METHODO #4

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METHODO4 Anno 1 Numero 4 novrembre-dicembre 2014 Prezzo di copertina 10 â‚Ź



Proprietà OTTOLOBI editoria e comunicazione Via A.Caretta, 3 20131 - Milano t/f 02.36798297 www.ottolobi.it P.IVA 03559000983 N.REA: MI-2021527

Foto di copertina ©Ottolobi

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Design Industriale a cura di G.Alito Metodi di sviluppo prodotto a cura di N.Lippi Metodi di produzione a cura di A.Viola L’intervista a cura di C.Ravaioli

Sommario

novembre-dicembre 2014

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Ecodesign e sostenibilità a cura di Collettivo NUUP®, sustainable creativity

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LCA a cura di M.Granchi e R.Bozzo

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Un libro in 10 minuti (management) a cura di P.Pirone

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Qualità del servizio a cura di M.Galgano

Project management a cura di A.Fischetti

56

Software a cura di S.Di Pietro

Il futuro è oggi! intervista a Massimo Temporelli

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Gli autori di METHODO

Creatività a cura di D.Donati

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Le nostre Rubriche:

Pubblicità t/f 02.36798297 info@ottolobi.it


editoriale

METHODO

DIAMO UNA MANO ALLE IDEE O DIAMO UN’IDEA ALLE MANI?

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Siamo arrivati al quarto numero di METHODO, le rubriche proseguono nel loro percorso, le interviste si susseguono, impariamo a mettere insieme le idee, a dar loro una forma, un design, a curarne la qualità e a generarne l’anima, il software. METHODO si sta evolvendo, e presto diventerà un vero e proprio laboratorio virtuale, un HUB dove problemi e progetti convergeranno per trovare competenze e soluzioni. Ho già parlato nei precedenti numeri del mondo dei Makers e dei Fablab. Nei primi giorni di settembre si è tenuta a Roma la Maker Faire, l’evento dedicato al mondo dei cosiddetti “artigiani digitali”. Potevo mancare? No di certo, ero veramente curioso di vedere cosa ci fosse di concreto e di vero dietro ai tanti post virtuali di questo o quell’altro Fablab. Ho portato mio figlio, ho pensato che sarebbe stato divertente anche per lui, e lo è stato; lo è stato sia per la presenza di un intero padiglione per bambini, ma anche perchè tutta la manifestazione trasudava robots, macchine pazze tra cui un meraviglioso sparaelastici automatico e una serie di altre diavolerie. Nella sostanza questa Maker Faire mi è sembrata un’incredibile riunione di “nerds”, intenti a trovare qualsiasi scusa per mettere in pratica le loro capacità di animare ogni cosa con attuatori, sensori e schede Arduino. Il punto è proprio questo, là fuori (per chi vive in azienda) c’è un mondo di creativi, smanettoni, appassionati che non aspettano altro che trovare uno scopo, un tema su cui cimentarsi, non uno sparaelastici, un problema vero, un tema aziendale, un prodotto da migliorare, qualcosa che li costringa a cimentarsi con quella che — per ora e non so ancora per quanto — è l’economia prevalente, quella guidata dalle imprese tradizionali, con prodotti, modalità di sviluppo e canali di vendita abituali. La vera prima rivoluzione è questa, il prossimo passo sarà consentire alla nuova marea di inventori di accedere alla vera complessità, aprire loro le porte delle aziende, creare banalmente dei contest, sottoporre delle idee a chi, anche gratuitamente, è disposto a far vedere quanto vale e cosa è capace di fare: dare idee alle mani! Il punto di svolta non è certo, almeno per ora, la stampa 3d — ferma


Nicola Lippi

METHODO

alle tecnologie già consolidate 10 anni fa — ma all’incredibile facilità con cui oggi è possibile digitalizzare qualsiasi cosa, programmare, mettere insieme l’elettronica, dare vita agli oggetti e farli dialogare tra loro. La robotica sembra farla da padrona, il riassunto è proprio questo. Una robotica, che a dire il vero, è ancora sterile, almeno fino a quando le aziende non si accorgeranno di quante persone competenti ma soprattutto appassionate e motivate sono disponibili sul mercato. Ora staremo a vedere, mi auguro di trovare alla prossima Maker Faire le aziende vere, o almeno alcuni dei loro nuovi prodotti trasformati nelle mani di quella che vedo come unica e vera “open innovation”. METHODO, statene pur certi, in tutto questo sarà presente e darà il suo contributo. Buona lettura.

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a cura di Giuseppe Alito

Rubrica Design Industriale

LUSSO

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Prima di addentrarci nuovamente nel nostro labirintico percorso, vorrei invitare coloro che avranno la pazienza di leggere questa rubrica a fare un esperimento. Tenete nota di tutte quelle aziende che si apprestano al fallimento (oggi purtroppo basta aprire un qualsiasi quotidiano per trovarne a decine) e fate una piccola ricerca su google rispetto a quanto le stesse dichiaravano non molti mesi prima circa le azioni che avrebbero posto in essere nei confronti dei mercati. Non sempre, ma molto spesso, troverete di che essere perplessi. Basta dotarsi di pazienza e di memoria per scoprire quante (tante) imprese (evito di citarle per rispetto nei confronti dei dipendenti) in questo ultimo anno sono passate da atteggiamenti di belligeranza nei confronti del mercato (magari dopo aver fatto delle acquisizioni) al concordato preventivo. Il tutto nell’arco di una manciata di mesi! Di cosa credete si tratti? Di crisi strutturale? Di mancanza di linee di credito? Certamente no, questi ultimi sono effetti non cause. Queste aziende hanno cominciato il loro percorso maldestro prima che la crisi si presentasse così come oggi la conosciamo. Si tratta, invece, di defocalizzazione. Si tratta di “capitani d’impresa” incapaci di percepire il limite oltre il quale la propria azienda semplicemente non esiste. Essere focalizzati significa conoscere fino in fondo il proprio interlocutore perché è il solo che consente l’esistenza stessa dell’impresa. Questo non significa necessariamente che le aziende devono fare solo quello che vogliono i propri consumatori, ma assecondare l’evoluzione comportamentale

PUBBLICO E LUS con minime “forzature” che poi altro non sono che quell’elemento di valore aggiunto, di cui spesso parliamo, che rende distintivo un marchio rispetto a un altro. Percorrendo a ritroso il ragionamento vi accorgerete di quanto si sia ridotto il numero di “strade possibili” da intraprendere per impostare la nostra strategia di prodotto e andando avanti il loro numero sarà ancora inferiore. Ecco, questo è il compito della propedeutica. Risolvere quello che a mio avviso è oggi il problema più grande quando si scrive un modello di business. Ovvero un’apparente infinità di vie possibili dove spesso la scelta viene determinata dalle aspirazioni personali (dell’imprenditore) più che dalla lucida consapevolezza dei propri limiti in termini d’impresa. Abbiamo parlato di forma del mercato e della disposizione delle varie fasce di consumo all’interno di esso. Anche se molto superficialmente abbiamo, inoltre, definito le dinamiche che stanno alla base della scelta da parte dei diversi consumatori. Un altro tassello, che vorrei aggiungere oggi, riguarda una tendenza molto diffusa ma spesso non altrettanto evidente, quella che io chiamo “lo shopping dei surrogati”. Adesso più che in passato sarebbe interessante capire quanto sappiamo (noi consumatori tutti) di non comprare (sempre più spesso) né oggetti e nemmeno cose, ma solo surrogati a tutti i livelli di mercato e fasce di prezzo. Lo facciamo, ad esempio, quando acquistiamo un’utilitaria che è tale nella sostanza ma che nella forma ci riporta al mito di una grande auto sportiva. In questo


SSO PRIVATO

caso, al di là della necessità funzionale più che per un’idea, abbiamo scelto per una idealizzazione che è certamente cosa falsa ma risolutiva in termini di motivazione all’acquisto. Ciò vale per tutte le categorie merceologiche. Perché questo avviene non è un mistero. La rapida evoluzione tecnologica (di processi e prodotti) tende ad appiattire l’offerta, in termini di distintività, molto rapidamente non consentendo alle aziende di ammortare gli ingenti investimenti. Venendo, quindi, a mancare la leva della componente oggettiva (funzione) come elemento di valore aggiunto discriminate rispetto ai competitors, si cerca di oggettivare la componente soggettiva (forma) dandole una funzione, quella cioè evocativa

e in molti casi molto poco romantica. Mi viene da pensare, ad esempio, alla nuova Ford Fiesta, avete mai sentito parlare di Aston Martin? Ma poi ci sarebbe Colmar qualcosa a che vedere con Moncler? E la lotta senza fine tra Apple e Samsung? E Zara vs Balmain? Si potrebbe continuare all’infinito. Attenzione però, non stiamo parlando di repliche, ma di lecite quanto, a mio avviso, poco etiche scelte di tipo estetico. La cosa, come potete notare dagli esempi non riguarda solo le piccole imprese che copiano le grandi, anzi spesso avviene l’esatto contrario.

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Vorrei citare un recente e interessante articolo del giornalista Alessandro Casiccia sul Domenicale de IlSole24Ore.

“Beni comuni e beni non comuni”. È interessante il modo in cui nell’ultimo tratto del secolo Ventesimo le scienze sociali hanno affrontato il problema, più che classico, dei consumi opulenti e interrogarsi sul senso di oggettiva utilità e di soggettiva gratificazione che a quel possesso si accompagna. Il questio riguarda la domanda e l’offerta di due ordini di beni: i beni “relazionali” e i beni “posizionali”. I primi consistono nei vantaggi derivanti da relazioni di comunità, reciprocità e amicizia, fiducia e cooperazione. I secondi invece mediano rapporti di differenza, come avviene con gli oggetti di lusso. Oggetti che sono desiderati non tanto per l’utilità del loro uso quanto perché permettono, a chi li possiede, di occupare un determinato posto nella scala sociale. Gli studi sulla materia rilevano, nella società globalizzata, un maggiore mercato di beni posizionali. E ciò potrebbe indicare un progressivo inaridirsi e svalutarsi di tanti rapporti non ancora mercificati ma destinati (al pari dei beni pubblici, come l’acqua) a essere sostituiti da altre cose per nulla gratuite, nel trionfo inarrestabile del mercato. La stessa analisi tuttavia può suscitare anche qualche perplessità. Innanzitutto perché, pur intendendo applicarsi anche alla società degli anni duemila, impiega concetti che parrebbero più adatti all’era dei consumi di massa: tale è, ad esempio, il concetto di scala sociale, che — come avviene qualora si assimili il piccolo lusso del “capo firmato” all’ultra lusso delle automobili di prestigio — implica un’ineguaglianza caratterizzata da stratificazione: quindi da un certo grado di continuità e mobilità e piuttosto che da certe rigide barriere che oggi parrebbero nuovamente riproporsi. Un’altra perplessità potrebbe sorgere se volessimo notare che, nel sottolineare l’assenza di ogni reale godibilità e felicità nel possesso dei beni posizionali, sembra esprimersi una forma di whishful thinking. E comunque, un suggerimento indirettamente confortante o almeno consolatorio a chi pur non potendo raggiungere l’oggetto prestigioso, potrebbe appagarsi fruendo di ciò che per il momento

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ancora resta, nella vita sociale, di non mercificato e non monetizzato. È intorno a questi punti che si delinea il fascino ma anche l’ambivalenza delle teorie dei beni comuni: quali alternative, sia al possesso privato, sia all’esclusivo dominio dello Stato. La tematica dei beni posizionali riporta l’attenzione su quelle correnti di pensiero che hanno tentato di mettere in discussione il modello a partire già dalla sua origine stessa. Alcune critiche hanno in parte ripreso certe note indagini storiche e antropologiche che ponevano in relazione le società antiche con quelle primitive; o che sottolineavano la particolarità storica della società di mercato, quale noi la conosciamo. Altre hanno confutato le basi “utilitaristiche” di una dinamica economica centrata sul mercato concorrenziale e sullo sviluppo senza limite. Tale modalità di sviluppo è stata ritenuta la causa, non la soluzione, dei problemi più gravi che oggi abbiamo di fronte: la povertà, l’ineguaglianza, l’esaurimento delle risorse naturali. Partendo dall’impossibilità di una crescita infinita in un pianeta finito, Serge Latouche ha sostenuto la necessità di una svolta complessiva. La sua teoria della “decrescita” ha riscosso condanne e consensi, ottenendo comunque una certa fortuna sia tra i critici del consumismo sia tra gli ambientalisti. Ma se l’atteggiamento dei secondi trova ogni giorno preoccupanti conferme a ogni livello, quello dei primi rischia spesso di confondersi con un certo disprezzo estetico di élites colte e privilegiate nei confronti di ciò che hanno rappresentato i consumi di massa. Indipendentemente da quanto si è finora discusso, è impossibile ignorare in quanti casi e in quante forme il possesso degli oggetti costituisca una fonte di appagamento. Una discussione su questo tema coinvolge non solo psicologi ed economisti ma anche filosofi. Comunque (occorre ammetterlo) non è una “mitica” felicità che nella dinamica dei beni posizionali si persegue. E in essa neppure ha rilevanza il contenuto del possesso: conta piuttosto l’ordine sia temporale che spaziale del suo raggiungimento. È vero peraltro che tale dinamica non conduce ad alcun momento durevole di soddisfazione. Chi pone l’accento sul fatto che l’utilità di colui che ha


ottenuto il bene posizionale aumenta se l’altro con cui è a confronto non lo possiede, parla di gioco “a somma zero”: uno vince e guadagna tutto se l’altro è del tutto sconfitto. Chi invece sottolinea l’incessante competizione tra le parti (siano esse 2 oppure n), ne deduce un esito “subottimale” per tutti i giocatori.

Quello che Alessandro Casiccia chiama “bene relazionale” io lo definisco lusso privato, mentre il “bene posizionale” lusso pubblico. Essi rappresentano due mondi del consumo che si trovano agli antipodi. Nel primo caso parliamo di beni che prima di tutto hanno una utilità che soddisfa prevalentemente la sfera privata la cui funzione, a mio avviso, è la soddisfazione di una necessità intima, celebrale, quasi egoistica quindi non ostentativa. Nel secondo caso, invece, si tratta di beni che hanno come funzione la rappresentatività quindi sono nostri ma per “gli altri” una sorta di investimento pubblicitario della persona. Servono a collocarci (agli occhi degli altri) in un “olimpo” al quale però vogliamo arrivare percorrendo una scorciatoia e poco importa se rischiamo di esagerare e di ricevere un giudizio sovradimensionato. Ma perché ciò avviene, che cosa fa scattare la “scintilla” nella testa del consumatore che

genera quel booster che per un momento azzera la consapevolezza del proprio status reale? Una possibile risposta la fornisce Federico Stoppa in un tratto di un suo recente articolo dal titolo “Per una liberazione del lavoro” “[…] l’apparente insaziabilità dei bisogni non fisiologici (quindi bene relazionale o lusso pubblico). I consumi vistosi e lo stile di vita dei più ricchi mettono in moto un meccanismo di emulazione da parte della classe media e bassa, disposta a lavorare di più e anche ad indebitarsi pur di possedere i cosiddetti beni di status. Ciò traspare anche dagli ultimi dati Istat: anche nel bel mezzo di una spaventosa crisi come questa, gli italiani rinunciano alle cure o risparmiano sul cibo, ma non all’ultima versione di cellulare o ai prodotti di bellezza (vedi Legrenzi, Frugalità, Il Mulino, 2014)”. Trattandosi di un fenomeno tutto sommato recente, non esistono studi statistici che ci possano indicare dove si collocano gli uni e gli altri. Tuttavia risulta evidente la correlazione dei primi con i consumatori della base della piramide del mercato che scelgono l’over design, dei quali abbiamo parlato nella scorsa puntata, e dei secondi con i consumatori del vertice che si orientano su scelte più minimaliste. E fin qui tutto parrebbe assumere una logica seppur contorta eccetto il fatto che i beni posizionali di cui parliamo non sono comunque alla portata di chiunque e allora ci viene incontro il mercato, affamato come non mai di fatturato, offrendoci su un piatto di (finto) argento dei surrogati di beni posizionali che più o meno velatamente dichiarano il loro scopo. Ci offre in poche parole degli oggetti che non potranno mai diventare “cose”.

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a cura di Nicola Lippi

Rubrica Metodi di Sviluppo Prodotto

DESCRIVERE ED ELABORARE

ANALIZZANDO LE INTERFACCE

Negli articoli precedenti abbiamo ragionato su come condurre il progetto dai requisiti all’architettura, seguendo i passi che conducono attraverso la progettazione concettuale. Siamo arrivati a definire i criteri per scomporre e ricomporre il progetto definendone i candidati a divenire “moduli base”. Prima di passare alla progettazione vera e propria rimane un compito da svolgere: la definizione e descrizione delle interfacce, comprendere come queste abbiano un’influenza decisiva, l’ultima parola nella definizione di moduli e piattaforme. Di tutto questo tema ci occuperemo nel presente articolo. Modularizzare un prodotto nella maggior parte dei casi significa intervenire sulla sua architettura, un’adeguata analisi di quest’ultima è quindi fondamentale al fine di individuare vincoli e opportunità. Nella realtà si possono presentare diverse situazioni riassumibili in: 1. Prodotto già esistente, con funzionalità e prestazioni da mantenere 2. Prodotto nuovo, evoluzione di un prodotto esistente 3. Prodotto completamente nuovo Se siamo arrivati a questo punto dello sviluppo, quindi, dobbiamo immaginare di avere sviluppato diversi concept di architettura e di avere già scelto, secondo i criteri precedentemente descritti, quella definitiva. Vedremo quindi ora come rappresentare e descrivere un’architettura

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esistente affinandone il progetto dei moduli. Lo scopo di quest’analisi deve essere quello d’identificare vincoli e ulteriori opportunità. Le tecniche che andremo a descrivere si sono sviluppate nel tempo per cercare di descrivere sistemi che negli anni si sono evoluti diventando sempre più complessi, in particolare a causa dello sviluppo dell’elettronica. Gli strumenti che vedremo saranno sostanzialmente delle matrici che, a differenza dei modelli a blocchi, consentono di descrivere situazioni complesse senza complicare la rappresentazione grafica, specie in presenza di numerose relazioni e quindi funzioni tra le parti di un sistema. Ricordo che per descrivere un’architettura è necessario individuare gli elementi del sistema, le loro funzioni e relazioni, in pratica chi fa che cosa e verso chi. È necessario utilizzare uno strumento che consenta di analizzare sistemi composti da decine di parti diverse, la DSM, è lo strumento giusto.

DSM – DESIGN STRUCTURE MATRIX Lo strumento più semplice ma efficace per descrivere un’architettura è la DSM, ovvero “design structure matrix”. Il percorso di analisi si compone generalmente di 3 fasi: 1. Scomposizione del sistema in parti 2. Identificazione delle interazioni tra gli elementi 3. Raggruppamento (“clustering”) in moduli delle parti e dei componenti


I SISTEMI In pratica si imposta una matrice quadrata (e spesso simmetrica) dove in verticale e in orizzontale vengono riportati i componenti al livello di dettaglio di analisi che si è deciso d’intraprendere. In figura 1 è riportato l’esempio di un frigorifero dove semplicemente le x rappresentano le relazioni, cioè le parti che hanno una relazione funzionale (scambiano forze, informazioni, energia etc.)

Figura 1

L’aspetto interessante di questo tipo d’analisi è che ci consente di evidenziare la presenza di relazioni “prevalenti” e quindi d’individuare opportunità di ulteriore aggregazione e di creazione di cluster logici, in pratica di moduli. Nella figura 2 vediamo come porta e struttura rappresentino una “base” su cui tutti gli altri elementi poggiano (si relazionano)

e come vi siano degli aggregati importanti come filtro+valvola+serbatoio acqua; in pratica vi sono motivi di pensare, vista la forte interazione tra questi 3 elementi, che si possano integrare in un unico modulo. Figura 2

Spesso queste relazioni non emergono alla prima analisi, i sistemi, come abbiamo già scritto, possono essere molto complessi e con molte parti. Esistono tecniche di “clustering” — in pratica algoritmi matematici – che consentono di individuare “automaticamente” i raggruppamenti logici di parti che si relazionano maggiormente, creando le condizioni per individuare nuovi moduli o di unirne alcuni tra loro. Oltre a indicare l’esistenza di una relazione posso esprimerne la forza (del legame), o con i

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i colori (vedi figura 3) o numericamente.

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Questa tecnica (non descrivibile in un articolo, ma sono disponibili macro di excel anche gratuite che consentono di “clusterizzare”) è davvero utile a mettere ordine in prodotti complessi, quando un’analisi umana non riesce a cogliere la sostanza di tante relazioni. La DSM è anche un potentissimo strumento di project management, utile quando si vogliono evidenziare i possibili “loop”, ovvero le condizioni in cui il fallimento di un’attività a valle costringe a ripeterne una a monte, ad esempio una fase di progetto si conclude solo dopo aver passato con successo un test di validazione, se il test fallisce, il progetto è da rivedere. Le moderne tecniche di rappresentazione (Diagramma di Gantt, tecniche reticolari) non sono in grado di rappresentare queste relazioni, la DSM lo è, e se imponiamo una clusterizzazione, ci vengono proposte soluzioni diverse in fatto di logica, tipicamente aggregazioni di attività che per il loro legame reciproco debbono essere poste in una Figura 4 sequenza temporale molto

Figura 3

“stretta”. Un altro utilizzo della DSM è per individuare raggruppamenti organizzativi ad esempio all’interno di un progetto; se anziché pensare alle parti, vediamo nelle connessioni la necessità dei diversi team di sviluppo di dialogare e di scambiarsi informazioni, la clusterizzazione ci può portare a una riorganizzazione dei team del progetto stesso. Ritorniamo però sulla nostra architettura di progetto. Prendiamo ora ad esempio la figura 4, è rappresentato uno schema funzionale di un gruppo di condizionamento azionato da un motore a combustione interna.


