Il Giornale dei Biologi - N.5 - Maggio 2024

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Giornale dei Biologi

SOTTO IL SOLE DANNI E BENEFICI

L’estate è alle porte. Avvertenze per una corretta esposizione ai raggi solari che protegga da patologie anche gravi

2 CREDITI ECM

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Edizione mensile di Bio’s. Registrazione n. 113/2021 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna.
Maggio 2024
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Anno VII - N. 5

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Laboratori e liste d’attesa di Vincenzo

Il sole e le malattie della pelle. Verso l’estate con prudenza e consapevolezza di Rino Dazzo

Non solo danni. I benefici del sole di Rino Dazzo

La tanoressia e le sue conseguenze di Carmen Paradiso

INTERVISTE

Paraplegia spastica ereditaria, con la ricerca uno spiraglio di cura di Chiara Di Martino

Infertilità maschile. Biomarcatori dello stress ossidativo come diagnosi di Ester Trevisan

26 Verso un’immunoterapia più efficace contro il cancro al pancreas di Sara Bovio

Ricerca oncologica: la proteomica per la prevenzione del cancro di Eleonora Caruso

Gli isotopi per rilevare il cancro di Carmen Paradiso

La scoperta italiana: individuata una forma ereditaria di tumore al seno di Domenico Esposito

Realizzate sinapsi artificiali per futuri computer più simili al nostro cervello di Sara Bovio

Il gene apolipoprotein e4 nell’Alzheimer di Carmen Paradiso

Scoperta rivoluzionaria nella lotta contro l’atassia spinocerebellare 4 di Carmen Paradiso

Effetti delle restrizioni da covid sullo sviluppo dei bimbi di Carmen Paradiso

Problemi ormonali. Un mistero per molti di Domenico Esposito

Pubertà precoce. I casi sono in aumento di Domenico Esposito

Il ritmo circadiano dei follicoli piliferi di Biancamaria Mancini

Sommario Giornale dei Biologi | Mag 2024 C 20 22
PRIMO PIANO
14
30 32 34 36 SALUTE Nuove cure per il mieloma multiplo dall’Irccs
Candiolo (Torino) di Eleonara Caruso 24 38 40 42 44 10 EDITORIALE
di
5 16 45 46
D’Anna

AMBIENTE

Oltre 1400 microrganismi nell’innovativa biobanca consultabile on-line di Gianpaolo Palazzo

La tecnologia sposa mare e sostenibilità di Gianpaolo Palazzo

Volontari lungo le coste per spiagge pulite di Gianpaolo Palazzo

La conservazione della natura ha successo ma bisogna investire di più di Sara Bovio

Coltivare su Marte. Lo studio olandese di Michelangelo Ottaviano

La “Maud rise polynya”. Il varco tra i ghiacci di Michelangelo Ottaviano

Emissioni europee di gas serra di Eleonora Caruso

INNOVAZIONE

Acqua potabile: una risorsa dal mare di Pasquale Santilio

Microalghe per i metalli pesanti di Pasquale Santilio

Prodotti da forno con scarti del caffè di Pasquale Santilio

Una biostampante per la ricerca sui tumori di Pasquale Santilio

La cultura si rinnova. Maggiori musei con autonomia speciale di Rino Dazzo

Van Gogh skate experience di Eleonora Caruso

L’Italia e gli altri. Cosa aspettarci dagli europei di calcio di Antonino Palumbo

Volley: Perugia fa poker di Antonino Palumbo

Atletica, la notte dei record: le imprese di Dosso, Fabbri e Furlani di Antonino Palumbo

Ginnastica artistica sul tetto d’Europa di Antonino Palumbo

letteraria

LAVORO

Concorsi pubblici per Biologi

SCIENZE

Gli effetti della crisi climatica sulla salute fisica e mentale di Daniela Bencardino

Le patologie dell’occhio e la questione della differenza di genere di Cinzia Boschiero

Neuroimmunologia: il metabolismo dei neuroni deputato alla memoria

Sommario D Giornale dei Biologi | Mag 2024
80 84
78 90 SPORT
68 71 72
BENI CULTURALI
64 60 61
48 50 52 62 LIBRI Rubrica
76 54 67 56 57 63 58 74

Informazioni per gli iscritti

Si informano gli iscritti che gli uffici della Federazione forniranno informazioni telefoniche di carattere generale dal lunedì al giovedì dalle 9:00 alle ore 13:30 e dalle ore 15:00 alle ore 17:00. Il venerdì dalle ore 9:00 alle ore 13:00

Tutte le comunicazioni dovranno pervenire tramite posta (presso Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi, via Icilio 7, 00153 Roma) o all’indirizzo protocollo@cert.fnob.it, indicando nell’oggetto l’ufficio a cui la comunicazione è destinata.

È possibile recarsi presso le sedi della Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi previo appuntamento e soltanto qualora non sia possibile ricevere assistenza telematica. L’appuntamento va concordato con l’ufficio interessato tramite mail o telefono.

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Giornale dei Biologi | Mag 2024 3

Anno VII - N. 5 Maggio 2024

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Questo numero del “Giornale dei Biologi” è stato chiuso in redazione martedì 28 maggio 2024.

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Gli articoli e le note firmate esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la Federazione Nazionale degli Ordini dei Biologi.

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4 Giornale dei Biologi | Mag 2024
Edizione mensile di Bio’s. Registrazione 113/2021 al Tribunale di Roma. Direttore responsabile: Vincenzo D’Anna.
Maggio 2024 Anno VII - N. 5 www.fnob.it L’estate è alle porte. Avvertenze per una corretta esposizione ai raggi solari che protegga da patologie anche gravi SOTTO IL SOLE DANNI E BENEFICI Dal mese di aprile 2024 è ripartito il programma “Formare informando” Scarica il Giornale dei Biologi attraverso l’area riservata del sito www.fnob.it e avrai diritto a 2 crediti ECM gratuiti per ogni numero pubblicato. 2 CREDITI ECM

Laboratori e liste d’attesa

Non so quanti iscritti abbiano avuto modo di leggere i

miei interventi pubblicati su “Quotidiano Sanità”, il portale specializzato che tratta le problematiche del sistema sanitario italiano. Sembra (il condizionale è d’obbligo) che proprio in seguito al primo di questi miei “scritti”, legato alle cause generatrici delle ataviche difficoltà di accesso – in tempi utili – alle prestazioni ambulatoriali e diagnostiche, il Ministro della Salute Orazio

Le mie proposte fatte al Ministro sul tema delle prestazioni ambulatoriali sono state incluse nella bozza di Decreto che a breve sarà sottoposta al Consiglio dei Ministri

Schillaci abbia precisato che l’intervento ministeriale non avrebbe tagliato le prestazioni gratuite destinate all’utenza, né ridotto (come pure si ipotizzava) le ricette ai medici di medicina generale per evitare prescrizioni ridondanti e inappropriate.

Da qui una mia seconda missiva, sempre indirizzata al “QS”, nella quale, prendendo atto con soddisfazione delle intenzioni dell’esponente del governo, mi permettevo di suggerire talune proposte all’esecutivo. Proposte che poi ho ritrova -

Editoriale Giornale dei Biologi | Mag 2024 5

to, con altrettanta soddisfazione, previste nella bozza di Decreto resa nota dagli organi di stampa e che a breve sarà sottoposta all’esame del Consiglio dei Ministri.

Di cosa stiamo parlando? Innanzitutto, della decisione di aumentare i tetti di spesa che tuttora gravano sulle strutture ambulatoriali e diagnostiche accreditate a gestione privata, che non hanno liste di attesa, ma che pure ben potrebbero accorciare quelle presenti nel comparto a gestione pubblico-statale. In fondo, parliamoci chiaro: la scelta di contingentare i volumi di prestazioni contrattualizzati con il settore pubblico a gestione privata significa sviare forzosamente l’utenza verso

le strutture pubbliche statali e quindi appesantire ulteriormente i tempi di attesa!

Una è aumentare i tetti di spesa che gravano sugli ambulatori accreditati, che non hanno liste di attesa e potrebbero accorciare quelle pubbliche

Se il servizio pubblico si compone e si avvale anche delle strutture accreditate private, scegliere di aumentare le disponibilità economiche di queste ultime significa sollevare di una parte del carico di lavoro le strutture statali e, di conseguenza, accorciare le liste di attesa. I tetti, però, sono rimasti. Tuttavia, risulteranno implementati attraverso una modifica della spending review (la legge che limita la spesa nel privato), ossia l’aumento, in prospettiva futura, fino al 5% dell’attuale limite massimo. Una boccata di ossigeno che non risolverà del tutto il problema, ma che rappresenta comunque un’inver-

Editoriale 6 Giornale dei Biologi | Mag 2024

sione di tendenza significativa sotto il profilo di una maggiore considerazione per il comparto accreditato.

Parimenti importante un’altra novità che pure è stata inserita nel Decreto in itinere: quella di consentire alle strutture di laboratorio di poter accedere al servizio di Telemedicina così come previsto per la Farmacia dei Servizi. Un’opportunità che consentirà anche ai presidi sanitari di laboratorio di poter svolgere altre funzioni a vantaggio dell’utenza, vedendosele pure retribuite proprio come accade con le farmacie. Un piccolo volano economico oltre che un richiamo fortemente attrattivo nei confronti dell’utenza.

Poi c’è quella di consentire alle strutture di laboratorio di poter accedere al servizio di Telemedicina così come previsto per la Farmacia dei Servizi

Avere la possibilità di prenotare servizi sanitari rivolgendosi alle strutture di laboratorio rappresenta, infatti, un significativo riconoscimento di ciò che la rete territoriale formata da tali strutture è in grado di fornire al SSN. Per completare questa funzione occorrerà un ulteriore passo in avanti che leghi la rete dei laboratori alle nascenti case di comunità entro le quali opereranno le figure del medico e del pediatra di libera scelta oltre che gli specialisti ambulatoriali. Se ne deduce che restare fuori ed estranei da questa nuova configurazione organizzativa potrebbe comportare un grave handicap per le strutture che eseguono esami di laboratorio.

Editoriale Giornale dei Biologi | Mag 2024 7

L’altra novità di cui si parla nel Decreto, fortemente caldeggiata dalle associazioni di categoria dei piccoli e medi laboratori, è l’ipotesi di modifica della riorganizzazione della rete dei laboratori stessi. In verità nel Centro Sud, a differenza del Nord, tale riorganizzazione non ha mai trovato attuazione a diciotto anni dall’entrata in vigore di una legge che risale all’oramai lontano 2006. Stiamo parlando di una norma che prevede il rispetto di una soglia di efficienza economica pari a 200mila prestazioni annue (pubblico e privato).

la possibilità di sottoporle a contratto col SSN.

L’altra novità del Decreto, caldeggiata dalle associazioni di categoria, è l’ipotesi di modifica della riorganizzazione della rete dei laboratori stessi

La norma, peraltro, è stata inserita anche come requisito da rispettare per l’accreditamento delle strutture ossia

Ora, al di là delle buone intenzioni del Ministero, sembra chiaro che occorrerà modificare più di una legge, d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni e il Parlamento. Un argomento, quest’ultimo, che ha dato corso a non poche polemiche e a tentativi, da parte di talune associazioni nonché di soggetti predisposti al protagonismo politico nei propri territori, a polemizzare con gli Ordini Professionali invocandone la solidarietà. Una richiesta demagogica e spesso dettata da interessi di parte, che non tiene conto che chi dirige un Ente pubblico non può fare attività sindacale né contravvenire alla legge, ma,

Editoriale 8 Giornale dei Biologi | Mag 2024

al massimo, può solo tentare di “modificarla”.

Ciò detto, lontano da questi tentativi strumentali, resta ancora inevaso il problema delle basse tariffe di remunerazione. Un’autentica mazzata per il comparto. Sì, perché in questo caso ci troviamo di fronte al classico asino che casca sulla possibilità che, a fronte di bassi volumi di prestazioni erogati ed a tariffe improntate al risparmio, si possano poi mantenere intatti i requisiti della struttura, pagare stipendi e contributi al personale (soprattutto ai biologi che spesso sono “sottoposti”), soddisfare l’erario sui guadagni ed aggiornare il parco tecnologico ed i controlli di qualità. Insomma,

di garantire la qualità delle prestazioni che il committente, ossia lo Stato, ordina alle strutture. Il committente può certo cambiare quei requisiti a patto però di non abbassare le tariffe.

Lontano da tutti i tentativi strumentali, resta ancora inevaso il problema delle basse tariffe di remunerazione. Un’autentica mazzata per il comparto

Insomma, l’antifona è chiara: vi lasciamo operare ma accontentatevi di quello che vi offriamo! Questa logica di svendita del comparto per salvare la propria azienda viene lasciata a quelle retroguardie del comparto che, prima o poi, finiranno nelle fauci dei grandi trust calati in Italia.

Di tutto questo ovviamente nessuno parla, mentre tutti di tutto sparlano. Sembra che, dopo decenni, in quel comparto, la parola d’ordine sia ancora: “arrangiamoci!”.

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IL SOLE E LE MALATTIE DELLA PELLE. VERSO L’ESTATE CON

PRUDENZA E CONSAPEVOLEZZA

In aumento i casi di danni cutanei legati alla prolungata esposizione ai raggi UV. Bastano pochi e semplici accorgimenti per difendersi dalle conseguenze più gravi I consigli della biologa cosmetologa Carla Cimmino

di Rino Dazzo

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Primo piano

L’argomento è scottante, in tutti i sensi. Arriva l’estate e aumentano i rischi per la nostra pelle.

L’esposizione prolungata al sole può causare infatti danni cutanei di varia natura, sempre più diffusi. Quali sono i pericoli pù rilevanti? Come possiamo difenderci? Ne parliamo con la dottoressa Carla Cimmino, biologa cosmetologa, componente del Comitato Centrale della FNOB e firma del Giornale dei Biologi.

Quali sono le malattie della pelle provocate dal sole?

In ordine di gravità, l’esposizione cronica al sole può provocare atrofia dell’epidermide e degli annessi cutanei, teleangectasie, alterazioni della pigmentazione, rughe, secchezza, formazione di papule giallastre e placche. Nel derma, elastosi solare (accumulo di tessuto elastico distrofico), formazione di cicatrici

giallastre. La radiazione solare giunge alla pelle dopo aver attraversato l’atmosfera, l’ozonosfera trattiene quelle con maggior energia. La cheratina dello strato corneo assorbe gran parte dei raggi UVB, utilizza i gruppi -SH e -SS, dopo l’assorbimento infatti si avrà l’ipercheratosi protettiva. Vicino alla cheratina ci sono molecole dette cromofori (in particolare acidi nucleici, porfirine, caroteni, melanina), che assorbono i raggi ultravioletti. Al cromoforo arriva l’energia della radiazione, passa così a uno stato eccitato andando incontro a modificazioni chimiche capaci di alterare la funzione nella struttura di appartenenza. A questo si affianca il meccanismo lesivo diretto, incriminato maggiormente agli UVB. Inoltre, è stata ipotizzata l’interferenza indiretta degli UVA con le strutture biologiche, che indurrebbe un incremento della produzione di radicali liberi.

