismo locale, ma il modo in cui viene fatto lavorare il giornalista, a chi si dà più filo». La scelta di passare alla freepress:«Scelta sofferta e discussa per anni. È stata una rivoluzione culturale anche

per noi, una sfida nel non cedere nulla sul piano dei contenuti».

Un giornalismo impaziente di Paolo Mele

Nel Salento spesso si viaggia a rilento. La lentezza è la quintessenza dei ritardi, della burocrazia, delle attese per trovare un lavoro, per ottenere un finanziamento, per vedere riconosciuti i propri diritti, per giungere alla giustizia. C’è chi su questa lentezza costruisce le proprie fortune, chi si rassegna e chi invece prova a cambiare luoghi e tempi dell’azione. Il nostro luogo si chiama Paz, Zona di autonomia permanete, il nostro tempo si chiama Impazienza. È nato con queste premesse il nostro progetto. L’impazienza è stata ed è lo strumento di lavoro che ci accomuna, un giornalismo sempre proteso alla ricerca della verità, e con una dote che in un buon giornalista non dovrebbe mai mancare: la capacità d’indignarsi. In tutto questo Michele, presidente della cooperativa e in seguito direttore della rivista, era insuperabile. L’indignazione è una delle componenti fondamentali per la realizzazione di un sano giornalismo d’inchiesta. È ciò che ti fa gridare allo scandalo e che ti fa sperare che quelle parole scritte su un articolo possano dar voce ai più deboli e cercare di smuovere qualcosa nei luoghi del potere o nell’animo delle persone. Abbiamo cominciato con questo spirito a raccontare storie come quella del “Regina Pacis”, del calzaturiero (Filanto, Adelchi & co), dell’editoria, della sicurezza su lavoro, del turismo, delle aziende municipalizzate, dei rifiuti. Lo abbiamo fatto documentandoci, intervistando persone, visitando luoghi, raccogliendo materiali e scrivendo. Senza paura perché supportati dai fatti e dalle fonti, senza pregiudizi o doppi fini, sempre pronti a metterci in discussione. Crediamo che il nostro territorio abbia bisogno anche di questo per crescere, di critica e autocritica. Con la dovuta impazienza, per evitare rimpianti.


Aifo: dal 1961 con gli ultimi testo - Davide Sacquegna, servizio comunicazione Aifo

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l 1961 è ricordato come l’anno del primo uomo nello spazio e del debutto sulle scene musicali di Bob Dylan e dei Beatles. Ma il 1961 è anche l’anno in cui è stata scritta una pagina nuova nella storia italiana della cooperazione allo sviluppo. In quell’anno nasceva infatti un’associazione che raccoglieva la sfida di Raoul Follereau, il giornalista francese che già da vent’anni girava il mondo per diradare davanti agli occhi di governanti, uomini di potere e cittadini di ogni paese la nebbia dell’egoismo e dell’indifferenza: quella nebbia che impediva a ciascuno di vedere la sofferenza di milioni di persone condannate alla povertà estrema, all’emarginazione, alla privazione di diritti e dignità. Era una sfida coraggiosa, quella che i volontari riunitisi intorno ai missionari comboniani di Bologna raccolsero quando decisero di fondare l’Aifo, Associazione italiana amici di Raoul Follereau: sconfiggere la lebbra che colpiva a quel tempo oltre un milione di persone ogni anno, e sconfiggere soprattutto le lebbre dell’anima che colpiscono il mondo ricco. Inizialmente era un gruppo informale di giovani volontari, che pubblicavano un bollettino (Amici dei lebbrosi, oggi Amici

di Follereau) e giravano l’Italia per raccogliere fondi per i malati di lebbra. Nel 1970 questo gruppo divenne un’associazione riconosciuta e conseguì lo status di Ong: Organizzazione non Governativa. Da allora l’Aifo ha realizzato centinaia di progetti di sviluppo nei paesi più poveri e salvato dalla lebbra oltre un milione di persone. Oggi il 10% dei malati di lebbra di tutto il mondo sono curati nei progetti Aifo. Pur essendo ormai completamente curabile e pur avendo una bassa contagiosità, la lebbra colpisce ancora 250mila persone ogni anno in India, Brasile e in tanti paesi asiatici e africani. Essa prospera infatti laddove c’è carenza di servizi sanitari e dove sono diffusi pregiudizi e discriminazioni che costringono la persona colpita a nascondere la malattia per evitare l’isolamento proprio e dei propri familiari. Per questo l’Aifo adotta una strategia multisettoriale: non solo cure mediche per guarire i malati, ma formazione sanitaria, educazione della popolazione e sostegno alle strutture pubbliche di sanità di base. La diagnosi e il trattamento della lebbra infatti non necessitano di centri specializzati né di strumenti sofisticati: quello che serve è una sanità di base che funzioni “RD“ del Congo - fotografia Freddy Sanduku

davvero e raggiunga anche le comunità più isolate. Perciò ogni progetto dell’Aifo si fonda su un lavoro orizzontale di sviluppo dei servizi sanitari di base e mai sulla realizzazione di centri specialistici ad alta tecnologia, che comporterebbero spese elevate e non garantirebbero la sostenibilità. Ma la missione dell’Aifo non si limita alla cura delle persone colpite dalla lebbra: numerosi progetti sono rivolti alle persone con disabilità dei paesi poveri. La disabilità nei paesi a basso reddito è una delle principali cause di povertà, perché impedisce alla persona di lavorare, ma spesso è anche una conseguenza della povertà, perché le persone più povere non possono accedere ai servizi sanitari oppure vivono in condizioni che favoriscono l’insorgere di disabilità. Tra disabilità e povertà si innesca un circolo vizioso: ciascuna è causa e conseguenza dell’altra. Per rompere questo circolo, l’Aifo lavora per spezzare le barriere culturali ed eliminare i pregiudizi che condannano la persona con disabilità all’isolamento. La strategia adottata in questi progetti è stata elaborata dall’Organizzazione mondiale della Sanità, che ha dimostrato come essa sia l’unica che davvero promuove la salute e la dignità di ogni persona: la riabilitazione su base comunitaria. Alla base di questa strategia c’è l’idea che per promuovere il benessere di una persona bisogna lavorare sulla comunità in cui vive: la famiglia, il vicinato, le istituzioni locali, creando le condizioni perché la persona diventi protagonista attiva nel trasformare l’ambiente sociale e affermare la propria dignità. Oggi l’Aifo ha un ruolo di primo piano a livello mondiale nel campo della cooperazione sanitaria: è partner dell’Organizzazione mondiale della Sanità e partecipa di diritto all’Assemblea mondiale della salute, che riunisce ogni anno i ministri della Sanità dei paesi membri dell’Onu. La missione dell’Aifo continua con il sostegno di migliaia di volontari e donatori nelle cui mani e nei cui cuori è riposta la speranza di sconfiggere la lebbra e restituire salute, dignità e diritti a milioni di donne e uomini il cui grido silenzioso non può più essere ignorato.


TERZO SETTORE palascìa 02

Ogni uomo è un uomo Viaggio nel centro interculturale Migrantes testo - Rosa Leo Imperiale

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ccoglienza e prime necessità, Corsi di alfabetizzazione linguistica e informatica, corsi di musica, consulenza legale, consulenza e assistenza medico-sanitaria, intermediazione lavorativa, animazione interculturale, sostegno e promozione religiosa: sono questi alcuni dei servizi principali del centro interculturale Migrantes, oggi importante punto di riferimento di moltissimi immigrati salentini. Nato nel 1998 dall’omonimo ufficio diocesano, su decisione dell’allora arcivescovo di Lecce Cosmo Francesco Ruppi, che volle staccare dalla Caritas il Centro accoglienza stranieri al fine di rispondere in modo più efficace e organico al numero sempre crescente di richieste ed esigenze degli immigrati. Da qualche anno l’ufficio diocesano ha assunto la denominazione che tutti conosciamo, quella di “Migrantes Centro Interculturale”, in quanto rappresenta un unico soggetto giuridico di volontariato che ingloba in sé tante realtà associative fondamentali per il raggiungimento dei suoi scopi sociali. L’associazione Salva (Servizio assistenziale leccese volontario associazione donne medico), rappresentata da Fortunato De Fortunatis, è costituita da medici che in modo del tutto gratuito gestiscono l’ambulatorio medico-farmaceutico presente all’interno del centro, ovvero visite mediche gratuite e somministrazione di farmaci a coloro che non riescono ad accedere al servizio sanitario nazionale (non solo agli immigrati) . L’associazione si occupa inoltre della tutela della salute dei migranti anche attraverso la tutela dei loro diritti. Forte e decisa infatti è stata in passato la loro obiezione di coscienza contro una legge che obbligava i medici a denunciare i malati irregolari e clandestini. Avvocato di strada onlus, nota associazione con altre sedi in Italia, presidente Sefano Leuzzi, è costituita da giovani professionisti che offrono la loro opera gratuitamente per consulenze e consigli legali sulle tematiche relative alla normativa sull’immigrazione e non solo. L’associazione interetnica salentina “Giovan Battista Scalabrini”, la cui responsabile è Maria Totaro Fila, si propone di promuovere la solidarietà culturale, sociale,