Le relazioni che intervengono all’interno di questo motore sono descrivibili con una DSM tipo quella riportata in figura 5. Si può osservare come la struttura delle relazioni sia “caotica” e apparentemente senza logica. A seguito di clusterizzazione nella figura a fianco (lo vediamo dalle lettere corrispondenti ai sottoassiemi non più in ordine alfabetico) si nota la presenza di 4 moduli potenziali, “control and connection” che si relaziona con tutti gli altri (potrebbe essere una sorta di “piattaforma” comune), il “front end air” e ancora “air conditioning” e “interior air”. Quindi, in un qualsiasi sistema è possibile trovare una struttura logica migliore, e soprattutto capire se esistono dei potenziali moduli nei quali integrare diversi componenti tra loro fortemente interconnessi. Figura 5

La design structure matrix può assumere diverse configurazioni, tra queste alcune (3) sono “tipiche”. In figura 6 troviamo diverse rappresentazioni per architettura: “bus”, totalmente integrale o totalmente modulare. Lo schema dovrebbe chiarire bene, anche a chi fino a ora non lo aveva

compreso, come leggere le informazioni contenute nella matrice.

Figura 6

Uno sviluppo nell’utilizzo della DSM che aiuta ad approfondire l’analisi del nostro sistema è quello d’indicare nelle caselle, oltre alla presenza di una relazione, anche l’impatto di un’eventuale modifica di un componente su un altro, cioè oltre a dichiarare un contatto si dichiara anche la

forza dell’interdipendenza. In figura 7 è rappresentato un piccolo sistema di refrigerazione e distribuzione dell’acqua potabile da ufficio. Questo sistema (ne prendiamo una porzione per semplificare) è rappresentabile attraverso il suo disegno, lo schema funzionale e, come

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vediamo, anche da una DSM, dove questa volta sono state aggiunte le informazioni che si scambiano le diverse parti.

Figura 8

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Come si può notare, è possibile calcolare 2 valori caratteristici detti CI (Coupling Index). Il primo CI-S (Coupling Index - Supplying) rappresenta l’influenza di un componente sul resto del sistema. Il secondo CI-R(Coupling Index - Receiving) fornisce un’indicazione sulla dipendenza del componente da modifiche apportate ad altre parti del sistema. Un alto valore di CS-S indica che il componente fornisce molte informazioni al resto della struttura. Se il componente viene modificato ci sono elevate possibilità di dover modificarne altri. Un alto valore di CI-R indica un’elevata probabilità che il componente subisca una modifica a causa

Figura 7

di variazioni al resto della struttura. La somma dei 2 valori totali ci fornisce il Coupling Index totale per il prodotto. I valori dei suddetti indici sono identificati mediante una scala di valori come quella riportata in figura 8. Il terzo indice che a questo punto è necessario introdurre è il “Generational Variety Index (GVI)” che altro non è che il valore che abbiamo ricavato dalla “MIM”, la matrice per la valutazione dei candidati moduli che abbiamo introdotto nell’articolo precedente. Ci fornisce l’importanza dei vari componenti del prodotto in relazione alle funzioni che svolgono e alla probabilità che questi ultimi vengano modificati nel tempo e quindi che necessitino di rimanere distaccati dagli altri. Nella figura 9 è riportato un semplice calcolo dell’indice GVI


Figura 9

basato sulla matrice di selezione dei moduli. Alcune scuole di pensiero fanno risalire l’indice GVI ai risultati del QFD, del quality function deployment, in questo articolo, per semplicità, si è deciso di non esplorare questo secondo modo di calcolo del GVI. Riassumendo, GVI & CI indicano l’impatto dei cambiamenti sui vari componenti, combinare questi con i costi di sviluppo aiuta a focalizzarsi maggiormente su quali ambiti concentrare gli sforzi per realizzare una piattaforma comune di prodotto. In particolare è possibile fornire un’interpretazione per alcuni casi tipici: Completamente standardizzato (si osservano GVI e CI-R) Il componente non cambierà nel futuro (GVI e CI-R sono prossimi a zero). Parzialmente standardizzato (si osservano GVI e CI-R) Ci si aspettano cambiamenti minimi in

futuro (GVI e CI-R sono sufficientemente piccoli in relazione ad altri componenti). Modularizzato (si osserva CI-S) Completamente modulare: geometria, energia, materiale o segnali del componente possono essere modificati per soddisfare i requisiti di mercato senza modificare altri componenti (CI-S del componente è zero o molto basso). Parzialmente modulare (si osserva CI-S) Geometria, energia, materiale o segnali del componente possono richiedere cambiamenti in altri componenti, più alto è CI-S maggiori sono i cambiamenti attesi e quindi il componente va considerato meno modulare. Volendo commentare i risultati dell’analisi sul nostro refrigeratore di acqua potabile, se immaginiamo di avere assegnato i valori di GVI sulla base della loro probabilità di subire modifiche nel tempo (vedi figura

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Figura 10

9) possiamo ottenere un grafico come quello in figura 10, dove osserviamo che il raffreddatore ha un elevato valore di GVI (quindi più probabilità di essere modificato per motivi funzionali), elevati valore di CI-R (subisce le eventuali modifiche altrui) e – ce lo dice l’indice CI-S – impone modifiche agli altri quando esso è costretto a cambiare (indice GVI). Il raffreddatore è quindi un componente che richiederà una riprogettazione per cercare di renderlo meno interconnesso con il resto del sistema. Il dissipatore invece, avendo bassi valori di GVI e di CI-R, anche se impattato da modifiche future (a causa di un CI-S non proprio basso), non causerà danni al resto del sistema. Per terminare possiamo riassumere nei seguenti passi la logica per l’analisi e

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definizione della nuova architettura: • Step 1: creare la DSM • Step 2: calcolare i valori GVI (con la MIM) e i coefficienti CI • Step 3: riordinare e clusterizzare la matrice • Step 4: verificare dove concentrare gli sforzi di progettazione (ad esempio dove standardizzare e dove modularizzare) Dopo quest’attenta analisi, il progetto può finalmente proseguire con la progettazione di dettaglio mediante altri tools che andremo a descrivere prossimamente.


Le aziende che credono nella Qualità e ne ricordano il valore strategico per lo sviluppo del nostro Paese

26ª CAMPAGNA NAZIONALE QUALITÀ E INNOVAZIONE promossa dal Gruppo Galgano

in ambito 20ª Settimana Europea della Qualità 10 - 16 novembre 2014

Conferita la

MEDAGLIA DI RAPPRESENTANZA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Patrocinio dei Ministeri: Sviluppo Economico, Difesa, Pubblica Amministrazione e Semplificazione

AGRO-FARMACEUTICO

ABOCA

ALIMENTARE | AGRO-ALIMENTARE

CONSORZIO TUTELA GRANA PADANO LAVAZZA MARENCO VINI Viticoltori in Strevi PERFETTI VAN MELLE PODERE ARGO Agriturismo Biologico SCAVOLINI SITLAND VENETA CUCINE

NOVARTIS VACCINES ROQUETTE ITALIA SANDOZ SANOFI SIAD SOL GROUP gas tecnici, medicinali e homecare UNIVAR ZAMBON ZOBELE GROUP

ASSICURAZIONI

COMMERCIO | GRANDE DISTRIBUZIONE

ARREDAMENTO

EUROP ASSISTANCE ITALIA GLOBAL ASSICURAZIONI GRUPPO ASSIMOCO

BIANCHI CUSCINETTI METRO ITALIA CASH AND CARRY NSK ITALIA

ASSOCIAZIONI | FONDAZIONI

AICA ASSOCIAZIONE ITALIANA PER L’INFORMATICA ED IL CALCOLO AUTOMATICO AVIS COMUNALE DI MILANO CONFARTIGIANATO IMPRESE VARESE CONFINDUSTRIA UMBRIA FONDAZIONE ENASARCO FONDAZIONE MEDIOLANUM ONLUS FONDAZIONE PROGETTO ARCA ONLUS FONDAZIONE SVILUPPO COMPETENZE AUTO

BMW ITALIA MOCAUTO GROUP BANCHE

BANCA MEDIOLANUM CASSA DI RISPARMIO DI ASTI FEDERLUS GRUPPO CREDITO VALTELLINESE ICCREA BANCAIMPRESA ING BANK N.V. SUCCURSALE DI MILANO RCI BANQUE SUCCURSALE ITALIANA VENETO BANCA BENI DI LARGO CONSUMO

ARTSANA GROUP FATER

CAMERE DI COMMERCIO

CAMERA DI COMMERCIO DI ANCONA CAMERA DI COMMERCIO DI TREVISO CARTA

IPI ASEPTIC PACKAGING SYSTEMS TECNOCARTA CHIMICO | FARMACEUTICO | COSMESI

A.MENARINI ABBVIE ALPA ANGELINI ASTELLAS PHARMA BASF the chemical company BECTON DICKINSON BIOFUTURA PHARMA BRISTOL MYERS SQUIBB CIP4 CLARIANT FINE FOODS & PHARMACEUTICALS GRUPPO BOERO KEDRION BIOPHARMA L’ERBOLARIO LODI NOVARTIS FARMA

COMPONENTI AUTO

APOLLO COOPERATIVA VOLOENTIERI DELPHI AUTOMOTIVE SYSTEMS DELPHI CONNECTION SYSTEMS MAGNETI MARELLI – Powertrain MECCANOTECNICA UMBRA TIBERINA WEBASTO EDITORIA

ABRUZZO MAGAZINE AGENDA DEL GIORNALISTA BUSINESSCOMMUNITY.IT DEA EDIZIONI RIVISTA ECO DM&C MAGAZINE ECCELLERE BUSINESS COMMUNITY EDIFORUM: Daily Media, Daily Net, Mediaforum, Netforum GUERINI E ASSOCIATI GUERINI NEXT GRUPPO MAGGIOLI HARVARD BUSINESS REVIEW ITALIA L’AMBIENTE GIRSA MAGAZINE QUALITA’ MARIO MODICA EDITORE: Spot andWeb MEDIA KEY METHODO MONDOLIBERO PROMOTION MAGAZINE PUBLITEC: Costruire Stampi, Deformazione, InMotion, Soluzioni di Assemblaggio&Meccatronica, Applicazioni Laser, NewsMec, Elemento Tubo RIVISTA IL PERITO INDUSTRIALE TECNA EDITRICE: L&M Leadership & Management, ICT Security TVN MEDIA GROUP: Pubblicità Italia, Pubblicità Italia Today, AdV Strategie di Comunicazione V+ idee e strumenti per vendere di più e meglio ELETTRODOMESTICI

BERTAZZONI BITRON INDUSTRIE ELETTROTECNICA ROLD FABER

Convegni organizzati con il Patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri

“Costruire il futuro attraverso l’Innovazione. Esperienze e metodologie per accelerare la crescita”

Venaria Reale (TO), 26 / 11, in collaborazione con MAGNETI MARELLI

“Il valore etico della Qualità, un fattore chiave per lo sviluppo culturale, sociale ed economico del nostro Paese” Milano, 26 / 11 | Vicenza, 3 / 12, in collaborazione con ZAMBON | Roma, (in programma a dicembre)

INDESIT COMPANY TVS ELETTROMECCANICO | MAT. ELETTRICO

ABB - ABB SACE Division ANSALDO ENERGIA BTICINO WEIDMÜLLER

ELETTRONICO | ELETTROTECNICO

CELLULARLINE VISHAY SEMICONDUCTOR ITALIANA ENTI DI CERTIFICAZIONE

CERTIQUALITY SGS ITALIA

ENTI CULTURALI E DI FORMAZIONE

I.I.S. ISTITUTO PACIOLI CENTODIECI - MEDIOLANUM CORPORATE UNIVERSITY ENTI PUBBLICI

AVEPA AZIENDA SANITARIA TO 3 PIEMONETE COMUNE DI SEGRATE COMUNE SESTO FIORENTINO - Servizio Educativo COMUNE DI SETTIMO MILANESE CONSIGLIO REGIONALE DEL VENETO CONSORZIO ZAI INTERPORTO QUADRANTE EUROPA ENAC ENTE NAZIONALE PER L’AVIAZIONE CIVILE

GEA PROCOMAC GRUPPO ATURIA IGV GROUP I.M.M. HYDRAULICS INGERSOLL RAND AIR INNSE CILINDRI LOMBARDINI METAL WORK componenti per automazione pneumatica MONDIAL MOTOVARIO MUSTAD tecnologia delle viti NARDI ROBUR SCM GROUP tecnologie per il legno SLIMPA TOSTI VANESSA ZUCCHETTI RUBINETTERIA METALLURGICO

FIAMM LAMINAZIONE SOTTILE GROUP PETROLIFERO | ENERGETICO

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FOTO| CINE-OTTICA E COMPONENTI

ACEA ETRA GELSIA – energia elettrica e gas GRUPPO HERA

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ASTALDI COOP.COSTRUZIONI

IMPIANTISTICA | INGEGNERIA | PROGETTAZIONE

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Rubrica Metodi di Produzione

a cura di Alberto Viola

LEAN PRODUCTION E GRANDI UN BINOMIO Abbiamo visto nell’ultimo numero di METHODO che il modello lean production prevede una “cassetta degli attrezzi” che ci mette a disposizione una serie di metodologie e strumenti il cui unico obiettivo è quello di ridurre gli sprechi presenti nel processo produttivo. In questo numero parleremo della “Total Productive Maintenance” (TPM) e del “Single Digit Minute Exchange of Dies” (SMED), tecniche messe a punto per aggredire e ridurre i problemi di affidabilità e flessibilità che si incontrano quando nel processo produttivo sono presenti impianti o macchine di elevata complessità. Ѐ ancora diffusa la convinzione che in contesti prevalentemente “capital intensive” il modello lean production non sia applicabile. Questa convinzione è in parte giustificata, visto che è innegabile che applicare il modello lean in presenza di grandi impianti e macchinari è sicuramente più complicato, ma non è sicuramente vera: basti pensare che il modello “lean” si è sviluppato originariamente nel settore dell’auto, dove di macchinari e impianti se ne trovano in abbondanza, soprattutto se andiamo a monte nel processo produttivo (lastrature, saldature, verniciature). Il punto chiave è che la presenza di macchine e impianti nel processo produttivo crea delle problematiche in termini di affidabilità e flessibilità che si riscontrano in minor

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misura in un processo ad alto contenuto di manodopera (settori “labour intensive”): ciò non significa che queste problematiche (che possiamo già chiamare sprechi) non possano essere almeno in parte risolte. La TPM — e lo SMED, che può essere considerata una tecnica interna allo stesso approccio — nasce proprio con questa finalità: l’obiettivo della TPM è intervenire sulle macchine e impianti del processo produttivo per aumentarne l’affidabilità e la flessibilità. Come per tutti gli altri strumenti del modello “lean”, questo obiettivo si ottiene intervenendo sugli sprechi, che nel caso delle macchine vengono declinati in quelle che in letteratura vengono chiamate le “6 grandi perdite”, qui di seguito riportate: •

guasti e set-up, 2 perdite che vanno a costituire il tempo di fermo dell’impianto, cioè lo spreco di tempo durante il quale le macchine non producono perché sono ferme; funzionamento a vuoto/microfermate e riduzioni di velocità, che rappresentano le perdite di velocità (perdite di processo, in termini di spreco), durante le quali, pur funzionando, le macchine non performano come si vorrebbe; scarti/rilavorazioni e perdite in avvio, durante le quali le macchine, pur producendo secondo gli standard di velocità stabiliti, producono scarti e/o pezzi che occorre rilavorare in quanto difettosi (spreco di prodotti difettosi).


I IMPIANTI: O INCONCILIABILE? Le 6 grandi perdite “sottraggono” alla macchina tempo utile per fare ciò che ci si aspetta da lei quando è disponibile: produrre pezzi buoni (metri, kg, etc.) nei tempi standard previsti. Sommando il tempo relativo alle 6 grandi perdite e sottraendolo al tempo totale disponibile si ottiene ciò che viene denominato il “tempo operativo a valore”, ovverossia il tempo durante il quale la macchine produce pezzi buoni secondo i tempi standard di produzione. Il rapporto tra il tempo operativo a valore e il tempo totale disponibile (detto anche tempo di apertura impianto) è chiamato O.E.E. – “Overall Equipment Effectiveness” (“efficienza complessiva dell’impianto”). Questo indicatore complessivo dell’efficienza di un impianto può essere stratificato in 3 componenti principali:

la disponibilità dell’impianto (D), data dal rapporto tra il tempo operativo (detto anche tempo di funzionamento) e il tempo totale disponibile; la performance dell’impianto (P), data dal rapporto tra tempo operativo netto (pari al tempo operativo – le perdite di velocità) e il tempo di funzionamento; la qualità (Q), che si ottiene rapportando i pezzi buoni ai pezzi totali prodotti, ivi inclusi pezzi scarto e pezzi difettosi da rilavorare. Un altro modo per calcolare la qualità è quello di rapportare il tempo operativo a valore (tempo ciclo standard * pezzi buoni) al tempo operativo netto (tempo ciclo standard * pezzi totali lavorati).

Noti D, P e Q, l’Overall Equipment Effectiveness è dato dal loro prodotto:

O.E.E. = D x P x Q

Fig.1 - L’O.E.E. – “Overall Equipment Effectiveness”

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Il calcolo corretto dell’O.E.E. di una macchina ha in sé alcune complessità che però non possono e non devono giustificare il fatto di non conoscerlo: la componente più difficile da monitorare è quella relativa alla Performance (spesso non è possibile registrare, neanche con automatismi, le microfermate), che però può essere calcolata indirettamente utilizzando la formula sopra riportata (O.E.E. = D x P x Q), una volta calcolati l’O.E.E. complessivo (pari al rapporto tra il tempo operativo a valore e il tempo totale disponibile), la Disponibilità (facilmente ottenibile registrando i fermi per guasto e setup in un determinato orizzonte temporale) e la Qualità (ottenibile quantificando il tempo speso per produrre pezzi scarto e difettosi). “Non puoi gestire ciò che non misuri” (W.E. Deming).¹

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del processo produttivo. Niente di più sbagliato! Forse è semplicemente più facile attribuire le colpe alle macchine invece che chiedersi come migliorarle! Spesso dai manager vengono dette frasi del tipo “purtroppo le macchine che abbiamo sono vecchie e poco flessibili”: ma se si chiede a quegli stessi manager “per quanto tempo la macchina è ferma per guasto in una settimana?” o “quanto dura mediamente il setup di questo impianto?” le risposte sono evasive e nella migliore delle ipotesi imprecise. Perché nel calcolare l’efficienza della manodopera si arriva in alcuni casi a considerare i centesimi di minuto mentre quando si parla di macchine tutto è ineluttabile a tal punto che neanche si conosce a grandi linee il valore dell’O.E.E.?

Voglio subito sottolineare che questa trattazione di dettaglio del significato dell’O.E.E. è tutt’altro che figlia di un’eccessiva leziosità o precisione. Purtroppo ho potuto riscontrare che in moltissime aziende non solo non sono note le 3 componenti dell’inefficienza delle macchine (e quindi le 6 grandi perdite), ma addirittura spesso non è noto neanche il dato dell’O.E.E. aggregato o molto spesso non è calcolato in modo corretto.

Parlando di paradigmi irragionevoli da abbattere (che, con curiosa coincidenza, i giapponesi chiamano muri), vedremo, trattando la tecnica SMED, che un altro retaggio culturale da abbattere è quello per il quale si ritiene che i tempi di setup di una macchina siano immodificabili.

Personalmente ritengo che dietro questa scarsa attenzione ci sia un retaggio culturale per il quale molti “manager” vedono le macchine come un “totem” intoccabile, con prestazioni immodificabili che spesso rendono impossibile qualsiasi miglioramento

Con l’approccio Total Productive Maintenance (TPM) si vuole ridurre al minimo le 6 grandi perdite (sprechi) delle macchine, massimizzando l’efficienza complessiva (cioè l’O.E.E.) al fine di aumentare l’affidabilità e la flessibilità

Perché la TPM è necessaria

1 William Edwards Deming, nato il 14 ottobre 1900, è stato un docente, saggista e consulente statunitense. A Deming fu ampiamente riconosciuto il merito per gli studi sul miglioramento della produzione negli Stati Uniti d’America durante la Seconda guerra mondiale, anche se egli è forse più noto per il suo lavoro in Giappone, dove ha messo a punto il ciclo di problem solving (PDCA, Ciclo di Deming) e ha contribuito a diffondere la cultura del miglioramento continuo (Kaizen).


dell’intero processo produttivo. In termini “lean” ciò significa rendere possibile il flusso produttivo, avvicinandosi il più possibile ai 3 principi operativi del modello (produzione al Takt Time, OnePiece-Flow e Pull System). La produzione al Takt Time è infatti tanto più possibile quanto più le macchine non si fermano per guasti (o, nel caso, quanto più sono brevi le interruzioni per guasti). Con macchine particolarmente complesse talvolta il one-piece-flow non è possibile ma, ricordando che è un principio, si può sicuramente almeno puntare a ridurre drasticamente i lotti di produzione (e avvicinarsi al principio) riducendo i tempi di setup. Il Supermarket² di materiali da cui attingere secondo il principio del Pull System funziona se il materiale prodotto dalla macchina e ivi stoccato è qualitativamente buono. La letteratura sul TPM è vastissima e molto dettagliate sono le modalità attraverso le quali è possibile introdurre questo approccio in azienda: oggi ci limiteremo a sottolineare i principi fondamentali di questo approccio, che ruotano intorno al concetto di: • •

manutenzione autonoma delle macchine da parte degli operatori; manutenzione preventiva delle macchine da parte della funzione manutenzione.