La nostra pelle sta diventando più fragile? Nel corso dell’evoluzione il nostro organi-

Giornale dei Biologi | Mag 2024 11 © verona studio/shutterstock.com
Primo piano

smo ha messo in atto alcune strategie “di sopravvivenza” nel momento in cui ci si espone al sole: ipercheratosi (ispessimento dello strato corneo) e aumento della produzione di melanina grazie a melanociti che sintetizzano due pigmenti differenti, eumelanine (di colore bruno, proprio di pelli scure) e feomelanine (di colore rossastro, tipico di pelli chiare). L’abbronzatura è un sistema di protezione naturale, la distribuzione di carnagioni differenti è il risultato dell’adattamento della pelle umana alla penetrazione dei raggi UV nell’epidermide a seconda della latitudine. Il fenotipo tiene in considerazione diverse caratteristiche morfologiche (colore della pelle, capelli e occhi) e consente di valutare la sensibilità degli individui alle radiazioni solari. L’esposizione al sole stressa la pelle e la sensibilizza, ma quello che la danneggia è soprattutto il continuo choc tra una situazione e l’altra. Non è solo un modo di dire: non esistono più le mezze stagioni. Ovviamente accanto ai processi di fotoinvecchiamento, c’è relazione tra radiazioni solari e induzione di tumori cutanei, attribuita fino ad alcuni anni fa ai raggi UVB. Oggi sotto attenzione sono anche gli UVA.

Come possiamo difenderci?

Esponendoci consapevolmente. Indispensabile adattare al fototipo le misure protettive (orari, tempi di esposizione, SPF), aumentare in modo graduale i tempi di esposizione, evitare di esporsi nelle ore più calde, utilizzare sempre prodotti solari dotati di filtri UVA-UVB scegliendoli in base al biotipo cutaneo (un adulto dovrebbe utilizzare 36 grammi di prodotto), non esporsi se si utilizzano prodotti fotosensibilizzanti, farmaci e cosmetici, applicare doposole per ripristinare le normali funzioni della pelle, prevenire irritazioni e preservare al meglio l’abbronzatura.

“In ordine di gravità, l’esposizione cronica al sole può provocare atrofia dell’epidermide e degli annessi cutanei, teleangectasie, alterazioni della pigmentazione, rughe, secchezza, formazione di papule giallastre e placche“.

(sostanze in grado di riflettere e respingere le radiazioni), filtri chimici (molecole che assorbono l’energia delle radiazioni e la ridonano sotto forma di energia vibrazionale), agenti filtranti naturali, ingredienti che aumentano la loro funzionalità ovvero sostanze idratanti, emollienti, antiossidanti. La pelle chiara è molto sensibile: andrebbe evitata l’esposizione diretta, prediligendo ombra, abbigliamento adeguato, cappelli, occhiali da sole e un prodotto con SPF alto.

Gli accorgimenti che possiamo mettere in pratica?

Il sole non provoca solo danni, ha molti effetti positivi. La fotoprotezione, usata preventivamente, riduce molto il danneggiamento fotoindotto. Va utilizzata anche quando i danni sono comparsi, quella al viso tutto l’anno. Bisogna porre costante attenzione all’idratazione durante il giorno perché l’irraggiamento solare porta a una carenza di lipidi intercellulari, soprattutto ceramidi e acidi grassi insaturi, e non sottovalutare il potere di alfa-idrossiacidi (acido glicolico), beta-idrossiacidi (acido salicilico), sostanze umettanti (glicoli), filmanti di superficie (acido ialuronico, collagene). Ci sono poi i prodotti schiarenti (acido kojico, liquirizia, acido glicolico, acido ascorbico o vitamina C). Se per l’eliminazione di una iperpigmentazione il cosmetico non è sufficiente, si può ricorrere al trattamento dermatologico: peeling, microabrasione, crioterapia o laser.

Consigli in vista dell’estate?

I prodotti cosmetici più indicati in questo campo?

Per ogni tipo di pelle va valutato il fototipo. I prodotti solari, oli, stick, lipogel, idrogel, emulsioni, acque solari, contengono filtri fisici

Utilizzare prodotti con fattore di protezione 50 per viso e contorno occhi, che insieme al contorno labbra sono molto più sensibili e tendono a invecchiare prima, assumere in grandi quantità frutta, verdura e acqua, esporsi al sole quanto più gradualmente possibile. In spiaggia, utilizzare protezione non inferiore a 30 e riapplicarla frequentemente.

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Primo piano
Calra Cimmino.

L’esposizione prolungata alla luce del sole può provocare complicazioni più o meno gravi, che arrivano fino ai tumori della pelle. Il più diffuso danno cutaneo legato all’eccessiva esposizione solare è però di poco conto: la classica scottatura. Chi non è stato sorpreso almeno una volta dal sole anche nelle situazioni meno prevedibili? Rossore, infiammazione, bruciore e in qualche caso vesciche possono manifestarsi anche alcune ore dopo l’esposizione, ma si possono prevenire con una crema protettiva appropriata e mitigare con un efficace doposole.

La fotosensibilità, nota anche come allergia solare, è invece una vera e propria reazione immulogica provocata dalla luce solare sulla pelle, con la comparsa di eruzioni cutanee pruriginose e fastidiose. Vari fattori entrano in gioco nella fotosensibilità: malattie autoimmuni, reazioni a farmaci, ereditarietà. Rientrano in questo tipo di allergie l’orticaria solare (eruzione cutanea pruriginosa che si materializza dopo alcuni minuti di esposizione al sole), la dermatite polimorfa solare (placche pruriginose rialzate e arrossate rispetto al resto dell’epidermide) e la fotosensibilità da farmaci, provocata dalla reazione del principio attivo del medicinale (assunto oralmente o applicato in forma topica) a contatto coi raggi UV e che genera arrossamenti ed eruzioni cutanee simili a quelli delle comuni scottature. Se questo tipo di disturbi si risolve in un periodo relativamente breve, più a lungo termine sono gli effetti del fotoinvecchiamento, che è conseguenza della cronica esposizione ai raggi solari: rughe, pigmentazione irregolare e macchie piuttosto estese. Si tratta a tutti gli effetti di un invecchiamento precoce della cute, a cui sono maggiormente esposte le persone con un fototipo chiaro ma da cui non sono immuni quelle con un fototipo più scuro.

ATTENTI AGLI UV: DALLE

SCOTTATURE AI TUMORI

Da eritemi e allergie a melanomi e altre neoplasie: tutti i danni causati dall’esposizione prolungata al sole

Da non sottovalutare è poi la cheratosi attinica, chiamata anche cheratosi solare, che consiste in piccole macchie di pelle secca o squamosa di vario colore, generalmente rosso, marrone o bianco. Sono neoformazioni precancerose, provocate dall’esposizione prolungata ai raggi UV del sole o dei centri abbronzanti, che vanno monitorate: possono infatti dare origine a carcinomi a cellule squamose. Le aree più esposte alla cheratosi sono viso, spalle, cuoio capelluto, orecchie, collo, mani e avambracci. Il tumore cutaneo più pericoloso, con incidenza purtroppo in aumento, è il melanoma,

pure collegato direttamente all’esposizione prolungata ai raggi solari, anche se con un concorso di altri fattori: predisposizione familiare, presenza di nei, fototipo chiaro. Altri tipi di tumori della pelle collegati all’esposizione al sole sono i basaliomi, o carcinomi basocellulari, che hanno crescita lenta e localizzata e per questo non costituiscono – almeno nella maggior parte dei casi – dei pericoli letali, e i tumori squamocellulari, meno aggressivi e più comuni rispetto ai melanomi, che compaiono soprattutto nelle zone del corpo maggiormente esposte ai raggi ultravioletti. (R. D.)

Giornale dei Biologi | Mag 2024 13
Primo piano Primo © dimid_86/shutterstock.com

NON SOLO DANNI

I

BENEFICI DEL SOLE

Sono diversi gli effetti positivi legati all’azione della nostra

stella, noti e sfruttati sin dai tempi più antichi

Il sole può rivelarsi molto pericoloso, lo abbiamo visto passando in rassegna i danni e i problemi provocati dall’esposizione prolungata ai raggi ultravioletti che emana. Questo, però, non deve far passare in secondo piano i tanti effetti positivi e i numerosi benefici provocati dall’azione della nostra stella. A cominciare dal buonumore: siamo più contenti quando ci alziamo al mattino, ci affacciamo alla finestra e ci imbattiamo in una bella giornata luminosa, oppure quando il cielo è coperto, piove e si vede poco? Non è soltanto una sensazione: il sole,

infatti, stimola e favorisce il rilascio della serotonina, il neurotrasmettitore responsabile della felicità, quello che regola umore, appetito, desiderio sessuale e memoria.

Il sole stimola anche la sintesi cutanea della vitamina D, importante per diversi aspetti. Anzitutto, regola il metabolismo del calcio e del fosfato ed è quindi utile nell’azione di calcificazione delle ossa, prevenendo il rachitismo e contribuendo a manenere i denti in salute. Inoltre la vitamina D svolge un ruolo essenziale per mantenere in equilibrio i livelli di calcio e fosforo nel sangue.

Comprovata è poi l’azione antiossidante del sole, la sua capacità di bloccare i danni indotti dai radicali liberi. Il sole, inoltre, è un efficace antinfiammatorio e un potente antibatterico, in grado di ridurre la portata di infezioni batteriche anche di tipo cutaneo come l’acne, rafforza il sistema immunitario potenziando le difese naturali dell’organismo ed è in grado di ridurre l’iperproliferazione cellulare, risultando di grande aiuto nella cura di varie patologie come la psoriasi e diverse forme di dermatiti ed eczemi. Inoltre, il calore emanato dal sole aiuta a mantenere le ossa sane e forti e ha effetti benefici su muscoli e articolazioni, favorendo in modo del tutto naturale il rilassamento dei primi e la mobilità delle seconde.

D’altro canto, se il sole non fosse apportatore di vari effetti benefici non si spiegherebbe l’esistenza, sin dall’antichità, di una vera e propria scienza terapeutica, l’elioterapia, comune a varie civiltà. I Greci e i Romani, ad esempio, utilizzavano l’elioterapia per curare diverse malattie della pelle, le piaghe cutanee e altri fastidiosi inestetismi. Anche in Egitto, dove il sole era a tutti gli effetti oggetto di culto, l’elioterapia era utilizzata per prendersi cura di vari tipi di problemi cutanei. L’utilizzo di pratiche elioterapiche è stato documentato anche in Cina e in India, a dimostrazione del legame profondo tra l’essere umano e il suo astro più prossimo. Fondamentale è la capacità di saperne sfruttare le tante qualità e i diversi effetti benefici nel modo più giusto e appropriato, ad esempio nelle ore meno calde della giornata: la mattina presto oppure il tardo pomeriggio. E anche quella di ridurre al massimo i rischi attraverso adeguate coperture e opportune protezioni. In questo modo, quello del sole può continuare a essere ciò che è stato da sempre: un caldo e rassicurante abbraccio. (R. D.)

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© FotoHelin/shutterstock.com Vitamina D.

Sicurezza alimentare e Nutrizione

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2024
26 giugno
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Primo piano

LA TANORESSIA

E LE SUE CONSEGUENZE

Neoplasie cutanee, fotoinvecchiamento e carcinomi epiteliali sono solo alcuni dei risultati legati alla cosiddetta “dipendenza da abbronzatura”

Dai dati di letteratura e da studi specifici è chiaro che l’insorgenza di neoplasie cutanee (melanocitarie e non) è in continuo aumento, nonostante si cerchi di educare le persone a ridurre i tempi di esposizione al sole. È importante fare alcune considerazioni sul problema, soffermandosi sul rapporto fra fotoinvecchiamento e carcinomi epiteliali, trattamento della cute fotodanneggiata, fino ad arrivare alla fotodipendenza.

Fotoinvecchiamento e conseguenze

La cute col passare del tempo subisce numerose alterazioni, che vanno a modificare alcune delle sue funzioni: perdita di elasticità, riduzione della funzione barriera e predisposizione al cancro. A queste alterazioni si aggiunge sia l’invecchiamento cronologico “aging” che, i danni da “photoaging”, infatti secondo studi scientifici circa l’80% dell’invecchiamento facciale è legato ad esposizione a UV. A dimostrazione di ciò che si suppone, c’è appunto la dimostrazione che l’insorgenza di neoplasie cutanee riguarda soprattutto zone del corpo più fotoesposte, questo anche in soggetti che hanno meno di 30 anni. È stato osservato negli individui con fototipo I e II che il fotodanneggiamento porta ad un “esaurimento proliferativo” delle strutture © Kaspars Grinvalds/shutterstock.com

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Primo piano

Da alcuni studi è emerso che i tanoressici sono perlopiù adolescenti o giovani adulti e soprattutto femmine, di elevata estrazione sociale e con fototipo III-IV (modello di Fitzpatrick). Sono soggetti che all’abbronzatura estiva “outdoor” fanno seguire continue sedute di abbronzatura “indoor”; oltre al largo uso di prodotti autoabbronzanti, ma non di fotoprotettori, e hanno regimi alimentari ristretti. © RossHelen/shutterstock.com

cutanee (atrofia, depigmentazione sparsa, rughe, elastosi) e neoplasie, mentre, nei fototipi III e IV si verifica l’insorgenza di “iperplasia protettiva” delle stesse strutture (ispessimento, pigmentazione, ruvidezza, rughe profonde). Ovviamente oltre all’esposizione irrazionale agli UV, al cancro cutaneo, contribuiscono numerosi agenti ambientali.

Fotodipendenza

Ormai molti sudi sono rivolti a tutti quei soggetti “malati” dell’abbronzatura, i quali, pur essendo a conoscenza di quelli che potrebbero essere i danni provocati da un’eccessiva e incontrollata esposizione, mostrano una continua necessità di esporsi al sole e/o alle radiazioni non solari (lampade, lettini abbronzanti). La dipendenza dall’abbronzatura ha il nome di “tanoressia”, termine, che deriva dal greco “όρεξη”= appetito, e dal latino “tanare” = conciare, probabilmente perché per la concia delle pelli veniva utilizzata la corteccia di “aluetanus”, ontano, ricca di tannini, polifenoli, che esposti all’aria e alla luce andavano incontro ad un processo di ossidazione e si scurivano; infatti le pelli, così conciate, diventano di colore bruno più o meno intenso.

Da alcuni studi è emerso che: i tanoressici sono perlopiù adolescenti o giovani adulti e soprattutto femmine, di elevata estrazione sociale e con fototipo III-IV (modello di Fitzpatrick). Sono soggetti che all’abbronzatura estiva “outdoor” fanno seguire continue sedute di abbronzatura “indoor”; oltre al largo uso di prodotti autoabbronzanti, ma non di fotoprotettori, e hanno regimi alimentari ristretti. Queste abitudini di vita inducono a pensare che dietro tale comportamento di siano motivazioni: come il miglioramento della propria immagine, per assumere una maggiore sicurezza di sé e quindi più facilità nel socializzare. Questa dipendenza potrebbe più tardi portare il manifestarsi di patologie cutanee estetiche, fino ad arrivare persino a quelle neoplastiche, e poiché in alcuni casi si raggiungono limiti esagerati, è possibile paragonare questa dipendenza a quella da alcol o droghe. Una spiegazione che possa essere attribuita alla dipendenza dal sole può essere la produzione di endorfine endogene a livello cutaneo dopo esposizione, e quindi si suppone che ciò possa “rafforzare” il desiderio di esposizione,

ecco perché in alcuni casi si manifesta un’esagerata dipendenza dall’abbronzatura. Non bisogna sottovalutare, che il danno da UV sul DNA nel nucleo del cheratinocita, induce l’attivazione di p53, che regola poi l’espressione del gene che codifica il peptide precursore (proopiomelanocortina) di β-endorfine e l’ormone melanocito-stimolante. Però, mentre in alcuni studi si evidenzia un aumento dei livelli di β-endorfine e β-lipoproteine, dopo l’esposizione all’irradiazione da UVA; in altri, non è stata osservata nessuna differenza significativa nei livelli di oppioidi plasmatici fra soggetti fotoesposti e non fotoesposti. Da un altro studio, su soggetti con dipendenza da abbronzatura “indoor” (lampade e lettini), è emerso che buona parte degli stessi mostra avere disturbi affettivi (ansia e depressione) e/o dipendenza da fumo, cocaina, amfetamine.