assistenziale e religiosa, in particolare tra e per i migranti più bisognosi. Popoli e culture onlus, coordinata da Maria Giovanna Mayo, è un’associazione di volontariato che oltre a partecipare attivamente alla fruizione dei servizi del centro, grazie alle varie professionalità di cui gode al suo interno, si occupa da anni di solidarietà e cooperazione internazionale, in particolare con i paesi dell’America latina. Grazie all’impegno dei suoi volontari e della presidente Maria Giovanna Mayo è in atto da anni un progetto ad ampio raggio con l’Ecuador, che comprende l’adozione a distanza, la donazione e la raccolta fondi, il commercio equo e solidale, il sostegno e lo sviluppo economico e culturale reciproco, e primo fra tutti la creazione e lo sviluppo negli anni di una scuola, attraverso lunghe ed accurate fasi di formazione e collaborazione con gli enti ecuadoriani religiosi e non. Tra gli ultime realtà sociali ospitate dal centro, menzioniamo l’associazione senegalese di “integrazione partecipata Terranga”, il cui presidente è Fall Ndiaga, e l’associazione romena per l’integrazione “Avicass”, presieduta da Marita Miriam Stepaniant. Un segnale, quello dell’ospitalità ad associazioni composte interamente da immigrati, che va nella direzione appena intrapresa da Migrantes, quella cioè di sollecitare tutti gli enti di formazione professionale affinché coinvolgano gli stranieri, perché secondo le statistiche del centro, oltre il 24% degli immigrati che chiedono un sostegno per il lavoro sono laureati e sono invece costretti a esercitare lavori non specializzati. Nel centro non manca poi la cura dell’aspetto religioso e spirituale, grazie al supporto dei missionari comboniani, alle attività che si svolgono nella loro sede e alla messa animata dalle varie etnie, che ogni domenica alle 11 si svolge nell’area conosciuta come“chiesetta dei migranti”, la cappella del Santo Spirito situato accanto al vecchio ospedale “Vito Fazzi” a Lecce. La ricchezza del centro interculturale Migrantes è quindi palesata nella volontà di tutti questi volontari che non solo operano per le proprie singole associazioni, ma collaborano tutti insieme al fine di offrire

ai migranti l’opportunità di una corretta integrazione nella nuova realtà, ma anche opportunità culturali e sociali, attraverso non solo la fruizione dei servizi su elencati, ma anche attraverso l’incontro e lo scambio, che se affrontati con un atteggiamento di ascolto e comprensione, sono ottime e irripetibili opportunità di crescita (inter)culturale. note Centro interculturale Migrantes Via Tasselli, 10 73100 Lecce Tel: 0832 311363


PRINCIPI ATTIVI palascìa 02

Una vetrina per conoscere le giovani idee che stanno cambiando la Puglia testo - Redazione

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aposud è il primo giornale in italiano che parla dei Sud del mondo, scritto solo da corrispondenti locali. La redazione italiana si limita ad animare, contattare, editare e tradurre gli articoli, cercando voci indipendenti e testimoni diretti. Vogliamo, tra le nostre pagine, dare tutto lo spazio a chi per primo ha diritto di parlare della situazione del proprio Paese. A chi dareste subito la

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ammaflo’ è un laboratorio sartoriale che produce pannolini per bambini lavabili in lavatrice, avviato con il progetto Intorno ad Anna: iniziamo dai pannolini, vincitore del bando Principi attivi della Regione Puglia. L’idea nasce intorno alla piccola Anna da neo-genitori sensibili alle questioni ambientali e dalle difficoltà incontrate nel trovare, soprattutto in Italia, valide alternative ai pannolini monouso. Ma che senso ha usare i lavabili? Perché un’idea tanto retrograda? I motivi in realtà non

sArte della ri-creazione” è un laboratorio sperimentale in cui si trasformano tessuti di scarto e indumenti usati in abiti stravaganti e unici dal gusto gitano e si riutilizzano componenti di bigiotteria ormai passata di moda per dar vita a nuovi originali accessori. A riscoprire la bellezza di questo mestiere artigiano sono le mani di sei donne rom della comunità del quartiere Japigia di Bari: qualche anno fa questa comunità ha messo su una cooperativa di nome Artezian, in cui erano attivi principalmente gli uomini con pulizie, piccoli traslochi e recupero

parola se doveste parlare di Inghilterra: ad un inglese o ad uno svedese? E allora perché quando si parla di Sud del mondo, nel 90% dei casi è il Nord a parlare? Ecco cosa è il nostro giornalismo. Non ci sentiamo meno giornalisti di chi firma articoli in prima persona. Cerchiamo tutti la stessa cosa: verità, notizie, approfondimenti. Tramite ogni articolo cerchiamo di fornire al lettore “un punto di vista differente”

rispetto a quello che troverà altrove, su altre testate italiane e nell’agenda mondiale dei media. Attualmente Caposud è un bimestrale. Le edizioni passate sono disponibili anche online, gratuitamente. Il giornale è reperibile in librerie di Bari e Puglia, Milano e Roma, o su abbonamento. Chi volesse collaborare o abbonarsi può contattarci tramite il sito.

mancano: tutela dell’ambiente, benessere per il bambino, risparmio economico per le famiglie, che oltre a spendere meno per comprarli rispetto agli usa e getta, li possono riutilizzare per più bambini. Un’idea inizialmente controcorrente pannolini lavabili, siamo matti? - ma che adesso è diventata quasi una moda. I pannolini lavabili, infatti, da prodotto per ecologisti, per fissati o per bambini con allergie, diventano anche accessorio che fa tendenza. Bianchi o coloratissimi, in tessuti naturali o tecnici, ce n’è per tutti i gu-

sti. A noi può solo far piacere che sempre più persone, per un motivo o per un altro, inizino ad interessarsi a questi articoli, innovativi quanto tradizionali. I pannolini lavabili, del resto, possono piacere per i motivi più vari, ma qualunque sia la molla che ci spinge a sceglierli, rimangono un investimento per il futuro dei nostri figli. E noi di MammaFlo’ siamo felici e orgogliosi di poter contribuire alla costruzione di un mondo migliore.

materiali, facchinaggio, guardiania, giardinaggio. Ora la cooperativa ha anche la sua sartoria: le donne della comunità desideravano da tempo avviare questa attività e la collaborazione con l’associazione “Ri-belle, la nuova vita delle cose”, vincitrice del bando regionale “Principi Attivi, giovani idee per una Puglia migliore”, ha concretizzato il loro desiderio. Quest’avventura è cominciata a settembre 2009 attraverso un periodo di formazione a cui hanno preso parte anche sei ragazze baresi: motivati dall’ impegno ecologico e dalla creatività i ragazzi di Ri-belle e le donne

di Artezian hanno lavorato fianco a fianco per dar vita a “sArte della ri-creazione”, che oltre ad essere il nome di una meravigliosa esperienza di conoscenza reciproca, arricchimento culturale e amicizia è anche il marchio delle “collezioni di abiti e accessori del riuso creativo”, in vendita presso il laboratorio di via Salvemini 2 a Bari, le fiere e i mercati tematici sul territorio pugliese.