Entrambi questi principi puntano a rendere possibile il flusso produttivo perché alta è l’affidabilità delle macchine. Altra caratteristica imprescindibile dell’approccio

TPM è che la massima efficienza degli impianti si ottiene attraverso la responsabilizzazione e partecipazione di tutto il personale degli enti che, a diverso titolo, interagiscono con la macchina durante il suo intero ciclo di vita (progettazione, produzione, manutenzione, qualità, acquisti, programmazione, etc.). Fig. 2- Diversi tipi e filosofie di manutenzione

Con la manutenzione autonoma si rende improbabile il guasto grazie al costante presidio degli operatori, gli unici in grado — se non altro perché sempre presenti — di intercettare malfunzionamenti della macchina e segnali deboli che possono portare a un guasto. Con la manutenzione preventiva si definiscono dei programmi finalizzati a intervenire sulle macchine prima che si possa presentare un guasto attraverso, ad esempio, la sostituzione preventiva di componenti della macchina soggetti a usura o controlli periodici di parti sensibili. Il confine tra manutenzione autonoma manutenzione preventiva è sempre meno

2 Il Supermarket è il magazzino dove il reparto a valle preleva quello che gli serve e il reparto a monte rimpiazza il materiale prelevato secondo quanto indicato dai cartellini kanban, per maggiori dettagli vedere la seconda uscita di METHODO.

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manutenzione preventiva è sempre meno netto: la tendenza, non solo negli ultimi anni, è quella di spostare sempre più verso l’operatore la gestione delle macchine, formandolo e coinvolgendolo fin dal momento della loro installazione demandando alla manutenzione i soli interventi periodici e strutturali di ripristino di parti della macchina. Nella progettazione degli impianti industriali si fa sempre più avanti il concetto di manutenibilità dell’impianto da parte dell’operatore, eliminando con determinazione tutto ciò che è inutile o che rende complessa la macchina. Mettere insieme manutenzione autonoma e preventiva e aggiungere il concetto di miglioramento continuo esteso a tutto il ciclo

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di vita delle macchine con la partecipazione di tutti gli attori coinvolti significa implementare l’approccio TPM in un contesto lean. Ridurre i tempi di setup delle macchine per aumentare la flessibilità del processo produttivo L’altro grande tema da affrontare in contesti produttivi con presenza di grandi macchine/ impianti è quello relativo alla flessibilità che questi impianti devono avere per consentire un processo produttivo “lean” e, più precisamente, con lotti produttivi sempre più piccoli e tendenti al principio del “one-pieceflow”. Fig. 3 - Alcune differenze tra l’approccio TPM tradizionale e il TPM in un contesto lean


Tradizionalmente il tema dei setup viene affrontato seguendo la logica del “lotto economico”: secondo questa logica la quantità da produrre per ogni lotto (pezzi/ lotto) è quella che minimizza la somma dei costi di setup e i costi per lo stoccaggio dei lotti prodotti (CTot). Analiticamente, il lotto economico viene calcolato nel modo riportato in figura 4. Fig.4 - Il calcolo del lotto economico

Ciò che c’è di concettualmente sbagliato nel calcolo del lotto economico è che in questa formula il costo del setup (M) è considerato una costante, mentre in logica “lean production”, essendo il setup delle macchine uno spreco, deve essere considerato una variabile. Anzi, il costo (e quindi il tempo) di setup è la variabile su cui intervenire: solo dopo aver ridotto il più possibile i tempi di setup allora ha senso calcolare il lotto economico (Q) che, come si vede dalla formula, si riduce tanto più si riduce il costo (M). SMED è l’acronimo di “Single Digit Minute Exchange of Dies” e si pone come obiettivo quello d’intervenire sistematicamente sui

tempi di setup per ridurli a meno di 10 minuti (da cui “Single Digit”). È una tecnica introdotta in Toyota Motors già negli anni ’60 da Shigeo Shingo³ il cui segreto risiede nel considerare il tempo di setup delle macchine come una variabile da gestire e non come una costante che non è possibile modificare. Nella tecnica SMED, il tempo di setup di una macchina viene analizzato con il massimo dettaglio per individuare, all’interno delle attività che devono essere svolte, tutti gli sprechi che è possibile eliminare: durante l’analisi si distinguono in particolare le attività che devono essere necessariamente effettuate a macchina spenta (cioè mentre “produce” spreco), da quelle che possono essere fatte anche mentre la macchina è in lavorazione (cioè, mentre crea valore). Separare queste due tipologie di attività, facendo in modo che tutto ciò che deve essere fatto a macchina ferma (detto IED: Inside Exchange of Dies) venga fatto in un’unica fase e che tutto ciò che può essere fatto a macchina in funzione (detto OED: Outside Exchange of Dies) venga fatto prima di aver spento la macchina o dopo averla riaccesa, consente in molte situazioni riduzioni del fermo macchina anche del 50%. Dal punto di vista metodologico, la tecnica SMED prevede 4 passi da effettuare in sequenza: 1. analizzare con il massimo dettaglio la situazione di partenza, osservando sul campo lo svolgersi della sequenza di attività necessarie; 2. separare nettamente le attività

3 Nato nel 1909, Shigeo Shingo è approdato in Toyota Motors dopo diverse esperienze maturate in diversi settori industriali. Oltre alla tecnica SMED, a lui possono essere attribuite altre innovazioni nell’ambito dell’ingegneria industriale, come il Poka Yoke, e ha contribuito alla messa a punto del “Toyota Production System”.

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che devono essere eseguite necessariamente con macchina ferma (IED) da quelle eseguibili anche con la macchina in funzione (OED); 3. convertire quante più possibili attività da interne a esterne, posizionando tutte quelle esterne prima o dopo il fermo macchina; 4. migliorare continuamente le attività di setup, dando priorità a quelle attività interne, elaborando la sequenza ottimale che riduce il fermo macchina.

L’obiettivo finale della tecnica SMED è arrivare a definire il ciclo ottimale di attività che, in quanto ciclo, sia ripetibile in tutte le situazioni e da chiunque debba eseguire le attività e — in quanto ottimale — sia il più possibile esente da sprechi.

Un esempio sicuramente noto ai più di applicazione estrema della tecnica SMED, è quello del Pit-Stop in formula uno, dove è evidente l’importanza della minimizzazione del fermo macchina.

Tre suggerimenti

Tre spunti di riflessione

Per individuare in quali fasi del processo produttivo ci sono macchine e impianti poco affidabili e flessibili, osserva dove più grandi sono i magazzini inter-operazionali (work in process), sia a valle che a monte degli stessi impianti.

All’interno dello stabilimento sono monitorate le efficienze degli impianti (almeno di quelli critici)? Sono note per questi impianti le cause di perdita di efficienza? Quando sono state lanciate le ultime iniziative di manutenzione autonoma e preventiva nella tua azienda?

Lancia sempre iniziative TPM mirate a poche macchine alla volta e per quelle che rappresentano dei colli di bottiglia del processo: diversamente i risultati ottenuti non si tradurranno in reali benefici per il flusso produttivo.

Nella tua azienda quanto vengono coinvolti gli operatori nella gestione e nel miglioramento degli impianti produttivi?

Per l’analisi dei tempi di setup fai uso di telecamere per registrare come vengono realizzate le attività: l’analisi iniziale, per essere efficace, deve essere molto dettagliata ed è fondamentale rivedere più volte la sequenza delle operazioni per individuare tutti gli sprechi e separare le attività interne da quelle esterne.

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Fig. 5 - L’evoluzione dei tempi di setup andando ad applicare la tecnica SMED

Esistono in azienda dei cicli di setup, con il dettaglio delle operazioni che è necessario eseguire e con indicazione dei tempi necessari per eseguirle? Quando è stato calcolato l’ultima volta il lotto economico degli impianti critici? Quando è stato fatto l’ultimo intervento sui tempi di setup per ridurli?


a cura di Corrado Ravaioli

ATTEGGIAMENTO

Paolo Casadei, CEO di ZAL Telecomunicazioni, è un vulcano di iniziative imprenditoriali. Terminati gli studi, ha avviato la prima società con alcuni compagni di facoltà e l’ultima avventura risale a pochi mesi fa, con il lancio di un sito di aste al rialzo on line per viaggi di lusso. La sfida più importante è quella lanciata al mercato della telefonia. Da due anni infatti ZAL Telecomunicazioni, fondata insieme a Giacomo Stella, offre servizi di telefonia fissa e connettività in concorrenza ai grandi operatori. Quali sono le tappe fondamentali del suo percorso professionale e formativo? Io sono cesenate, e lo dico con orgoglio perché Cesena è una bellissima città ed è ricca di oppurtunità. Sono un marito fortunato e padre di tre figli piccoli per cui il tempo libero lo dedico a loro, oltre agli amici più stretti. Amo il mare e la montagna, e da sempre sono appassionato di tecnologia e musica. Mi sono laureato a Bologna in Economia e Commercio con una tesi dedicata all’implementazione del business plan di un’impresa di servizi alle aziende. Un progetto che poi si è tradotto in realtà, nel senso che la mia prima vera esperienza lavorativa — realizzata insieme a campagni di facoltà e alcuni senior — è

Rubrica Intervista

QUANDO IL METODO È UN

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stata proprio all’interno di una società di consulenza aziendale che si occupava di accompagnamento al credito. Tra le altre esperienze formative, nel 2000 ho frequentato alcuni corsi alla San Diego State University. Nel frattempo sono diventato anche direttore di un’associazione che si chiama Compagnia delle Opere, ruolo che ho mantenuto fino al 2008. Questa realtà mi ha permesso di entrare in contatto con molti imprenditori e di costruire una serie di avventure imprenditoriali. In particolare con Giacomo Stella, mio socio storico, abbiamo lanciato alcune iniziative nel campo delle energie rinnovabili, come produttori di energia, e nel settore della consulenza finanziaria con Parte.fin, la società di riferimento per Compagnia delle Opere in Emilia-Romagna nei servizi di assistenza al credito. Due anni fa è nata ZAL Telecomunicazioni e recentemente Bid to trip, sito di aste online al rialzo dedicate ai viaggi di lusso. Come nasce l’idea di sfidare i colossi della telecomunicazione? Quello della telecomunicazione è un settore molto interessante anche se competitivo. Avevamo già avviato alcune iniziative su questo mercato ma la vera svolta è arrivata grazie alla partneriship con Digitel Italia. Insieme a questa realtà, che ha sede a Firenze, abbiamo deciso di lavorare su un nuovo modello di business, che si chiama ULL per i piccoli operatori. L’acronimo sta per “Unbundling Local Loop” ed è un sistema che offre ai piccoli la possibilità di giocare con i grandi operatori nel campo della telefonia fissa e connettività. Abbiamo fatto un investimento significativo di partenza, sul territorio forlivese, installando la nostra tecnologia (hardware e software) presso le quattro centrali principali di

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Telecom. C’è una rete di nostra proprietà in fibra ottica collegata alla rete esistente che noi poi gestiamo in autonomia fino all’ultimo miglio. In questo modo possiamo seguire il cliente, dalla “signora Maria” fino alla grande azienda, dalla A alla Z, controllando tutti i processi. Questo risultato è già una grande innovazione. Qual è il valore aggiunto del servizio che avete creato? Prima di tutto la non invasività, il cliente può aderire alle nostre offerte senza apportare modifiche all’interno della sede. Poi i prezzi, assolutamente concorrenziali. Un ulteriore aspetto innovativo è la vicinanza al cliente. Infatti, avere un operatore che sta sul territorio e ci mette la faccia, rispondendo sempre in prima persona, rappresenta una risposta alle esigenze del cliente.


arrivate abbiamo scommesso su ZAL, perché si ricorda e fa sorridere. Dal punto di vista della strategia noi non potevamo investire ingenti risorse nella pubblicità tradizionale. Puntiamo sui singoli clienti, con il passaparola, i social network e le campagne di fidelity.

Qual è, secondo lei, l’importanza delle risorse umane del lavoro di squadra? Se non avessi incontrato lungo il cammino il mio attuale direttore commerciale e il responsabile accounting, oltre che i nostri partner della Digitel Italia non saremmo cresciuti fino a questo punto. Noi a Forlì siamo molto concentrati sulla costruzione del brand, sulla parte commerciale e la value proposition mentre alla Digitel si occupano dello sviluppo tecnico. Le risorse umane sono fondamentali. Parliamo di questo brand, ZAL. Abbiamo da subito pensato d’investire molto sulla creazione di un marchio. La proposta del nome, che richiama il dialetto, viene dall’Inghilterra, precisamente dalla Thomas Mass & Company, agenzia di comunicazione che annovera fra i suoi clienti il British Museum e l’industria di altoparlanti Bowers & Wilkins. Tra le varie proposte che ci sono

Domanda di rito: quanto conta e cosa rappresenta il metodo per lei? Il metodo è fondamentale. La realtà è arrivata a livelli di complessità tali per cui senza metodo non si va da nesuna parte. Nel nostro settore se non sei aggiornato continuamente su tutto ciò che accade — e questo non significa solo andare alle fiere specializzate — rischi di rimanere tagliato fuori. Quindi il metodo consiste anche nell’aggiornamento continuo e nel benchmarking con le aziende di riferimento. Occore essere sempre aperti ai cambiamenti di mercato. In questo senso il metodo è un atteggiamento più che uno schema da applicare. Se tu sei aperto verso le novità, a ciò che ti accade intorno e alle persone che ti circondano, hai la chiave per affrontare la tua attività lasciandoti sollecitare e quindi facendo le domande giuste. Ovviamente serve tutto, dagli studi all’aggiornamento continuo, ma l’apertura mentale è la base. Prima di salutarci vorrei che lanciasse una provocazione a chi ci legge. Sappiamo benissimo che viviamo una situazione difficile, ma dobbiamo smettere di continuare a pensare che siano gli altri che devono cambiare il contesto in cui viviamo. Il cambiamento è insito nell’individuo. La mia esperienza mi dice che se le persone hanno un desiderio di cambiare si trovano e agiscono, insieme. Per poterlo fare, però, è necessario avere questo tipo di mentalità.

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Rubrica Project management

a cura di Alberto Fischetti

L’ATTEGGIAMENTO VERSO IL L Nella nostra lunga esperienza di lavoro maturata in grandi aziende, in cui abbiamo avuto anche la notevole responsabilità dello sviluppo dei nostri collaboratori, ci siamo spesso posti alcuni interrogativi: • •

Come viene vissuto il lavoro? Perché spesso viene assunto, nello svolgimento dei propri compiti, un atteggiamento passivo e privo di stimoli per la creatività? Perché interesse e motivazione verso ciò che si fa sono elementi fortemente trainanti in attività al di fuori dell’ambiente di lavoro e invece sono inesistenti quando si deve lavorare?

Noi non accettiamo questa visione pessimistica (anche se qualcuno diceva che il pessimista è “un ottimista con esperienza”!) Non vogliamo certamente neppure sostenere il tragicamente ironico motto “Arbeit macht frei” che sovrastava l’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz, anche se Viktor E. Frankl, psicologo fondatore della logoterapia che fu deportato ad Auschwitz, nel libro “Man’s search for meaning” ci dice che nella drammatica esperienza dei campi di sterminio aveva maggiori possibilità di sopravvivenza chi riusciva a porsi degli obiettivi anziché subire passivamente il proprio destino.

Cercheremo di fare qualche considerazione sugli atteggiamenti delle persone di fronte al lavoro e di fornire qualche possibile risposta a questi interrogativi. LA PERCEZIONE DEL LAVORO

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Il modo certamente peggiore possibile di vedere il lavoro è quello che deriva dalla narrazione biblica: il libro della Genesi dell’Antico Testamento ci riferisce che il lavoro è una punizione inflitta all’uomo da Dio (alla donna fu riservato il castigo dei dolori del parto) a seguito del peccato originale. Da questa terribile decisione divina nasce quindi la visione del lavoro come male necessario per procurare soddisfazione ai propri bisogni primari o, nel caso più fortunato, per procurarsi i mezzi necessari a svolgere le attività che più piacciono.

Nella nostra esperienza di lavoro nelle aziende abbiamo incontrato una casistica estremamente ampia di atteggiamenti verso il lavoro: da persone che letteralmente vivevano per esso a persone che subivano il lavoro come un’inevitabile malattia a loro disgraziatamente capitata. Di fronte alla vastità di questo panorama ci siamo quindi posti spesso la domanda di cosa stimoli gli individui situati al primo


LAVORO E LA CREATIVITÀ estremo e che cosa influisca negativamente sugli individui posti all’estremo opposto. Molte teorie, che noi sostanzialmente condividiamo, affermano che tutte le persone nascono con un uguale potenziale intellettuale, e che sono dei fattori d’interferenza a far sì che la performance degli individui stessi sia diversa da caso a caso. Myles Downey nel suo libro “Effective coaching” ha indicato tale fatto nell’equazione:

dalla motivazione. Più alta è la motivazione più la retta competenza/performance è inclinata verso l’alto.

performance = potenziale – interferenza Riteniamo quindi che sia necessario esaminare quali possano essere gli elementi di interferenza che impediscono che il potenziale si trasformi integralmente o in massima parte in performance nel lavoro. Poiché abbiamo iniziato con l’equazione di Myles Downey, facciamo ricorso a un’altra equazione, sperando di non essere accusati di approccio divulgativo di bassa lega a causa di questo ricorso alla matematica: performance = (atteggiamenti + conoscenze + skill) x motivazione Da quest’ultima equazione deduciamo che la performance cresce linearmente con quella che chiamiamo “competenza” (l’insieme di atteggiamenti, conoscenze tecniche e skill, ossia capacità “trasversali” o “comportamentali” quali la comunicazione, la relazionalità interpersonale e altre) secondo una retta il cui coefficiente angolare è dato

L’argomento della motivazione richiederebbe da solo una serie di ponderosi trattati. Ci limitiamo a dire che per avere sul lavoro un atteggiamento positivo che ci permetta di applicare a esso il patrimonio delle nostre caratteristiche di creatività e intelligenza, dobbiamo anzitutto riuscire a essere motivati, dato che la motivazione è quell’elemento interiore che ci spinge a fare le cose. Se le organizzazioni tenessero presenti i concetti fin qui sommariamente enunciati, dovrebbero creare i presupposti per far sì che ogni collaboratore trovasse un terreno fertile per far crescere la propria motivazione al lavoro e realizzare in esso il proprio potenziale intellettuale. Un brillante e divertentissimo consulente e autore di importanti libri di management,

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Franco D’Egidio, durante un suo corso di formazione, affrontando il tema degli atteggiamenti sul lavoro, fece un parallelo fra la situazione dell’operaio giapponese e dell’operaio italiano, tale Cacciapuoti, giustificando la mancanza di motivazione di quest’ultimo quando si reca al lavoro come influenza di una serie di fattori esterni negativi. Basterebbe pensare al semplice spostamento casa-azienda nei due casi. L’operaio giapponese la mattina prende il treno “bullet train” o, in giapponese, shinkansen, che con puntualità inverosimile (pochi secondi di ritardo all’anno, per i quali l’amministrazione ferroviaria ha chiesto scusa pubblicamente agli utenti!) lo porta a una velocità media di 300 km/h a destinazione. L’operaio italiano Cacciapuoti invece si reca in stazione sperando che il treno arrivi: il treno, gremito e sporco, quando non ci sono scioperi o guasti che ne causano la soppressione, arriva a orario imprevedibile e percorre la tratta di 30 km in circa un’ora. Se a questo si aggiungono molti altri elementi fra i quali stipendi fra i più bassi del mondo industrializzato, trattenute astronomiche, ambiente di lavoro senza rispetto per l’individuo, cattivo management, sindacati che proteggono sempre i “fannulloni”, risulta veramente arduo pretendere da questo operaio un atteggiamento costruttivo e partecipativo, la creatività e l’impegno.

umane devono tenere ben presente: è loro la responsabilità di creare e mantenere un ambiente favorevole all’impegno e alla creatività.

Quindi, pur non essendo possibile motivare le persone data la caratteristica intrinseca della motivazione, l’ambiente esterno in cui le persone si trovano a lavorare può favorire la motivazione all’impegno sul lavoro od ostacolarla.

Sulla motivazione esistono molte teorie, fra cui spicca la nota teoria dei bisogni di Abraham Harold Maslow. Essa dice che i bisogni umani costituiscono una piramide composta da vari strati. Al primo strato si pongono i bisogni primari quali il cibo, l’acqua, il calore. I bisogni dello strato successivo, relativi alla sicurezza, non nascono fino a che non siano stati soddisfatti i bisogni primari, e così via.

Quest’ultimo è un concetto a nostro avviso fondamentale che tutti coloro che hanno la responsabilità della gestione di risorse

Alcune aziende hanno fatto proprio questo “credo”. In Toyota, nell’ultima decade, sono state formulate dai dipendenti più di un milione di idee, con una media di 13 idee per lavoratore all’anno in Toyota Giappone. In Milliken USA, industria tessile e chimica, sono nate 110 idee per lavoratore all’anno. Esiste una differenza sostanziale di risultati fra le aziende che considerano i collaboratori come una “commodity”, ossia come una risorsa spendibile e sostituibile facilmente, e quelle che invece considerano la loro forza lavoro come un capitale d’investimento. Il creare l’ambiente favorevole è però una condizione come diremmo in matematica “necessaria ma non sufficiente”, perché occorre comunque un atteggiamento favorevole da parte degli individui che operano in tale ambiente. L’essere umano è mosso dalla motivazione, ed è costantemente alla ricerca di qualcos’altro quando ha ottenuto qualcosa.


Motivazione AUTOREALIZZAZIONE

Realizzazione Di se stessi

STIMA

Prestigio, rispetto, riconoscimento

visti come un “dato di fatto” e non come un obiettivo da raggiungere (e mantenere).