Conclusioni

Gli studi citati danno il via ad approfondire lo svilupparsi di questo fenomeno, del quale in base ai limitati dati, non è possibile avere un’idea chiara rispetto all’attribuzione del problema solo ed esclusivamente a questioni psicologiche o se sono implicati altri fattori di natura organica; anche se si confrontano i soggetti con altri “costretti” alla fotoesposizione, perché presentano patologie cutanee (psoriasi, vitiligine) , o perché svolgono un lavoro con esposizione in “outdoor” (marinai, manovali, contadini, alpinisti, skipper). È necessario perseverare con le campagne sulla fotoprotezione, non solo mediante il corretto impiego delle creme solari, ma anche con una normativa che: regolamenti le modalità d’impiego, manutenzione delle attrezzature destinate all’abbronzatura artificiale (lampade, docce, lettini). I centri abbronzanti dovrebbero essere obbligati a sottostare a norme ben precise: 1) richiedere di visionare certificati che attestino le condizioni di salute del soggetto; 2) manutenzione costante dell’apparecchio (spettro e quantità di radiazione emessa); 3) non erogare il servizio a soggetti con età inferiore ai 18 anni. È necessario infine chiarire i meccanismi della dipendenza dal sole e se ci sono, l’eventuale presenza di cause organiche. La campagna educazionale non basta da sola a ridurre i rischi legati alla fotoesposizione, ma ci vorrebbero norme più stringenti.

18 Giornale dei Biologi | Mag 2024
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PROGETTAZIONE EUROPEA

“ PARAPLEGIA SPASTICA

EREDITARIA, CON LA RICERCA UNO SPIRAGLIO DI CURA

Una ricerca dell’Istituto di biologia e patologia molecolari del Cnr in collaborazione con La Sapienza svela un meccanismo molecolare finora sconosciuto: ne parla Cinzia Rinaldo

Èuna rara malattia neurodegenerativa che causa una progressiva spasticità degli arti inferiori e per la quale, ad oggi, non esistono cure.

Un recente studio condotto dall’Istituto di biologia e patologia molecolari del Consiglio nazionale delle ricerche di Roma in collaborazione con la Sapienza Università di Roma, però, apre uno spiraglio per chi è affetto da paraplegia spastica ereditaria. Questo grazie all’identificazione di un meccanismo molecolare che regola i livelli della spastina, una proteina fondamentale per il trasporto degli elementi essenziali necessari per il funzionamento del neurone. Gli studiosi sono riusciti ad aumentare i livelli di spastina e a recuperare la degenerazione neuronale associata alla malattia. A guidare lo studio, pubblicato sulla rivista Brain, è Cinzia Rinaldo, ricercatore presso l’istituto Ibpm del CNR di Roma dal 2011. Laureata in Scienze Biologiche all’Università Federico II di Napoli e interessata da sempre al tema della stabilità genomica, al CNR-Ibpm ha incentrato il suo gruppo di ricerca sulla caratterizzazione di meccanismi molecolari regolativi chiave in diversi processi cellulari, individuando approcci di modulazione e investigandone le implicazioni terapeutiche in contesti patologici, come il cancro e la neurodegenerazione. È lei a rispondere alle nostre domande.

Com’è nato lo studio?

Da tempo mi occupo di meccanismi molecolari chiave nei tumori e nella risposta a famaci che inducono danno al DNA o alterazioni della citochinesi, l’ultimo stadio della divisione cellulare. Studi su proteine che regolano quest’ultimo processo hanno portato alle prime evidenze sperimentali che suggerivano l’esistenza di una nuova regolazione della spastina. Grazie alla Fondazione Telethon, che nel 2017 per prima ha scommesso su un progetto mirato a studiare questo meccanismo di regolazione, il mio gruppo, continuando a ricevere finanziamenti da Telethon e anche dalla fondazione francese AFM-Telethon, ha iniziato a studiare la regolazione di spastina nei neuroni e a valutare i suoi potenziali risvolti terapeutici nella paraplegia spastica ereditaria (HSP). Negli ultimi anni, abbiamo creato una rete di collaborazioni scientifiche nazionali e internazionali e questa parte di studi è diventata un importante campo d’indagine del mio gruppo di ricerca, che recentemente ha ottenuto finanziamenti anche da Euro-HSP, una federazione europea delle principali associazioni nazionali di pazienti affetti da HSP.

Che cos’è la paraplegia spastica ereditaria?

L’HSP è una malattia neurodegenerativa, caratterizzata da una progressiva spasticità degli arti inferiori dovuta alla degenerazione assonale delle vie motorie corticospinali. Le

20 Giornale dei Biologi | Mag 2024 Intervista

mutazioni nel gene SPG4 che codifica spastina sono la causa più comune di HSP, rappresentando circa il 40-60% dei casi autosomici dominanti e il 20% di quelli sporadici.

Esistono dati aggiornati sull’incidenza di questa malattia in Italia e/o nel mondo?

La sua incidenza è stimata in 1,3-9,6 casi su 100.000 persone, con picchi in alcune regioni italiane, come la Sardegna, in cui la frequenza arriva a 12/100.000 - di cui il 95% con SPG4-HSP.

Qual è lo standard di trattamento, ad oggi?

È attualmente incurabile, le terapie esistenti mirano solo ad alleviare i sintomi.

Lo studio si concentra sulla spastina: può indicarci cos’è e come “funziona”?

È un enzima che taglia i microtubuli e regola diversi processi basati sul loro rimodellamento, come la citochinesi e il trasporto di nutrienti e altri fattori nei neuroni. Un preciso dosaggio dei livelli proteici di spastina è necessario per le sue funzioni biologiche e mutazioni che portano ad alterazioni del suo dosaggio contribuiscono allo sviluppo e alla progressione della HSP.

Qual è il meccanismo molecolare che ne regola i livelli?

I livelli di spastina vengono regolati tramite il sistema ubiquitina-proteasoma dipendente da una particolare modificazione chiamata neddilazione.

Cosa è emerso dalla ricerca? Quali prospettive apre?

Abbiamo identificato i fattori molecolari coinvolti nella via di degradazione della spastina. Esplorando il contributo della neddilazione, abbiamo dimostrato che il complesso CRL4 come il principale responsabile della degradazione di spastina. Inibire l’attività di questo complesso porta a un recupero del giusto livello di spastina in cellule derivate da pazienti. Inoltre, in un modello animale di Drosophila melanogaster (il comune moscerino della frutta), che ricapitola i principali difetti della patologia, inibire l’attività di CRL4 porta a un recupero dei livelli di spastina e a una riduzione dei difetti legati alla sua mancanza, fornendo una prima evidenza che il ripristino dei livelli di spastina attraverso l’inibizione di CRL4 possa essere potenzialmente una valida strategia terapeutica per l’HSP. Ci saranno ulteriori step?

L’HSP è una malattia neurodegenerativa, caratterizzata da una progressiva spasticità degli arti inferiori dovuta alla degenerazione assonale delle vie motorie corticospinali. Le mutazioni nel gene SPG4 che codifica spastina sono la causa più comune di HSP, rappresentando circa il 40-60% dei casi autosomici dominanti e il 20% di quelli sporadici.

Questi risultati ci spingono a continuare in questa direzione, studiando sempre più in dettaglio i meccanismi di regolazione dei livelli di spastina. Poiché CRL4 regola i livelli di altre proteine oltre a spastina, uno dei prossimi step sarà individuare approcci per inibire il reclutamento della spastina da parte del CRL4, in modo da aprire la strada allo sviluppo di future strategie sempre più mirate e specifiche per l’HSP.

Questo studio è stato condotto dai ricercatori del CNR-Ibpm in collaborazione con Università Sapienza di Roma. L’intero studio è stato coordinato e condotto dal gruppo di ricerca della dott.ssa Cinzia Rinaldo del CNR-Ibpm; gli esperimenti in vivo sono stati coordinati dal dott. Gianluca Cestra dell’CNR-Ibpm.

Affiliazioni autori:

Francesca Sardina,1

Claudia Carsetti 1,2

Ludovica Giorgini,1

Gaia Fattorini 1,2

Gianluca Cestra 1,2,3 Cinzia Rinaldo 1

1 - Istituto di biologia e patologia molecolari (IBPM) del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) di Roma.

2 - Università Sapienza di Roma, Dipartimento di Biologia e Biotecnologie Charles Darwin.

3 - Fondazione Santa Lucia IRCCS, Roma.

Giornale dei Biologi | Mag 2024 21
Cinzia Rinaldo.

“ INFERTILITÀ MASCHILE BIOMARCATORI DELLO STRESS

OSSIDATIVO COME DIAGNOSI

Intervista a Lucia Rocco, docente di Biologia e Tecniche della Riproduzione all’Università degli Studi della Campania “Vanvitelli”, coautrice dello studio pubblicato su Genes

Professoressa Rocco, quanto è diffusa l’infertilità maschile in Italia e quali sono le cause principali?

L’infertilità di coppia rappresenta circa il 15% dell’infertilità e comprende tutte quelle condizioni in cui coesistono un’infertilità maschile e femminile. I fattori maschile e femminile sono responsabili in parti eguali dell’infertilità (35% maschile e 35% femminile). L’aumento dell’infertilità maschile sembra una diretta conseguenza di fattori ambientali e stili di vita, come l’inquinamento, le condizioni lavorative, l’uso di droghe, l’abuso di alcol, il fumo e l’obesità. I meccanismi con cui i diversi inquinanti ambientali possono influenzare la qualità degli spermatozoi sono diversi e possono consistere in alterazioni genetiche, squilibrio ormonale e aumento dello stress ossidativo. Le principali cause d’infertilità maschile possono includere problemi legati alla produzione di spermatozoi come l’oligozoospermia, cioè il numero ridotto di cellule rispetto ai valori normali, l’astenozoospermia, ovvero la ridotta motilità, o la teratozoospermia, che consiste nella presenza di cellule con morfologia alterata. Altre cause possono essere le modificazioni anatomiche nel tratto genitale, come il varicocele o le occlusioni del dotto deferente, disfunzioni ormonali e fattori genetici. Come si può prevenire?

Mantenendo uno stile di vita sano e praticando regolare attività fisica; evitando l’esposizione a sostanze tossiche; sottoponendosi a controlli regolari e parlandone prima con il proprio medico. Inoltre, spesso si è dimostrata molto utile l’assunzione di molecole antiossidanti presenti in grandi quantità nella frutta e nelle verdure e nei principi attivi di integratori alimentari. Su quali aspetti si è incentrato il vostro lavoro pubblicato su Genes?

La fertilità maschile può essere influenzata dallo stress ossidativo (OS), una condizione in cui si verifica uno squilibrio tra la produzione di specie reattive dell’ossigeno (ROS) e i sistemi di protezione antiossidante delle cellule. In questo articolo, abbiamo riportato una panoramica dei biomarcatori più comunemente utilizzati per misurare il danno spermatico causato dalle specie reattive dell’ossigeno. Inoltre, ci siamo concentrati su metodologie recenti, tra cui i polimorfismi NGS e l’analisi dei geni differenzialmente espressi (DEG), nonché sui meccanismi epigenetici legati ai ROS durante la spermatogenesi, insieme a nuove metodologie sviluppate per valutare i biomarcatori dello stress ossidativo. Infine, abbiamo evidenziato l’importante contributo alla comprensione dei meccanismi dell’infertilità maschile fornite da queste metodologie innovative e su come esse possano condurre a nuove possibilità di trattamento.

22 Giornale dei Biologi | Mag 2024 Intervista
di Ester Trevisan

In che modo lo stress ossidativo inibisce gli spermatozoi?

Lo stress ossidativo può avere un impatto significativo sulla salute degli spermatozoi. Quando si verificano squilibri tra la produzione di radicali liberi e la capacità del corpo di neutralizzarli con antiossidanti, si crea un ambiente dannoso per gli spermatozoi. I radicali liberi danneggiano le membrane cellulari degli spermatozoi, compromettendo la loro integrità strutturale e funzionale. Questo danneggiamento può influenzare negativamente la capacità degli spermatozoi di sopravvivere, muoversi in modo efficiente e fecondare l’ovocita. Inoltre, lo stress ossidativo può influenzare la qualità del DNA degli spermatozoi. I danni al DNA possono compromettere la capacità degli spermatozoi di trasmettere correttamente le informazioni genetiche all’ovocita durante la fecondazione, aumentando il rischio di anomalie genetiche nelle cellule embrionali e nei futuri sviluppi dell’embrione. Inoltre, lo stress ossidativo può danneggiare le strutture coinvolte nella motilità degli spermatozoi, compromettendo la loro capacità di raggiungere con successo l’ovocita e fecondarlo.

Quali sono i biomarcatori a cui vi riferite nel vostro lavoro?

Un biomarcatore è un indicatore che valuta un processo biologico, patologico o farmacologico. Nell’ambito della fertilità, un biomarcatore è una misurazione biologica che fornisce informazioni sulla salute riproduttiva o sulla capacità di concepire. Ne sono stati utilizzati diversi, e alcuni di questi, già validati, oggi sono consigliati nei manuali stilati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, come pure a livello di linee guida di società scientifiche di riferimento. Noi abbiamo riportato alcuni di questi, oggetto di ricerche molto recenti, che potrebbero, in futuro, essere inseriti nelle metodiche “avanzate” per l’esame del liquido seminale, o spermiogramma, l’esame di elezione per valutare lo stato di salute delle cellule spermatiche.

Il vostro studio suggerisce un nuovo approccio diagnostico e terapeutico per le patologie della sfera riproduttiva maschile?

Nel nostro articolo abbiamo incluso i principali nuovi approcci che, attraverso la ricerca e l’analisi dei meccanismi coinvolti nello

Lucia Rocco è laureata in Scienze Biologiche. Attualmente è Professore Associato presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli. Ha maturato esperienza in oltre 20 anni di ricerca nella valutazione degli effetti genotossici in vivo e in vitro indotti da inquinanti ambientali e nella valutazione delle proprietà antigenotossiche di alcune molecole antiossidanti presenti in natura su cellule umane (spermatozoi e amniociti), nonché su embrioni e individui adulti di diversi modelli sperimentali animali.

stress ossidativo e nei danni agli spermatozoi, hanno individuato possibili biomarcatori che potrebbero essere utilizzati per diagnosticare precocemente le condizioni patologiche e valutare la salute riproduttiva maschile. Questi, unitamente all’efficacia di diversi trattamenti antiossidanti e strategie per ridurre lo stress ossidativo, potrebbero migliorare la qualità degli spermatozoi. Questi risultati potrebbero aprire la strada a nuove opzioni diagnostiche e terapeutiche per le patologie della sfera riproduttiva maschile, contribuendo a migliorare le possibilità di concepimento.

Da chi è composto il team di ricerca?

Il nostro team di ricerca è composto da ricercatori nel campo della biologia riproduttiva e della biologia cellulare, con esperienza nell’analisi dello stress ossidativo e dei danni che questo causa alle cellule spermatiche, in particolare le implicazioni a livello del DNA. I membri del team si avvalgono, inoltre, di consolidate collaborazioni nazionali e internazionali con altri ricercatori e con medici specialisti in fertilità maschile. Ogni membro del team apporta competenze uniche e complementari, che contribuiscono ad un’ampia valutazione delle anomalie causate alle cellule spermatiche.