CULTURA/Musica palascìa 02

Dalle radici un albero Il seme africano nella musica occidentale

testo - Marco Leopizzi | fotografia - Lorenzo Papadia

La cultura musicale africana è considerata da molti musicologi il seme di buona parte della musica extra-colta occidentale del Novecento e di oggi, in un’innegabile e continua osmosi tra Africa, America ed Europa. La storia artistica è inscindibile da quella umana e sociale, cominciata con la deportazione dalle terre africane di milioni di persone. Nei campi di lavoro americani di fine Ottocento dalle radici africane è nato l’albero del blues, attraverso un lungo processo di riadattamento. E come il banjo sembra essere la rielaborazione di antichi strumenti sub-sahariani – come lo ngoni del Mali – così gran parte dei generi che si sono sviluppati nel Nuovo Mondo lo sono delle pratiche musicali africane. La stessa figura del

bluesman è significativamente vicina a quella del griot: musicisti, narratori e portatori di storia; ma mentre il secondo interpreta un ruolo “istituzionale”, legato al potere che rappresenta, il primo canta di sé stesso e dei suoi pari, in una dimensione narrativa decisamente più intimista e drammatica. Da quell’albero, irrigato anche dalla cultura musicale europea, sono spuntati tanti rami: jazz, rhythm and blues, rock, soul, funk, rap, hip hop e tutte le musiche definite afroamericane. Nel Centro e nel Sud America, grazie a un regime schiavistico meno rigido rispetto a quello del Nord – dove agli schiavi era proibito celebrare i propri riti ed eseguire le musiche per evitare ribellioni –, le radici africane rimasero più

robuste e ancora oggi ben evidenti. Dalla samba alla rumba, dall’habanera (danza cubana presente anche nella “Carmen” di Bizet) al reggae, infatti, s’incontrano molto più che semplici retaggi. L’uso della poliritmia (più ritmi eseguiti contemporaneamente da diversi strumenti) e dell’ostinato (ripetizione continua di brevi frasi melodico-ritmiche), il carattere corale delle esecuzioni e l’improvvisazione identificano una reale ritenzione di “africanismi”. Dalle memorie musicali africane e dall’innesto di quelle europee si è sviluppata dunque gran parte della nostra musica. Ma la storia è tutt’altro che lineare, curva seguendo gli accadimenti e finisce per ripetersi.


Dalle radici un albero

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urante gli anni ‘30 la musica cubana (già debitrice di quella congolese) si diffuse nelle regioni del Congo francese e del Congo belga. Dall’incontro tra questa e le tradizioni locali nacquero l’african rumba e una serie di stili, oggi raggruppati nel tag soukous, che nei ‘70 hanno raggiunto l’Africa orientale e quella occidentale prima di sbarcare in Europa negli ‘80. Cerchio chiuso. Le radici musicali africane hanno germogliato di là dall’oceano musiche che di ritorno hanno a loro volta fecondato nuovi generi. Da qui si potrebbe elaborare una teoria, circolare appunto, che illustri come tra le musiche africane e quelle occidentali esista una continua sinergia. La nascita dello mbalax, genere pop nazionale del Senegal, è analoga. Lì si diffusero tra i ‘60 e i ‘70 jazz, soul, rock – come abbiamo detto, di matrice africana – e lo stesso soukous. Ispirati dalla Négri-

tude, musicisti come Youssou N’Dour e il suo ensemble Etoile de Dakar recuperarono le loro tradizioni musicali fondendole con i generi occidentali. E ancora, in Sud Africa, lo mbaqanga di Simon “Mahlathini” Nkabinde e delle Mahotella Queens e il township jazz di Hugh Masekela, Miriam Makeba e Abdullah Ibrahim – musicisti poi tanto seminali in patria quanto negli Usa e in Europa –, l’afro beat nigeriano di Fela Kuti, l’african reggae e tutti i generi brutalmente compres(s)i sotto l’etichetta afropop sono segmenti di cerchi che si chiudono. Dal canto loro, alcuni jazzisti dell’avanguardia newyorkese dei ‘60 (John Coltrane, Max Roach, Don Cherry, Tony Scott) – nel solco del processo di sintesi con cui Dizzy Gillespie, fondendo ritmi e pratiche musicali cubane al jazz, creò negli ultimi ‘40 l’afrocuban jazz – volsero il loro interesse verso le musiche del mondo, India e Africa in testa, reintroducendo

la musica africana nel jazz. Le nuove creature del Continente Nero si sono poi fatte a loro volta base per altre fusioni. Una sintesi di seconda generazione. I loro protagonisti hanno incontrato musicisti occidentali (Peter Gabriel, Paul Simon, Duke Ellington, Nina Simone, Harry Belafonte, etc.) segnandone gli stili e lasciandosi segnare. Esempio emblematico la partecipazione dell’ensemble Mahotella Queens, e della stessa Makeba, all’album di Paul Simon “Graceland” (1986), pietra angolare del fenomeno definito world music – o world beat, specie per gli americani –, segnato dalla fusione di elementi rock, e pop in generale, con musiche caratteristiche di una regione del mondo, non necessariamente “tradizionali”.

Salento poliritmico

Con l’aiuto di Antonio Aresta, proponiamo ora un focus sul Salento, cercando di

Intervista ad Antonio Aresta testo - Marco Leopizzi | fotografia - Lorenzo Papadia

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ntonio Aresta si è laureato in Filosofia nel 2002, con la tesi in Sociologia delle relazioni etniche I griots wolof del Senegal fra tradizione e mutamento ha compiuto ricerche sul campo in Senegal e Gambia, con l’Università di Dakar e l’IFAN (Institut fondamental d’Afrique noire). È ora alla fine del Dottorato di ricerca in “Etica e antropologia” all’Università del Salento e coordina un progetto sull’intercultura rivolto ad alcune scuole secondarie della provincia di Brindisi. Chi è il griot? Premetto che la complessità dell’argomento è tale da non potersi esaurire in un’intervista e che in questa sede ci dobbiamo limitare a fornire cenni prov-

visori e riferimenti generali. Griot è un termine francese traducibile con “musicista-cantastorie”, ma qualunque parola occidentale usata per designare questa figura può essere fuorviante se non si considerano i termini africani che forniscono importanti indicazioni sui tanti ruoli e funzioni svolte dai griots. Inoltre, è necessario tener conto del sistema castale che regola i rapporti sociali, soprattutto durante il periodo precoloniale. La principale divisione castale separa i nobili dagli artigiani, dei quali fanno parte griots, fabbri, falegnami, tessitori, ecc. Al griot è assegnata la trasmissione del sapere e della conoscenza, attraverso la narrazione di racconti e genealogie degli appartenenti alle comunità, la partecipazione a cerimonie e riti e l’impiego di tante tecniche musicali. Durante il periodo precoloniale i griots affiancano i re e mediano eventuali controversie interne ed esterne alle società, così come giocano un ruolo fondamentale anche negli equilibri familiari.

Tuttavia, il loro ruolo non è percepito univocamente. Disponendo del potere della parola, infatti, possono esaltare le virtù di una persona ma anche determinarne una cattiva reputazione. Il colonialismo e la progressiva diffusione dell’Islam mutano gli ordini sociali tradizionali e, di conseguenza, anche lo statuto dei griots. Come è facile immaginare, anche l’acquisizione dell’indipendenza produce significativi cambiamenti sociali. In Senegal, ad esempio, nel 1960 il Presidente-poeta Senghor, portavoce del movimento della Négritude, si impegna nella valorizzazione del patrimonio culturale africano e si avvale anche del supporto dei griots per comunicare con il popolo e consolidare il proprio consenso. Una delle caratteristiche che, nel corso dei secoli, rimane pressoché immutata, pur nella diversità delle forme e dei modi, è la vicinanza dei griots al potere, sia esso di natura regale, religiosa o politica.


