Gli universi fantastici del musical in una ballata di rabbia punk - Cristina Piccino, LOCARNO,13.08.2019 Locarno 72. «Technoboss» di João Nicolau, presentato nel concorso internazionale del Festival Luis Rovisco ha una canzone in testa, qualcosa di più del «motivetto» che si pianta fastidioso e non si aspetta altro che vada via – la sua è una ballata di rabbia punk no future che tocca la propria vita: passato e presente, rimpianti e paura, fantasie e paranoie, un sentimento confuso e devastante di ingiustizie subite. Impiegato in una ditta che installa telecamere di sorveglianza – dunque con una certa «prossimità» all’osservazione spiata delle esistenze altrui – Luis sta per andare in pensione. O meglio questo è il consiglio più che premuroso dei suoi colleghi di lavoro, compreso il ragazzetto in stage abilissimo coi sensori di ultima generazione di fronte alle sue svagatezze, ai conti mai in ordine, all’incapacità di maneggiare le tecnologie presenti. Lui però fa resistenza, non vuole essere messo da parte, e intanto si divide tra i viaggi di lavoro, l’amato gatto Napoleon, il figlio che saltuariamente dorme da lui perché litiga con la compagna, il nipote che adora e di cui si occupa con molta cura. «TECHNOBOSS» è il nuovo film di Joao Nicolau, anche montatore – tra l’altro per Alessandro Comodin in L’estate di Giacomo e I tempi felici verranno presto, che a sua volta ha co-montato questo – nome di punta nelle nuove generazioni del cinema d’autore non solo portoghese i «Cahiers du cinéma»hanno messo Technoboss nella classifica dei titoli più attesi dell’anno, e anche qui a Locarno era una delle hit nel concorso internazionale un musical alla Jacques Demy e una slapstick in cui il regista lusitano compie una nuova esplorazione negli spazi dell’immaginario. Quell’ «altrove» radicale di esotismo molto cool e adolescenza tra Lisbona e la Papuasia messo in scena nel precedente John From (2015) nel confronto col passato coloniale del suo Paese, si fa qui invenzione di mondi con aguzzo umorismo, surrealtà di fondali fioriti dietro i quali balena un Portogallo in trasformazione, quello attuale, gentrificato nel sentimento prima che nei luoghi. La linea tutta maschile dell’universo che circonda il protagonista – magnifico Miguel Lobo Antunes, capace di recitare con ogni nervo e muscolo non essendo un attore di professione ma fino a poco fa una delle figure chiave nella politica culturale portoghese – oggi in pensione come il suo personaggio – crea una giravolta che permette l’illusione romantica dell’amore che cambia le cose, il contrappunto della canzonetta delicata ma come sappiamo ancor più difficile per non farsi banalità. È una storia d’amore Technoboss? Anche. Ma dell’innamoramento fa un (quasi) manifesto di resistenza. L’uomo solo e un po’ vecchietto ritrova una sua fiamma piantata anni fa (forse) Lucinda in uno degli alberghi in cui installa i suoi apparecchi, però non è solo questo così come non si tratta del «vecchio mondo» contro il «nuovo». NELLA PARTITURA leggera che Nicolau affida ai gesti sghembi del suo personaggio in quella realtà sfuggente se non ostile, disseminata di trappole e di alter ego «nemici immaginari», l’immagine si allena a parlare del contemporaneo senza farsi intrappolare in alcuno schema. Nicolau si prende il suo tempo, avanza, fa dei passi indietro, dilata, esaspera, regala istanti di tenerezza e improvvise crudeltà; non cerca la «perfezione» di quelle scritture (poco cinematografiche) in cui tutto torna, piuttosto un po’ come nell’esperienza del suo protagonista rivendica il primo posto della fantasia, di un fare cinema che precede il mondo e mai lo illustra dove la libertà è la prima «regola». Perché Luis – che la produttività mette ai margini – guarda invece al futuro ma soprattutto alla possibilità di sfuggire al controllo sociale o culturale, lo stesso che in fondo vende divertendosi però a sabotarne sempre qualche elemento dall’interno. Non si tratta di prima o di seconda età ma di