Giornale dei Biologi | Mag 2024 23 ”
© Babul Hosen/shutterstock.com Lucia Rocco.

NUOVE CURE PER IL MIELOMA MULTIPLO DALL’IRCCS DI CANDIOLO (TORINO)

I ricercatori italiani hanno appurato che la perdita di un gene sarebbe alla base della capacità della patologia di ingannare il sistema immunitario

Uno dei tumori del sangue più diffusi in Italia è il mieloma multiplo, il quale colpisce ogni anno circa 2700 donne e 3000 uomini. Secondo alcuni studi, ad esempio, negli Stati Uniti il rischio di soffrire di un mieloma multiplo è di 1 su 132 (0,76%). L’età media delle persone affette da questa malattia è di circa 70 anni, con una leggera predominanza maschile. L’origine è sconosciuta, benché siano stati suggeriti fattori genetici e cromosomici, radiazioni e agenti chimici.

La malattia è caratterizzata dalla presenza di numerose alterazioni genetiche che possono accumularsi e portare alla trasformazione dalla forma benigna, la gammopatia monoclonale, alla fase neoplastica, quella di MM. Esiste una condizione intermedia, detta di mieloma indolente o smouldering, caratterizzata dalla presenza di una quantità elevata di plasmacellule e componente monoclonale.

I ricercatori dell’Irccs di Candiolo (Torino) hanno scoperto che, attraverso la perdita del gene Gabarap, la malattia inganna il sistema immunitario consentendo alle cellule malate di nascondersi. Grazie alla pubblicazione degli studi sulla rivista “Blood”, i ricercatori hanno contribuito alla conoscenza di nuove combinazioni terapeutiche che potrebbero combattere il tumore in modo più efficace. La causa del mieloma multiplo è

principalmente un’eccessiva proliferazione delle plasmacellule nel midollo osseo.

«L’attuale paradigma terapeutico per il mieloma multiplo – ha spiegato Annamaria Gullà, responsabile del Laboratorio di Ematologia traslazionale e Immunologia dell’Irccs Candiolo – comprende una terapia di combinazione che può includere agenti immunomodulatori, inibitori del proteasoma, corticosteroidi e anticorpi monoclonali anti-Cd38. Tuttavia, numerosi pazienti recidivano e/o diventano refrattari a queste classi terapeutiche. Per questo i nostri sforzi sono concentrati sulla ricerca di nuove armi più efficaci per prolungare la risposta a lungo termine e migliorare la qualità di vita dei pazienti».

Si deduce quindi che il mieloma multiplo è molto resistente ai trattamenti, tanto che molti pazienti, dopo la prima cura, subiscono una ricaduta nella malattia. Il farmaco bortezomib, in particolare il suo meccanismo d’azione, ha dato l’occasione per effettuare alcune osservazioni che hanno dato il via allo studio sul mieloma. In sostanza è un inibitore del proteasoma, cioè un insieme di organuli cellulari in grado di rimuovere le cellule danneggiate. Questo farmaco riesce a contrapporsi al mieloma multiplo colpendo le cellule tumorali, oppure tramite l’attivazione del sistema immunitario, provocando

24 Giornale dei Biologi | Mag 2024 Salute
di Eleonora Caruso

la cosiddetta morte cellulare immunogenica. Probabilmente, a causa dell’insorgenza di forme nuove di resistenza alla terapia, questo farmaco si dimostra inefficace a lungo termine. Dunque bortezomib non è più in grado di stimolare il sistema immunitario a riconoscere il tumore. Annamaria Gullà ha spiegato come lei e i ricercatori abbiano dimostrato che le cellule tumorali morenti, quando vengono colpite da questo tipo di farmaco, rendono visibile sulla loro superficie la proteina calreticulina. In questo modo il sistema immunitario può intercettare il tumore e attaccarlo. La perdita del gene Gabarap rende meno nota questa proteina e di conseguenza il sistema immunitario non può agire come dovrebbe contro il cancro.

I ricercatori di Candiolo hanno poi specificato: «Non a caso un basso livello di espressione di Gabarap è stato associato in modo indipendente a una sopravvivenza più breve dei pazienti con mieloma multiplo e a una ridotta infiltrazione immunitaria del tumore».

Gli scienziati dell’Irccs oncologico del Piemonte hanno inoltre dimostrato che la rapamicina, un farmaco che all’inizio era destinato ai trapianti d’organo, può in qualche modo ripristinare l’effetto immunogenico del bortezomib.

Grazie alla pubblicazione degli studi sulla rivista “Blood”, i ricercatori hanno contribuito alla conoscenza di nuove combinazioni terapeutiche che potrebbero combattere il tumore in modo più efficace. Irccs di Candiolo.

Secondo gli studiosi, utilizzare insieme sia bortezomib e rapamicina potrebbe essere una soluzione per coloro che sono colpiti da mieloma multiplo, nel caso in cui dovesse perdersi il gene Gabarap. La rapamicina quindi è stata individuata come nuovo farmaco che avrebbe le potenzialità per contrastare il tumore. Gabarap è localizzato sul cromosoma 17p, la cui delezione definisce pazienti di mieloma ad alto rischio. Questo meccanismo potrebbe dunque aggiungersi a quelli già noti che contribuiscono alla prognosi negativa di questi pazienti.

«I risultati di questo lavoro sono un’ulteriore dimostrazione del nostro impegno continuo rivolto alla ricerca di nuovi approcci per la terapia dei tumori, anche quelli più difficili da curare, come appunto il mieloma multiplo. - ha commentato Salvatore Nieddu, direttore generale dell’Irccs di Candiolo -. Questo specifico tumore del sangue sembra essere in grado di difendersi dai farmaci attualmente in uso tramite diversi meccanismi di resistenza. È quindi necessario sviluppare un armamentario sempre più ricco di farmaci che, combinati assieme, possano ridurre o evitare che il tumore sviluppi la capacità di resistere ai trattamenti».

Giornale dei Biologi | Mag 2024 25
© Nemes Laszlo/shutterstock.com
26 Giornale dei Biologi | Mag 2024
Salute

VERSO UN’IMMUNOTERAPIA PIÙ EFFICACE CONTRO IL CANCRO AL PANCREAS

Ricercatori dello Houston Methodist hanno scoperto che la posizione anatomica del tumore pancreatico influisce sui risultati delle terapie. Possibilità di sviluppare trattamenti più specifici

Un nuovo studio ha scoperto che le cellule del cancro al pancreas hanno caratteristiche diverse in base alla loro posizione occupata nell’organo. La scoperta fornisce nuove informazioni che potrebbero portare a individuare trattamenti immunoterapici più mirati. Il dottor Maen Abdelrahim, capo della sezione di oncologia medica gastrointestinale dello Houston Methodist, è il primo autore e l’ideatore del lavoro che ha avuto come oggetto la profilazione molecolare comparativa dell’adenocarcinoma duttale pancreatico della testa rispetto a quello del corpo e della coda. Nello studio, che è stato pubblicato su NPJ Precision Oncology, il team di ricerca ha scoperto che la posizione anatomica del tumore pancreatico è un fattore che contribuisce ai risultati delle terapie immuno-oncologiche.

L’adenocarcinoma duttale del pancreas (PDAC) della testa (H) e del corpo/coda (B/T) differiscono per origine embrionale, composizione cellulare, apporto di sangue, drenaggio linfatico e venoso e innervazione.

L’obiettivo dei ricercatori è stato quello di confrontare i profili molecolari e del microambiente immunitario tumorale (TIME) del PDAC della testa (H) rispetto a quello della coda (B/T). Abdelrahim e i suoi collaboratori hanno, infatti, formulato l’ipotesi che vi sia

una differenza nei microambienti dei tumori nella testa del pancreas rispetto al corpo e alla coda, in particolare per quanto riguarda i recettori per l’immunoterapia presenti in ciascuna sezione del pancreas. «Concentrandoci sulla biologia del tumore e tenendo conto della sua localizzazione nel pancreas, possiamo valutare meglio le nostre opzioni terapeutiche» ha detto Abdelrahim. «Passare a un modello basato sulla localizzazione del tumore può - continua l’autore - modificare seriamente il modo in cui i medici impostano i piani di trattamento preliminari».

Nello studio sono stati analizzati un totale di 3499 campioni di PDAC mediante sequenziamento di nuova generazione di RNA, DNA e immunoistochimica. Si tratta di una delle più ampie coorti di tumori PDAC sottoposte a un ampio profiling molecolare. Le differenze nell’espressione dei geni correlati all’immuno-oncologia (IO) e nella distribuzione delle cellule TIME suggeriscono che la risposta alle terapie dell’IO può essere diversa nei PDAC derivanti da H rispetto a B/T. Sono state osservate sottili differenze nei profili genomici dei tumori H rispetto a quelli B/T.

L’adenocarcinoma del pancreas è un tumore aggressivo, la cui diagnosi è aumentata drasticamente negli ultimi dieci anni. Fattori come l’aumento dell’obesità e del diabete

Giornale dei Biologi | Mag 2024 27 © SewCreamStudio/shutterstock.com
Salute

sono tra le cause di questa crescita. Attualmente è la settima causa di morte per cancro negli uomini e nelle donne a livello globale e si prevede che sarà la terza causa di morte per cancro a livello mondiale entro il 2030. Come spiega lo studio, dal punto di vista clinico, l’assenza di sintomi diagnostici nelle prime fasi di insorgenza della malattia e la mancanza di strumenti di screening o di diagnosi precoce e affidabili, fanno sì che la maggior parte dei pazienti affetti da PDAC venga diagnosticata in stadi avanzati con esiti sfavorevoli. Inoltre, nonostante tutte le risorse e gli sviluppi medici indirizzati al PDAC, il tasso di sopravvivenza a 5 anni non è andato oltre il 10% negli ultimi 50 anni.

Nella ricerca gli autori sostengono che numerosi studi hanno dimostrato variazioni significative nella prognosi dei tumori pancreatici H rispetto a quelli B/T. I tumori della testa e del processo uncinato sono spesso accompagnati da ittero e si ritiene che si manifestino prima nella progressione della malattia. Tuttavia, i tumori del pancreas B/T si manifestano spesso con perdita di peso e malessere, segni della malattia avanzata. Sebbene le variazioni nella prognosi siano state attribuite principalmente alla presentazione tardiva del

dottor Maen Abdelrahim, capo della sezione di oncologia medica gastrointestinale dello Houston Methodist, è il primo autore e l’ideatore del lavoro che ha avuto come oggetto la profilazione molecolare comparativa dell’adenocarcinoma duttale pancreatico della testa rispetto a quello del corpo e della coda.

B/T rispetto al PDAC dell’H, studi precedenti indicano che lo stadio TNM del tumore, dei linfonodi e delle metastasi al momento della presentazione non è sostanzialmente diverso tra le due sedi tumorali.

I profili dell’immuno-microambiente tumorale del PDAC sono quelli che sono risultati essere diversamente disregolati a seconda della sede del tumore. Sembra che i tumori B/T siano altamente proliferativi con espressioni recettoriali simili, rispetto al PDAC dell’H, che presenta espressioni variabili. Inoltre, è stato dimostrato che i tumori B/T sono più aggressivi, con una maggiore invasione e desmoplasia e una risposta relativamente più scarsa all’immunoterapia del tumore. Ulteriori analisi hanno rivelato una maggiore densità di trascrizioni di mRNA di una proteina legante il calcio nei tumori B/T rispetto a un maggiore signaling delle cellule B nel PDAC dell’H, che è stato collegato a esiti favorevoli. L’obiettivo ultimo dello studio è confrontare i profili molecolari e TIME del PDAC dell’H rispetto a quello del B/T, per aiutare i medici a sviluppare modalità di trattamento più specifiche per il tumore primario di queste due origini distinte. (S. B.)

28 Giornale dei Biologi | Mag 2024
Salute
Il Maen Abdelrahim.
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Sono state identificate 40 proteine nel sangue che possono influenzare lo sviluppo di nove tipologie di cancro. Queste proteine, quando alterate, possono sia aumentare sia diminuire il rischio di cancro. La modifica di queste proteine può anche portare a effetti collaterali indesiderati. Il team ha sottolineato la necessità di ulteriori ricerche per determinare il preciso ruolo di queste proteine nello sviluppo della malattia, identificare quali proteine siano più affidabili per i test, sviluppare test clinici per il rilevamento e creare farmaci che possano mirare specificamente a queste proteine.

Un semplice prelievo di sangue per scoprire il cancro prima della manifestazione clinica. È questo il contenuto di due ricerche finanziate da Cancer Research UK, guidate dall’Oxford Population Health e pubblicate sulla rivista Nature Communications, che hanno individuato delle proteine nel sangue capaci di segnalare la presenza di neoplasie con oltre sette anni di anticipo rispetto alla diagnosi. Gli studi hanno identificato 618 proteine associate a 19 tipi differenti di cancro, di cui 107 erano presenti in un gruppo di individui il cui sangue era stato prelevato almeno sette anni prima della loro diagnosi di cancro.

Il team di ricerca ha scoperto che queste proteine potrebbero avere un ruolo nelle fasi iniziali dello sviluppo della malattia, offrendo potenzialmente la possibilità di prevenirla. Gli scienziati ritengono che il monitoraggio di queste proteine potrebbe in futuro contribuire a trattare la malattia in uno stadio molto precoce o addirittura di diventare un’arma di prevenzione. Un elemento chiave di questi studi è l’uso della proteomica, una tecnica avanzata che permette agli scienziati di esaminare contemporaneamente un vasto numero di proteine nei campioni di tessuto, analizzando le loro interazioni e rilevando differenze significative.

Nel primo studio, il team ha esaminato campioni di sangue di oltre 44.000 partecipanti della Biobanca britannica, inclusi più di 4.900 persone che in seguito hanno ricevuto una diagnosi di malattia. Mediante la proteomica, gli scienziati hanno studiato 1.463 proteine in un singolo campione di sangue per ciascun soggetto. Hanno confrontato le proteine di individui con malattia diagnosticata e di quelli sani. Inoltre, hanno identificato 182 proteine che mostravano variazioni nel sangue fino a tre anni prima della diagnosi effettiva. Nel secondo studio, il team di ricerca ha analizzato i dati genetici di oltre 300.000 casi di cancro per studiare il coinvolgimento di specifiche proteine del sangue nello sviluppo del cancro e il loro potenziale come bersagli per nuovi trattamenti terapeutici.

Sono state identificate 40 proteine nel sangue che possono influenzare lo sviluppo di nove tipologie di cancro. Queste proteine, quando alterate, possono sia aumentare sia diminuire il rischio di cancro. La modifica di queste proteine può anche portare a effetti collaterali indesiderati. Il team ha sottolineato la necessità di ulteriori ricerche per determinare il preciso ruolo di queste proteine nello sviluppo della malattia, identificare quali

proteine siano più affidabili per i test, sviluppare test clinici per il rilevamento e creare farmaci che possano mirare specificamente a queste proteine.

Secondo la dottoressa Keren Papier, epidemiologa nutrizionale senior presso l’Oxford Population Health e coautrice del primo studio, per salvare più vite dal cancro, è fondamentale comprendere meglio i processi che si verificano nelle prime fasi della malattia. I dati raccolti da migliaia di persone affette da cancro hanno fornito informazioni preziose su come le proteine nel sangue possano modificare il rischio di sviluppare il cancro. Lo studio di queste proteine diventa fondamentale per determinare quali possano essere efficacemente utilizzate per la prevenzione.