CULTURA/Musica palascìa 02

individuare le principali esperienze di interazione con una comunità musicale tra le più importanti, quella senegalese. Secondo il dossier Caritas/Migrantes 2009, i senegalesi in provincia di Lecce sono oltre 1.300. Tra questi anche molti musicisti ma quasi mai per loro la musica rappresenta la professione primaria e sono costretti a ripiegare su altro, come il commercio ambulante, per vivere. Il Salento ha conosciuto l’arte senegalese a partire dai ‘90 e mentre la scarsa attenzione del pubblico generico rappresenta il limite più marcato una felice apertura dimostrano artisti e intellettuali. Tra i protagonisti, il percussionista Djibril Ndiaye Rose, oggi tornato in Senegal. Gli incontri di Djibril con i salentini non sono documentati da registrazioni, eccetto il brano Da fa diot da “The beginning” (2003), disco del suo ensemble Ndiabotgui, con la partecipazione del mesagnese Antonio Esperti. Il Salento è stato inoltre il quartier generale per il tour europeo degli Ndiabotgui. Molto attivo oggi sul piano concertistico e didattico è Meissa Ndiaye, anche lui percussionista, da sette anni in Italia. Nel 2008 ha curato le musiche di “Non parlarsi non affratella”, spettacolo di teatro-danza prodotto dalla compagnia La Fabbrica dei

Qual è nel Salento l’apporto dell’arte, specie musicale, nell’interazione tra senegalesi e nativi? Difficilmente un musicista senegalese può condividere completamente il suo universo culturale con un pubblico occidentale, per quanto quest’ultimo possa essere attento. La difficoltà scaturisce non solo dal linguaggio verbale impiegato, ma anche dall’insieme dei linguaggi non verbali che concorrono alla realizzazione della performance e che richiedono un pubblico in grado non solo di comprenderli ma anche di giocare il proprio ruolo, mediante le molteplici interazioni che si compiono durante una festa o una cerimonia tradizionali. In virtù delle caratteristiche della comunicazione orale, il più delle volte gli occidentali apprezzano solo le qualità artistiche degli esecutori che, da parte loro, tendono quindi ad accentuare i virtuosismi. Ciò non toglie che la musica costituisca un valido strumento di interazione e condivisione che suscita nei salentini curiosità e piacere e costituisce per gli immigrati una piccola fonte di guadagno, tanto che, talvolta, quelli che si esibisco-

Gesti, tratto da “Gli stranieri portano fortuna” di Marco Aime e Lawa Tokou, con l’ideazione di Aresta e la regia di Silvia Lodi e Stefania Mariano. Da poco ha invece pubblicato per Anima Mundi “The spirit of djembé” (2009), un disco che sfugge il trend della fusione con musiche occidentali per fornirci un saggio della lingua musicale senegalese. Ma non è solo musica. Fondamentale è stato anche Mandiaye Ndiaye, regista e attore teatrale, per anni al Teatro delle Albe di Ravenna. Come ricorda Aresta, «nel Salento è arrivato nel 2006, grazie a Negroamaro, manifestazione della Provincia quell’anno dedicata all’Africa, in cui fu direttore artistico della sezione teatro». Un’esperienza evolutasi nel laboratorio teatrale sulle tecniche dei griots “Takku ligey, darsi da fare insieme”, tenutosi nel 2007 a San Cesario (Le) e promosso da La Fabbrica dei Gesti e dal Dottorato di ricerca in “Etica e Antropologia. Storia e Fondazione”. Con Aresta, Mandiaye ha tenuto incontri sulla cooperazione internazionale e sulla cultura orale africana all’Università del Salento e nelle scuole della provincia di Brindisi e, nel 2008, ha preso parte al Forum della Pace nel Mediterraneo come attore di uno spettacolo prodotto dal Teatro

no non sono veri e propri professionisti ma persone che dovendo sbarcare il lunario accettano di suonare o di tenere corsi di musica e danza africane. Non credi quindi che l’incontro tra culture musicali differenti possa essere espressione di un incontro culturale più ampio? Credo che gli elementi che accomunano le musiche tradizionali salentine e senegalesi siano molteplici. Tra questi non si può non tener conto di quanto la musica faccia parte dei vissuti delle società salentine tradizionali come di quelle africane, di come scandisca i loro ritmi, dell’impiego di materiali poveri per la costruzione degli strumenti, del valore terapeutico della musica stessa. D’altra parte, così come nel Salento la musica tradizionale è entrata a far parte di un circuito di diffusione ampio legato ai festival e alle nuove tecnologie, altrettanto è accaduto per la musica senegalese. L’insieme di questi e altri elementi non può che concorrere positivamente all’incontro fra le culture ma a patto che vi sia una lungimirante politica culturale che favorisca le condizioni di interazione e condivisione fra salentini e immigrati.

delle Albe. Ad accogliere la creatività senegalese anche l’onnivoro Cesare Dell’Anna. Dopo l’esplorazione dei suoni maghrebini in “Zina” (2005), esordio dell’omonimo progetto mediterraneo, il trombettista e la sua brigata musicale hanno idealmente attraversato il Sahara e trovato in Senegal nuove sorgenti. Diverse le voci senegalesi presenti sul recente “Afreeque” (2009), edito dalla sua 11/8 Records, che hanno immerso i loro canti nella musica di Zina. Tra queste Amadou Faye, che pur appartenendo a una famiglia griot non aveva mai cantato nel suo paese, di cui promuove invece la cultura letteraria con l’attività di libraio itinerante. Come molti, anche lui torna periodicamente dalla sua famiglia, portando con sé la musica di Zina da far ascoltare ai fratelli e amici musicisti.Che sia l’apertura di un altro cerchio? Di sicuro c’è che «gli stranieri portano fortuna», o almeno portano cultura. E che anche i generi musicali percepiti come “occidentali” sono intrisi di africanismi. Non so i musicologi leghisti ma quelli del resto del globo sanno bene che non esiste musica “etnicamente” pura.

Quali sono state secondo te le esperienze d’incontro più significative nel Salento? Durante gli ultimi vent’anni ve ne sono state numerose e hanno avuto forme differenti, dal teatro alla musica alla danza. Tra gli artisti di maggior rilievo Djibril Ndiaye Rose (voce, sabar, djembé), autorevole rappresentante di una delle più importanti famiglie di griots, che ha vissuto qui diversi anni e ha prodotto nella sua carriera lavori di grande livello artistico. Anche Saliou Samb (tama, sabar) e Meissa Ndiaye (djembé, sabar) hanno contribuito alla conoscenza e alla diffusione della musica senegalese alternando, tuttavia, la loro attività di musicisti a quella di commercianti. Inoltre, molto significativi sono stati i lavori svolti dal regista e attore senegalese Mandiaye Ndiaye che, proprio mediante il teatro e la pluralità di linguaggi che esso utilizza e che lo connettono alla sfera rituale, ha avuto modo di veicolare numerosi elementi della cultura africana e di farli interagire con quella occidentale.


In ascolto del bisogno Intervista a Mario Signore

testo - Andrea Aufieri | fotografia - Lorenzo Papadia

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l paradigma della complessità come assunto interdisciplinare contro l’autoreferenzialità dell’epistemologia e il riduttivismo, per l’ascolto del bisogno e un nuovo welfare: tutto questo alla base della nuova collana di Pensa multimedia, Inter-sezioni, diretta da Mario Signore, docente di Filosofia morale presso la facoltà di Economia dell’Università del Salento, e della sua opera “Economia del bisogno ed etica del desiderio”.

domande dello spirito. Perciò cerco di recuperare parole scomparse dal nostro quadro semantico, come quelle di corpo e di anima, da contrapporre al rischio del riduttivismo esasperato. Si parte dalla consapevolezza del Mängelwesen, l’uomo come essere carente, fino alla potenzialità del Kulturwesen, uomo culturale, essenza dell’antropologia e dell’essere, strumento o paradigma entro cui legare tutti i discorsi pratici.

Quale via per prendere coscienza della nostra “porosità” e metterci finalmente in ascolto del bisogno? Si parte anzitutto tentando di costruire un’antropologia incentrata sul tema del bisogno: àntropos non è l’uomo generico, è considerato nella sua interezza, e orientato essenzialmente attraverso il bisogno, grande sintomo dell’essere uomo, caratterizzato dalla bisognevolezza. Acquista una dimensione ontologica, diviene costitutivo della natura umana. Partendo da un’antropologia che guarda al bisogno vogliamo parlare dell’uomo in “carne e ossa”, senza per questo rinchiuderlo nella pesantezza del Körper, giacché la porosità, la sua complessità, lo apre alle