È necessario dunque che le organizzazioni creino degli obiettivi individuali da raggiungere allineati con gli Appartenenza, amore, SOCIALI obiettivi delle organizzazioni accettazione stesse, in modo da mantenere viva la tensione della motivazione. Soddisfazione SICUREZZA Protezione, certezza, tranquillità Peter Senge nel libro “The fifth discipline” parla di tensione PRIMARI Salute, riposo, fame, sete creativa quale condizione per lo sviluppo della creatività. Egli raffigura la tensione creativa come la forza di un elastico teso fra la realtà Quando un bisogno è automaticamente attuale di un individuo e la visione di un soddisfatto, cessa la relativa motivazione. obiettivo da raggiungere. Ad esempio, abbiamo tutti bisogno dell’aria per poter respirare e quindi portare avanti i processi fisiologici vitali. Quando però la disponibilità di aria è garantita, come Visione nella vita normale, essa non costituisce più un fattore motivazionale, dato che tale disponibilità è data per scontata. In alcuni casi però, come quando stiamo per annegare, la disponibilità di aria diviene un fattore motivazionale, e improvvisamente Tensione creativa applichiamo al raggiungimento di tale disponibilità tutte le nostre forze. Al vertice della piramide Maslow colloca, secondo noi giustamente, l’autostima e l’autorealizzazione. Il fattore chiave è quello di associare dunque il lavoro all’autostima. In alcune organizzazioni il management non riesce a spiegarsi perché, nonostante l’ambiente di lavoro sia ottimo, la retribuzione soddisfacente, i “benefits” interessanti, i dipendenti mostrino apatia e scarso impegno. Il problema nasce proprio dal meccanismo motivazionale, e cioè dal fatto che tutti gli elementi sopra citati sono

Realtà attuale

La forza esercitata dall’elastico della tensione creativa è quella che può spingere gli individui verso la realizzazione di una visione. Ci sono due possibilità di risolvere tale tensione: o ci si sforza di modificare la realtà per renderla più vicina alla visione

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o si sposta la visione fino a renderla il più possibile simile alla realtà.

management Douglas McGregor sviluppò la famosa “Teoria X e Teoria Y”.

Quest’ultimo atteggiamento è quello dei rinunciatari, delle persone che non si pongono obiettivi di miglioramento, che non desiderano apportare cambiamenti migliorativi al loro modo di vivere e di lavorare. Il primo atteggiamento è invece quello che porta alla ricerca dei cambiamenti e dei miglioramenti.

La Teoria X dice che:

Peter Senge riporta anche la metafora dell’individuo che si trova in mezzo a due tensioni. La prima è la tensione creativa che lo spinge verso la visione. La seconda è generata da un elastico teso fra l’individuo e la convinzione di non avere alcun potere di cambiamento della propria situazione o la sensazione che non valga la pena sforzarsi di raggiungere la visione.

• •

• • •

gli esseri umani intrinsecamente odiano il lavoro e proveranno a evitarlo se possono; poiché le persone odiano il lavoro, devono essere costrette o controllate dalla supervisione e minacciate per lavorare abbastanza; gli impiegati medi desiderano essere diretti; la gente non gradisce le responsabilità; gli esseri umani medi desiderano la sicurezza del lavoro.

La Teoria X quindi richiede una supervisione autoritaria. Secondo la teoria X è impossibile richiedere ai lavoratori impegno e creatività. La Teoria Y invece dice che: •

• Spetta quindi ai responsabili delle organizzazioni riuscire a reindirizzare verso il lavoro nei collaboratori quelle energie mentali che essi spesso profondono in attività extra-lavorative quali il calcetto, la costruzione di aeromodelli, il suonare la chitarra in un gruppo rock o la fotografia.

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Attorno al tema dell’atteggiamento delle persone di fronte al lavoro, lo studioso di

• • •

la gente vede il lavoro come una cosa naturale quanto il gioco e il riposo. Gli esseri umani spendono la stessa quantità di sforzo fisico e mentale nel lavoro quanto ne spendono nella loro vita privata; se la gente è motivata, si potrà autogestire per il raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione. Il controllo e la punizione non sono i meccanismi che motivano le persone; la soddisfazione professionale è la chiave per fare impegnare gli impiegati e assicurarsi la loro dedizione; la gente impara ad accettare e ricercare le responsabilità; la gente è immaginativa e creativa. L’inventiva viene usata per risolvere i problemi di lavoro.


La teoria Y quindi richiede una supervisione partecipativa e di sostegno.

‘Teoria X’

management

Stile autoritario, repressivo, stretto controllo, nessuno sviluppo. Produce una cultura limitata e depressa.

staff

‘Teoria

preparando per i clienti note di credito per errate spedizioni, si rende conto che la maggior parte degli errori di spedizione del magazzino Y’ spedizioni prodotti finiti si verifica nell’ultima ora di lavoro. Che tipo di atteggiamento può avere tale contabile?

staff

Controllo, realizzazione e miglioramento continuo ottenuto agevolando, dando responsabilità e delegando. Produce liberazione e sviluppo

management

GLI STADI DI COINVOLGIMENTO DEL PERSONALE In un’organizzazione vincente ogni persona si deve sentire coinvolta nel processo di miglioramento continuo. La ricerca continua del miglioramento non deve essere riservata a pochi manager o ai vertici aziendali, ma dovrebbe fare parte della normale “forma mentis” di ogni membro dell’organizzazione, a qualsiasi livello della gerarchia organizzativa. Il personale, posto di fronte ai problemi quotidiani, vive in modo diverso il proprio ruolo. Esempio. Un addetto alla contabilità clienti,

1. Stadio dell’indifferenza: “i processi di miglioramento non mi competono, riguardano solo i capi. Io lavoro in contabilità e non devo certamente occuparmi dei problemi dei magazzinieri!”. 2. Stadio della segnalazione: “c’è un problema nelle spedizioni, penso sia mio dovere segnalarlo al mio capo perché decida un’azione migliorativa”. 3. Stadio dell’attivazione: “il problema è dell’azienda e quindi anche mio, devo intervenire o dare dei suggerimenti”.

Le aziende di successo sono composte da un buon numero di collaboratori che si trovano negli stadi della segnalazione e dell’attivazione. Un esempio di stadio della segnalazione è quello riportato da Alan G. Robinson e Sam Stern. Alla American Airlines (di questi tempi si parla molto di compagnie di trasporto aereo!) un assistente di volo, raccogliendo i vassoi che avevano contenuto i pasti dei passeggeri, notò che la maggior parte dei passeggeri non mangiava le olive contenute nell’insalata. L’osservazione fu segnalata al management, fu condotto uno studio che evidenziò che il 72% dei passeggeri non mangiava le olive nell’insalata. Le olive furono quindi eliminate dall’insalata, con un

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risparmio per la compagnia di 500.000 $ l’anno. Questo esempio mostra l’esistenza di almeno due presupposti al miglioramento: 1. l’allineamento agli obiettivi aziendali: la riduzione delle spese operative era un obiettivo principale dichiarato e noto a tutti i dipendenti di American Airlines; 2. attività iniziate spontaneamente: nessuno aveva chiesto agli assistenti di volo di analizzare quali componenti dei pasti i clienti mangiavano o non mangiavano. Possiamo quindi parlare nelle organizzazioni di tre tipi di dipendenti: •

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i dipendenti impegnati (“engaged”): essi lavorano con passione e sentono una profonda connessione con la loro organizzazione. Essi guidano l’innovazione e la fanno progredire in avanti; i dipendenti non-impegnati (“notengaged”): sono disconnessi con l’organizzazione e pongono al servizio di essa il loro tempo ma non le loro energie e la loro passione; i dipendenti attivamente disimpegnati (“actively disengaged”): essi sono non soltanto infelici sul lavoro, ma sono occupati nell’esternare tale loro infelicità. Ogni giorno essi minano tutto ciò che i loro colleghi impegnati realizzano.

Ma le idee dei lavoratori possono portare a un miglioramento nelle performances delle aziende? La risposta a questa domanda è “sì”. Secondo uno studio del Circon Group di Chicago il 40-50% di differenza nei margini di profitto è basato sul fatto che i collaboratori siano coinvolti o meno nel proprio lavoro. IL CICLO DELLA RESPONSABILITÀ In un’organizzazione le persone affronteranno con entusiasmo la risoluzione dei problemi e raggiungeranno lo “stadio dell’attivazione” se nell’organizzazione esisteranno le seguenti condizioni: •

• • • •

È vero anche il contrario. Le persone cercheranno di evitare di affrontare i problemi quando: •

Secondo un sondaggio Gallup del 2006:

• • •

il 27% dei dipendenti sono coinvolti; il 59% non sono coinvolti; il 14% sono attivamente disimpegnati.

le persone possiedono gli skill necessari per poter risolvere i problemi che si presentano nell’esecuzione del loro lavoro; le persone realizzano successi nel loro lavoro se utilizzano tali skill; i successi vengono riconosciuti e apprezzati; l’organizzazione possiede la “cultura dell’errore”, e cioè valuta gli errori come opportunità di apprendimento; l’organizzazione incoraggia l’atteggiamento di assunzione di rischi e di responsabilità da parte degli individui.

non sono sicure di avere le capacità per risolverli; non hanno sperimentano nessun successo quando hanno tentato di risolvere i problemi; non si sentono apprezzate per gli sforzi fatti;


pensano di non avere niente da perdere se non fanno nulla o se spostano la responsabilità su altri.

Di fronte ai problemi esistono sostanzialmente due atteggiamenti, uno perdente e uno vincente:

• • • • •

riconoscere l’esistenza del problema; appropriarsi del problema; analizzarlo; determinare le soluzioni; applicare le soluzioni – agire.

1. il ciclo della vittima; 2. il ciclo della responsabilità. Gli atteggiamenti del ciclo della vittima sono: • • • • • • • • • •

ignorare l’esistenza del problema; negare l’esistenza del problema; “il problema è troppo complesso”; “questo problema c’è sempre stato, non saremo certo noi a risolverlo”; “il problema sta a monte”; “risolvere il problema non è compito mio”; “è colpa degli altri” (puntare il dito); “ditemi cosa devo fare”; spendere le energie per pararsi le terga; aspettare e vedere che succede (“wait and see”).

Rimanere impantanati nel ciclo della vittima produce frustrazione, rende difficile o impossibile la risoluzione dei problemi, non fa progredire l’organizzazione, genera un bassissimo livello di prestazioni. Esiste una linea di demarcazione tra l’area in cui si agisce come vittime e l’area in cui si acquisisce responsabilità e si contribuisce al raggiungimento del successo. In sostanza ognuno di noi deve riuscire a compiere un percorso che porta dal “ciclo della vittima” situato al disotto di questa linea al “ciclo della responsabilità” al di sopra di questa linea. Il ciclo di responsabilità invece si distingue per i seguenti elementi:

10. Agisco 9. Risolvo 7. Vedo

8. E’ mio

CICLO DELLA VITTIMA

CICLO DELLA RESPONSABILITA’

LA LINEA 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Ignorare, negare Non è compito mio Puntare il dito su altri Ditemi cosa devo fare Pararsi le terga Aspettiamo e vediamo

I problemi devono essere identificati, discussi apertamente e affrontati con coraggio e determinazione. Come diceva Randy Tobias, ex Presidente della Eli Lilly Corporation, bisogna avere il coraggio di “put the moose on the table” — letteralmente “mettere l’alce sul tavolo” — ossia avere il coraggio di evidenziare le cose anche molto sgradevoli per poterle risolvere. In definitiva riteniamo che sia compito principale del management quello di creare nell’ambiente aziendale i presupposti che favoriscano in tutti i collaboratori un atteggiamento positivo verso il lavoro. Certamente si potrà creare una situazione “win-win” in cui l’azienda risulterà vincente e soprattutto le persone che in essa lavorano potranno trarre dal loro operato soddisfazione e serenità.

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a cura di Silvestro Di Pietro

Rubrica Software

SVILUPPO SOFTWARE: PERSEG

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VANTAGGIO STRATEGICO Mia suocera si stupiva sempre quando arrivavamo, io e mia moglie, con la spesa fatta al supermercato: guardava i pacchi di pasta e scuoteva la testa dicendo “pasta comperata… la pasta si fa in casa, non ci vuole nulla…”. Certo, noi ridevamo di questo atteggiamento faticando a comprendere perché ritenevamo naturale magiare la pasta acquistata in pacchi al supermercato, solo per accorgersi con il tempo che mangiare la pasta fatta in casa è diventata un’occasione, un giorno solenne, mentre con mia suocera era una festa quasi quotidiana. Per la verità l’esempio non calza, è valido solo per introdurre il concetto di qualità che nasce dagli atteggiamenti quotidiani non dettati dalla necessità contingente. Nella vita reale, e venendo al nostro appuntamento bimestrale con il software, dobbiamo far collimare il nostro esempio con la realtà degli affari. Possiamo dire che oggi il software rappresenta uno degli ingredienti fondamentali per la sopravvivenza di una qualsiasi impresa, a prescindere dalla sua dimensione. Non solo, ma mano a mano che proseguiamo il nostro cammino sulla strada del progresso nell’era dell’informazione il software rappresenta uno dei fattori cruciali per la crescita, e in tempi difficili come quelli che stiamo passando, anche per la sua sopravvivenza stessa. Il lettore mi vorrà perdonare se non scendo subito nel dettaglio, ma vorrei prima di tutto focalizzare il nostro punto di vista su questo: “Nel secolo dell’informazione in un’impresa

non è delegabile la politica aziendale, non è delegabile il suo flusso informativo: questi sono ingredienti fondamentali per il successo ed il successo non è delegabile per definizione”. Per dipingere la situazione dello sviluppo software nelle aziende in Italia alle soglie del 2014 è necessario fare un piccolo passo indietro. Negli ultimi venti anni sono state applicate diverse strategie riguardo l’Information Tecnology: la nascita dei personal computer ha introdotto la “decentralizzazione” con struttura “client/ server” che suggeriva l’idea che molta dell’elaborazione dati, principalmente quella riguardante il lavoro d’ufficio, potesse essere attuata con tanti singoli computers. Si è quindi verificata una crescita tumultuosa di personal computers sulle scrivanie, crescita spinta dai programmi che offrivano principalmente una qualche automazione d’ufficio (word ed excel). Di fatto la mancanza di un’infrastruttura di rete condivisa – che è diventata disponibile solo dopo la seconda metà degli anni novanta – non lasciava molto spazio ad altre implementazioni su larga scala. Solo chi aveva nell’informatica un diretto collegamento con il prodotto – principalmente le istituzioni bancarie e finanziarie – ha investito nello sviluppo interno di applicazioni informatiche e accresciuto nel tempo un’infrastruttura di rete. A partire dalla seconda metà degli anni novanta altre realtà, oltre a quelle finanziarie e bancarie, hanno cominciato a investire nell’informatica con successo, escludendo


GUIRE UN O TATTICO? il flop iniziale della “new economy”, con l’introduzione d’innovazione che non fosse rappresentata solo dall’ottimizzazione della contabilità: le aziende che si occupano di logistica e, non appena la rete è diventata disponibile a livello capillare, le compagnie aeree. Il resto dell’industria e del terziario, salvo sporadici esempi di successo, sono rimaste legate a una struttura decentralizzata e destrutturata e questo fatto è risultato deleterio per molti che non hanno potuto quindi crescere in maniera adeguata. Uno dei fattori sottovalutati – e che sono stati considerati in ritardo – è stato il TCO¹ che ha gravato pesantemente sull’informatica aziendale: mano a mano che i personal computer diventavano obsoleti ogni due/tre anni il TCO ha assorbito in maniera costante enormi quantità d’investimenti. Chiunque si sia posto il problema di quantificare questo valore si sarà reso conto di due fatti: il primo è che è cresciuto nel tempo con il crescere del costo delle licenze dei sistemi operativi che consentono il funzionamento dei personal computers sia delle licenze che servono a questi per funzionare. Il secondo è che il sistema operativo più diffuso nel mondo business era (speriamo non sia ancora) così mal congegnato da rendere necessaria una continua manutenzione da effettuarsi tramite personale specializzato. Di fatto il TCO ha reso impossibile effettuare investimenti sottraendo risorse all’innovazione e sopratutto allo sviluppo

interno. Il settore informatico, almeno in Italia, si è addormentato sulla manutenzione di una infrastruttura informatica inefficiente. La sola risposta economicamente valida che si poteva elargire alle aziende strozzate dal TCO fu quella di destinare esternamente un servizio di manutenzione e successivamente — sfruttando il canale di vendita aperto dalla manutenzione — offrire soluzioni informatiche preconfezionate, spesso poco più che dilettantesche. La cosa, apparentemente vantaggiosa sul profilo economico, ha riservato nel tempo dei risvolti grotteschi, tanto che capita frequentemente di vedere infrastrutture informatiche che dovrebbero avere un’affidabilità “five nine” (cioè affidabili al 99,999%) funzionare con sistemi assolutamente inaffidabili (capita ancora oggi di vedere dei “blue screen of death”, l’errore fatale nel sistema operativo più utilizzato, in biglietterie automatiche, pos, sportelli di accettazione di ospedali, istituzioni pubbliche etc.). Non solo, ma mantenere questo parco macchine formato da personal computer e piccoli servers ha veicolato molta della forza lavoro alla semplice manutenzione, distraendo talenti ed energie dall’innovazione e sviluppo, rendendo risorse importanti precarie, incapaci di essere impiegate nello sviluppo di applicazioni e spesso incompetenti ad affrontare la continua evoluzione tecnologica. Il TCO e la conseguente delegazione in appalto della gestione

1 Total Cost of Ownership: questo valore viene “utilizzato per calcolare tutti i costi del ciclo di vita di un’apparecchiatura informatica IT, per l’acquisto, l’installazione, la gestione, la manutenzione e il suo smantellamento.” (Wikipedia)

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informatica, accentuato dal costo del lavoro assurdo che vige nel nostro Paese, ha quindi creato intere generazioni di entusiasti lavoratori dell’informatica (uno dei tanti mestieri che suscita profonda passione) in precari manovali dell’installazione/modifica di software sviluppato altrove. Ecco come si è creata la situazione attuale in Italia: la maggior parte delle aziende delegano a terzi la gestione delle proprie risorse tecnologiche senza fare una valutazione attenta di come si sia evoluto, nel frattempo, il contesto e quale occasione stanno mancando. Di fatto c’è ancora una diffusa opinione che lo sviluppo di soluzioni informatiche non sia una priorità per chi fa altro, ad esempio scarpe. Nonostante oramai si abbiano punti di accesso e terminali connessi alla rete disponibili personalmente, spesso si utilizzano strumenti informatici obsoleti che non possono diventare strumenti di crescita, e che rappresentano quindi un costo in termini di competitività. Ma non è stato solamente il TCO la ragione per la quale le nostre aziende non si sono dotate di una “officina di sviluppo” interna. C’è anche una ragione di cultura aziendale. La vita di un settore di sviluppo interno a una azienda, per quelle che ne hanno uno, è messo a rischio da scelte politiche fine a se stesse: spesso nelle riunioni si chiede al settore dello sviluppo di realizzare soluzioni che nulla fanno se non mettere delle toppe al sistema organizzativo con la conseguenza che lo sviluppo di procedure viene inteso come arma di pressione politica interna. Dato che in un’azienda difficilmente ci sarà più di un unico reparto sviluppo, si ritiene che controllare questo offra di fatto un eccessivo margine discrezionale rispetto alle politiche di organizzazione: in pratica si chiede al software di sanare brutte politiche organizzative con la conseguenza di non fare più sviluppo. Questa pessima

abitudine, propria del nostro modo di concepire le interazioni aziendali, ha avuto come conseguenza la riduzione drastica dello sviluppo interno e si è demandato questo importante compito a professionisti a noleggio creando infrastrutture informative aziendali che crescono a “macchia di leopardo”, non coerenti tra loro e quindi privando il sistema delle necessarie sorgenti d’informazione autoritative (ma questo importante aspetto lo affronteremo in seguito). Il risultato è stato peggiore della cura: infatti lo sviluppo a noleggio, o peggio, l’utilizzo di programmi scritti da terzi e poi adattatati alla bell’e meglio sulle richieste del cliente, ha provocato sia una delega di fatto nel determinare i flussi informativi aziendali sia di non avere più in azienda persone capaci di comprendere e trasformare in realtà le esigenze. Un esempio classico è quello di SAP: questa piattaforma informatica non è solo un sistema contabile ma una struttura informativa aziendale preconfezionata, con flussi informativi decisi da altri e quindi da altri limitata. “il software non deve determinare la struttura organizzativa aziendale, semmai deve essere uno strumento in grado di applicarne di diverse e mutevoli nel tempo”. Se l’economia viene intesa in maniera competitiva, come si fa a competere con regole e strategie comuni ai propri concorrenti? Come si fa ad avere un vantaggio strategico? Se qualche anno fa avere una contabilità efficiente rappresentava un vantaggio tattico, in termini di riduzione dei costi, oggi avere un efficiente sistema di “business intelligence” è una condizione assolutamente necessaria a qualunque impresa, non è più pensabile crearselo con un foglio excel. Non solo, il manifatturiero deve poter contare su di un efficientissimo sistema di logistica. I maggiori


corrieri oggi offrono accessi software ai loro sistemi: quante delle nostre aziende hanno il loro sistema logistico direttamente collegato con questi? Quanti hanno pianificato un sistema che preveda un’integrazione informativa con dati che arrivano grazie a interconnessioni dirette con i sistemi dei propri clienti/fornitori? Non è comunque necessario essere categorici nell’analisi della questione tra lo sviluppo di software interno oppure esterno. Di fatto molte delle cose sono cambiate: mentre prima demandare all’esterno questo tipo di compiti era lecito visto che la rilevanza della funzione era marginale e meno importante sotto il punto di vista strategico: l’impatto dell’informatica nella vita aziendale aveva un peso minore ed era un costo che poteva essere abbattuto concretamente attraverso la delega, pensiamo solamente alla gestione dei ruolini paga, o a quella relativa all’assistenza utenti (help desk). Lo sviluppo interno — o attraverso società controllate — rimaneva d’importanza fondamentale solo per tutte le aziende che

avevano nella gestione dell’informazione il loro obbiettivo sociale (banche, assicurazioni etc.). Oggi è necessario prima di tutto capire cosa sia conveniente delegare e cosa no. Per far ciò dobbiamo separare la struttura IT dalla sua infrastruttura funzionale (computers, servers, rete, stampanti, apparecchiature mobili) con quella software: sistemi contabili, gestione del magazzino. Inoltre a questo schema, al giorno d’oggi, deve essere anche aggiunta la cosiddetta intranet, cioè l’accesso autorizzato a tutta la collezione di applicazioni web aziendali: questo punto verrà approfondito nei prossimi “episodi” di questa rubrica. Nella figura 1 viene descritta la piramide di quello che può e che non può essere demandato all’esterno. Oggi la gestione dell’infrastruttura di rete, lo spazio di memoria, il parco dei computers risulta economicamente vantaggioso delegarlo all’esterno come anche servizi collaterali quali, cito ad esempio, la gestione del ruolino paghe, il sito web (solo nel caso non sia

Figura 1

Non appaltabile Software Analitico Applicazioni missione aziendale Sistema informativo (web interno) Infrastruttura archiviazione Infrastruttura rete

Contabilità, paghe

sito web *

personal computes

* Nel caso di operatori commerciali online il sito deve essere considerato applicazione di missione aziendale

appaltabile a stretto controllo

Apparecchiature informatiche

appaltabile

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centrale per il funzionamento dell’azienda). Quello che non è delegabile è lo sviluppo del sistema informativo interno, ovvero ciò che consente il flusso informativo nell’interno dell’azienda che deve essere plasmato sulle sue necessità, non può essere delegata ogni applicazione legata alla missione aziendale, ad esempio il sistema di prenotazioni per una compagnia aerea o il sistema di tracciabilità delle merci per un corriere. Nei sistemi aziendali moderni va considerato a fondo il valore dell’accessibilità delle informazioni aziendali. Prendiamo ad esempio una società meccanica: il flusso di progettazione e condivisione dei disegni deve avere un sistema di gestione efficiente, e disegnato attorno alle procedure aziendali. In una società di trasporti pubblici (vedi il caso ATM di Milano) il sistema che forma gli equipaggi e organizza le corse è un fattore che deve essere automatizzato sulle procedure aziendali. Non è concepibile che si possa pensare di risparmiare su questo: il danno di un funzionamento non consono o lo stravolgimento delle strutture a causa dell’acquisto di un applicativo esterno potrebbe avere conseguenze nefaste (vedi il caso Trenord con l’implementazione di un programma sviluppato da terzi).