I geni con cui nasciamo e le proteine che essi producono giocano un ruolo cruciale nell’origine e nella progressione del cancro. Grazie ai numerosi volontari che hanno donato campioni di sangue alla Biobank del Regno Unito, si è arrivati ad una comprensione molto più dettagliata di come i geni influenzino lo sviluppo delle neoplasie nel tempo. Si è iniziato a prevedere come il corpo possa reagire ai farmaci che mirano a specifiche proteine, includendo la possibilità di effetti collaterali. Questo fornisce indicazioni preliminari su quali proteine potrebbero essere meglio evitarne l’utilizzo a causa dei potenziali effetti indesiderati. La ricerca in questione si avvicina sempre più alla possibilità di prevenire il cancro con trattamenti mirati, un tempo considerati irrealizzabili, ma ora sempre più fattibili. Per prevenire il cancro, è essenziale comprendere i fattori che ne guidano le prime fasi. Gli studi in questione sono fondamentali perché offrono numerosi nuovi spunti sulle cause e sulla biologia di diversi tumori, fornendo informazioni su eventi che avvengono anni prima che il cancro venga diagnosticato. La medicina dispone di tecnologie che permettono di esaminare migliaia di proteine in migliaia di casi di cancro, individuando quelle che svolgono un ruolo chiave nello sviluppo di specifici tumori e quelle che potrebbero avere effetti trasversali su più tipi di cancro. Prevenire il cancro significa riconoscere i primi segnali di allarme della malattia. Ciò richiede una ricerca intensa e meticolosa per identificare i segnali molecolari più rilevanti. Le scoperte di questi studi rappresentano un importante passo verso l’implementazione di terapie preventive, che potrebbero garantire una vita più lunga e migliore, liberare dalla paura del cancro. (C. P.).

30 Giornale dei Biologi | Mag 2024
© nevodka/shutterstock.com
Salute

RICERCA ONCOLOGICA LA PROTEOMICA PER

LA PREVENZIONE DEL CANCRO

Due studi dell’Università di Oxford rivelano come un semplice prelievo di sangue possa anticipare la diagnosi di cancro di anni, aprendo nuove strade anche per i trattamenti

© Olena Yakobchuk/shutterstock.com Giornale dei Biologi | Mag 2024 31
Salute

Scienziati dell’Università del Colorado Boulder e dell’Università di Princeton hanno impiegato per la prima volta un metodo comunemente usato in geologia per identificare impronte atomiche nelle cellule tumorali. In questa intersezione tra medicina e scienze della terra, i ricercatori hanno scoperto che le cellule tumorali presentano un assortimento diverso di atomi di idrogeno rispetto ai tessuti sani. Questi risultati potrebbero offrire ai medici nuove strategie per esaminare lo sviluppo e la diffusione del cancro e potrebbero, in futuro, aiutare a identificare in fase precoce la presenza della malattia nel corpo.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista della National Academy of Sciences, grazie al gruppo di ricerca guidato dal geochimico della CU Boulder, Ashley Maloney. «Questo studio porta la medicina a un nuovo livello, permettendoci di osservare il cancro a livello atomico» ha dichiarato Maloney, ricercatore associato presso il Dipartimento di Scienze Geologiche. Maloney ha spiegato che in natura l’idrogeno esiste principalmente in due forme, o isotopi: il deuterio, che è leggermente più pesante, e l’idrogeno, che è più leggero. Sulla Terra, gli atomi di idrogeno sono molto più abbondanti di deuterio, con un rapporto di circa 6420 a uno. Da decenni, gli scienziati utilizzano la distribuzione naturale di questi atomi per scoprire dettagli sulla storia della Terra.

Nello studio, sono state coltivate in laboratorio colture di lievito e cellule di fegato, analizzando poi i loro atomi di idrogeno. È emerso che le cellule che crescono rapidamente, come quelle

tumorali, mostrano un rapporto molto diverso tra idrogeno e deuterio. La ricerca è ancora alle prime fasi e non è chiaro come questo segnale possa manifestarsi nei pazienti affetti da cancro. Tuttavia, il potenziale di questa scoperta è significativo, come sottolineato da Sebastian Kopf, coautore dello studio e assistente professore di scienze geologiche.

«Le tue possibilità di sopravvivenza aumentano notevolmente se il cancro viene diagnosticato presto,» ha detto Kopf. «Se questo segnale isotopico è ab -

GLI ISOTOPI PER RILEVARE IL CANCRO

Scoperto un segnale isotopico distintivo nelle cellule tumorali

Lo studio offre nuove strategie di cura e prospettive per la diagnosi precoce

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Salute

bastanza distinto da essere rilevato attraverso un semplice esame del sangue, potrebbe fornire un indizio vitale che qualcosa non va.»

Lo studio si basa sul concetto di metabolismo delle cellule. In condizioni normali, organismi come lieviti e animali producono energia attraverso la respirazione, un processo che coinvolge l’assorbimento di ossigeno e la liberazione di anidride carbonica. Tuttavia, esistono altri modi per produrre energia. Per esempio, le colonie di lievito di birra

Nello studio, sono state coltivate in laboratorio colture di lievito e cellule di fegato di topo, analizzando poi i loro atomi di idrogeno. È emerso che le cellule che crescono rapidamente, come quelle tumorali, mostrano un rapporto molto diverso tra idrogeno e deuterio. La ricerca è ancora alle prime fasi e non è chiaro come questo segnale possa manifestarsi nei pazienti affetti da cancro.

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(Saccharomyces cerevisiae) possono generare energia attraverso la fermentazione, un processo che decompone gli zuccheri senza ossigeno (nella produzione di alcol). Questo è lo stesso processo che permette la produzione della birra.

Negli esseri umani, durante un’attività fisica intensa che supera la capacità aerobica, anche i muscoli iniziano a fermentare, producendo energia rapidamente senza utilizzare ossigeno. Infatti, molte cellule tumorali sembrano adottare una strategia metabolica simile per sostenere la loro rapida crescita.

I ricercatori hanno cercato metodi innovativi per tracciare questi cambiamenti metabolici nelle cellule tumorali, per esempio monitorando l’andamento dell’idrogeno nelle cellule. In molti casi, questi atomi provengono dall’enzima nicotinamide adenina dinucleotide fosfato (NADPH), che gioca un ruolo cruciale nel metabolismo cellulare. Il NADPH è responsabile della raccolta di atomi di idrogeno che vengono poi trasferiti ad altre molecole nel processo di sintesi degli acidi grassi, essenziali per la vita. Tuttavia, il NADPH non utilizza sempre la stessa riserva di idrogeno. Studi precedenti sui batteri hanno mostrato che, a seconda delle attività di altri enzimi nella cellula, il NADPH può favorire l’uso di diversi isotopi di idrogeno.

Per indagare le differenze metaboliche tra cellule sane e tumorali, i ricercatori hanno fatto crescere, nei laboratori di Princeton e della CU Boulder, colonie di lievito e cellule epatiche, sia sane che cancerose, estraendo in seguito gli acidi grassi per analizzarli con uno spettrometro di massa, determinando il rapporto degli atomi di idrogeno. Il risultato emerso è stato inaspettato. Le cellule di lievito in fermentazione, simili a quelle tumorali, mostravano una riduzione media del 50% di atomi di deuterio rispetto alle cellule normali. Le cellule tumorali presentavano una carenza simile di deuterio, sebbene meno marcata.

Xinning Zhang, autore senior dello studio e assistente professore di geoscienze a Princeton, ha espresso la speranza che questi risultati possano un giorno aiutare le persone affette da cancro e altre malattie, evidenziando come uno strumento utilizzato per monitorare la salute del pianeta potrebbe essere applicato anche allo studio della salute umana, con il potenziale di espandere significativamente l’uso di queste tecniche nel monitoraggio delle malattie. (C. P.).

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Salute

Attualmente i programmi di screening promossi sul territorio nazionale prevedono l’esecuzione di una mammografia gratuita ogni due anni per le donne tra i 50 anni ed i 69 anni. E per le più giovani? Dai 30 anni è consigliata l’esecuzione di una ecografia ogni due anni, oltre a una visita senologica. In caso di familiarità o ereditarietà per neoplasia mammaria i controlli devono invece essere più ravvicinati. Sarà poi compito dello specialista stabilirne tempi e tipologia.

Ogni anno in Italia si contano oltre 50mila casi di tumori al seno con un’incidenza che purtroppo continua a essere in aumento. In pratica, ogni 15 minuti si registra una nuova diagnosi. E, nel corso della propria vita, finisce per ammalarsi una donna su nove. Si tratta di una neoplasia che oggi è curabile nel 97% dei casi quando il tumore è diagnosticato in una fase iniziale, ma che tuttavia uccide ancora ben 450mila donne l’anno, di cui oltre 12mila soltanto nel nostro Paese. A livello mondiale è la malattia più diagnosticata tra il genere femminile, nonché la principale causa di morte al netto dei miglioramenti avvenuti sia in ambito medico sia relativamente ai tempi della diagnosi. Nel corso degli ultimi tre decenni, l’incidenza di questa forma di cancro è aumentata del 3,1%. Sempre per quanto riguarda l’Italia, l’aumento dei casi è riscontrato in tutte e tre le fasce di età (under 50, 50-69 e over 70): tra il 2008 e il 2016 l’incidenza dei tumori della mammella nello Stivale è aumentata (mediamente per anno), rispettivamente, dell’1,6%, dello 0,7% e del 2%. Ma quali sono i fattori di rischio? Tra i tanti presi in considerazione ce n’è uno sottovalutato, ma che invece gioca un ruolo determinante: l’alcol. Già, secondo le stime tra il 2015 e il 2019 sono risultate attribuibili al consumo di bevande alcoliche (moderato o alto) circa 12mila nuove diagnosi e 3mila decessi per tumore della mammella. Inoltre, circa il 10% di tutti i casi di tumore al seno femminile sono correlati a mutazioni genetiche. A tal proposito è stata individuata una nuova forma ereditaria associata alle mutazioni del gene CDH1, già noto per la predisposizione del carcinoma gastrico ereditario. La scoperta è avvenuta grazie ai ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, autori di un nuovo studio pubblicato sulle pagine della prestigiosa rivista specializzata Jama Network Open. Questo nuovo tumore, chiamato carcinoma mammario lobulare ereditario, si differenzia integralmente dalla classica sindrome del carcinoma mammario ereditario, causata dalle note mutazioni dei geni BRCA1 e 2. Un’indagine accurata è opportuna per comprendere al meglio chi è a rischio attraverso dei test genetici specifici.

I ricercatori hanno già definito nuovi criteri clinici per testare il gene CDH1, che saranno pubblicati a breve sulle nuove linee guida dell’Associazione italiana di Oncologia Medica. Lo studio, in realtà, è già stato avviato da qualche anno e finanziato dal Ministero della Salute a partire dal 2016. Tra i promotori dell’iniziativa figura il dottor Giovanni Corso, chirurgo senologo dell’Istituto Europeo di Oncologia e ricercatore dell’Università Statale di Milano. Quest’ultimo ha avuto il grande merito di intuire che il gene CDH1 poteva essere associato anche al tumore lobulare del seno. Per verificare scientificamente quanto questa ipotesi potesse trovare riscontro sono state arruolate 5.429 donne operate al seno per tumore lobulare.

Di queste, 394 con il fenotipo sospetto sono state testate per i geni CDH1, BRCA1 e BRCA2. E sono arrivate conferme: circa il 5% presentava una variante del gene CDH1, senza mutazioni dei geni BRCA1 e 2. Nonostante questa possa essere considerata una sindrome rara, la probabilità che questa variante sia patogenetica, ovvero che possa causare la malattia, è molto alta: circa il 40%. Paolo Veronesi, uno degli autori dello studio, ha commentato i risultati del lavoro condotto: «La nostra scoperta ha importanti implicazioni cliniche perché abbiamo gli strumenti per proteggere le donne che presentano la nuova sindrome di carcinoma mammario lobulare ereditario. Ad esempio, si può seriamente considerare, caso per caso, l’opportunità della mastectomia bilaterale. Inoltre, è fortemente consigliata la gastroscopia annuale per un possibile rischio di sviluppare un carcinoma gastrico». Fondamentale, quindi, la prevenzione e in tal senso se ne possono distinguere di due tipi: quella primaria, nella quale si eliminano i fattori e le cause evitandone l’insorgenza, e quella secondaria, intesa come diagnosi precoce. Se la prima è più complicata, per la seconda occorre effettuare esami in grado di portare a una individuazione precoce della neoplasia e quindi ad una terapia (chirurgica) che sia radicale e risolutiva quando il tumore è in uno stadio iniziale. Anche l’autopalpazione ha una sua utilità, sebbene per accuratezza non possa certo eguagliare gli esami strumentali. La sua utilità, piuttosto, consiste nel verificare eventuali cambiamenti insorti nel tempo. (D. E.).

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LA SCOPERTA ITALIANA INDIVIDUATA UNA FORMA

EREDITARIA DI TUMORE AL SENO

I ricercatori dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano hanno scoperto un tipo di cancro legato alle mutazioni del gene CDH1: test genetici per capire chi è a rischio

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REALIZZATE SINAPSI ARTIFICIALI PER FUTURI COMPUTER PIÙ

SIMILI AL NOSTRO CERVELLO

Funzionano utilizzando acqua e sale e sono in grado di elaborare informazioni complesse

La scoperta apre la strada a importanti innovazioni per il funzionamento dei neuroni

Da diversi anni gli scienziati cercano di realizzare sistemi informatici in grado di replicare più fedelmente le straordinarie capacità di calcolo e di efficienza energetica del cervello umano. Un passo importante arriva ora dalla realizzazione della prima sinapsi che può elaborare in modo efficace informazioni complesse La grande innovazione di questa struttura è che funziona grazie a un semplice dispositivo che utilizza acqua e sale, lo stesso mezzo che impiega il nostro cervello. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Proceedings of the National Academy of Sciences.

Nel sistema nervoso centrale, le sinapsi svolgono un ruolo fondamentale utilizzando ioni, atomi o molecole cariche elettricamente disciolti in acqua per trasportare le informazioni tra i neuroni. Le sinapsi sono inoltre cruciali per la ricerca sulle reti neuronali, in un settore che punta a realizzare i cosiddetti computer neuromorfici che imitano da vicino il funzionamento dei neuroni e le loro connessioni. Nonostante le grandi prestazioni, infatti, i computer sono ancora molto lontani dalle incredibili capacità del cervello umano, soprattutto in termini di flessibilità e di consumi di energia.

La nuova sinapsi artificiale è stata realizzata da un gruppo di ricercatori guidato da Tim Kamsma, fisico teorico dell’Università olan-

dese di Utrecht, in collaborazione con i fisici sperimentali dell’Università di Sogang in Corea del Sud. Kamsma, l’autore principale dello studio, si dichiara entusiasta: «Mentre esistono già sinapsi artificiali in grado di elaborare informazioni complesse basate su materiali solidi, ora dimostriamo per la prima volta che questa funzione può essere svolta anche utilizzando acqua e sale». E sottolinea: «Stiamo replicando efficacemente il comportamento dei neuroni usando un sistema che impiega lo stesso mezzo del cervello». Questa nuova soluzione, spiegano gli autori della ricerca, permette di inviare segnali elettrici in modo molto più simile a quanto avviene in natura e quindi in maniera più efficiente.