Come superare il riduttivismo con la semantica del bisogno e ambire alla metamorfosi del reale? Il riduttivismo induce ogni scienza a rivendicare l’egemonia di un segmento della natura umana, pretendendo come totale ciò che è solo una parte. Il paradigma della complessità guarda invece all’umano come a una meraviglia antropologica, in cui sono presenti tutte le dimensioni che lo costituiscono. Nella mia concezione, più ampia di quella di Edgar Morin, a cui mi ispiro, il bisogno è il punto d’ingresso per tutto l’uomo, pensato in un orizzonte infinito entro il quale si giocano i destini della storia e della metastoria. Dobbiamo poi fare un’altra operazione oltre a quella

che ci porta alla coscienza della complessità: bisogna concepire il bisogno come “bisogno ricco” che, con riferimento ad Aristotele, Hegel e Marx, non si esaurisce con l’istinto di sopravvivenza. Con Agnes Heller, allieva di Lukács, definisco quello della sopravvivenza il “limite esistenziale”, oltre il quale si apre il quadro dei bisogni: il bisogno scatta se la vita è già garantita. La tavola dei bisogni diventa dunque una tavola ricca, ne include altri che fino a poco tempo fa non c’erano, come dimostrano alcune illuminanti politiche sociali. Il concetto di bisogno supera così il welfarismo, nel solco delle teorie di Sen e Nussbaum: limite del welfarismo è quello di pretendere di ridurre a uguali i diversi, mentre un nuovo welfare, fondato sulla teoria di bisogni, vuol rendere diversi gli uguali, sostituire il welfarismo con le capabilities. L’uomo ricco di bisogni si specifica attraverso il serbatoio di potenzialità che ciascuno è. La nostra teoria si fonda sulle capabilities. Il processo di globalizzazione porta con sé la perdita delle identità in un malinteso comunitarismo universale. L’attenzione alle capabilities, come condizioni di possibilità dell’uomo intero, produce identità vere e diversità capaci di produrre il massimo sviluppo delle potenzialità di ciascuno. Le pari opportunità sono costituzionalmente garantite, ma la loro attuazione non creerebbe una frattura con la concretezza dell’economia? Perciò ridefinire il welfare, come possibilità di costruzione delle condizioni concrete e delle buone prassi per rendere reali i diritti. Ciò è legato anche all’economia dell’efficienza: avere una scuola e un’università rigorose, ospedali, mercato ed economia che funzionino rivoluzionerebbe tutto. L’economia del profitto per il profitto fa trionfare l’individualismo, e non permette la realizzazione del massimo per ciascuno. Il mio periodo universitario, all’alba della contestazione, è stato segnato dalla “Lettera ad una professoressa” di Lorenzo Milani: la cosa entusiasmante era che questo prete insegnava latino e greco ai figli dei montanari di Barbiana, mettendo in moto tutte le loro capabilities. In ambito economico, il paradigma della complessità è realizzabile in ma-


CULTURA/Letteratura palascìa 02

niera rivoluzionaria? Lei scrive della politica dell’et et contrapposta a quella dell’aut aut. In Italia tutto ciò è scaduto nel cerchiobottismo. Fino a dove si può mediare? La mia è una critica alle logiche e alle politiche dell’esclusione, che accolgono la ragione di una sola parte ergendola ad absolutus. È un’apertura al dialogo, un riconoscimento e uno sforzo per cogliere la ragione altrui. Rifuggo l’immediatezza, il senso comune del trascinarsi nella storia, l’accettare la realtà con greve e ingenuo realismo. La mia è una filosofia della mediazione, che scende da lombi nobili come quelli hegeliani, che con l’Aufhebung ci insegna a superare conservando, senza prevaricare. Il problema fondamentale è quello del riconoscimento, che avviene come autocoscienza dell’altro. La prassi rivoluzionaria ha in sé la pretesa di cambiare con i tempi richiesti dalla rivoluzione, che pretendono il superamento disperdendo la ricchezza del punto di partenza: se voglio superare la cultura islamica le faccio guerra, e viceversa. Non sapremo mai chi vincerà, ma avremo perso la ricchezza inestimabile di una cultura. È comprensibile però l’urgenza sociale, con problemi come lo spazio e la cittadinanza, che attuando l’altrapolitica possa superare le fratture? Come proporsi, per esempio, al Medio Oriente? Il tema dello stare insieme è un problema originario, legato alla questione del biso-

gno. Platone mette in risalto il carattere strumentale dell’abitare:la polis nasce perché dobbiamo cooperare per garantirci la soddisfazione del bisogno. Aristotele fa un passo avanti, ricordandoci che l’uomo è zoon politikon, portato alla relazione. Saremmo avvantaggiati nella risposta al bisogno, proprio nella città dove c’è tutto: il lavoro, la spiritualità, la relazione. I bisogni singoli si superano dove i bisogni artificiali, che producono consumismo, trovano un limite nei bisogni e nelle urgenze degli altri. L’esercizio del dialogo interculturale poi mette a fuoco in maniera a volte drammatica il problema del riconoscimento, così grave in Medio Oriente. Il riconoscimento non è un dato gratuito, come rilevo anche dalla lettura di Emmaus: perfino i discepoli faticano a riconoscere il Risorto. Eppure non c’è altra strada per rendere abitabile il nostro mondo. Quale ruolo ha il desiderio? Citando Heidegger, l’umanismo ha portato alla catastrofe tecnocratica del presente, e il colpevole è l’uomo, ma la soluzione dei mali è dunque e solo l’universalità dell’unico dio? Quali altri orizzonti? Heidegger mette a nudo le aporie dell’umanismo, che ha posto l’uomo al centro, ponendo le basi perché egli si sentisse tanto potente da compiere molti mali. Da Nietzsche in poi l’uomo è stato decentrato, c’è stata così la crisi del concetto di coscienza postulata da tutta la filosofia post-niccia-

na fino al pensiero debole. Nel mio libro precedente, “Lo sguardo della responsabilità”, rimetto l’uomo al centro gravandolo del peso di un’etica della responsabilità per la sua vita e quella del pianeta. Cercare un altro “responsabile” che unisca l’uomo stesso con le sue fragilità porta a forme scadute di teodicea: sarà colpa del destino o di un dio? Rimettiamo al centro l’uomo, ma in un antropocentrismo relazionale con la natura, l’universo e Dio. Sono un credente, ma ciò non mi impedisce di partire dall’uomo per una filosofia antropologica. Non trovo coerente con la natura dell’uomo coinvolgere Dio nelle sue vicende, una volta sperimentata la libertà di contrappormi a Lui. Dalla “cacciata dall’Eden”, l’uomo è divenuto responsabile di sé stesso e del pianeta. Tutti però hanno sempre avuto bisogno dei loro dei per trascendere la loro finitezza, la coscienza di essere bisognevoli. Qui la distinzione tra bisogno e desiderio: nel momento in cui l’uomo soddisfa i suoi bisogni è capace ancora di un ultimo scatto verso qualcosa che lo trascende. Il desiderio dell’uomo è illimitato e include anche Dio, anche solo come orizzonte regolativo che lo porta a superare financo i limiti e le ristrettezze dell’essere uomo. Non c’è spazio qui per l’intolleranza, men che meno quella religiosa: ciò che ci unisce è più di ciò che ci divide da altre culture. Il nodo è sempre quello di un rispettoso e consapevole riconoscimento.

La fabbrica del mondo di Luigi De Luca-Lupo editore testo - Cristina Pappadà

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L’aspirazione a rappresentare il mondo, a comprenderlo e dunque a possederlo mediante la sua dicibilità ha attraversato la storia dell’umanità». Con quest’ottica inizia“La fabbrica del mondo” di Luigi de Luca, direttore dell’Istituto di culture mediterranee e vicepresidente dell’Apulia film commission. Un viaggio lungo i secoli nell’evolversi del concetto di cultura in rapporto al potere e alla sua rappresentazione, un excursus nella società per verificare quanto la produzione culturale abbia inciso sullo sviluppo sociale ed economico. Partendo dal presupposto che la realtà è una sequenza di eventi che si evolvono e finiscono e che esistono differenti mondi che si intersecano, con i quali ogni

uomo si relaziona in ogni istante della sua vita. I modelli sono quindi restituiti secondo l’approccio che il singolo vuole dare alla realtà: lavoro, storia, economia, comunicazione, arte, scrittura, fino all’infinito, tanti mondi che si “fabbricano”e si modificano. De Luca verifica come l’evoluzione del concetto di potere sia mutato a causa dei forti influssi storico-culturali e sociali. Dall’analisi del potere nel Cinquecento, con il mecenatismo signorile e gli studi sulla città ideale, al cambiamento della visione di società attraverso lo sfarzo dell’Ancien Régime, dove tutto era esaltazione della cultura come autorappresentazione. Si procede scoprendo le città della nuova idea di Europa industrializzata per giungere a un mondo

completamente inglobato nel cyberspazio. In un’epoca dove la globalizzazione e il progresso sono i protagonisti della vita quotidiana, il Novecento si presenta come un secolo di incontri e scontri. I figli delle politiche coloniali europee vanno oltre i confini fisici per presentare e ribadire la propria parte nel mondo e nella storia. Fra realtà virtuale e crollo delle frontiere, non si può far altro che accettare il superamento delle culture nazionali e aprirsi alla collettività e all’intercultura. lento Negroamaro, dedicata alle culture migranti. É anche vice presidente della fondazione Apulia film commission e componente della consulta territoriale per le Attività cinematografiche.