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C’è un altro fattore da tenere in forte considerazione: oggi è possibile accedere a una miriade di ottimi programmi “open source” che non hanno costi in termini di licenze, richiedono solo competenza. La ragione perché questi programmi e sistemi operativi non vengono utilizzati è infatti da ricercarsi nella scarsa competenza offerta sul mercato del lavoro. Nel grafico della figura 2 vengono illustrate le peculiarità e le conseguenze della scelta tra il delegare lo sviluppo delle applicazioni necessarie

al funzionamento aziendale internamente ed esternamente. La figura è un asse cartesiano che divide lo spazio in quattro quadranti: un quadrante raggruppa i fatti che hanno poco beneficio per il settore dove opera l’azienda e pochi benefici per l’azienda stessa, un settore dove i fatti offrono un beneficio globale e due settori dove c’è un vantaggio maggiore per l’azienda e uno solo per il settore dove l’azienda opera. Scegliere lo sviluppo in casa trasforma lo sforzo in un investimento: infatti il risultato dello sviluppo rimane patrimonio dell’azienda. Il secondo è che sviluppare internamente offre un vantaggio strategico nella competizione e nei confronti dei mercati, per contro è necessario dotarsi di personale veramente qualificato e questo comporterà un costo del personale elevato oltre a continui investimenti nella qualificazione dello stesso, ma le risorse umane sono sempre delle risorse e rappresentano un “asset.” Scegliere di non sviluppare delle procedure informatiche all’interno dell’azienda comporterà un vantaggio tattico, principalmente nel poter quantificare, o meglio qualificare, il costo. Offre la possibilità di avere subito quello che altrimenti costerebbe tempo avere, ma anche questo ha un suo prezzo. Quello che conosciamo per esperienza sono invece le conseguenze di uno sviluppo delegato: sudditanza tecnologica, essere legati mani e piedi a un fornitore con il quale un’azienda ha poca capacità negoziale; dequalifica del personale, depauperando di conoscenze le risorse umane interne all’azienda; non per ultimo il fatto che il vero guadagno lo fa chi vende la soluzione e non la compera perché chi vende la soluzione sfrutterà il suo investimento fatto nello sviluppo, chi la compera non mette


Figura 2

Sviluppo in appalto Sviluppo in casa

Progresso

Vantaggio Vantaggio strategico

Qualificazione del personale

Quantificazione del rischio

Competitività

Quantificazione del rischio Vantaggio tattico Qualificazione dei costi

Costo del personale Costi non investimenti

A LI IO G IC SO EF N BE

Benefici per il settore economico

Investimenti non costi

Sudditanza tecnologica Dequalificazione del personale

Svantaggio Benefici Per l'Azienda

fieno in cascina ma mano al portafogli. Per ultimo va considerato il settore dove l’azienda opera. Ho già fatto l’esempio della interconnessione con il sistema informativo dei corrieri: i singoli che possono sviluppare questo tipo di interconnessioni di fatto ne favoriscono la crescita naturale che risulta essere un vantaggio competitivo generale

Declino

come anche la somma dei vantaggi strategici risulta essere un vantaggio strategico e quindi una crescita del settore non solamente per l’azienda che ha contribuito a crearlo.

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Rubrica Creatività

a cura di Daniela Donati

ARS CREANDI: TECNICHE DI SPUNTI PER IL CAMBIAMEN «Il futuro non è più quello di una volta»... da Paul Valéry in giù, questa frase viene solitamente attribuita a chi pone l’accento (almeno in campo innovazione) sul fatto che è sempre più difficile pensare di poter prevedere quali saranno i prossimi trend del mercato, quali le abitudini dei consumatori o quanto potrà resistere un brevetto di un’innovazione breakthrough prima di essere superato da una nuova e più fortunata invenzione. Il lettore frettoloso potrebbe allora dedurne che a poco varrebbe esercitare la propria capacità d’immaginazione se appunto, immaginare e pre-vedere non è proficuo (o quanto meno è faccenda molto complessa). Sbagliato! Il punto non è tanto se allenare o meno la propria immaginazione (basti qui ricordare l’ultimo articolo di questa rubrica chiuso proprio con una citazione di Einstein a riguardo); il punto è da dove partire, cosa immaginare, come guidare la nostra immaginazione.

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Un ostacolo si pone subito anche per i più motivati ad apprendere un nuovo approccio e delle nuove tecniche e modalità di pensiero. Si tratta di superare (o tenere in sospeso) una delle leggi che siamo stati abituati a considerare come l’unica in grado di spiegare le cose che ci circondano: la legge di causa-effetto. Secondo questa regola il passato è più potente del presente e lo determina. L’effetto vissuto nel presente è in relazione a una causa che si colloca nel passato.

Per superare l’impasse possiamo ricorrere a un filosofo dell’antica Grecia, Anassagora, decisamente controcorrente rispetto i suoi contemporanei che, non a caso, lo definirono matto. Egli sosteneva che fosse il futuro a determinare la causa, e non il presente. Ciò che lui pensava era che non fosse la causa dell’azione che ne determinava l’avvento, bensì lo scopo. Il principio di causa-scopo, piuttosto che quello causa-effetto, ci porta a cambiare e rivedere le cause del nostro agire: ad esempio, stai leggendo questo articolo perché tu possa trarne beneficio (scopo), e


I CREATIVITÀ E

NTO

“filosofia” di vita è un concetto che tratteremo eventualmente altrove (e i lettori più affezionati, che ci seguono dai primi numeri, sono certa non si saranno stupiti!). Riprendiamo il punto di partenza: da dove partire, cosa immaginare, come guidare la nostra immaginazione? La risposta è semplice: inizia dalla fine. Parti dal chiederti qual è lo scopo per cui stai immaginando una soluzione e soprattutto immaginala già realizzata, visualizza, cosa succederà quando la tua idea avrà successo; da che cosa ti accorgerai di aver preso la giusta direzione?

non perché i tuoi occhi scorrono sul monitor o sulla carta stampata (causa). Imparare a ragionare usando questo diverso paradigma di pensiero ci porterà a non giustificare le situazioni che ci accadono come predeterminate da qualcuno per noi, piuttosto a cercare una motivazione in esse. Arrivati a questo punto, qualcuno potrebbe domandarsi: “E cosa c’entra tutto questo con l’immaginazione?”; “Ma questa è una rubrica di filosofia o di creatività?”. Il fatto che la creatività sia anche una

Gli appassionati di golf potranno riconoscere qui una delle tecniche più efficaci per garantirsi un putt: anticiparlo nella propria mente, visualizzare la palla mentre va diritta in buca e mantenere questa immagine in primo piano nella propria mente; quindi lanciarsi in uno swing senza pensare a non buttare la palla nell’acqua (che poi è un po’ come dire a tuo figlio piccolo che si appresta a mangiare il suo bel piatto di spaghetti: “non ti sporcare la maglietta col sugo”). Perché la mente non conosce la negazione, non riconosce il non; volete una prova? Ok, allora NON pensare a una Ferrari. Qual è la prima cosa che hai visualizzato? Probabilmente la bella sagoma della rossa col cavallino! Il motivo è molto semplice: quando focalizziamo la nostra attenzione sulle cose che non vogliamo (“non voglio arrivare in ritardo”, “non voglio perdere”, “non voglio fare brutta figura”) la mente non presta ascolto al fatto che non desideriamo

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queste cose e procurerà proprio le cose a cui stiamo pensando, e queste, con buona probabilità, si verificheranno puntualmente. La mente non tiene conto dei “no”, dei “non” o di qualsiasi altra negazione, e lavora per attrarre ciò che non vogliamo. Ecco perché è importante focalizzare l’attenzione su ciò che si desidera. (A tavola la prossima volta prova a dire a tuo figlio: “mi raccomando, maglietta pulita!”). Prefigurarsi un successo diventa allora una delle più efficaci fonti di idee. Fonte tanto più preziosa e opportuna in un periodo di forti cambiamenti, quando concentrarsi solo sulle risorse attuali restringe di molto la possibilità di ottenere risultati e la soluzione dei nostri problemi dipende sempre più dalle nostre visioni. La tecnica ispirata ai principi testé illustrati è stata sistematizzata e descritta nel libro “Eureka! Tecniche per sviluppare la creatività e avere grandi idee” di Chic Thompson. Si tratta della tecnica “Immagina il futuro” che si sviluppa in quattro tappe: 1. identificare il problema o l’obiettivo; 2. stabilire una soluzione o un traguardo; 3. visualizzare il problema l’obiettivo raggiunto;

risolto

o

4. tornare dal futuro. Fase 1: identificare il problema o l’obiettivo È possibile qui attingere sia alle tecniche più analitiche di problem finding, problem setting e problem analysis (per le quali rimando alle rubriche dei miei colleghi su questa rivista),

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sia a tecniche creative tra cui le Mappe Mentali, l’Identificazione nel problema, Le sei Domande Universali (di cui parleremo in un altro articolo). Il punto di partenza rimane – a prescindere dalla tecnica utilizzata – mettere a fuoco il problema, definirne confini e implicazioni. Fase 2: stabilire una soluzione o un traguardo Anche questa è una tappa piuttosto nota che riguarda la misurabilità dell’obiettivo, ovvero entro quando dev’essere risolto il problema (scadenza), o a quale indice deve corrispondere (per esempio un aumento del proprio portfolio clienti del 20%, miglioramento del clima interno del 15%).


cosa dice il giornalista? Fase 4: tornare dal futuro Una volta immaginato il futuro, è il momento di tornare indietro via via sempre più vicini al momento presente – un passo alla volta. Cerca di descrivere tutte le mosse che tu o la tua azienda dovrete compiere per raggiungere i vostri obiettivi futuri, e quindi attiva i meccanismi e le azioni necessarie per rendere quel futuro una realtà.

Fase 3: visualizzare il problema risolto o l’obiettivo raggiunto Eccoci arrivati all’essenza di questo approccio. È il momento di visualizzare il futuro auspicato, il momento in cui il problema sarà risolto o l’obiettivo raggiunto. È ora di sbarazzarsi di tutti i dubbi, di tutti i se e di tutti i ma e di concentrarsi solo sul successo. Può essere utile anche immaginare di dover scrivere un articolo di giornale e iniziare a descrivere il futuro come se fosse il presente. Qual è il titolo? Quale straordinario risultato ha meritato l’attenzione dei media? Quali sono le notizie che i giornali riportano parlando dei risultati della tua azienda? È una notizia del telegiornale della sera? Che

È anche possibile proiettare la nostra azienda nel futuro e immaginare alcuni grandi scenari alternativi riguardanti il futuro dell’economia occidentale. Ad esempio, in uno di questi scenari, la crescita economica, i consumi e il materialismo crescerebbero senza tregua; in un altro, il mondo dovrebbe affrontare una depressione economica, carestie nei paesi in via di sviluppo, crisi ambientali e penuria di risorse naturali; il terzo scenario proietterebbe un cambiamento di fondo nella cultura occidentale verso una maggiore armonia nei confronti dell’ambiente, il consumo di cibi naturali e una grande attenzione alla crescita personale interiore. Il passaggio successivo è quello di proiettare l’impatto di questi scenari sul mercato in cui opera la nostra azienda e determinare in che modo le diverse prospettive di mercato potrebbero influenzare la strategia di marketing. In sintesi dunque, la tecnica “Immagina il futuro” ci porta a visualizzare il migliore scenario possibile, quello in cui il nostro problema sarà risolto o il nostro obiettivo

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raggiunto, in entrambi i casi con risultati che possiamo definire di successo. Dalla visualizzazione poi, lo sforzo creativo sarà mirato a ripercorrere, andando a ritroso, tutte le tappe necessarie per realizzare quello straordinario risultato. E strada facendo si producono le idee, molte delle quali inaspettate, si aprono scenari, s’inizia a definire la prima tappa

per il cambiamento. L’autore del libro sopra citato, propone di usare l’approccio “Immagina il futuro”, sia da soli sia nelle riunioni e propone un foglio d’azione da distribuire nelle riunioni quando si chiede ai propri collaboratori o colleghi di sviluppare delle nuove idee.

IMMAGINA IL FUTURO Visualizza il problema risolto e quindi lavora all’indietro, dalla soluzione ai passaggi necessari per raggiungerla. Fase 1: definisci il problema Fase 2: qual è la scadenza della tua soluzione? Fase 3: visualizza la tua soluzione ideale Proietta te stesso, mentalmente, a un punto del futuro dove il problema è stato risolto. Esplora come stanno andando le cose con il problema risolto, e infine descrivi come il problema è stato superato. Fase 4: rimani nel futuro Che cosa dicono i media dei tuoi risultati? Scrivi un titolo e un breve articolo di giornale o una notizia radiotelevisiva di trenta secondi. Fase 5: registra i passaggi che puntano verso la soluzione Rimanendo “fuori” nel futuro, girati e guarda indietro verso il presente. Quali sono stati i fatti e le circostanze principali che hanno portato a risolvere il problema? Fase 6: supera gli ostacoli Quali erano gli ostacoli principali a ogni passaggio-chiave verso la soluzione? Fase 7: abbozza la soluzione Ora torna indietro al presente e crea una “prima bozza”, basata sulla tua visione del futuro, della soluzione al problema.

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E se, come si diceva all’inizio di questo articolo, il futuro non è più quello di una volta, perché non iniziare allora a immaginare il futuro che più desideriamo? Le tecniche e gli approcci fin qui descritti sarebbero inoltre rinforzati nella loro efficacia e attrattiva dalle teorie sulle profezie che si auto-avverano così come le ha spiegate il sociologo americano Robert K. Merton, che introdusse questo concetto nelle scienze sociali nel 1948, «una supposizione o profezia che per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando in tal modo la propria veridicità». Lo stesso Merton peraltro aveva tratto ispirazione da quello che un

altro celebre sociologo americano, William Thomas, aveva dato di quello che è passato alla storia come Teorema di Thomas che recita: «Se gli uomini definiscono certe situazioni come reali, esse sono reali nelle loro conseguenze». Immaginiamo allora il migliore degli scenari possibili e prepariamoci a farci sorprendere dalle conseguenze della nostra immaginazione in azione (che è poi una delle migliori definizioni di creatività)!

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Rubrica Ecodesign e sostenibilità

a cura di NUUP, Sustainable Creativity®. Revisione del testo e coordinamento articolo a cura di Luca Pastore per NUUP

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DESIGN BIO-ISPIRATO Biomimesi: la natura come risorsa per il design La natura, caratterizzata da un continuo mutamento degli organismi, ha generato meccanismi, strutture e materiali di estremo valore, molto spesso superiori ai corrispondenti artefatti dell’uomo, in particolare dal punto di vista ambientale ed è proprio da tale ingegnosità che possiamo prendere spunto per osservare il mondo da un’altra prospettiva. È da questa coscienza che nasce la biomimesi (dal greco bios = vita e mimesis = imitazione), la disciplina che studia e imita le caratteristiche degli esseri viventi, avendo come obiettivo il miglioramento delle attività e delle tecnologie sviluppate dall’uomo. Spesso abbiamo a che fare con qualcosa che ha origine da questo tipo di approccio progettuale come, ad esempio, la produzione di materiali impermeabili ispirata dal fogliame di alcune piante oppure dai gechi, capaci di camminare su pareti verticali, che hanno ispirato così lo sviluppo di nuovi materiali adesivi. Se ci riflettiamo bene, designer, architetti e ingegneri hanno a disposizione gli “esperimenti” che l’evoluzione naturale ha perfezionato in milioni di anni da cui possono trarre ispirazione! Sarebbe difficile fare di meglio. Come affermato da Janine M. Benyus, biologa e divulgatrice scientifica, è sulle spalle dei progettisti che grava l’impegno di creare le premesse per una nuova consapevolezza, sono loro che devono immaginarsi nuove tipologie di prodotti,

sistemi, network e trasporti, in altre parole, sono loro a doversi re-immaginare un mondo più sostenibile: la natura è la migliore fonte di ispirazione possibile nella ricerca di soluzioni ai problemi dell’uomo stesso. Inoltre sostiene che sicuramente ci vuole una certa umiltà per accettare che un microrganismo, sia come individuo che come gruppo, possa insegnarci qualcosa. Afferma: «Ancor oggi incontro ingegneri che mi guardano e dicono: “Che cosa mai posso imparare da un polipo?” E invece più conosciamo queste specie “altre” e più restiamo ammirati da come abbiano potuto risolvere i loro problemi, non solo non distruggendo l’ambiente, ma al contrario conferendogli valore aggiunto». La presa d’atto razionale difficilmente avverrà se alle persone non viene proposta un’effettiva offerta di comportamenti e prodotti alternativi. «Diamo opzioni di prodotti, processi e tecnologie alternative su vasta scala e vedremo i comportamenti cambiare su vasta scala», conclude Janine M. Benyus. La natura è una vera e propria “miniera di progetti” che aspettano solo di essere scoperti e presi a modello per la collettività. È davvero importante imparare dagli altri esseri viventi come soddisfare le nostre necessità fondamentali, senza compromettere il futuro delle generazioni a venire. In tale scenario si colloca un nuovo approccio progettuale definito Hybrid Design che, come affronteremo più avanti, propone di trasferire logiche, codici e qualità complesse dei sistemi biologici al design di prodotti e servizi sostenibili.


P, Sustainable Creativity®

“La natura come modello, La natura come misura La natura come mentore La natura va con la luce del sole La natura utilizza solo l’energia di cui ha bisogno La natura adatta la forma alla funzione La natura ricicla tutto La natura ricompensa la cooperazione La natura conta sulla diversità La natura richiede perizia locale La natura limita gli eccessi dall’interno La natura utilizza il potere dei limiti”

in diversi gruppi di organismi: vertebrati e invertebrati marini, animali terrestri e microrganismi ma la maggior parte di loro è presente negli oceani. Lo scienziato Shimomura (2012) differenzia gli organismi bioluminescenti presenti in natura attraverso piccoli gruppi, rappresentati nel grafico sottostante da Eleanor Lutz (2014):

Janine M. Benyus Bioluminescenza: un mondo da scoprire Il sogno di utilizzare le lucciole dentro un barattolo di vetro per illuminare la nostra casa potrebbe diventare una realtà, di certo non a livello letterale, ma è già reale lo studio e l’utilizzo della luciferina/luciferasi, componenti fondamentali negli organismi bioluminescenti. La bioluminescenza è un fenomeno che si presenta attraverso diverse reazioni in cui l’energia chimica viene convertita in energia luminosa, tutte queste reazioni hanno in comune l’ossidazione di un substrato, la luciferina/luciferasi, che apporta così l’energia utile per generare uno stato di eccitazione. Già nel passato si era pensato a questa possibilità, tanto che Benjamin Franklin quando scoprì che la luce poteva generarsi attraverso l’elettricità, pensò altresì che anche la luce proveniente dal mare fosse un fenomeno elettrico, scoprendo poi la falsità di questa tesi. Troviamo fenomeni di bioluminescenza

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La luce prodotta da questi organismi è prevalentemente blu o verde: blu quando proviene da un sistema con luciferina/ luciferasi, verde quando a questo sistema si aggiunge una proteina fluorescente in grado di emettere questo tipo di colore, la Green Fluorescent Protein (GFP). Anche se sembra presente per casualità in alcuni organismi, le funzionalità della bioluminescenza sono molteplici e fondamentali per la loro vita: la lucciola, emette luce al fine di trovare un compagno adeguato; molte specie di pesci, presenti in acque profonde, utilizzano un’appendice che si estende dalla testa per attirare piccoli animali di cui possono nutrirsi, altri organismi liberano una nuvola di fluido luminescente che confonde o abbaglia il predatore.