Al centro della scoperta c’è un minuscolo dispositivo di 150 x 200 micrometri, che imita il comportamento di una sinapsi. Il sistema, sviluppato dagli scienziati coreani e denominato memristore iontronico, comprende un microcanale a forma di cono riempito con una soluzione di acqua e sale. Quando il dispositivo riceve impulsi elettrici, gli ioni all’interno del liquido migrano attraverso il canale, provocando alterazioni nella concentrazione degli ioni replicando così il funzionamento di una sinapsi cerebrale. A seconda dell’intensità, o della durata dell’impulso, la conduttività del canale si adatta di conseguenza, riproducendo il rafforzamento o l’indebolimento delle con-

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del cervello.

Un’altra scoperta fatta dai ricercatori è che la lunghezza del canale del dispositivo influisce sulla durata necessaria per dissipare le variazioni di concentrazione. «Questo - spiega l’autore - suggerisce la possibilità di adattare i canali in modo da trattenere ed elaborare le informazioni per una durata variabile, in modo simile ai meccanismi sinaptici osservati nel nostro cervello». La scoperta deriva da un’idea concepita da Kamsma che ha trasformato il concetto incentrato sull’utilizzo di canali ionici artificiali, in un solido modello teorico. «Per una coincidenza, in quel periodo, le strade del nostro gruppo di ricerca si sono incrociate con quelle del gruppo di ricercatori coreani», ricorda l’autore. «Essi hanno accolto la mia teoria con grande entusiasmo – prosegue lo scienziato - e hanno rapidamente avviato un lavoro sperimentale basato su di essa». «Dopo soli tre mesi - riferisce Kamsma - ho potuto assistere al passaggio da congetture teoriche a risultati tangibili e reali, che alla fine si sono

Nel sistema nervoso centrale, le sinapsi svolgono un ruolo fondamentale utilizzando ioni, atomi o molecole cariche elettricamente disciolti in acqua per trasportare le informazioni tra i neuroni.

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tradotti in ottimi risultati sperimentali». «Il nostro lavoro – continua l’autore - mostra la sinergia possibile quando teoria e sperimentazione collaborano in tutto il mondo, combinando fisica teorica, ingegneria, neuroscienze e matematica.

Kamsma precisa che l’informatica neuromorfa iontronica, che crea computer ispirati al cervello umano, pur essendo in rapido sviluppo, è ancora agli inizi. Gli autori hanno l’obiettivo di arrivare a realizzare un sistema informatico di gran lunga superiore in termini di efficienza e consumo energetico rispetto a quelli attuali. Per Kamsma la pubblicazione dello studio rappresenta una progressione cruciale verso computer non solo in grado di imitare i modelli di comunicazione del cervello umano, ma anche di essere più efficienti perché permettono di inviare segnali elettrici in modo molto più simile a quanto avviene in natura». «Forse – termina lo scienziato – il nostro lavoro aprirà la strada ad applicazioni sui sistemi informatici in grado di replicare più fedelmente le straordinarie capacità del cervello umano».

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IL GENE APOLIPOPROTEIN E4

NELL’ALZHEIMER

Uno studio rivela come l’omozigosità per il gene APOE4 accelera e intensifica l’insorgenza e la progressione dell’Alzheimer, offrendo nuove prospettive anche per trattamenti personalizzati

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Salute

Avere due copie del gene APOE4 potrebbe essere la causa genetica di circa un quinto di tutti i casi di malattia di Alzheimer (AD). A suggerirlo è lo studio “APOE4 homozygozity represents a distinct genetic form of Alzheimer’s disease” pubblicato sulla rivista Nature Medicine. Il gruppo di ricercatori, guidato dall’Istituto di Ricerca Biomedica dell’Ospedale della Santa Croce e San Paolo di Barcellona, ha esaminato l’impatto dell’omozigosi APOE4 (Apolipoprotein E4) sulla malattia di Alzheimer (AD) attraverso analisi patologiche, cliniche e di biomarcatori. Dallo studio è emerso come oltre il 95% degli individui che presentano due copie del gene APOE4- APOE4 omozigoti mostrano patologie legate all’AD e livelli elevati di biomarcatori associati alla malattia, nel liquido cerebrospinale e nelle immagini PET, già a partire dai 55 anni di età. Questi risultati indicano che l’omozigosi APOE4 rappresenta una variante distinta dell’AD e un potenziale nuovo bersaglio terapeutico.

La malattia di Alzheimer (AD) è influenzata da varianti genetiche rare e comuni che contribuiscono alla sua patogenesi. L’AD autosomico dominante (ADAD) a esordio precoce è causato dalle mutazioni nei geni APP, PSEN1 e PSEN2, che colpisce persone tra i 30 e 60 anni, mentre numerosi altri geni aumentano il rischio di AD sporadico. Il gene APOE rappresenta un fattore di rischio genetico elevato: gli individui omozigoti con variante APOE4 presentano un rischio di demenza da AD notevolmente più elevato rispetto agli eterozigoti o ai non portatori. I cambiamenti patologici, dei biomarcatori e clinici nell’Alzheimer determinato geneticamente forniscono importanti dati sulla fisiopatologia della malattia. Studi precedenti hanno evidenziato l’impatto del gene APOE sui cambiamenti nei biomarcatori, ma pochi hanno esaminato come la dose genetica influenzi i vari biomarcatori dell’Alzheimer negli individui omozigoti per APOE4. Comprendere queste influenze genetiche è fondamentale per sviluppare strategie di prevenzione e trattamenti personalizzati per l’Alzheimer. Nello studio sono state analizzate due principali fonti di dati relativi all’Alzheimer: i dati neuropatologici di 3.297 donatori, inclusi dettagli come valutazioni del cervello, genetica (aplotipo APOE), esami clinici e età di inizio malattia, provenienti dal Centro nazionale di coordinamento dell’Alzheimer (NACC); i dati clinici in vivo provenienti da 10.039 persone partecipanti a cinque studi diversi, che includevano vari biomarcatori utili a studiare

L’AD autosomico dominante (ADAD) a esordio precoce è causato dalle mutazioni nei geni APP, PSEN1 e PSEN2, che colpisce persone tra i 30 e 60 anni, mentre numerosi altri geni aumentano il rischio di AD sporadico. Il gene APOE rappresenta un fattore di rischio genetico elevato: gli individui omozigoti con variante APOE4 presentano un rischio di demenza da AD notevolmente più elevato rispetto agli eterozigoti o ai non portatori.

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le fasi precliniche dell’Alzheimer. Per le analisi biochimiche, sono stati esaminati biomarcatori nei fluidi corporei di 1.665 partecipanti utilizzando tecnologie avanzate. Per l’imaging cerebrale, è stato misurato il volume dell’ippocampo tramite MRI in 5.108 partecipanti, e sono state effettuate scansioni PET per l’amiloide e per il Tau in altri partecipanti. Dallo studio è emerso che gli individui omozigoti per il gene APOE4 manifestano una serie di cambiamenti neuropatologici legati alla malattia di Alzheimer (AD) in maniera più precoce e intensa rispetto agli omozigoti APOE3. Questi cambiamenti includono livelli elevati di biomarcatori anomali a partire dai 55 anni, con una quasi completa manifestazione di tali livelli entro i 65 anni. Gli omozigoti APOE4 tendono a sviluppare sintomi di AD, deterioramento cognitivo, demenza e morte più precocemente rispetto agli omozigoti APOE3, con un pattern di insorgenza simile a quello osservato nel PSEN1 e nella sindrome di Down.

Nel dettaglio, i biomarcatori come Aβ1-42 e Centiloid nel liquido cerebrospinale iniziano a cambiare prima dei 50 anni, mentre aumenti del pTau si verificano all’inizio dei 50 anni. Vi è inoltre un aumento significativo dei livelli di catene leggere dei neurofilamenti, indicativo di neurodegenerazione, e l’atrofia dell’ippocampo inizia prima, suggerendo una traiettoria di deterioramento distinta associata all’APOE4. Nonostante le deviazioni nei biomarcatori iniziali, nella fase di demenza AD non si osservano differenze significative nei biomarcatori tra i vari aplotipi APOE, indicando una patologia coerente a prescindere dal genotipo e dall’età. Tuttavia, sono state rilevate differenze nei profili di biomarcatori tra gli eterozigoti APOE3 e APOE4, influenzati dalla dose genetica. Secondo i ricercatori, per una comprensione più completa dell’effetto dell’APOE4 sul rischio di AD, sarà essenziale includere, nei futuri studi di ricerca, popolazioni quanto più diverse.

Lo studio fornisce chiare evidenze che gli omozigoti APOE4 rappresentano una specifica manifestazione genetica della malattia di Alzheimer. Questa ricerca ha importanti implicazioni per la salute pubblica, per le strategie di consulenza genetica per i portatori di questo gene, e orienta le future direzioni della ricerca. I dati della ricerca indicano chiaramente che possedere due copie del gene APOE4 non solo aumenta il rischio, ma anche anticipa l’insorgenza della malattia di Alzheimer, sottolineando l’importanza di sviluppare strategie preventive mirate. (C. P.).

Giornale dei Biologi | Mag 2024 39
Salute

SCOPERTA RIVOLUZIONARIA NELLA LOTTA CONTRO L’ATASSIA

SPINOCEREBELLARE 4

Dopo 25 anni di ricerche, scienziati dell’Università dello Utah hanno identificato la causa genetica della SCA4 aprendo la strada a nuove possibilità terapeutiche

40 Giornale dei Biologi | Mag 2024
di Carmen Paradiso
Salute © Yang Nan/shutterstock.com

Dopo una ricerca durata un quarto di secolo, una nuova metodologia di sequenziamento ha permesso, a un team di scienziati, di identificare la causa genetica dell’atassia spinocerebellare di tipo 4 (SCA4), un disturbo del movimento raro e debilitante. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Genetics.

L’atassia spinocerebellare 4 è una malattia genetica che colpisce gravemente chi ne soffre. Non esiste ancora una cura per la SCA4 e, fino a poco tempo fa, anche la causa era sconosciuta. Ora, grazie agli sforzi continui di un gruppo di ricerca internazionale guidato dall’Università dello Utah (USA), è stata identificata la specifica anomalia genetica. Questa scoperta offre finalmente delle risposte alle famiglie colpite e apre la strada a possibili sviluppi terapeutici. La SCA4 è caratterizzata da un peggioramento progressivo della coordinazione motoria, con sintomi che generalmente si manifestano tra i 40 e i 50 anni, anche se in alcuni casi possono insorgere già durante la tarda adolescenza. La malattia ha un’ereditarietà genetica e uno studio del 1996 aveva localizzato il gene responsabile in una specifica regione cromosomica. Tuttavia, la presenza di sequenze ripetute e la composizione chimica particolare di questa regione hanno reso l’analisi estremamente difficile, ritardando l’identificazione della mutazione genetica responsabile per oltre due decenni.

Per superare le difficoltà di identificazione della mutazione genetica responsabile della SCA4, il team dell’Università dello Utah ha adottato una nuova tecnica di sequenziamento: il sequenziamento dell’intero genoma a filamento singolo a lunga lettura (LR-GS). Utilizzando questa metodologia avanzata, i ricercatori hanno sequenziato sia il DNA di individui affetti da SCA4 e sia di non affetti. È emerso che nei soggetti con SCA4 una sezione del gene ZFHX3 è più lunga del normale e presenta una lunga stringa di DNA ripetitivo, definita espansione di ripetizione GGC. Per approfondire la ricerca, gli studiosi hanno isolato cellule da persone con SCA4 e rilevato la presenza di aggregati proteici ZFHX3-p62-ubiquitina. Inoltre, hanno esaminato fibroblasti e cellule staminali pluripotenti indotte con la versione ripetitiva di ZFHX3, riscontrando livelli aumentati di proteina ZFHX3 in grado di ostacolare il meccanismo di riciclaggio delle proteine delle cellule. «Questa mutazione è una ripetizione espansa tossica e pensiamo che interferisca con il modo in cui una cellula

L’atassia spinocerebellare 4 è una malattia genetica che colpisce gravemente chi ne soffre. Non esiste ancora una cura per la SCA4 e, fino a poco tempo fa, anche la causa era sconosciuta. Ora, grazie agli sforzi continui di un gruppo di ricerca internazionale guidato dall’Università dello Utah (USA), è stata identificata la specifica anomalia genetica.

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gestisce le proteine non ripiegate o mal ripiegate», ha dichiarato Stefan Pulst, co-autore dello studio. Un fenomeno simile è stato osservato in un’altra forma di atassia, la SCA2. L’Atassia Spinocerebellare di tipo 2 è una patologia neurodegenerativa di origine genetica che si presenta generalmente intorno ai 30 anni e ha una prevalenza di circa 3 casi ogni 100mila persone. Questa malattia causa disturbi del linguaggio, difficoltà nella deambulazione, complicazioni cardiache e conduce alla morte entro 20 anni dall’esordio dei sintomi. Lo stesso gruppo di ricerca ha iniziato a testare una potenziale terapia per la SCA2 negli studi clinici che potrebbe risultare efficace anche per i pazienti affetti da SCA4.

Identificare la causa genetica dell’atassia spinocerebellare 4 offre speranza per lo sviluppo di trattamenti efficaci in futuro. Il primo passo per migliorare veramente la vita dei pazienti affetti da malattie ereditarie è scoprire la causa principale. Sebbene lo sviluppo di trattamenti possa richiedere tempo, comprendere le cause della malattia è fondamentale per le famiglie che ogni giorno combattono con la SCA4. La conoscenza della mutazione genetica responsabile della malattia permette di influenzare decisioni importanti, come la pianificazione familiare. È possibile sottoporsi a test per determinare la presenza della mutazione, ottenendo così risposte chiare. I ricercatori hanno sottolineato come le scoperte siano state rese possibili grazie alla generosità dei pazienti affetti da atassia spinocerebellare 4 e delle loro famiglie, che hanno condiviso documenti familiari e campioni biologici. Questo ha permesso il confronto del DNA tra individui affetti e non affetti. Le informazioni raccolte sono state molto dettagliate tanto da permettere ai ricercatori di risalire alle origini della malattia nello Utah, identificandole in una coppia di pionieri che si stabilì nella Salt Lake Valley negli anni ‘40 del diciannovesimo secolo. Data la stretta interazione con molte famiglie affette dalla malattia, lo studio della SCA4 è diventato un impegno significativo. Dal 2010, quando la prima famiglia ha contattato il team di ricerca, l’approccio è stato caratterizzato da una profonda connessione con i pazienti. Non sono solo numeri su una fiala di DNA, ma individui con cui i ricercatori interagiscono quotidianamente. Questo aspetto rende il lavoro non solo una questione scientifica, ma una questione di vita reale, sottolineando l’importanza umana oltre che scientifica del progetto.