CULTURA/Cinema palascìa 02

Migrazioni [ravvicinate] del terzo tipo Intervista alla regista Rossella Piccinno testo - Amanda Kastrati

Hanna e Violka”(Kurumuny/Anima Mundi) è l’ultimo documentario di Rossella Piccinno, che da anni spazia leggiadra e cosciente tra due problematiche: donne e immigrazione. Del suo ultimo lavoro ci ha raccontato lei stessa, in carne e mail.

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Com’è nata l’idea di questo progetto sulla figura della badante, tanto presente quanto umbratile e dalla ricezione indefinita da parte della nostra società, quali difficoltà nel realizzarlo? Qualche anno fa, per la prima volta, notai che nei paesini del sud Salento arrivavano ondate di donne straniere, per lo più dell’Est, per occuparsi degli anziani. Il fatto che queste donne arrivassero da così lontano per abitare le nostre case e occuparsi dei nostri cari trovavo fosse un fenomeno antropologicamente importante, per questo motivo, nel 2007 entrai in contatto con il forum delle donne native e migranti, Naemi, di Lecce. Con il lavoro di ricerca e di raccolta di interviste fatto per il mio reportage-cortometraggio “Voci di donne native e migranti” capii di voler sviluppare ulteriormente il tema in un successivo e più ampio lavoro. Questa volta volevo mostrare da vicino, ma non era per niente facile trovare una famiglia disposta ad accettare l’occhio della videocamera in un ambito così privato. Perciò di scegliere come protagonisti i miei nonni materni e Hanna, una donna di origini polacche che si occupa di mio nonno, malato di Alzheimer, già da cinque anni. Nel narrare le storie di queste due donne, relazionandole agli altri personaggi, si percepisce un processo di scomposizione, scambio trasversale e riconciliante ricomposizione delle loro vite. Del documentario amo la possibilità di totale immersione nella vita e il semplice seguire con la mia videocamera quello che accade. All’inizio volevo fare solo un film su Hanna, ma poi lei mi ha detto che sarebbe andata in Polonia e che al suo posto sarebbe venuta sua figlia Violka; coincidenza che offriva un’ottima opportunità per sviluppare il soggetto in modo originale e cosi mi sono fatta trasportare dalla natura duplice di questa situazione che

poi ha evidentemente caratterizzato il film, dando l’idea di un processo di scomposizione e scambio trasversale delle vite dei personaggi. La macchina da presa sembra continuamente sentire e cum patire con le protagoniste. Come mai ha scelto di raccontare il reale con tanta intima partecipazione? Empatia è il fine ultimo della mia vita e del mio lavoro. Senza empatia non c’è coinvolgimento. Creare un rapporto di partecipazione emozionale sia con il soggetto ripreso che con il pubblico è ciò che mi fa sentire come un tramite necessario, un ponte da cui passano la conoscenza e l’incontro. Normalmente sono molto selettiva e affronto solo tematiche che mi emozionano. In questo caso, cum patire era inevitabile: avevo messo la mia famiglia al centro della storia, e vivevo una situazione emozionale molto complessa, perché al tempo stesso mi interrogavo sulla malattia e la vecchiaia, sul mio ruolo di figlia e nipote, e su come accettare di vivere il dolore. Non so se ho volontariamente scelto di avere un punto di vista così partecipante, ma è vero che mi sono aperta, ho accettato di ricevere tutte le forti emozioni che arrivavano senza cercare troppo di difendermi. Qual è stato il circuito di distribuzione del documentario e, soprattutto, come è stato accolto dal pubblico italiano? Il film è terminato in ottobre e in novembre ha vinto il Med fillm festival di Roma come miglior documentario internazionale. Poi in dicembre ha vinto il festival “Obiettivi sul lavoro” organizzato dall’Arci, grazie al quale è entrato nella distribuzione del circuito dell’Unione dei circoli cinematografici Arci (Ucca), che lo sta portando un po’ in tutta Italia. Partecipa inoltre anche alla rassegna “Doc in tour” che in questi mesi lo sta portando in alcune sale in Emilia Rormagna. Poi, sotto un’accurata veste editoriale edita da Kurumuny e Animamundi edizioni e accompagnato da un opuscolo di approfondimento sulla tematica della migrazione di genere, il documentario esiste ora anche in formato Dvd. Credo il pubblico lo abbia accolto bene, è un film forte ma anche iro-

nico e toccante, ha un linguaggio semplice e capace di arrivare a tutti, e penso che piaccia perché non è un film di denuncia, è una storia con personaggi reali nella loro vita reale, che tocca un tema vicino a tutti e di grande attualità. Crede che il flusso delle badanti in Italia sia solo una conseguenza dell’emancipazione delle effettive badanti del passato, in altre parole mogli, figlie, sorelle, cognate, e del progressivo invecchiamento della popolazione. O sono altri, secondo lei, i veri motivi di questo fenomeno che tanto arrovellamento procura al governo attuale? La ridistribuzione dei ruoli all’interno della famiglia come è avvenuta o sta avvenendo verso la cura dei figli e della casa, può e deve avvenire anche verso la cura degli anziani. Riguardo al lavoro dell’attuale governo, sono piuttosto scettica. Si potrebbe fare di più, a livello previdenziale, per evitare lo sfruttamento del lavoro delle donne straniere e per aiutare le famiglie a vivere questa fase della vita, già difficile, non come un impedimento alla carriera o alla libertà individuale ma come un passaggio che come tanti siamo chiamati ad affrontare. Lo stesso discorso vale per la maternità dopo tutto, trovo incredibile che in un paese cattolico come l’Italia, dove si é sempre pronti a strumentalizzare a livello politico la famiglia, poi siano sempre paesi come la Svezia o la Danimarca, o anche la Francia a doverci insegnare qualcosa; mancano asili e mancano case di cura che non siano prigioni o luoghi d’abbandono. Questo significa che manca attenzione, manca riguardo per la vita vera e reale della gente. È normale che io a trent’anni abbia paura di castrare le mie ambizioni se voglio formare una famiglia, e che viva con terrore l’invecchiamento dei miei genitori e il mio; questo mi rende fragile, come mi rende fragile avere un lavoro precario. Ogni tanto cedo anch’io alle teorie di complotto pensando che probabilmente è quello che vogliono, renderci fragili. Poi per fortuna ridivento ottimista pensando che la mia è una generazione meravigliosa che sta facendo della propria fragilità una forza, ecco, questo forse è un bel tema che presto mi piacerebbe affrontare.


CULTURA/Teatro palascìa 02

Astragali e il sogno di una piccola cosa Roads and desires: viaggio in Palestina testo - Manuela Mastria, teatro Astràgali

La Striscia di Gaza o la Cisgiordania? I territori occupati? Le zone di influenza? Giudea e Samaria? L’Autorità autonoma? Israele? La Palestina?”. Queste parole di Al-Barghuthi, mi giravano in testa prima che tutta la carovana di Astràgali partisse per la Palestina, per il progetto Roads and desires. Dove stiamo andando? Cosa può il nostro lavoro? Amman. 1 aprile. Il sole taglia di traverso il cielo. Meno di un’ora di viaggio per raggiungere il ponte di Allenby, sul Giordano, frontiera tra i territori palestinesi e quelli giordani. Nel percorso, tra distese semidesertiche, pecore, qualche laghetto artificiale per le serre, campeggia un resort, gioiello della speculazione edilizia. Ecco la frontiera israeliana. Ore di fila al sole tra bambini che ridono e piangono, donne col velo, uomini impazienti di passare. Molti rimangono qui, al confine. Tre uomini davanti a noi vengono mandati via. Aspettano loro. Tutti i palestinesi aspettano. Non fanno che aspettare. Aspettare i controlli dei check-point con decine di ragazzi-soldato armati fino ai denti. Mi colpisce una soldatessa, giovane, smalto arancione e un mitra orgogliosamente portato in spalla. Mi colpisce la foto di Nethanyahu che dà il benvenuto in territorio israeliano, bandiere bianche e blu, stella di Davide. Mi colpisce quest’attesa così lunga. Quanto durerà? Valigie aperte e rovesciate. Come si fa a voler tornare? Sei ore di attesa alla frontiera. Poi l’autobus giallo ci porta nel villaggio di Sebastia (in Cisgiordania). Salite e discese, una pietra bianca bianca, un cimitero a cielo aperto pieno di galline, menta e timo selvatico. Colonie israeliane con i tetti rossi che riempiono le colline. Il muezzin che alle 5 del mattino inizia a richiamare alla preghiera. La sua voce riecheggia in ogni dove, scandisce ogni vita, ogni ora. È il momento in cui tutto si ferma. Sebastia. 2 aprile. La primavera esplode in un tempo senza tempo. Gerusalemme è a 55 km da questo piccolo villaggio. Siamo in “zona C”, zona a controllo israeliano, tutto passa da Israele, anche i soldi sono shekel israeliani. Dove siamo? Cosa possiamo noi? Fabio ci parla della necessità di negoziazione: quando