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La bioluminescenza tra pochi anni potrebbe cambiare il modo in cui svolgiamo alcune delle nostre azioni quotidiane. Già nel 2008 il professore Shimomura vince il premio Nobel per la biochimica e grazie ai suoi studi si sono aperte le porte alle applicazioni in ambito medico: gli scienziati dell’American Museum of Natural History stanno studiando come la (GFP) possa aiutare a visualizzare e diagnosticare più facilmente le malattie del corpo umano. La bioluminescenza ha fatto il suo ingresso anche nel mondo del design con Ambio Lamp, progetto di Teresa Van Dongen, una lampada che sfrutta il fenomeno della bioluminescenza per approcciarsi alla sostenibilità e alla bellezza contemplativa.


L’azienda Biolume si è concentrata nello sviluppo di prodotti per colorare le bevande.

Lo studio Roosegaarde si è avventurato in un progetto basato sulle piante bioluminescenti che possono essere

piantate ai lati delle strade e che sono in grado di catturare la luce durante il giorno e illuminare durante la notte.

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Per potersi avvicinare attivamente a questo mondo, vale la pena sperimentare con il progetto Glowing plant, in cui è possibile comprare un kit per fabbricare il DNA con cui alterare una pianta per renderla luminosa o informarsi su Seafarms, produttore di materiale educativo, per lavorare con piante bioluminescenti.

con soluzioni progettuali avanguardistiche e sostenibili. Per vivi intendiamo materiali ottenuti da organismi viventi che, “guidati o modificati”, possono dare vita a oggetti prodotti attraverso processi naturali, ma con forme e funzionalità a uso tipicamente umano. Funghi e batteri in questo scenario la fanno da padrone, la principale caratteristica che li vede vincenti è la loro capacità di autogenerarsi, da cui spesso derivano le definizioni di materiale autoassemblante e design autogenerativo. Materiali utilizzati per anni nel comparto industriale e produttivo risultano oggi inappropriati di fronte all’attuale condizione d’emergenza ambientale scontrandosi con le nuove logiche di economia circolare, che ricerca materiali reinseribili nel ciclo produttivo senza scarti o che siano biodegradabili. In questo scenario i materiali vivi si inseriscono con grandi prospettive di applicazioni future e stanno godendo di una fase di grande ricerca e sperimentazione.

Biomateriali: materiali vivi, il futuro è oggi?

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Immaginate un futuro in cui le piante saranno parte integrante dell’architettura, in cui i funghi arrederanno le nostre case, in cui i batteri ci vestiranno. Quel futuro è oggi, come rivela Carol Collet, curatrice della mostra “En Vie - Alive ” presentata a Parigi nel 2013, che portava alla luce il recente scenario di design bio-ispirato, nato a partire da un nuovo approccio ai materiali “vivi”

Come la ricerca su questi materiali è in continuo mutamento, così anche la figura del designer sta cambiando sotto diversi punti di vista, iniziando a infiltrarsi ormai in campi trasversali del sapere e del fare: oggi questa figura arriva ad agire in ambiti nuovi e inaspettati e, nel caso del bio-design, lo fa ibridando la sua capacità creativa al rigore della scienza, per ispirarla e portarla verso nuove soluzioni applicative. Proprio a partire da queste sperimentazioni vengono alla luce progetti sempre più frequenti di designer che vedono nei materiali vivi e autogenerativi la chiave della prossima rivoluzione industriale. Il futuro della plastica Maurizio Montalti lo vede nel micelio, l’apparato vegetativo dei


funghi. La sua mostra “THE FUTURE OF PLASTIC” alla Fondazione Plart nell’estate 2014 è stata un manifesto sul futuro dei materiali plastici, dove l’innovativo materiale basato sulla proprietà autogenerativa del micelio ha fatto sostegno a sperimentazioni di product design, volte a stimolare un pensiero critico sulle possibili applicazioni di questo nuovo materiale sostenibile e potenzialmente sostitutivo della plastica. La Mycelium chair di Eric Klarenbeek e Maartje Dros indaga le potenzialità del micelio affiancandole alle nuove tecnologie di stampa 3D, mostrando come innovazione e materiali naturali possano collaborare alla realizzazione di nuovi scenari produttivi. Se da un lato emergono queste ricerche su applicazioni più sperimentali legate al design di prodotto, l’azienda Ecovative, è una pioniera nell’impiego del micelio nel settore del packaging. Il materiale da loro brevettato, Mushroom®, può infatti sostituire il polistirolo nel settore dell’imballaggio con uguali performances e più vantaggi dal punto di vista economico e ambientale. Davvero molte sono le caratteristiche di Mushroom®: riutilizzo di scarti alimentari come supporto per la produzione, biodegradabile al 100%, processo produttivo con un basso dispendio energetico, inoltre è resistente al fuoco, fono e vibro-assorbente.

Anche i batteri hanno una veloce capacità autogenerativa, dalla loro sperimentazione come materiali ne emergono interessanti applicazioni. Uno studio dell’Università di Delft ha sviluppato BioConcrete, un cemento che utilizza batteri per autoripararsi, mentre BioBrick di Ginger Krieg Dosier, sfrutta un naturale processo dei batteri per fondere le particelle di sabbia, ottenendo così dei mattoni resistenti e duraturi come quelli fabbricati comunemente, ma con un risparmio energetico e di CO2 senza pari. L’azienda bolognese Bio-on ha messo a punto MINERV-PHA™, un biopolimero a elevata prestazione ottenuto dalla fermentazione batterica di zucchero totalmente in grado di sostituire svariati tipi di plastiche. Questi particolari batteri sono costituiti da PHA e, nutriti dai sughi di barbabietola, si sviluppano in modo considerevole e velocemente. Il polimero così ottenuto è completamente biodegradabile in acqua in 10 giorni, evitando l’impiego di fonti fossili nella produzione e agendo positivamente anche sul grave problema della permanenza dei rifiuti plastici nei mari. Anche il fashion design ha una discreta schiera di sperimentatori, pensiamo per esempio alla “biocouture” di Susan Lee,

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per i suoi capi. È tutta italiana la recente sperimentazione che ha portato allo sviluppo di “Green Skin”, un biopolimero nanostrutturato ottenuto dalla simbiosi di batteri e funghi, che si pone come alternativa alla pelle animale e sintetica. Un team eterogeneo composto da ricercatori dell’Università del Salento, tecnici del CNRIMM e BioDesArt catalizzatore di idee ecoinnovative e bio-ispirate (Rossella Nisi, Antonio Licciulli, Pasquale Cretì e Maria Concetta Martucci, Mariangela Stoppa) ha realizzato dei prototipi, del tutto paragonabili alla comune pelle, con possibilità d’impiego nel fashion design, nell’automotive e nel settore sanitario. Anche in questo caso, oltre alla riduzione nei processi di produzione inquinanti (notevoli nel caso della filiera di lavorazione della pelle) questo materiale è autoassemblante e si nutre degli zuccheri derivanti da scarti alimentari.

Biostrutture: la biomimesi e la sua applicazione in edifici e strutture

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Nell’ambito dell’architettura e delle piccole strutture sono numerosi gli esempi di

realizzazioni ispirati alla natura per la loro forma o funzione. In un passato recente, uno dei maggiori limiti per architetti e progettisti non era immaginare strutture bio-ispirate bensì realizzarle. L’architettura tradizionale ha usato da sempre elementi standard aggregandoli tra loro in maniera semplice per costruire strutture, ripari da qualsiasi tipo di agente climatico o per creare luoghi di socialità. Attraverso il moderno progresso tecnologico, al progettista vengono offerti numerosi strumenti digitali che sono in grado di trasformare, da immaginazione a realtà, strutture complesse. I software che lavorano in maniera parametrica permettono oggi di creare gli stessi algoritmi con cui si sviluppano le forme della natura. Dai modelli tridimensionali alla realtà, passando per la stampa 3D, il taglio laser o i più moderni metodi in uso di prototipazione, il progettista traduce in realtà l’ispirazione che gli viene offerta dalla natura, beneficiando delle ragioni per cui ogni forma sia strettamente legata alla sua funzione e conservando la bellezza e l’aspetto creativo del mondo naturale. Sono molti gli edifici che sono stati costruiti negli ultimi decenni percorrendo questa linea; un lavoro interessante è quello svolto dallo studio londinese Heatherwick Studio e diretto da Thomas Heatherwick che vanta numerosi progetti Bio-ispirati tra cui un piccolo ponte in grado di srotolarsi su se stesso come una foglia che si schiude (Rolling Bridge, 2004, Grand Union Canal Paddington Basin, London).


In altri casi la natura ispira trasversalmente le opere di architetti e progettisti, insinuandosi nella memoria del progetto e attivando un legame con il fruitore. Altrettanto interessante il progetto Warka Water dello studio italiano Architecture and Vision. La struttura è una grossa torre di nove metri d’altezza in grado di raccogliere acqua potabile dall’aria attraverso la sua condensazione. Il progetto è stato studiato per il territorio montuoso etiope dove l’acqua è, purtroppo, un bene difficilmente raggiungibile. Il materiale utilizzato è costituito da steli di bambù e uno speciale tessuto al suo interno in grado di trattenere l’acqua. L’ispirazione formale deriva dall’antica tradizione d’intrecciare elementi vegetali, mentre il nome Warka si riferisce a una particolare pianta in via di estinzione, simbolo di comunità e utilizzata come luogo di incontro. Non a caso tutte le piante, attraverso il loro fogliame, riescono a catturare l’acqua presente nell’aria

e a utilizzarla come elemento vitale di sopravvivenza. I legami che ispirano e avvicinano l’uomo alla natura che lo circonda sono tra i più vari e l’infanzia è certamente una grossa occasione per tutti noi per poterla osservare con curiosità. Il designer afgano Massoud Hassani nel 2011 ha realizzato un prodotto etico ispirandosi ai giochi di carta che costruiva con gli altri bambini durante i primi anni di vita nella sua terra natale. Gli arbusti rinsecchiti in grado di muoversi senza fine nel ventoso territorio afgano sono alla fonte dell’ispirazione di questi giocattoli. La storia travagliata del paese ha purtroppo reso questi deserti ancora più insicuri e pieni di mine antiuomo che causano migliaia di incidenti e morti l’anno. Il progetto è costituito da una grossa sfera sulla quale sono fissati all’incirca 175 bastoni in bambù e dove, all’estremità, viene successivamente fissato un disco molleggiato. Questa grossa

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sfera è stata pensata per continuare a muoversi e innescare, con i suoi circa 70kg, la detonazione di 3-4 mine al giorno. Le esplosioni derivanti non precludono il funzionamento della sfera che, al massimo, perde due dei suoi bastoni: come una pianta cui viene reciso un ramo, ma continua a vivere, anche Mine Kafon prosegue la sua missione di salvaguardia. Bioestetica: Biomimesi

dalla

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Botany

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La relazione fra progetto, scienza e natura ha intrapreso durante la storia diverse direzioni, configurando uno scenario vasto di movimenti e discipline. Inizialmente “i colori, i ritmi, le simmetrie degli elementi naturali hanno avuto un potere ammaliante sull’uomo in quanto egli trova nella loro armonia motivo di sollievo di distensione, come confermano le teorie gestaltiche in merito all’influenza delle forme equilibrate sulla psiche degli osservatori”¹. Vediamo come si è evoluto nel tempo questo rapporto. Dopo la rivoluzione industriale si formarono due grandi scuole di pensiero: una tradizionalista, “l’anti-industria” di William Morris e Jonah Raskin e l’altra che cercava di migliorare le qualità delle industrie e mirare al loro sviluppo, a questa scuola di pensiero appartengono Henry Cole, Christopher Dresser, Owen Jones e molti altri.

I primi “hanno osservato la Natura, ma i loro punti di vista sono stati spesso annebbiati da un romantico desiderio di ristabilire una specie di Eden, un desiderio di ritornare alle cose essenziali e di sfuggire al potere spersonalizzante della macchina”². I secondi analizzavano e raffiguravano in disegni botanici ridotti le strutture base dei fiori e delle foglie, in modo da scoprire nuovi modelli per la progettazione. Lo stesso Dresser afferma:«Nel regno vegetale si manifesta la massima aderenza allo scopo, e si sviluppano solo quelle forme che si accordano con i requisiti della situazione; anche la struttura delle piante varia a seconda delle situazioni circostanti; quindi per tutto ciò che riguarda l’adeguatezza allo scopo dobbiamo apprendere dalle piante»³. Il principio dell’assunzione della natura come modello si limitò alla sola morfologia con propaggini anche nei decenni successivi. Una corrente nell’architettura e nel design che ha dei contorni pseudobiologici, con un tratto comune di spettacolarità ridondante, è lo stile organico. La sua caratteristica principale è senza alcun dubbio la forte presenza di forme organiche. Si possono osservare diversi progettisti in differenti periodi storici tra cui lo scultore Henry Moore, l’architetto Antoni Gaudì e molti designer e architetti contemporanei come Zaha Hadid, Ronan & Erwan Bouroullec, Herzog & De Meuron, Ross Lovegrove, Karim Rashid e tanti altri ancora. Louis Sullivan, padre del Movimento

1 Giuseppe Salvia, Valentina Rognoli e Marinella Levi “Il Progetto della Natura - gli strumenti della biomimesi per il design” Ed. FrancoAngeli, Milano, 2009 2 Victor Papanek, “Progettare per il mondo reale”, Mondadori, 1973 3 Cristopher Dresser “The Art of Decorative Design”, cit. In Rognoli e Marinella Levi ”Il Progetto della Natura - gli strumenti della biomimesi per il design” Ed.FrancoAngeli , Milano, 2009 4 Louis Henry Sullivan, dall’ articolo, “What is Architecture A Study of the American People of Today.” 1906 5 Janine M. Benyus, “Biomimicry Innovation Inspired by Nature”, Harper Perennial, 1997

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Moderno, affermò: «form ever follows function», spiegando che “[…]la sempre operante legge della natura, per la quale ogni singola cosa assume, nella sua materialità, forma individuale, e come tale è riconoscibile. Questa legge non solo è comprensiva ma è universale. Concerne il cristallo come l’albero, ogni cosa tesa a cercare e a trovare la sua forma, in virtù del suo programma, o del suo scopo o funzione; oppure, se lo preferite, in virtù del suo 4 desiderio di vivere e di esprimersi…»” . Il concetto fu ripreso alcuni anni dopo da Ludwig Mies Van Der Rohe nella versione

Bibliografia - Bio Design, William Myers, Thames&Hudson Ltd, London, 2012 - SHIMOMURA, Osamu. Bioluminescence: chemical principles and methods. 2012. World Scientific Publishing Co. Pte. Ltd. 5 Toh Tuck Link, Singapore 596224 - Biomimicry: Innovation Inspired by Nature Paperback, Janine M. Benyus, 2002 - Hybrid design. Progettare tra tecnologia e natura, Carla Langella, Milano, 2007

più netta: “form is function”. E anche oggi Janine M. Benyus nel suo libro “Biomimicry: Innovation Inspired by Nature” per rinforzare le proprie parole, ripropone la famosa frase dicendo: “Nature fits form to function” 5. Nel 1988, Victor Papanek esprimeva il seguente pensiero: «Se la rivoluzione industriale ha già dato un’era meccanica (una tecnologia statica di parti mobili), se gli ultimi anni 60 hanno dato un’era tecnologica (una tecnologia dinamica delle parti funzionanti), stiamo approdando ad un’era biomorfica». Bene, non ci resta dunque che stare a vedere le prossime evoluzioni.

http://www.ecovativedesign.com/ http://www.bio-on.it/ http://www.biocouture.co.uk/ http://tabletopwhale.com/2014/07/21/a-visualcompendium-of-glowing-creatures.html http://teresavandongen.com/Ambio https://www.studioroosegaarde.net/project/smarthighway/ http://www.treccani.it/magazine/piazza_enciclopedia_ magazine/scienze/La_bioluminescenza_e_il_futuro_ dell_imaging.html

Sitografia http://www.glowingplant.com http://empco.org/edu/ http://seafarms.com/ http://biopop.com/products/dino-pet-set http://www.glowingplant.com http://seafarms.com http://www.italiachecambia.org/2014/10/biomimesiscienza-ruba-idee-natura/#sthash.llPFy6KN.dpuf http://www.genitronsviluppo.com/2013/11/28/ superficie-idrorepellente-ali-farfalla/ http://www.digicult.it/it/digimag/issue-040/italianodesign-biomimetico-per-linnovazione-sostenibile/ http://www.asknature.org http://massoudhassani.blogspot.it/ http://www.architectureandvision.com/ http://www.heatherwick.com/ http://thisisalive.com/ http://www.corpuscoli.com/

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IL FUTURO È O

Intervista a Massimo Temporelli: Educational Director, scrittore e storico della tecnologia, lavora da più di per diffondere la cultura dell’innovazione in ogni tipo scuole elementari alle più importanti università milane

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OGGI!

fIsico, quindici anni o di aula, dalle esi.

Ho letto, all’interno del blog presente sul vostro sito www.thefablab.it, una tua frase che mi ha colpita particolarmente, dice: “non sono state molte le rivoluzioni culturali che hanno visto il nostro paese protagonista, ma tutte quelle che mi tornano in mente puzzano terribilmente di futuro”. Ti chiedo: che aria stai respirando, oggi, attorno a te? All’interno dei FabLab, senza ombra di dubbio, si respira aria di futuro. Qui da noi c’è un nuovo modo di affrontare il lavoro, fatto da team di persone che si formano e si sciolgono in modo molto flessibile, a volte anche nella stessa giornata, senza un capo vero e proprio. Semplificando, un giovane creativo entra qui con un’idea e se quest’idea piace alla comunità di chi frequenta il FabLab, e più in generale anche a chi lo gestisce, allora quello diventa un progetto che incubiamo e sul quale iniziamo a lavorare. Tutto questo senza grandi formalità ma mettendo al centro dell’attenzione il progetto stesso. Come vedi, mettere in discussione i processi lavorativi come li conosciamo oggi, vuol dire già parlare di futuro. Oggi se devi far partire una startup che ha a che fare con l’hardware, cioè se tu hai un oggetto che vuoi produrre, il percorso da intraprendere è davvero molto lungo e dispendioso. Tralasciando per un attimo l’idea del prodotto che si è deciso di mettere sul mercato, il problema è riuscire a trovare qualcuno che realizzi il prototipo — con una spesa pari a qualche migliaia di euro — oltre a quello di trovare un’azienda che lo produca, cioè che lo renda industriale e quindi riproducibile in stampi. Io non me ne sono mai occupato personalmente, ma da quello che so la produzione di uno stampo ha un costo che parte da 10 mila euro in avanti. Insomma, sono tanti passi, ognuno di questi ha una difficoltà, specie in Italia e soprattutto per i giovani. Mentre da noi, in poco tempo e con spesa molto contenuta, se tu hai un’idea e vuoi entrare su un mercato piccolo — perché i FabLab ti permettono di fare piccole produzioni — puoi concretizzare il tuo progetto.