Giornale dei Biologi | Mag 2024 41 Salute

EFFETTI DELLE RESTRIZIONI DA

COVID SULLO SVILUPPO DEI BIMBI

La pandemia si è ripercossa anche sui più piccoli che hanno registrato un aumento dello stress e dell’ansia per via dell’impossibilità di svolgere le attività quotidiane

di Domenico Esposito

42 Giornale dei Biologi | Mag 2024 Salute

Non è certo un mistero che il Covid-19 abbia profondamente segnato le nostre vite. Gli effetti della pandemia hanno avuto un impatto ben superiore alla sua durata, toccando ogni aspetto della nostra quotidianità, a partire proprio da quello sociale. A risentirne non sono stati soltanto gli adulti, ma anche i bambini, privati della possibilità di andare a scuola, frequentare i coetanei e vivere regolarmente gli spazi esterni. Uno studio pubblicato sul Journal of American Medical Association Pediatrics e condotto dagli scienziati del Johns Hopkins Children’s Center è andato oltre, esaminando i possibili collegamenti tra i punteggi di screening delle tappe dello sviluppo e le limitazioni dovute alla pandemia. È emerso che neonati e bambini di età inferiore a cinque anni hanno sperimentato dei piccoli ritardi, modesti ma significativi, nelle tappe fondamentali dello sviluppo, a causa proprio delle restrizioni imposte dal Covid. I dati, ottenuti nell’ambito del Comprehensive Health and Decision Information System (CHADIS), si basano sulle informazioni raccolte da oltre 5.000 studi pediatrici e operatori sanitari in 48 stati americani diversi.

Una delle autrici dello studio, Sara Johnson, ha spiegato che «sebbene siano emersi dei piccoli cambiamenti, i ritardi nelle tappe fondamentali dello sviluppo non sono così rilevanti. Sappiamo che la diffusione del nuovo coronavirus ha sconvolto la vita di moltissime persone ed è importante capire come queste alterazioni si siano ripercosse sui bambini». In tanti, addirittura la maggioranza dei piccoli pazienti, sono andati incontro a un aumento dello stress, dell’ansia e dell’isolamento sociale, a causa dell’impossibilità di svolgere le normali attività quotidiane.

Gli esperti stavolta hanno considerato lo stato fondamentale dello sviluppo di 50.205 bambini di età compresa tra zero e cinque anni. Confrontando i dati raccolti prima e dopo la pandemia, gli studiosi hanno riscontrato un calo del 3% nelle capacità di comunicazione e 2% in ambito di risoluzione dei problemi e nella sfera sociale. Diverso, invece, il discorso per quanto riguarda le abilità motorie per le quali non sono state evidenziate sostanziali differenze col passato. Tra zero e 12 mesi, inoltre, gli autori non hanno notato riduzioni nello svilup-

Già in passato si era provato a investigare sulle conseguenze di quel radicale cambiamento di vita, con particolare riferimento alle condizioni di obesità infantile e ai disturbi del sonno. Ma tutti i risultati prodotti non avevano sentenziato in maniera chiara e inequivocabile i reali effetti della pandemia.

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po relativo alla sfera sociale, ma i valori per gli altri due aspetti erano sovrapponibili.

Ciò che è venuto a galla è andato anche oltre le aspettative degli stessi autori della ricerca: «Non ci aspettavamo dati simili per bambini e neonatiafferma Johnson - e abbiamo anche scoperto che le preoccupazioni e lo stress genitoriale non sono aumentati di molto durante il periodo delle restrizioni. In linea di massima, questi risultati sono rassicuranti, ma le implicazioni a lungo termine dello sviluppo infantile restano poco chiare». Una precisazione, però, va fatta: non sono stati presi in considerazione nell’analisi complessiva altri fattori di stress, come l’abuso di sostanze da parte delle madri durante la gravidanza. Allo stesso tempo la valutazione non ha inoltre tenuto conto delle nascite premature, per cui gli impatti sullo sviluppo di questo sottogruppo potrebbero essere sottostimati.

Chiaro l’auspicio dell’autrice: «Speriamo che il nostro lavoro - ha dichiarato - possa contribuire alla pianificazione di interventi mirati per le future situazioni emergenziali, che tengano conto dei bisogni dei più piccoli». È evidente come esistano degli effetti tangibili del Covid legati allo sviluppo del virus stesso e a tutte le conseguenze anche a lungo termine che il contagio ha arrecato. Ma allo stesso tempo ce ne sono anche altri, apparentemente più nascosti e per questo motivo ancor più subdoli che invece nascono nella componente psicologica della gestione della quarantena e del suo post. Un cambiamento così radicale e improvviso non poteva non avere un impatto considerevole sulla vita di ognuno di noi, senza alcuna eccezione. Anche i bambini si sono trovati a dover gestire magari in maniera inconsapevole delle difficoltà che col tempo fuoriescono con tutte le loro criticità del caso.

Alcune ricerche condotte negli anni scorsi in diversi paesi europei hanno messo in evidenza un aumento di fenomeni e condizioni, come gli atti di autolesionismo o il disturbo da stress post-traumatico, associati in vario modo all’isolamento. Si è registrata anche una crescita di episodi di cyberbullismo tra gli adolescenti e una diffusa e generalizzata amplificazione dei disturbi del comportamento alimentare (spesso collegati a disturbi della percezione corporea e dell’autostima), come pure degli stati ansiosi e depressivi. Infine sono state anche riportate difficoltà nella compensazione dei disturbi specifici dell’apprendimento.

Giornale dei Biologi | Mag 2024 43 Salute

PROBLEMI ORMONALI

UN MISTERO PER MOLTI

Ne soffrono tre persone su quattro almeno una volta nella vita, ma individuarli in tempo non è affatto facile

Prima o poi tocca a tutti o quasi imbattersi in un problema ormonale. Lo raccontano i numeri, incontrovertibili. Come rivelato da Gianluca Aimaretti, presidente della Società Italiana di Endocrinologia (SIE) e direttore del Dipartimento di Medicina Translazionale (DiMET) dell’Università del Piemonte Orientale, «c’è il 75% di probabilità che ognuno di noi, nell’arco della vita, abbia a che fare con un problema ormonale». Nonostante gli ormoni giochino un ruolo cruciale tanto sulla salute femminile quanto su maschile, in pochi sanno come comportarsi quando

sono chiamati ad affrontare eventuali squilibri, riscontrando difficoltà anche nel capire a quale figura professionale rivolgersi. Già, questo perché tante patologie - dall’obesità al diabete, passando per infertilità e osteoporosi - sono in qualche modo connesse ad alterazioni ormonali.

C’è poi un altro aspetto di cui tener conto, come sottolinea Aimaretti. «I sintomi di un infarto o di un ictus sono peculiari e dunque facilmente riconoscibili, mentre gli ormoni agiscono in maniera meno chiara ed evidente». Ciò comporta che l’endocrinologo debba necessariamente essere

uno specialista competente su svariate aree terapeutiche, anche molto distanti fra di loro. In occasione del recente Hormone Day la Società Italiana di Endocrinologia ha promosso numerose iniziative proprio per sensibilizzare la cittadinanza e aiutarla a comprendere quali sono le spie di possibili squilibri ormonali. Esistono, infatti, dei campanelli d’allarme che non vanno sottovalutati, perché il tempismo può rivelarsi prezioso nell’evitare che insorgano patologie di cui gli ormoni, sostanze chimiche prodotte dalle ghiandole endocrine che regolano molte funzioni del corpo compreso lo sviluppo e il metabolismo, sono causa diretta o una delle cause. E, quando il normale equilibrio degli ormoni nel corpo è alterato, si rischiano problemi di salute di diversa natura.

Giusto per fare qualche esempio: un tumore su quattro e il 30% delle malattie croniche dipendono proprio da squilibri ormonali, su cui impattano in maniera pesante anche il tipo di alimentazione e stili di vita non corretti. “Conoscere gli ormoni, la loro importanza e mettere in pratica strategie in grado di prevenire le tante malattie legate a una componente ormonale alterata significa incidere positivamente sulla salute dei cittadini” ha spiegato Diego Ferone, presidente eletto SIE e Direttore Clinica Endocrinologica presso l’IRCCS Policlinico San Martino, Università di Genova.

Tra i suggerimenti, ce n’è uno che va seguito ad ogni costo: tenersi in forma. Perché «la pratica regolare dell’esercizio fisico riduce l’impatto di malattie a forte componente ormonale come l’obesità, i tumori e il diabete». Sintomi da non prendere sottogamba sono variazioni improvvise di peso, disturbi del sonno, fragilità di unghie e capelli, stanchezza eccessiva, sete persistente, comparsa di depressione del tono dell’umore, calo del desiderio sessuale e infertilità: in questi casi bisogna rivolgersi a un endocrinologo. (D. E.). ©

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Salute
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Aumentano i casi di pubertà precoce in Italia. L’impennata si è registrata in particolare durante la pandemia di Covid e a essere colpite sono soprattutto le bambine. Ma che cos’è la pubertà precoce? A fare chiarezza è il sito dell’ospedale Bambino Gesù di Roma: si parla di pubertà precoce quando compaiono i segni di sviluppo puberale prima dell’età di otto anni per le femmine e prima dei nove anni nei maschi.

Quando, invece, i segni di sviluppo puberale compaiono dopo gli otto anni nelle femmine e dopo i nove anni nei maschi si parla invece di pubertà anticipata. Per quanto è specificato che alla base della maggior parte dei casi di pubertà precoce o anticipata non vi sono malattie, si tratta comunque di una condizione da non sottovalutare. Soprattutto per due ragioni: perché lo sviluppo scheletrico precoce può influenzare l’altezza finale di un individuo e perché il rapido cambiamento fisico e ormonale può portare a problemi emotivi come ansia o depressione, oltre ad avere difficoltà nel relazionarsi con i loro coetanei a causa appunto dello sviluppo precoce. Ad ogni modo la pubertà precoce, legata alla produzione di ormoni prodotti dalla ghiandola ipofisaria che stimolano la funzione dei testicoli e delle ovaie, può avere spesso a carattere ereditario, per cui è possibile che risultino già casi simili in famiglia. Secondo gli esperti dietro questo aumento dei casi (ma l’incidenza si sta riallineando al 2019) si celano diversi fattori di rischio. Tra quelli segnalati figurano lo stress, la sedentarietà e anche il troppo tempo trascorso davanti a dispositivi elettronici come pc, smartphone e tablet. E, ancora, l’aumento di massa corporea e l’improvvisa interruzione dell’attività sportiva. Ciò a testimonianza di quanto sia importante tenersi in forma fin da bambini e nello stesso tempo seguire una corretta alimentazio -

PUBERTÀ PRECOCE

I CASI SONO IN AUMENTO

La pandemia di Covid-19 ha dato un’accelerata: tra i principali fattori di rischio stress, sedentarietà e schermi

ne. C’è, però, da ribaltare un trend negativo. Sì, occorre un’inversione di rotta. In tal senso risultano indicative le interviste realizzate dal reparto pediatrico del Bambino Gesù a diverse famiglie dei piccoli pazienti: è emerso, infatti, come di recente vi sia stato un aumento significativo dell’uso dei dispositivi elettronici.

A pesare l’introduzione della didattica a distanza durante il periodo della pandemia ma specialmente l’uso che si fa di smartphone, tablet e tv nel corso del tempo libero. L’esposizione agli schermi e i rischi che ne conseguono sono oggetto di studi scientifici

già da tempo. «Al momento sono in corso ricerche sui topi, da cui è venuto fuori che l’esposizione prolungata alla luce blu porta a un anticipo della pubertà nelle femmine» ha spiegato Carla Bizzarri, responsabile dell’ambulatorio di endocrinologia pediatrica del nosocomio romano. Ciò che, invece, è certo è che dagli anni Cinquanta a oggi la data della prima mestruazione è stata anticipata di un anno, scendendo dai 12 anni e mezzo agli 11 e mezzo di oggi. Il consiglio rivolto ai genitori è di consultare un pediatra quando si sospetta che un bambino stia attraversando la pubertà precoce. (D. E.).

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Un’attenzione particolare va data alla luce blu che può disturbare i loro ritmi circadiani durante la notte, creando un aumento della produzione di ROS, danni al DNA e livelli di mediatori dell’infiammazione. Inoltre, i disturbi del sonno derivanti da fattori fisiologici e ambientali possono alterare i normali ritmi circadiani e aumentano il rischio di caduta aumentata e di alopecia areata. Molti studi hanno dimostrato che i lavoratori notturni a lungo termine mostrano funzioni metaboliche anormali.

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L’orologio circadiano interno risente del ciclo luce-buio e genera autonomamente ritmicità fisiologiche e metaboliche ed è stato a lungo focalizzato nel SCN; tuttavia ampie prove indicano che esiste un orologio circadiano periferico con una funzione indipendente dal SNC che riguarda organi e tessuti con importanti funzioni metaboliche, come fegato, grasso, muscoli e pelle. Nella pelle, gli annessi cutanei fra cui peli e capelli risentono di cadute stagionali proprio a causa dell’orologio circadiano che avvisa in quale periodo è vantaggioso cambiare il pelo. Notiamo tutti infatti che nei cambi stagionali, in primavera e soprattutto in autunno, abbiamo una sincronizzazione della caduta.

Tale caduta aumentata è un retaggio ancestrale regolato proprio dal ritmo circadiano che avvisa a livello metabolico che è terminata la vecchia stagione ed occorre cambiare il pelo per ricreare una copertura più adatta alla nuova stagione. Fisiologicamente, i nostri capelli affrontano ripetutamente un ciclo di vita composto da crescita (anagen), riposo (catagen) e caduta (telogen); durante le fasi finali di catagen e telogen, le cellule staminali (SC) nel bulge del follicolo pilifero (HF) ricevono il segnale per iniziare la nuova fase di crescita grazie alla quale ripartirà il ciclo.

Alcuni ricercatori hanno scoperto mediante colture di HF umani che è attiva l’espressione delle proteine CLOCK, PER1 e BMAL1, in particolare i geni regolati da CLOCK sono significativamente attivi in HF durante la fase telogen. Gli HF si comportano quindi come recettori sensibili dell’orologio circadiano e sono costantemente esposti alle fluttuazioni quotidiane di temperatura, umidità e luce. Curiosamente, in assenza di luce, quando Bmal1 è esaurito nella maggior parte dei neuroni del SCN, la ritmicità dell’orologio viene mantenuta nei tessuti periferici come i follicoli. Questa osservazione indica che se l’orologio del SCN viene interrotto, gli orologi non derivati dal SCN possono comunque sincronizzare il ritmo circadiano dei tessuti periferici in costante oscurità. La luce quindi, può sincronizzare gli orologi circadiani all’interno dell’epidermide in assenza di orologi gui -

dati da BMAL1 in altri tessuti, cosicché la nostra pelle, i nostri annessi cutanei rimangono attivi e sensibili alle variazioni responsabili dei ritmi circadiani.

A livello biochimico, avviene che ad ogni riavvio del ciclo vitale del capello, le cellule staminali HF utilizzano il metabolismo glicolitico e producono significativamente più lattato rispetto ad altre cellule epidermiche. L’aumento della produzione di lattato nelle cellule staminali HF accelera la loro attivazione e facendo progredire il ciclo pilifero. Diversi studi hanno dimostrato che la disregolazione dell’orologio circadiano negli HF perturba la progressione del ciclo vitale dei capelli. Inoltre, vi sono prove sempre più evidenti che l’o -

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rologio circadiano esercita un’influenza significativa sul metabolismo del glucosio, sul ritmo alimentazione/digiuno, sulla differenziazione delle cellule staminali e sulla senescenza. Ciò suggerisce che la diafonia metabolica circadiana svolge un ruolo essenziale nella regolazione della rigenerazione dell’HF e la disregolazione dei geni dell’orologio circadiano provoca un ritardo della fase anagen.