lavoriamo su Persae (lo spettacolo che stiamo portando al Festival di Ramallah), quando lavoriamo ai tre diversi workshop pomeridiani, quando portiamo i nostri canti nei villaggi qui intorno. Qui è tutto così crudele. Le donne del villaggio non si mischiano agli uomini. Le scuole non sono miste, nella moschea ci sono spazi separati. Sembrano, uomo e donna, come due ruote su un asse. Mai che uno si volti verso l’altra. Ma è poi vero? La centralità del femminile nel nostro lavoro è dirompente in questi luoghi. Forse una piccola rivoluzione possibile. 3 aprile. Il sole sulla faccia. La distruzione negli occhi. Fabio chiede il ricordo di un posto perduto. Cosa avete perso? La moneta di Omar nel muro della Spianata delle Moschee ad Al-aqsa, Gerusalemme, Jenin, case perse, abbandonate. Persae come il nostro lavoro che incrocia i Persiani di Eschilo a Quattro ore a Chatila di Genet. Persae che porta su di sé il dato terribile della bellezza della morte, della distruzione. Si può parlare di desiderio dove il conflitto continua da più di sessant’anni? Dove il destino della ghurba, dell’esilio, riguarda tutti, anche chi ha deciso di rimanere, di non partire? Eppure la vita esplode nei volti, il desiderio non è solo desiderio di morte. Sebastia. 6 aprile. Una poiana in volo sovrasta i cieli. C’è una grande luce che filtra nella sala. Lavoriamo, corpo a corpo, insieme. Gli umori di tutti in movimento. Un afrore come di corpo appena sveglio. I nostri odori si confondono a quello lieve della polvere bagnata. È importante questo stare assieme, sudare assieme, toccarci. Maschio e femmina. Non retrocedere. Dove siamo? Cosa possiamo? Fabio dice a Masaa’b che se si creerà anche un solo gruppo di teatro allora avrà avuto un senso partire da così lontano. Come ha avuto senso per Ahmad, attore arabo-palestinese con cui lavoriamo da tempo, che proprio con noi vede per la prima volta la Palestina. La sua pelle tira in un rossore ininterrotto. 10 aprile. Ramallah e Gerusalemme. Le capitali. Omar e Ahmad non ci sono. Non hanno il visto per entrare in Terra ‘santa’. Sono palestinesi. Il muro serpeggia per seicento chilometri, nella sua trista imponenza. È la ‘barriera di sicurezza’ israeliana, il ‘muro della vergogna’ per i palesti-

nesi. Un agglomerato di cemento armato, torrette di guardia, reti elettrificate, filo spinato che penetra in Cisgiordania e a Gerusalemme riscrivendo col sangue le geografie di questi luoghi. I palestinesi hanno carta d’identità diversa, targhe automobilistiche diverse. Una continua umiliazione. Siamo nella parte vecchia di Gerusalemme. Il Muro del pianto. Il Santo Sepolcro, la Spianata delle Moschee e poi metal detector e poi soldati e coloni. Si può vivere un’intera esistenza sotto assedio? Siamo venuti in Palestina. Di questo, forse, possiamo dire. Di Kifeia di nero vestita, dell’uomo che ci porta l’hummus tutte le mattine, di Amr, di Shadi che sogna di cadere, di Anis, di Rajha e i suoi fiori, di Mara, di Khalifa e il tappeto per le preghiere, di Sarah . La mano tesa, la parola negata, un corpo di donna che chiama la ri-nascita. note Il percorso tracciato da Roads and desirestheatre overcomes frontiers in Giordania e Palestina si concluderà tra luglio e agosto a Lecce. In questa occasione Astragali darà vita ad una residenza artistica con una selezione degli artisti internazionali che hanno preso parte alle fasi precedenti e che, dalla Giordania, dalla Francia,da Cipro fino alla Palestina, lavoreranno insieme per la realizzazione dell’allestimento finale dello spettacolo “Lysistrata- primo studio sullí’oscenità del potere”, frutto del lavoro comune e della ricerca svolta in questi mesi.


CULTURA/Visual palascìa 02

La (sottile) linea tra pittura e illustrazione Intervista all’artista Paola Rollo testo - Margherita Macrì

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aola Rollo, classe 1984, pittrice e illustratrice, studia e lavora a Lecce (flickr.com/photos/paolarollo/).

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Dai tuoi lavori si evince una doppia natura di illustratrice e di pittrice. Sono due strade inconciliabili, oppure due facce della stessa medaglia? Sento di essere una pittrice che illustra e un’illustratrice che dipinge. Disegnare è sin dall’infanzia l’attività che ho trovato più naturale per esprimermi. Dal liceo in poi ho soprattutto dipinto. Per diversi anni l’illustrazione per me ha significato solo bozzetti preparatori, appunti per taccuini o gli scarabocchi che si fanno parlando al telefono. Solo negli ultimi due anni, per lavoro, ho iniziato a considerare l’illustrazione per quello che è realmente. Un linguaggio a sé, con codici e tecniche propri, e soprattutto “impieghi”. Potrei dirti quanto illustrazione e pittura siano vicine o inconciliabili ma è una lunga storia. Nel mio caso sono sorelle e si vogliono bene, adesso.

Premesso che è dunque la pittura la tua prima strada, cosa pensi della computer-art e della video-art? Ti interessano in qualche modo? Seguo e apprezzo tutti i linguaggi. Se si ha qualcosa da dire lo si può fare con qualunque mezzo. Mi lascio aperta ogni possibilità di collaborazione o eventuale cambiamento di rotta, poiché oggi i linguaggi si contaminano continuamente e si aprono a infinite possibilità espressive. Come sei approdata all’illustrazione? E dove stai andando? Da un po’ collaboro con un agenzia di comunicazione bolognese. Con loro ho iniziato a lavorare seriamente, realizzando illustrazioni destinate a video e infografiche. Dando un’occhiata ai tuoi quadri si intuisce una certa facilità grafica. È dunque breve il passo per te tra il tuo modo di dipingere e il tuo modo di illustrare? Il passo è brevissimo, forse nemmeno c’è. I miei quadri sono grandi illustrazioni, anche se per un lungo periodo ho censurato gli aspetti più illustrativi dei miei lavori temendo di incappare in una pittura elementare. Solo quando ho smesso di pormi questo inutile vincolo, la mia pittura si è liberata di un peso e ha preso nuove direzioni. Nei tuoi quadri troviamo quasi esclusivamente soggetti femminili, a cosa è dovuta questa scelta? Inizialmente questa scelta aveva il preciso intento, raccontando altre donne, di parlare di me. Oggi non è più importante. Le mie donne sono persone, individui, solo più morbide da rappresentare. È possibile dividere secondo te il tuo lavoro, se non in periodi, almeno in fasi? E se sì, che strada pensi di intraprendere ora? Dipingo da meno di dieci anni ed è quindi difficile parlare di fasi. Ci sono però cose che ho fatto e che oggi non rifarei. Ho messo da parte i personali biografismi per raccontare i vissuti estetici collettivi. Le mie ultime opere pittoriche indagano il kitsch del decorativismo religioso, la

ridondanza esasperata della forma che si svuota, presunto valore di quello che rappresenta. L’horror vacui che si cela dietro il barocco leccese è un’immagine che mi piace tenere presente. Provo così a raccontare con la ridondanza il limite della ridondanza stessa. Osservando “Maria Style”, e più in generale i tuoi ultimi lavori, si ritrova un legame con il barocco della tua città natale. Come si lega l’immaginario dei luoghi dove sei nata e cresciuta alla tua pittura? Questo decorativismo eccessivo come si confronta con lo spettacolo kitsch che sempre più spesso ci offre il mondo contemporaneo? “Raccontare la terra” non è mai stato tra i miei intenti creativi, ma non posso negare di essere stata irrimediabilmente influenzata da Lecce e dal suo barocco, dal Salento delle luminarie e delle feste religiose. Le trovavo profondamente brutte ed ho finito per amarle. Oggi le statue ricoperte dall’oro degli ex voto hanno per me un fascino straordinario, sono quello che voglio e devo raccontare. Sono rappresentazioni che provengono direttamente dal passato, talmente anacronistiche da stridere con i fasti con cui si celebrano. E mi piace l’idea di rifondare esteticamente i segni scomposti di questi riti perché sono straordinariamente pop. Cosa può esserlo di più?