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Rispetto al periodo in cui ho scritto quella frase, all’interno del blog, voglio essere più pragmatico, quindi ti dico che in un momento di crisi, dove tanti giovani sono disoccupati, questa possibilità è molto importante. Se poi aggiungi che il web può distribuire a livello globale il prodotto — e parliamo di un prodotto made in Italy, quindi con un valore ancora maggiore — allora questa diventa veramente un’opportunità da non lasciarsi sfuggire. Bisogna però crederci maggiormente, dai giovani che devono venire nei FabLab e mettere in pratica quanto ho appena elencato, alla politica che deve aiutare e accompagnare questo movimento. Non voglio assolutamente essere negativo ma concreto: sta avvenendo tutto questo, solo che è un processo lento. Hai scritto anche: “Finché c’è innovazione c’è speranza”. Come si può far arrivare questo concetto in un periodo delicato come quello che stiamo vivendo e in un paese come il nostro che pare cristallizzato dalla paura d’investire? Ti rispondo citando una frase di Kennedy: “non chiedetevi cosa può fare l’America per voi ma chiedetevi cosa potete fare voi per l’America”. Non c’è niente di più vero. Invece la domanda che si pone l’italiano medio è: “cosa può fare Renzi per me? Cosa ha fatto Berlusconi? Cosa farà il prossimo capo del governo?” Questo per farti capire che è proprio l’approccio a essere sbagliato e che ci fa essere il fanalino di coda rispetto agli altri Paesi industrializzati. Sei un giovane designer, un ingegnere, un creativo e sei disoccupato, non puoi rimanere fermo a lamentarti del fatto che nessuno ti assume. Oggi esiste il web e c’è la possibilità di frequentare luoghi quali i MakerSpace, come i FabLab, in cui le idee e il mercato possono interagire, ovvero le tue idee possono essere realizzate e il mercato di

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conseguenza rispondere al fatto che esse possano essere buone o meno. La gente deve sfruttare questa possibilità. È assolutamente vero che il governo dovrebbe fare di più, come agevolare le partite iva, aiutare i giovani, tutte cose che non sta facendo o per le quali non sta facendo abbastanza. Potrebbe iniziare proprio finanziando i FabLab, facendogli per esempio comprare le macchine senza fargli pagare le tasse, insomma mille cose, che però devono venire fatte partendo dal presupposto che i giovani si devono riversare in questi luoghi. Per far sì che tutto ciò prenda piede, anche nei rapporti con le istituzioni, deve cambiare la scala di questo processo. Se noi fossimo in 500 mila invece che 5 mila avremmo un peso (anche a livello politico, perché che piaccia o no è la materia prima su cui si basa tutto) totalmente diverso. Invece, ad oggi, siamo un piccolo gruppo di innovatori e nonostante il nostro lavoro venga già riconosciuto dalle istituzioni — perché sul documento della Buona Scuola redatto dal Governo viene citata la collaborazione tra la scuola e il FabLab — il movimento dovrebbe essere molto più rivoluzionario. In America Obama cita i FabLab in Senato e poi investe milioni di euro per aiutarli a crescere ed entrare nelle scuole, questa è la differenza. In Italia i giovani vengono da noi, il governo parla di noi però, come detto prima, avviene tutto troppo lentamente. Ma accadrà, ne sono certo, anche perché immagino che sia il “modello del progetto”, non il turismo né tantomeno la scuola, l’unico che l’Italia del made in italy possa intraprendere nei prossimi anni. Siamo stati alla Maker Faire a Roma e ovunque abbiamo respirato passione, competenza e voglia di mettersi alla prova anche difronte a temi, problemi e prodotti da migliorare a livello aziendale. Ci sarà la possibilità per questi creativi, di mettersi

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alla prova con quella che è l’economia prevalente, ossia quella guidata dalle imprese tradizionali o ci sarà il tentativo di scrivere un modo nuovo di fare economia? No, sarebbe molto dispendioso e sbagliato rimettere in discussione tutto. La grande impresa, la grande industria, la produzione di massa rimarranno, si fonderanno con il nuovo sistema di produzione, soprattutto in Italia, ossia quello dell’artigianato, perché sarebbe stupido non rievocarlo in questo momento. Quello che potrebbe fare un giovane maker, o colui che collabora con i FabLab o vive nei FabLab, è entrare in azienda e fare delle consulenze per rendere la stessa più innovativa, integrando le proprie tecnologie con quelle che si usano nei FabLab, oppure essere assunto non tanto come consulente ma come punto di riferimento in azienda per tutto quello che è l’innovazione dell’open design. Da noi stanno arrivando aziende, anche molto grosse, a chiederci di collaborare per provare a innescare, o all’interno dell’azienda o all’interno della loro clientela, quel processo di open design dove metto sul mercato un prodotto ma lo lascio “aperto”, per cui ogni FabLab od ogni comunità lo riprende e lo rimodifica per rimettere sul mercato un prodotto migliore. Penso ad Arduino che è un prodotto open, anche se di proprietà privata. Quel prodotto è così rivoluzionario ed è così d’appeal proprio perché c’è una comunità formata da centinaia di migliaia di persone che ci lavora gratuitamente tutti i giorni, scrivendo codici per quella piattaforma elettronica programmabile. Ripeto, ci sono grosse aziende, multinazionali, che si stanno avvicinando chiedendoci “ci date una mano a creare lo stesso fenomeno sui nostri prodotti?”, si tratta attualmente di prodotti chiusi per una comunità chiusa. Se tutto questo succedesse


a 10 FabLab in Italia, con 10 grandi aziende, ci sarebbe un enorme cambiamento. Quindi da un lato le possibilità riguardano le consulenze di persone che operano nei FabLab per spiegare alle aziende come avviene questo modo nuovo di lavorare, dall’altro immagino una figura all’interno dell’azienda, o più figure, che provino a ragionare in questa nuova modalità dove rilascio la mia idea parzialmente aperta o totalmente aperta in modo che possa essere modificata e migliorata dalla comunità. Per rispondere alla tua domanda, i FabLab e i makers non distruggeranno le aziende e non saranno sostitutivi delle grandi aziende, io li vedo in sinergia. Andranno piuttosto ad arricchirle — dire migliorarle sembra una presunzione — ma sicuramente saranno portatori di una mentalità nuova che in azienda attualmente non c’è. Se io fossi il proprietario di una grande azienda con 1000 dipendenti proverei ad assumere 10 giovani creativi,

con una mentalità più votata all’open, che mi permettano di sfruttare le potenzialità di un enorme centro di ricerca. Hai definito i FabLab come delle botteghe rinascimentali, un ritorno al fare, anche di un certo livello. Sei ancora d’accordo con questa definizione? Assolutamente sì! La mancanza di specializzazione dei FabLab è la cosa più bella. Non c’è giorno in cui da noi arrivi una richiesta identica a quella che abbiamo affrontato il giorno precedente. Non siamo un’azienda specializzata nella produzione di bulloni, non fa parte del nostro DNA e proprio il fatto che ogni giorno entri una nuova storia nel nostro tessuto di persone fa sì che il FabLab stesso sia in continua evoluzione. Le aziende, alla fine, tendono a verticalizzarsi per quanto provino, anche quelle americane

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con un po’ più di tecnologie, a investire in altri settori. I FabLab invece sono luoghi contaminati di natura, ovvero un giorno si presenta una persona che vuole fare gli skateboard e tu allora impari a capire cosa sono un truck, una rotella, un cuscinetto e come metterli insieme su una tavola d’abete. Il giorno seguente invece inizi a lavorare al progetto di un allarme di un privato. Questo fa sì che si crei quella tipica mentalità o quel tipico ambiente da bottega rinascimentale in cui, paradossalmente, prima avevi a che fare con le armi degli Sforza e poi con una statua di un cavallo per Piazza Castello. Qui ci sono problemi complessi e soprattutto differenti uno dall’altro che permettono di creare quel mix di arte e tecnologia che secondo me è la parte romantica e affascinante di questi luoghi. È chiaro che si deve rendere tutto questo economicamente sostenibile. Leggo sul vostro sito e sulla vostra pagina social grande fermento e novità in casa The FabLab: Make in Milano. Ci puoi parlare di qualche progetto che state portando avanti? La nostra attuale tendenza è quella di una formazione più professionalizzante. All’inizio offrivamo corsi da due ore che definirei di alfabetizzazione, adesso invece ci stiamo allargando sia come competenze che come ore portandole sino a ventiquattro. Sono già presenti sul sito le date dei corsi dedicati ai professionisti. Gli ingegneri che vogliono imparare la stampa 3D, per esempio, possono frequentare questi corsi un po’ più strutturati, dove verranno forniti materiali, dati e dove al termine del corso verranno svolti degli esami finali. La cosa

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più importante è che questi corsi verranno certificati dall’Ordine degli Ingegneri. Un altro nostro obiettivo è la ricerca del prodotto. Lo faremo con calma, perché fare hardware è molto più costoso e complesso che fare software, ma cercheremo di incubare una serie di progetti che parlino al mercato. Siamo alla ricerca di creativi che ci propongano delle cose che non rimangano solo esercizi di stile ma che possano trasformarsi in un prodotto che possa essere venduto. Lavoreremo anche sulle famiglie. Molto probabilmente nei prossimi mesi dedicheremo il sabato a dei corsi rivolti a genitori e figli. Molto spesso infatti i papà hanno un’idea di progetto mentre il bambino possiede delle skill digitali. Vedremo di unire le due cose. Ecco, questi sono i progetti che porteremo avanti, insieme a delle


personalmente. Massimo Temporelli: fisico, scrittore, storico della tecnologia. C’è quasi da scommettere che la lista non si fermerà qui e che, come il progetto d’innovazione che incarni, ti evolverai anche tu. Come t’immagini tra una ventina d’anni, a dar forma a un’altra rivoluzione?

novità che purtroppo non posso ancora svelare totalmente. Posso dire però che prossimamente uscirà, su un grosso canale per bambini, un programma curato da noi, che diffonda la cultura dei makers. Un’altra novità è l’arrivo di una macchina laser che pochi FabLab hanno — 3-4 FabLab in Italia — è stato un grande investimento, anche economico, da parte nostra ma ne siamo orgogliosi. Permette di effettuare dei lavori molto più professionali, permettendo così agli ingegneri o ai designer che vengono da noi di poter usare una macchina molto più performante e molto più precisa delle nostre stampanti 3D. La laser è complementare alla fresa, alla stampante 3D e a tutta l’elettronica open che avevamo già. Ecco, insomma, siamo al gran completo! L’ultima domanda la riservo a te

No, credo che morirò nel pieno dell’attuale rivoluzione. Anzi, non credo neppure che ne vedrò la fine. Noi abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca, che è quella del web, dove c’è tutto da inventarsi e da ricreare. Io posso solo ringraziare il caso che mi ha portato a vivere da protagonista — perché passo tutto il mio tempo in un FabLab — questa rivoluzione. Non credo che ne rivedrò altre, sarei già felicissimo se riuscissi a essere protagonista di questa, poi magari tra un po’ di tempo l’Italia — o magari solo io perché arriverà qualcuno più bravo di me — sarà tagliata fuori da questa rivoluzione. Prima che tutto quello che stiamo cercando di fare prenda piede, prima che gli artigiani usino questi tipi di macchine, che le aziende assorbano i makers dentro di loro e che cambi veramente la società, passeranno quindici, vent’anni e io, dopo tutto questo tempo, m’immagino di poter raccontare di aver contribuito, insieme a tante persone, ad aver cambiato la mentalità non solo dell’Italia ma di un sistema che oggi produce le merci e gli oggetti su scala mondiale. Diciamo che mi vedo sempre dentro un FabLab sicuramente sempre più bello e performante, quello sì. Tra venti, trent’anni arriveranno i robot e le intelligenze artificiali, ma io non avrò più la forza per cominciare da zero.

Noi, non ci giureremmo!

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Rubrica LCA

a cura di Massimo Granchi e Riccardo Bozzo

LA GESTIONE DELL’EN Introduzione La gestione dei flussi energetici in azienda riveste sempre più un aspetto d’importanza strategica per il controllo dei costi operativi diretti. Da una parte l’aumento del prezzo dell’energia spinge le aziende a interessarsi sempre di più a come viene gestita questa risorsa, che ha un sempre maggiore impatto sull’economia dell’impresa; ma dall’altra anche lo sviluppo tecnologico e gestionale di questo aspetto propone maggiori strumenti per migliorare l’approccio dell’azienda e tagliare costi vivi. Quindi, visto il reale e comprovato beneficio economico derivante da una gestione oculata del proprio consumo di energia e l’aumentare degli strumenti che ci consentono di farlo, diventa anche più importante elaborare una strategia per tenere sotto controllo le performance aziendali, per selezionare e monitorare gli strumenti che hanno una maggiore efficienza di riduzione per il nostro tipo di consumo energetico: differenti strumenti adottati su differenti stili di consumo forniscono diversi risultati.

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Il sistema di gestione dell’energia diventa quindi uno strumento molto importante nel processo di riduzione e di ricerca della massima efficienza in azienda, definendo ruoli, responsabilità, obiettivi e indicatori per tendere verso il miglioramento continuo. Sebbene la norma ISO 14001 dia già qualche possibilità per integrare obiettivi energetici nel proprio sistema di gestione ambientale, esiste da qualche anno la norma dedicata “UNI CEI EN 16001:2009 Sistemi

di gestione dell’energia – Requisiti e linee guida per l’uso”. Essa permette alle aziende di raggiungere obiettivi strategici: ridurre i costi energetici mediante il miglioramento dell’efficienza energetica e conseguire un vantaggio competitivo distinguendosi sul mercato come azienda attenta agli aspetti energetici e ambientali.

La norma 16001 e la legislazione di riferimento La norma definisce i requisiti del sistema di gestione dell’energia che permettono a un’organizzazione di attuare una politica energetica e raggiungere gli obiettivi di miglioramento dell’efficienza energetica. La UNI CEI EN 16001 considera gli obblighi legislativi previsti per l’organizzazione senza stabilire dei requisiti di prestazione energetica, ma indicando i requisiti del sistema per conseguire un uso più efficiente dell’energia. Il modello del sistema di gestione dell’energia proposto dalla 16001 è quello classico dei sistemi di gestione della qualità, dell’ambiente e della sicurezza, basato sul ciclo PDCA. È un modello rivolto al miglioramento continuo attraverso un’azione ciclica costituita da quattro fasi: P – Plan (Pianificare); D – Do (Attuare); C – Check (Verificare); A – Act (Agire, aggiustare). Per raggiungere un utilizzo ottimale delle


NERGIA La prima fase è di raccolta dei dati (sia documentale che con rilievi in campo) per acquisire tutte le informazioni relative alle prestazioni dell’involucro edilizio e degli impianti, le modalità gestionali e le condizioni ambientali che possono influenzare i consumi energetici. Dopo la raccolta dati si implementa un registro delle opportunità di risparmio energetico in cui ogni aspetto energetico viene analizzato nel dettaglio definendo quali siano le attività prioritarie e i traguardi da raggiungere. Stilando un elenco di opportunità di miglioramento affiancate a un punteggio, si crea una classifica d’interventi prioritari che possono dare maggiori benefici in un periodo di tempo definito. risorse e un miglioramento continuo dei processi bisogna far ruotare costantemente le quattro fasi (processo iterativo). La norma 16001 descrive come questo modello si applichi ai sistemi di gestione dell’energia.

Politica energetica e pianificazione Per poter pianificare le attività in campo energetico è necessario conoscere l’attuale situazione dell’organizzazione svolgendo un’analisi iniziale che permette di individuare gli aspetti energetici maggiormente significativi. L’analisi iniziale ha quindi un’importanza molto elevata e deve essere condotta da un tecnico di comprovata esperienza.

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Il sistema di gestione dell’energia, inoltre, richiede alle organizzazioni la definizione di una politica energetica che descriva l’impegno di un’organizzazione a raggiungere gli obiettivi definiti in campo energetico. La politica energetica, approvata dalle più alte cariche aziendali, è lo strumento per dimostrare, internamente ed esternamente, la spinta dall’alto che deve per forza essere messa in campo per una corretta e continua implementazione del sistema.

Attuazione e funzionamento, monitoraggio e misurazione Stabiliti gli obiettivi e i mezzi per raggiungerli si passa alla fase di attuazione rivolgendosi in particolare all’esercizio, la manutenzione, la progettazione e l’approvvigionamento degli impianti, delle apparecchiature e delle materie prime. Nell’attuazione del sistema di gestione energetico è importante sensibilizzare tutte le persone che lavorano nell’organizzazione e che possono svolgere un ruolo attivo nella gestione dell’energia. La norma sottolinea, infatti, quanto una comunicazione interna efficace sia uno strumento indispensabile per garantire il buon funzionamento del sistema. Dopo l’implementazione delle misure di gestione si procede con la valutazione dell’efficacia delle stesse e la progettazione di nuovi interventi, nell’ottica del miglioramento continuo, vero obiettivo di fondo di tutti i sistemi di gestione. Si prevede quindi il monitoraggio dei consumi energetici. I valori dei consumi di energia reali misurati devono essere confrontati con i valori dei consumi

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energetici attesi per evidenziare eventuali scostamenti e porvi quindi rimedio. La norma richiede la definizione e lo svolgimento di audit interni al sistema di gestione dell’energia, finalizzati a verificare che il sistema sia conforme a quanto pianificato, sia attuato e mantenuto e sia conforme agli obblighi legislativi previsti. Come ogni altro sistema di gestione è poi necessario svolgere almeno annualmente un riesame della direzione. Lo scopo del riesame svolto dall’alta direzione di un’organizzazione è di informare appunto i membri dell’alta direzione dell’andamento del sistema e delle prestazioni energetiche dell’azienda, assicurando così il protrarsi


dell’efficienza energetica e la gestione degli aspetti energetici porta alla riduzione dei costi legati ai consumi energetici e permette l’identificazione di interventi gestionali a costo “zero”. L’investimento economico relativo all’implementazione della norma ha, quindi, un tempo di ritorno breve, soprattutto se si applica ad aziende con consumi energetici significativi. L’applicazione della norma porta poi all’integrazione dell’efficienza energetica nelle pratiche di gestione aziendali permettendo di ottenere risultati rapidi, concreti e tangibili economicamente.

della spinta dall’alto verso il miglioramento continuo del sistema. Il riesame è appunto lo strumento più utile e completo per valutare criticamente il sistema di gestione ed evidenziare le opportunità di miglioramento.

Benefici e vantaggi del sistema I benefici ad adottare un sistema di gestione dell’energia sono molteplici sia da un punto di vista economico che d’immagine e si differenziano in funzione della tipologia di azienda destinataria (Ente Pubblico, azienda privata con elevati consumi energetici, ESCO). A

livello

economico

il

miglioramento

Così come le altre norme legate ai sistemi di gestione anche la 16001 non dovrebbe generare inutile carta e complesse procedure, ma agevolare l’azienda ad analizzare ed agire in base ai dati raccolti, risalendo alle cause dei problemi e focalizzandosi sulle priorità. L’analisi iniziale prevista dalla norma aumenta poi la consapevolezza dell’azienda sui propri consumi energetici, facilitando inoltre il rispetto dei requisiti cogenti in campo energetico. Conclusioni Mentre i vantaggi legati al risparmio economico diretto sono facilmente comprensibili nell’adozione di un sistema di gestione dell’energia, al momento minori sono i vantaggi di immagine. Nonostante l’azienda certificata si proponga ai propri clienti come azienda attenta agli aspetti energetici acquisendo un vantaggio competitivo in un mercato sempre più indirizzato e attento alle tematiche ambientali, molte aziende che intraprendono l’implementazione di

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un sistema di tale tipo tendono a non certificarsi subito. La certificazione infatti viene vista — così avviene anche per gli altri sistemi di gestione — come un’opportunità da sfruttare solo se il mercato di riferimento lo richiede. Al momento la norma è ancora poco conosciuta per diventare un elemento di scelta ad esempio di un fornitore, o elemento qualificante di un’azienda rispetto a un’altra, a meno che non ci si riferisca ad aziende che operano proprio nel settore dell’energia. L’attenzione sulla norma relativa ai sistemi di gestione dell’energia sta comunque innegabilmente aumentando sempre di più e le aziende stanno iniziando a comprendere i vantaggi di implementare un sistema di gestione dell’energia e

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a cogliere questa opportunità: gli enti accreditati Accredia (quindi solo in Italia) dal 2010 a oggi, come organismo di certificazione di sistemi di gestione dell’energia, sono 18 e il numero di società che decidono di certificarsi è in continua crescita. In Italia le aziende che sono in possesso di un sistema di gestione dell’energia certificato secondo la norma UNI CEI EN 16001 sono, a oggi, circa 85 rispetto alle 10 di inizio 2012.


INNOVARE con il

METODO PIXAR Estratto da: INNOVARE CON IL METODO PIXAR di Bill Capodagli e Lynn Jackson. Ed. ETAS Libri. Gli autori dedicano il libro al compianto Walt Disney come le seguenti parole:

Rubrica Un libro in 10 minuti

a cura di Pasqualina Pirone

“Ci ha fornito ispirazione insegnandoci a sognare, ad aver fiducia, ad aver coraggio e a fare.” Pixar, la più creativa e giocosa azienda del mondo, è fonte di ispirazione per: SOGNARE come un bambino AVER FIDUCIA nei vostri compagni di gioco AVERE IL CORAGGIO di tuffarvi e smuovere le acque FAR sbocciare il vostro potenziale infantile La creatività collettiva non fa mai parte della cultura di un’impresa per caso; ha origine da una leadership creativa che è degna di fiducia e che al tempo stesso dà fiducia agli altri affinché realizzino sogni grandiosi. Sfortunatamente, troppi manager aziendali sono fin troppo abili in questo gioco. Invece di promuovere un ambiente pieno di pensatori creativi capaci di automotivarsi, assumono il ruolo del pifferaio magico e fanno sì che i seguaci anneghino in un mare di regole,

norme e processi aziendali. La leadership esemplare è la capacità di formare e gestire un clima creativo in cui gli individui e i team si automotivano in vista del conseguimento di obiettivi di lungo termine all’interno di un ambiente caratterizzato dal rispetto e dalla fiducia reciproci. I migliori leader sono eccellenti comunicatori. Coinvolgono i loro team fornendo tutti gli strumenti e le informazioni necessarie per raggiungere gli obiettivi, confidando poi nel fatto che svolgano il loro compito.

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le persone di talento collaborino efficacemente. A tal fine ci vogliono fiducia e rispetto, due attitudini che i manager non possono imporre. Devono essere conquistati con l’andar del tempo.

Un clima creativo ha bisogno di una leadership, nonché di uno stile direzionale che aiuti il personale a crescere e a maturare e, nel frattempo, che gli consenta di divertirsi. Pixar promuove chiaramente la crescita professionale dei dipendenti (Pixarian) e fa di tutto per fornir loro le opportunità e il supporto di cui hanno bisogno. Di conseguenza, capita assai raramente che un Pixarian consideri l’eventualità di lasciare la casa di produzione. Randy Nelson, rettore di Pixar University, respinge palesemente la mentalità diffusa all’interno del settore, basata sulle assunzioni di breve termine: «in genere è solo nel giorno in cui concludi la produzione che ti rendi conto di aver finalmente trovato il modo giusto per collaborare. Invece di investire nelle idee, noi investiamo nelle persone. Stiamo cercando di creare una cultura basata sull’apprendimento, popolata da persone che imparano per tutta la vita».

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I grandi leader cercano persone dotate di talenti unici nel loro genere che siano disposte a lavorare con loro, non per loro, anche se il fatto di avere personale di talento non è sufficiente. Ciò che è altrettanto difficile, naturalmente, è fare in modo che

Affinché qualunque paese possa competere in questo nuovo secolo o “verso l’infinito e oltre” dobbiamo passare dall’era attuale, caratterizzata da una mentalità di business incentrata sul breve periodo e sull’avversione ai rischi, a un’era fondata sull’offerta di product/service experience nuove e realmente cool. 1. LA STORIA LA FA DA PADRONA Non importa se realizzate film, fabbricate frigoriferi o vendete hot dog, ogni singola persona, dai membri del consiglio di amministrazione a chi lavora in magazzino, dovrebbe prima di tutto essere un narratore. Partite dallo sviluppo della vostra storia, poi innovate su questa base. 2. TECNICHE PER RIFLETTERE IN FORMA VISIVA: STORYBOARDING Generate le idee in forma grafica, non solo verbale, per ampliare i punti di vista dei membri del team, affinare il loro focus e spronarli a vedere, sentire e sognare, non solo pensare. 3. IMPROVVISAZIONE La versione inglese di Wikipedia definisce l’improvvisazione: pratica basata sull’azione e sulla reazione, sulla realizzazione e sulla creazione, in tempo reale e in risposta agli stimoli provenienti dall’ambiente più prossimo in cui ci si trova. Promuovete, ispirate, istigate e insegnate l’improvvisazione.


4. POTENZIAMENTO «Ciò che noi di Pixar intendiamo per potenziamento è: prendi un lavoro, qualcosa a cui stai collaborando, e quando te lo danno non lo giudichi. Dici: come posso potenziarlo? ”Cercate sempre nuovi modi per potenziare il vostro prodotto/servizio. Non pensate mai e poi mai che vada “abbastanza bene».