palascìa 02

| Agenda

Eventi / a cura di Cristina Pappadà

Eventi dal mondo L’Esposizione Universale di Shanghai 2010. La fiera, aperta dal 1 maggio fino al 31 ottobre, offrirà ai visitatori la possibilità di esplorare il potenziale delle città nel secolo XXI e di mettere a confronto le numerose esperienze sugli stili di vita che la città offre e propone. La fiera sarà punto di incontro per rappresentati dei governi, utenti ed esperti con l’intento di promuovere uno sviluppo sostenibile tra differenti comunità. La Festa di San Fermín si celebra ogni anno a Pamplona dal 6 al 14 luglio. È una festa famosa in tutto il mondo per le celebri corse con i tori e richiama migliaia di turisti, alcuni dei quali così audaci da avere il coraggio di correre davanti ai tori per la

prima volta. Le tradizionali corse (encierros) cominciarono a essere celebrate a Pamplona durante quella che inizialmente era una fiera commerciale, quando si conducevano i tori da combattimento alla piazza principale, dove si esibiva il torero. In quell’occasione, alcuni giovani correvano davanti ai tori per sentire l’adrenalina del pericolo. Quest’usanza è arrivata fino ai nostri giorni con la sola differenza che il numero degli audaci corridori che sfidano i tori è aumentato notevolmente insieme alle polemiche sulla crudeltà della festa. La festa di San Fermín, la cui origine risale al XIII secolo, si è trasformata in un evento lungo una settimana che richiama turisti e spagnoli in un’atmosfera di euforia e di allegria. Immancabile per San Fermin è il

fazzoletto rosso legato alla gola o in testa. I festeggiamenti durano 24 ore, dalle feste della notte alle corse dei tori alle otto di mattina e tutti sono invitati a partecipare. A Ferrara, dal 20 al 29 agosto 2010, si svolgerà la XXIII edizione del Ferrara Buskers Festival. I protagonisti del Festival sono i buskers, artisti girovaghi che, nella loro attività quotidiana, cercano di regalare un po’di poesia e buonumore a persone spesso distratte e indaffarate. È la più grande manifestazione al mondo dedicata all’arte di strada. Nasce nel 1988 con l’intento di valorizzare la figura del musicista di strada e per far conoscere una città ricca di storia e fascino, obiettivi pienamente raggiunti.

La ricetta / a cura di Cristina Pappadà

PATELLXHANE IMAM BAJALLDI Ricetta albanese segnalata da Egestina Levani Per 4 - 5 persone: Patellxhane 1,5 kg vaj 1 filxhan çaji qepe 1 kg domate 4 - 5 kokrra mesatare uthull 1 filxhan kafeje hudhra 1 kokerr kripe piper 1 flete dafine majdanoz 1 tufe

Per 4-5 persone: 1,5 kg melanzane olio 1 tazza di tè 1 kg di cipolle pomodori maturi nr. 4-5 aceto una tazza di caffè 1 aglio intero sale pepe 1 foglia d’alloro 1 mazzetto di prezzemolo

Per kete gjelle zgjidhen patellxhane ne forme te rregullt, ngjyre vjollce dhe te buta. Ato pastrohen nga bishti, u qerohet lekura ne tri vende, behet nje prerje per se gjati ne vendin ku eshte hequr lekura dhe vihen ne uje me kripe qe tu dale hidherimi ( rreth 20 - 30 min.) Kullohen, shperlahen, shtrydhen dhe skuqen lehte. vendosen ne tave me rradhe duke hapur vendin e mbushjes. Ne yndyren e mbetur kaurdiset qepa e prere ne forme gjysme rrethi. kaurdisja behet ne zjall te ngadalte ne menyre qe qepa te zbutet dhe te mos digjet, hidhen zemrat e patellzhaneve te grira bashke me domatet e qeruara nga cipa dhe te grira holle, kaurdisen se bashku, hidhet pak uje dhe masa lihet e mbuluar me kapak deri sa qepa te zbutet. Pastaj shtohet kripe, piper, flete dafine , thelpinj hudhre, uthull, majdanoz i grire, zihen per 5 minuta, dhe me kete mbushen patellxhanet. Siper u vihet nga nje fete domate dhe futen te piqen ne furre. Ne vend te domateve mund te perdoren dhe domate salce te konservuara. temperatura e furres duhet te jete 200° dhe hiqet nga furra kur marrin ngjyre te kuqerremet.

Per questo tipo di piatto scegliere delle melanzane di forma regolare, color viola e morbide. Eliminare la coda e togliere la pelle in tre parti della melanzana per lungo, facendo un taglio su una delle parti dove è stata rimossa. Eliminare l’interno delle melanzane e successivamente lasciarle a bagno in acqua salata, in modo da togliere l’amaro, per circa 20-30 minuti. Scollarle, lavarle, asciugarle e soffriggerle leggermente, disponendole in fila nella teglia. Soffriggere la cipolla tagliata a mezzaluna nell’olio rimasto, a fuoco lento per ammorbidirla e non bruciarla. Aggiungere il cuore delle melanzane tritate finemente insieme ai pomodori, anch’essi tritati finemente, insieme a un po’d’acqua, coprendo con il coperchio per cuocere a fuoco lento fino a quando il tutto non si è ammorbidito. Quindi aggiungere sale, pepe, alloro, spicchi di aglio, aceto, prezzemolo tritato, e lasciare a bollire per altri 5 minuti. Successivamente, guarnire le melanzane: sopra ogni melanzana mettere una fetta di pomodoro e infornare. Al posto dei pomodori si possono mettere i pelati: il risultato sarà lo stesso. La temperatura del forno consigliata è di 200°: sarà possibile constatare l’avvenuta cottura non appena le melanzane assumeranno un colore sul rosso-marrone.


Agenda/La tana del satiro |

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ERRATA CORRIGE Antonio Ciniero, collaboratore dell’Osservatorio provinciale sull’immigrazione (Opi) della Provincia di Lecce e membro della rete antirazzista salentina, ci segnala alcune imprecisione sul numero1 di Palascìa_l’informazione migrante, che abbiamo verificato e che provvediamo a correggere. Dall’editoriale di Rosa Leo Imperiale, presidente di Métissage, società cooperativa editrice della rivista, si può fraintendere che le immigrazioni in massa siano avvenute nel Salento solo nei primi anni

Novanta, ma come è possibile apprendere dalle indagini svolte proprio dall’Opi, pubblicate poi nel prezioso “Transiti e approdi”(Luigi Perrone-cur- Ed. Franco Angeli, 2007) nel paragrafo intitolato Il Salento e le migrazioni, pagina 49, il fenomeno è divenuto visibile solo nei primi anni Ottanta, con pionieri come il cittadino marocchino Salah, arrivato a Lecce nel 1967. A pagina 17, nella sezione delle interviste del dossier Sulla stessa barca, storie e numeri da una repubblica affondata sul lavoro del direttore della rivista Andrea

Aufieri, è possibile leggere un’intervista all’attuale portavoce della comunità rom del campo sosta “Panareo”, Benfik Toska, cui viene imputato l’arrivo a Lecce a metà degli anni Ottanta, il che sancirebbe l’appartenenza alla famiglia Makovic, la prima a stabilirsi a Lecce (usiamo il corsivo per via dei continui spostamenti imposti ai rom in questa città). Contattato per dei chiarimenti, il diretto interessato smentisce l’origine montenegrina, sottolineando quella kosovara e soprattutto chiarisce di essere arrivato a Lecce nel 1991.


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