6. COLLABORAZIONE (CON L’ESTERNO) Individuate i vostri clienti più “fissati”, quelli disposti a collaudare qualunque prodotto, affinché vi aiutino a promuovere quell’inedita e innovativa “filosofia basata sull’alta fedeltà”. 7. REALIZZARE UN PROTOTIPO. PROVARE. APPRENDERE. PROVARE DI NUOVO Il regista di Pixar, Pete Docter, ha osservato: «tutti i nostri film sono un fallimento a un certo punto della lavorazione». Realizzate un prototipo… provate… apprendete… provate di nuovo. Realizzate un prototipo… rovate… apprendete… provate di nuovo. Realizzate un prototipo… provate… 8. REALIZZATE PROGETTI COOL Non esistono progetti noiosi, solo team di progetto noiosi. Team noiosi=prodotti noiosi. Team COOL=prodotti COOL. Fate di ogni progetto d’innovazione un’esperienza eccitante, avvincente e carica d’ispirazione.

5. COLLABORAZIONE (INTERNA) «Per Pixar, collaborare vuol dire amplificare, creando un legame fra un gruppo di esseri umani che si ascoltano a vicenda, nutrono interesse gli uni verso gli altri, apportano ognuno un diverso livello di profondità al problema, apportano un’ampiezza di vedute che suscita in loro la voglia di trovare una soluzione complessiva, permette loro di comunicare a vari livelli nello stesso momento, a parole, per iscritto, attraverso i sentimenti, le azioni, le immagini. E tramite tutte queste modalità, trovare il modo più articolato per diffondere una filosofia basata sull’alta fedeltà all’interno di un’ampia gamma di persone, in modo che ognuna possa azionare la leva giusta».

9. FORMAZIONE Pixar è convinta che ogni lavoratore abbia un potenziale illimitato. I dipendenti sono incoraggiati a frequentare quattro ore di corsi di formazione permanente alla settimana durante l’orario lavorativo. Progettate un ambito di apprendimento che richieda creatività e impegno assoluto da parte di tutti i dipendenti. 10. DIVERTIMENTO. GIOCO Il livello di gioco e di divertimento che riscontriamo nell’ambiente di lavoro dipende dal nostro stesso atteggiamento, inteso come modo di comportarci, mentalità, stato d’animo o carattere. Siamo noi a scegliere la nostra mentalità, saremo felici, ci divertiremo

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clima che favorisce l’innovazione. 13. GRUPPO DI CERVELLI Se la vostra azienda non ha creato né intende creare un brain trust formale, dovreste costruirne uno voi. Dovrebbe trattarsi di un gruppo di liberi pensatori, di attivisti “radicali” disposti a sognare in grande.

e trasformeremo il lavoro in un gioco oppure saremo tristi, arrabbiati e trasformeremo il lavoro in un compito ingrato? La vita è troppo corta per non trovare piacere in ciò che si fa. Divertitevi! Giocate! 11. TRASPARENZA (DIRE E MOSTRARE) Essere trasparenti nell’ambito dell’innovazione aziendale significa eliminare tutte le barriere all’informazione, alle regole, ai dati e alle persone. Inoltre vuol dire svolgere in pubblico, quasi in tutti i casi, il processo decisionale. Se dovete far riferimento all’organigramma per chiedere l’autorizzazione a parlare con qualcuno, vuol dire che la vostra non è un’azienda trasparente. 12. FESTEGGIAMENTI I grandi sogni richiedono grandi celebrazioni. Cogliete ogni opportunità per festeggiare i compleanni, il raggiungimento dei milestone e persino gli insuccessi. I festeggiamenti contribuiscono a creare e a promuovere un

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14. CON

SOGNATORI DELLE

SCADENZE L’esperto di management Warren Bennis definisce gli innovatori “sognatori con delle scadenze”. Proprio come gli sport agonistici, l’innovazione è una faccenda seria, ma le grandi squadre sportive sognano in grande, si sforzano di rispettare le scadenze senza scendere a compromessi, trovano modi innovativi per vincere e si divertono mentre realizzano i loro sogni. Il vostro team di innovazione dovrebbe fare lo stesso.

15. POST MORTEM Alla fine di ogni progetto, identificate cinque cose che fareste in modo diverso e cinque cose che ripetereste. Pixar adotta questa tecnica (detta post mortem) dopo il completamento di ognuno dei suoi film. Apprendete da tutte le esperienze.

16. LA QUALITÀ È IL MIGLIOR BUSINESS PLAN Se sacrificate la qualità, non avrete speranze.


LA GESTIONE DEL DISSERVIZIO: UNA STRAORDINARIA OPPORTUNITÀ PER SUPERARE LE ASPETTATIVE DEL CLIENTE Un approccio vincente alla service recovery La gestione del disservizio rappresenta un vero e proprio banco di prova per le aziende di servizi. Normalmente le aziende che dichiarano la qualità fattore strategico si dimostrano impreparate a gestire questo delicato momento d’interazione con il cliente. Avere un approccio metodologico robusto alla gestione del disservizio — nonché impostare e organizzare processi efficaci di service recovery — rappresenta una priorità strategia e importante per l’azienda. Come? L’obiettivo di questo terzo numero della rubrica che curo sulla “Qualità del Servizio” è quello di dare concetti utili e spunti concreti alla gestione del disservizio. Per farlo in modo sintetico, ma esaustivo, verrà utilizzato l’approccio delle 5W + H: why, what, who, where, when + how. Si tratta di riferimenti utili da considerare per qualsiasi tipo di problema perché aiutano a riconoscerlo, analizzarlo e comprenderlo. In questo modo sarà possibile affrontare tutti i punti chiave. WHY. Perché gestire in modo efficace il processo di service recovery? Puntare a zero difetti, cioè a zero disservizi è senz’altro un obiettivo fondamentale.

Questo, però, non deve indurre a ignorare il fatto che si possano verificare situazioni in cui si fornisce un servizio insoddisfacente. È proprio in questi momenti che l’azienda deve dar prova d’essere pronta e attrezzata a gestire in modo eccellente la situazione. Oggi, tuttavia, sono poche le aziende in grado davvero di fare una service recovery eccellente. Proprio per questo motivo la capacità di gestire in modo esemplare il

Rubrica Qualità del servizio

a cura di Mariacristina Galgano

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“recupero” del disservizio rappresenta una formidabile opportunità per sorprendere il cliente. Si tratta anche di una straordinaria occasione di “marketing” che permette di trasformare una situazione negativa in un momento essenziale per dare prova concreta della reale attenzione al cliente. Sono proprio le aziende che puntano a “zero difetti” a essere le più brave nel gestire le situazioni in cui si genera un disservizio. Una buona gestione della service recovery consente di: • recuperare la fiducia del cliente; • distinguersi dai concorrenti, che potrebbero avere modalità più scadenti di gestione del disservizio; • trasformare questo momento in una potente opportunità di marketing; • generare un passaparola positivo, proprio per l’attenzione mostrata in queste situazioni. WHAT. Cosa si intende per disservizio? Riflettiamo sulla differenza tra reclamo e disservizio Spesso vi è una chiara confusione tra il concetto di reclamo e quello di disservizio. In realtà si tratta di due aspetti abbastanza diversi. Spesso si verificano dei disservizi, ma non sempre i clienti si prendono la briga di reclamare. In altri casi vi sono dei reclami che non sono generati da un reale disservizio. Le due situazioni, quindi, non coincidono. Questo significa che le aziende non possono basare la propria azione di service recovery solo sui reclami ricevuti.

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Non è neppure corretto ritenere che, per il solo fatto che i reclami non sono numerosi, non vi siano situazioni in cui si sono verificati dei disservizi. Se vogliamo darne una semplice definizione, possiamo dire che c’è disservizio tutte le volte che l’azienda viene meno agli impegni – impliciti o espliciti – presi con cliente: un treno in ritardo, una bolletta errata, una stanza d’albergo con l’aria condizionata non


funzionante, una prenotazione recepita in modo errato per una macchina a noleggio. Tutti questi sono esempi di disservizio che evidenziano quanto la nostra esperienza di clienti sia costellata da situazioni simili a quelle citate. Raramente abbiamo sporto un reclamo, in molti casi, però, queste situazioni hanno generato rabbia, frustrazione, delusione. Certamente un disservizio mal gestito genera un potente e frequente passaparola negativo. Allo stesso modo un’eccellente service recovery colpisce positivamente. La differenza tra reclamo e disservizio consiste in questo: le aziende possono conoscere, con grande anticipo, il verificarsi di un disservizio, molto prima che un cliente reclami. Un efficace monitoraggio dei processi di erogazione del servizio consente di essere tempestivi nel recupero e nella gestione di queste situazioni. Il monitoraggio dei processi di erogazione consente, quindi, alle aziende di raccogliere dati utili e interessanti riguardo all’incidenza delle varie tipologie di disservizio. Raccogliere, aggregare, analizzare – in modo continuo e sistematico – i dati relativi a questo fenomeno è un aspetto chiave. HOW. Come gestire in modo efficace il processo di service recovery? In modo sintetico possiamo dire che i passi fondamentali per un efficace service recovery, sono i seguenti : • mappare in modo sistematico disservizi frequenti e/o gravi in termini d’impatto negativo sul cliente; • sviluppare procedure standardizzate

e robuste per gestire in modo efficace questi disservizi, lavorando per priorità; ricordare che le procedure non devono enfatizzare l’aspetto “amministrativo/ burocratico” del recupero del disservizio, quanto piuttosto ripristinare in tempi rapidi la situazione promessa, anche a costo di sostenere extra costi; diffondere in tutta l’organizzazione e formare il personale su queste procedure, ricordando a tutti che una buona gestione del disservizio riduce la conflittualità e migliora la relazione con il cliente; dare uno spazio di autonomia al personale di front line per gestire con la dovuta flessibilità – pur nell’ambito di regole chiare e condivise – i momenti delicati in cui il cliente si trova a subire un problema causato dall’azienda stessa; assegnare un budget da investire nell’azione di service recovery, in modo da poter dare al personale la possibilità d’intervenire con dei piccoli gesti d’attenzione.

Come, invece, è opportuno agire nei confronti del cliente quando si verifica un disservizio? Ecco alcune regole di base: • informare sempre in modo tempestivo il cliente; • saper chiedere scusa; • aggiornare con continuità il cliente, quando il disservizio si protrae per lungo tempo; • rimborsare il cliente laddove vi sia qualche tipo di disagio serio; • evitare procedure burocratiche e laboriose per fargli avere quanto già gli è dovuto;

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• •

dare al cliente qualche piccolo “regalo” per i disservizi di minor entità; considerare le risorse investite nella service recovery un potente investimento di marketing.

CHI. Chi è responsabile della service recovery? La gestione del disservizio non riguarda solo il personale del front line. Un efficace service recovery richiede un forte lavoro di squadra tra il personale che ha contatti con il cliente e il personale che opera nei processi a monte. Quando si verifica un disservizio, il personale di front line deve essere considerato come un vero e proprio cliente interno dagli enti di back office o di staff. Non può essere lasciato solo, soprattutto in questi delicati momenti. Tutto il personale dell’azienda deve, quindi, ricevere un’adeguata sensibilizzazione circa l’importanza di lavorare in squadra, in modo particolare quando si verifica un problema che danneggia il cliente. DOVE. Dove si genera un’efficace service recovery? Un’efficace azione di recupero di un disservizio si genera a cavallo di più unità. L’azione di service recovery si attua in modo altamente inter-funzionale. Il personale di contatto, infatti, spesso si trova a dover gestire situazioni di disservizio che si sono generate in altri punti dell’azienda. La capacità di recuperare una situazione problematica per il cliente non risiede mai in un’unica funzione aziendale. Sbagliato, quindi, cercare un “colpevole” quando si genera un disservizio. È molto più utile e

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costruttivo domandarsi “perché” . QUANDO: quando partire con l’implementazione di un efficace sistema di service recovery? Alla luce delle considerazioni indicate nei punti precedenti, la risposta a questo punto è semplice: cominciate subito! La service recovery è efficace quando da al cliente la sensazione di una soluzione personalizzata. I suoi obiettivi sono quelli di risolvere tempestivamente il problema e trasformarlo in un’occasione di fidelizzazione, ripristinare la fiducia del cliente – intaccata dal disservizio – e, infine, apprendere cosa non ha funzionato e prevenire per il futuro. Un’azienda che si dimostri capace di fronteggiare situazioni di disservizio, non abbandona il proprio cliente. Al contrario, studiando le apposite procedure e fornendo al frontline adeguato supporto, raggiunge un traguardo sorprendente che può essere impensato considerando la situazione di


partenza: la fidelizzazione del cliente. Concludiamo con i cinque assiomi della service recovery: • •

• •

i clienti hanno aspettative riguardo alla service recovery; la service recovery è psicologica oltre che fisica: bisogna, infatti, recuperare anche l’aspetto psicologico e lavorare per rafforzare la fiducia; operare in uno spirito di partnership coinvolgendo il cliente; più che di un errore in buona fede, il cliente risente dell’assenza di correttezza. Bisogna comunicare, chiedere scusa, risarcire e mai scaricare su terzi;

la service recovery è un processo da pianificare in modo strutturato e sistematico.

Una buona gestione del disservizio, attraverso il service recovery, diventa, quindi, un momento unico e un fattore importante di vantaggio competitivo rispetto a concorrenti meno attenti e lungimiranti. Ricordiamoci che le organizzazioni eccellenti sanno chiedere anche scusa in modo eccellente.

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gli autori di MET GIUSEPPE ALITO

Dopo la laurea in Disegno Industriale e un Master in Design Management, nel 1998 entra in Baleri Italia, azienda di prodotti di arredamento alta gamma, come Direttore tecnico del centro ricerche e dello sviluppo prodotti. Un anno dopo è in Ferrari come “design techniter” dove si occupa dello sviluppo delle postazioni di rilevamento telemetrico (muretto) utilizzate poi per i campionati del mondo F1 dal 2002 al 2004. Nel 2001 entra in Grand Soleil, azienda di prodotti di arredamento per esterni e di giocattoli mass market come engineering manager e con la responsabilità dello sviluppo prodotti per diventarne, due anni dopo, Responsabile R&S. All’attività professionale affianca la docenza di Design Management ai Master di Car Design e Industrial Design della Scuola Politecnica di Design SPD di Milano. Nel 2005 entra in Gio’Style Lifestyle come Responsabile Ricerca & Sviluppo. NICOLA LIPPI Ingegnere, consulente di direzione, dopo diversi anni trascorsi in aziende multinazionali di primaria importanza nelle aree di Ricerca e Sviluppo, collabora stabilmente con Galgano & Associati, storica società di consulenza italiana, occupandosi con passione e professionalità dei temi dello Sviluppo di Nuovi prodotti. Nell’ambito della professione ha contribuito con numerosi interventi in azienda a organizzare e migliorare la capacità di sviluppare prodotti, aumentandone i contenuti in termini di innovazione, di rapporto tra costi e prestazioni nel rigido rispetto dei tempi. Metodo, visione sistemica, spirito imprenditoriale e capacità di sintesi sono i suoi principali fattori distintivi. Esprime con ironia e leggerezza il suo libero pensiero sui temi dello sviluppo prodotto nel blog personale www.sviluppoprodotto.com

ALBERTO VIOLA È partner della Galgano & Associati Consulting srl, società di consulenza italiana che nel 2012 ha consolidato la sua leadership con 50 anni di attività: da quasi 15 opera nel campo della Consulenza di Direzione. Direttore della Divisione Industria, ha maturato in questi ultimi 15 anni numerose esperienze in Italia e all’estero in aziende industriali di diversi settori e dimensioni. Esperto di “lean organization” e di miglioramento continuo (kaizen) ha utilizzato in queste aziende le tecniche, gli strumenti e gli approcci specifici del Lean Production System. Relatore di numerosi seminari aziendali e interaziendali sulla “lean organization” nel 2005 e 2006 è stato docente del MIP Politecnico di Milano su queste tematiche. Nel 2012 ha pubblicato il libro “A Gemba! Guida operativa per la produzione snella”.

CORRADO RAVAIOLI 36 anni da Forlì. Giornalista professionista, lavora per un’emittente televisiva privata e collabora con testate locali e magazine on line. Si occupa di politica, economia, costume e società. Saltuariamente sviluppa contenuti per il web o redazionali industriali. E’ appassionato di cinema, musica, letteratura e nuovi media.

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THODO ALBERTO FISCHETTI Laureato in Ingegneria, nel corso di una carriera di oltre trent’anni in grandi industrie multinazionali dei settori della metalmeccanica, ingegneria, cosmesi e farmaceutica, ha maturato significative esperienze manageriali fino a far parte dell’alta direzione aziendale. Fra le varie responsabilità ricoperte è stato Project Manager in importanti progetti a livello di affiliata italiana e di gruppo europeo. Dal 2005 collabora nei settori della formazione, consulenza e coaching professionale con la Change Project. E’ autore di libri su project management, creatività e problem solving, coaching e gestione delle risorse umane.

SILVESTRO DI PIETRO Silvestro Di Pietro ha iniziato a lavorare, appena ventenne, per alcune realta’ regionali quali la TreEmmePi spa di Rimini e la Cedaf informatica di Forli’ scrivendo piccoli programmi, integrando i primi sistemi CAD ma soprattutto facendo reverse engineering e disassemblando codice macchina. Trasferitosi a Milano unisce lo studio in Economia e Commercio al lavoro, operando come analista finanziario dal 1987 al 1995. In questo periodo dirige un mensile di finanza - borsaTime - scrive un innovativo CTS (computerized trading system) in grado di operare autonomamente sul mercato dei derivati e realizza una rubrica di finanza televisiva. Nel 1997 diventa responsabile IT del dipartimento di Ricerca dello IEO di Milano, dove coniuga il lavoro informatico - che spazia dallo sviluppo di algoritmi per l’analisi DNA alla integrazione del sistema gestionale passando dal realizzare programmi per la gestione degli strumenti scientifici - alla sua innata curiosità scientifica. Attualmente coordina il team di sviluppo software all’IFOM (istituto Firc per l’Onocologia Molecolare). www.tntvillage.scambioetico.org (http://www.tntvillage.scambioetico.org/) e’ stato il suo contributo alla libera diffusione di opere e idee. Oggi tra i primi 8000 siti al mondo. Attivamente coinvolto con Protest Italia (http://www.pro-test.it/), associazione attiva contro la disinformazione sulla sperimentazione animale.

DANIELA DONATI Life & Corporate Coach, Trainer & Consultant, esperta nei Processi di innovazione attraverso l’applicazione delle tecniche di Creatività ai processi di miglioramento e allo sviluppo di nuovi prodotti e servizi; opera dal 1998 nell’ambito della consulenza aziendale per grandi e piccole-medie imprese, pubbliche e private. Tra le sue esperienze più significative, ha effettuato progetti di innovazione in Aprilia, Arena, Barilla, Fiat, Granarolo, Moto Guzzi, Natuzzi, Telecom Italia.

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gli autori di METHODO COLLETTIVO NUUP NUUP®, Sustainable Creativity è un collettivo di designer e professionisti creativi che ha lo scopo di divulgare e promuovere comportamenti e oggetti sostenibili, basando il metodo progettuale sull’Analisi del Ciclo di Vita. Fanno parte del Collettivo Nuup: Barbara Pollini, Luca Pastore, Francesca Maccagnan, Federico Freddi, Serena Vinciguerra, Camilo Martinez, Gloria Escobar e Jared Jiménez. www.nuup.it

MASSIMO GRANCHI Massimo Granchi ha conseguito la laurea in Ingegneria presso il Politecnico di Milano nel 1993 e nel 2003 il titolo di Master in Business Administration presso la SDA Bocconi di Milano (Chartered Master in Direzione Aziendale ex lege 4/2013). Dopo una brillante esperienza presso una multinazionale nel settore metalmeccanico nell’anno 2000 ha fondato la società mtm consulting s.r.l. che offre servizi di consulenza organizzati su quattro linee di prodotto che coprono tutti gli aspetti di sicurezza e ambiente: dai servizi per la marcatura CE agli studi del ciclo di vita (LCA). Nell’anno 2013 ha ideata, creato e avviato GreenNess, divisione di mtm consulting s.r.l., che propone servizi per lo sviluppo sostenibile non più solamente al settore industriale/metalmeccanico, ma anche al settore del commercio attraverso lo sviluppo di una piattaforma proprietaria che, utilizzando le tecnologie di ultima generazione, consente a ogni tipologia di impresa commerciale di offrire ai propri clienti non più solo prodotti, servizi o sconti, ma una vera e propria esperienza di acquisto sostenibile come leva di fidelizzazione.

PASQUALINA PIRONE Laureata in economia aziendale, analista crediti presso una nota banca ma soprattutto appassionata di economia in particolare della gestione di impresa sotto il profilo finanziario e sotto il profilo umano con forte interesse per le moderne teorie e le “rivoluzionarie “ visioni in ottica motivazionale della più strategica delle risorse aziendali, le Persone.

MARIACRISTINA GALGANO Mariacristina Galgano è amministratore delegato e responsabile della Business Unit Servizi del Gruppo Galgano - una delle più affermate realtà italiane di consulenza di direzione al servizio dell’economia nazionale, con forte orientamento ai risultati - nonché della Scuola di Formazione.Profonda conoscitrice del Toyota Production System, ha sviluppato numerosi progetti Lean Six Sigma presso aziende di servizi italiane finalizzati a migliorare qualità ed efficienza. È anche autrice di numerosi libri. La sua ultima pubblicazione è “Il Movimento della Qualità in Italia. Racconti di aziende pioniere” e ha recentemente curato la traduzione italiana del libro “A3 Thinking, il segreto dell’approccio manageriale Toyota” di Durward K. Sobek II e Art Smalley, entrambi i volumi editi da Guerini e Associati.

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