Possiamo concludere dicendo che l’attività di nuova crescita capillare nel follicolo pilifero è controllata da molti processi fisiologici e metabolici, in particolare dalla riprogrammazione metabolica. I segnali ambientali come la temperatura, la luce e l’assunzione di cibo possono

IL RITMO CIRCADIANO DEI

FOLLICOLI PILIFERI

Nella pelle, gli annessi cutanei fra cui peli e capelli risentono di cadute stagionali proprio a causa dell’orologio circadiano che avvisa in quale periodo è vantaggioso cambiare il pelo

Alcuni ricercatori hanno scoperto mediante colture di HF umani che è attiva l’espressione delle proteine CLOCK, PER1 e BMAL1, in particolare i geni regolati da CLOCK sono significativamente attivi in HF durante la fase telogen. Gli HF si comportano quindi come recettori sensibili dell’orologio circadiano e sono costantemente esposti alle fluttuazioni quotidiane di temperatura, umidità e luce.

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resettare l’orologio periferico, che è indipendente dall’SCN. L’HF fornisce un buon modello per esaminare gli orologi periferici che modulano la rigenerazione cellulare e tissutale. La perdita dell’orologio circadiano nelle cellule staminali può quindi comportare un aumento significativo della produzione di ROS aumentando possibilmente il danno infiammatorio. Ciò solleva alcune domande interessanti, come determinare i meccanismi sottostanti a tale regolazione. Nonostante la nostra crescente conoscenza della biologia dell’HF e dell’orologio circadiano, i meccanismi molecolari alla base del ciclo dell’HF richiedono ulteriori indagini. Una migliore comprensione del ruolo dell’orologio circadiano negli HF potrebbe facilitare la scoperta di nuovi bersagli farmacologici per la caduta dei capelli.

1. Niu Y, Wang Y, Chen H, Liu X, Liu J. Overview of the Circadian Clock in the Hair Follicle Cycle. Biomolecules. 2023 Jul 3;13(7):1068. doi: 10.3390/biom13071068. PMID: 37509104; PMCID: PMC10377266. Bibliografia

Salute
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Giornale
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di Biancamaria Mancini

BIOBANCA

CONSULTABILE ON-LINE

Il nuovo archivio dell’Enea, conservato in 4 centri di ricerca, è un tesoro da scoprire per una biodiversità al servizio di settori chiave come agricoltura, ambiente ed energia

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Ambiente
di Gianpaolo Palazzo

Un’escursione digitale attraverso la vita in miniatura. L’Enea ha annunciato il lancio di un portale su un mondo, apparentemente invisibile, ma molto influente. L’archivio on-line, un deposito di oltre 1400 microrganismi, tra cui batteri, funghi, lieviti, microalghe e virus vegetali, è un laboratorio d’idee che potrebbe trasformare il nostro futuro. Da bioenergia a sicurezza alimentare, da agricoltura ad ambiente, da patrimonio culturale a sicurezza alimentare e salute le applicazioni sono infinite. Le risorse microbiche sono conservate nei quattro centri di ricerca a Brindisi, Casaccia (Roma), Portici (Napoli) e Trisaia di Rotondella (Matera). Durante gli anni, sono state catalogate diventando un patrimonio unico a livello nazionale. La collezione vede tra i suoi protagonisti microrganismi che promuovono la crescita delle piante e controllano i funghi fitopatogeni. Alcuni fra essi sono adattati a condizioni estreme e hanno applicazioni biotecnologiche, tra cui la produzione di molecole bio-based per i settori nutraceutico, cosmeceutico, farmaceutico, per la chimica verde, il biorisanamento, il biorestauro e la biomedicina.

Il database è facilmente consultabile grazie a diverse chiavi di ricerca che permettono di filtrare i riferimenti desiderati. Fornisce notizie dettagliate fra cui la classificazione tassonomica, origine, geolocalizzazione, condizioni di crescita, campi di applicazione e utili orientamenti bibliografici, per approfondire ulteriormente le documentazioni. A partire dagli anni ‘80, gli studiosi hanno effettuato isolamento, caratterizzazione e conservazione di vari ceppi e consorzi microbici (comprendenti batteri, funghi, alghe e virus) provenienti da diverse matrici ambientali. Questo ha portato allo sviluppo di competenze multidisciplinari, alla creazione di laboratori all’avanguardia e alla realizzazione di strutture tecnologiche dotate d’impianti su scala pilota. Quest’ultime sono in grado di offrire servizi di alto livello per sostenere le attività di aziende ed enti di ricerca. Nel 2019 l’Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) è entrata a far parte della Joint Research Unit MIRRI-IT, per l’implementazione del nodo italiano di MIRRI (Microbial Resource Research Infrastructure). È la più grande “catena” europea per la salvaguardia della bio-

Ambiente

«Rappresenta uno strumento di eccellenza - afferma Annamaria Bevivino, curatrice della collezione - per la salvaguardia della biodiversità microbica e per lo sviluppo della bioeconomia circolare e della biosostenibilità. Le risorse biologiche (microrganismi, microbiomi e loro derivati) sono cruciali per il progresso delle biotecnologie, della salute umana, dei sistemi agricoli e alimentari e per la ricerca e lo sviluppo delle scienze della vita e della bioindustria».

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diversità microbica, conservazione e diffusione al fine di promuovere sostenibilità ambientale, evoluzione biotecnologica ed espansione della bioeconomia, stimolando la formazione di una rete cooperativa tra le raccolte italiane.

Recentemente, il progetto Pnrr Sus-Mirri. it (Strengthening the MIRRI Italian Research Infrastructure for Sustainable Bioscience and Bioeconomy), finanziato con 17 milioni di euro nell’ambito del programma NextGenerationEU della Commissione Europea, ha permesso di valorizzare ulteriormente l’assortimento nazionale: «Il progetto - ha sottolineato ancora Annamaria Bevivino, responsabile scientifico per ENEA del Sus-Mirri.it - implementerà la ricerca, i servizi e la formazione all’interno della rete italiana di collezioni migliorandone la caratterizzazione e ottimizzandone la gestione, in modo da valorizzare il loro potenziale. La gestione ottimizzata delle risorse, l’uso delle piattaforme digitali abbinate alla condivisione dei dati, potrà contribuire alla creazione di soluzioni e prodotti innovativi d’interesse biotecnologico, in linea con i principi di bioeconomia circolare, e a ulteriori progressi scientifici».

La biobanca, organizzata secondo procedure operative e standard di qualità, rafforza la posizione italiana in questo campo, mettendo a disposizione strumenti efficaci per sostenere fini sociali, economici e ambientali. Questa piattaforma digitale sarà integrata nel catalogo nazionale delle collezioni microbiche, facilitando il progresso di risorse, servizi, competenze e attività di trasferimento tecnologico. I ceppi batterici appartengono ai generi Burkholderia, Pseudomonas, Bacillus, Arthrobacter, Streptomyces, Paenibacillus, Staphylococcus, Stenotrophomonas e Microbacterium; per i funghi Aspergillus, Penicillium, Engyodontium, Cladosporium e Trichoderma, e per i lieviti Saccharomyces, Rhodotorula e Pichia. Sono anche presenti le specie di microalghe Haematococcus pluvialis e Scenedesmus almeriensis e un virus vegetale, il Potexvirus, con importanti applicazioni biotecnologiche. Esse avrebbero affascinato anche Mark Twain, quando raccontava la storia di Huck, un uomo tramutato per errore nel microbo del colera Bkshp, costretto a viaggiare dentro il corpo del barbone Blitzowski, confermando come, anche in quel piccolo mondo, ci sia sempre qualcosa di nuovo da scoprire.

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In un’epoca in cui l’innovazione si fonde con l’ecologia, Ispra (Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale) inaugura un’era di sostenibilità con una rete di comunicazione wireless sottomarina. Questo sistema all’avanguardia, primo del suo genere in Italia e nel Mediterraneo, promette di trasformare il monitoraggio ambientale, aprendo nuove frontiere per la tutela delle risorse marittime.

A cavallo tra le province di Grosseto e Livorno, l’incantevole golfo di Follonica è un’insenatura, che estendendosi come una mezzaluna tra le Colline Metallifere e il Mar Tirreno, offre una vista mozzafiato sull’Isola d’Elba, un paesaggio di rara bellezza nell’Alta Maremma. Lì, in uno dei cuori pulsanti dell’acquacoltura nazionale, finanziato con un budget di 500 mila euro dal piano MER (Marine Ecosystem Restoration) del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza), il progetto ha preso il via lo scorso 14 marzo e si estenderà su circa 3.000 ettari d’impianti offshore legati a piscicoltura e molluschicoltura.

La novità sta nell’implementazione di una sorta di “rete neurale”, composta da nodi indipendenti che si scambiano dati attraverso modem acustici. Questi sono connessi a terra da una boa dotata di unità WiFi di superficie, creando così una catena di emittenti senza precedenti.

Ci sono nove stazioni, posizionate vicino alle gabbie, dotate di sonde con sensori multi-parametrici autopulenti. Hanno la capacità di rilevare, ça va sans dire, in tempo reale valori cruciali come ossigeno, temperatura, torbidità, BOD (attività batterica totale), clorofilla e corrente. Il “raccolto digitale” confluisce in una piattaforma web-cloud, che l’archivia e lo può rendere accessibile sia alle autorità di controllo sia agli operatori del settore, attraverso un’interfaccia grafica intuitiva per la consultazione e l’analisi.

In Italia, secondo il Sistema informativo veterinario - anagrafe nazionale zootecnica, l’allevamento dei molluschi risulta con le maggiori produzioni anche se è al secondo posto, dopo quello di pesci, come diffusione. Tra le specie vi sono, soprattutto, vongola verace e cozza, la prima in Veneto ed Emilia Romagna, mentre la mitilicoltura è presente anche al Sud, maggiormente in Puglia e Campania. La piscicoltura è praticata in tutte le Regioni, in particolare al Nord. Vincono le trote, seguite da orate e spigole. I crostacei sono meno diffusi e, in gran parte, vengono destinati al ripopolamento.

Il Veneto si conferma primo per numero di strutture, mentre l’Emilia-Romagna è in vetta per volumi di produzione. Cinque regioni (Veneto, Emilia-Romagna, Friuli-Ve-

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nezia Giulia, Puglia, Sardegna) ospitano il 71% delle installazioni. Emilia-Romagna, Veneto e Friuli mantengono il primato come principali poli produttivi e insieme a Marche e Toscana coprono oltre la metà di quanto avviato al commercio in Italia o all’estero.

La novità promossa dall’Ispra promette di essere uno strumento fondamentale per la pianificazione spaziale e l’assegnazione sostenibile di nuove aree marine. Sarà, altresì, cruciale per la vigilanza ambientale secondo le normative e per la gestione ottimizzata degli impianti e delle aree balneari destinate al turismo ricreativo. Una grossa mano potrà esser data pure alle attività tecnico-scientifiche e, più in generale, di ricerca applicata, che mirano a trovare soluzioni e tecnologie per limitare le pressioni antropiche sull’Ambiente.

Studiare l’impatto degli allevamenti sull’ecosistema marino, valutando la dispersione di nutrienti, l’accumulo di sostanze inquinanti e la biodiversità delle specie ittiche e bentoniche potrà far sviluppare azioni sempre più rispettose del Pianeta.

Un altro vantaggio è la possibilità di allertare rapidamente gli operatori in caso di anomalie o situazioni di emergenza, come improvvisi cali di ossigeno o fioriture algali. Ciò permetterà d’intervenire tem-

Ambiente

pestivamente per salvaguardare la salute degli organismi allevati e prevenire perdite economiche. Essendo un modello flessibile e replicabile in altre aree costiere italiane ed europee, è in grado di contribuire a diffondere buone pratiche e tecniche per una gestione sempre più ottimizzata e oculata, che possa, un domani, coprire aree più vaste o integrare nuove funzionalità in risposta alle esigenze emergenti.

Nel golfo di Follonica la realizzazione è stata possibile grazie alla collaborazione degli operatori, che hanno permesso il posizionamento dell’infrastruttura nelle acque loro concesse. La sua adozione posiziona il distretto toscano ai primi posti in termini di rinnovamento e competitività, consentendo di soddisfare, in modo efficace, le sfide del mercato. Il progetto rappresenta anche un’opportunità per coinvolgere attivamente la comunità locale, promuovendo la consapevolezza sul proprio territorio e incoraggiando la partecipazione alle iniziative di tutela. Essere cittadini informati potrebbe dare il via alla generazione di nuove opportunità lavorative, contribuendo allo sviluppo economico, regionale e nazionale, e alla creazione di competenze specialistiche nel campo coinvolto. (G. P.).

LA TECNOLOGIA SPOSA MARE E SOSTENIBILITÀ

Il monitoraggio ambientale in acquacoltura si farà nelle acque del golfo di Follonica

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Ambiente

Nonostante l’entrata in vigore della direttiva europea Single Use Plastics (SUP) nel 2022, che mirava a bandire la plastica monouso, il problema persiste. Scarti di questo tipo, insieme a reti e attrezzi da pesca abbandonati, costituiscono il 56,3% del totale fra quelli spiaggiati nel 2024.

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Sulle sabbie dorate delle coste italiane si è svolta una selezione silenziosa, ma cruciale. Non è solo una lotta contro i rifiuti che deturpano quei paradisi naturali, ma è anche un appello alla coscienza collettiva. Mentre le onde lambivano la riva, i volontari di Legambiente armati di pinze e guanti si sono dati da fare, dal 10 al 12 maggio, per un obiettivo comune: restituire ai nostri arenili la loro innata bellezza e purezza. Con un’indagine ambientale, 33 spiagge sono state messe sotto la lente d’ingrandimento, rivelando una situazione allarmante: 23.259 rifiuti raccolti su un’area di 179.000 metri quadrati, con una densità media di 705 detriti per ogni cento metri lineari di costa. Tra i più presenti, cinque categorie si distinguono per frequenza: mozziconi di sigaretta, frammenti vari di plastica, tappi, materiali edili e stoviglie monouso. Nonostante l’entrata in vigore della direttiva europea Single Use Plastics (SUP) nel 2022, che mirava a bandire la plastica monouso, il problema persiste. Scarti di questo tipo, insieme a reti e attrezzi da pesca abbandonati, costituiscono il 56,3% del totale fra quelli spiaggiati nel 2024. Questo dato è ancor più preoccupante se si considera che dal 2014 non si è registrata una diminuzione significativa per tali detriti, attestandosi costantemente intorno al 50%. Occorrono, quindi, azioni concrete e una maggiore consapevolezza pubblica per invertire una tendenza preoccupante.

L’introduzione del Clean Coast Index (CCI), uno strumento di valutazione globale, ha permesso di quantificare con precisione il livello di contaminazione. Dopo un’attenta

analisi sui litorali coinvolti, si è scoperto che solo il 6,6% rientra nelle categorie “sporchi” o “molto sporchi”, un miglioramento significativo rispetto agli anni precedenti. Questo progresso è il frutto tangibile delle iniziative di sensibilizzazione ambientale che stanno iniziando a incidere sulla coscienza collettiva. Allo stesso tempo, si registra un incoraggiante incremento di quelli valutati come “molto puliti” o “abbastanza puliti”, altro segnale che le buone pratiche intraprese possano portare a risultati concreti e misurabili.

«Le attività che caratterizzano la campagna “Spiagge e Fondali Puliti” offrono a tutti un esempio concreto su come anche i piccoli gesti possano generare un messaggio tanto potente quanto spesso disatteso: la natura - dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente - è casa nostra, bisogna prendersene cura. I dati raccolti nella nostra annuale indagine sull’inquinamento di spiagge e arenili, dovuto all’abbandono di rifiuti confermano quanto ancora siano necessarie le campagne di pulizia collettiva, visto il tendenziale aumento dei rifiuti dispersi nell’ambiente legato al consumo di cibo. È sulle abitudini dei frequentatori degli spazi naturali, come anche le spiagge e gli argini di fiumi e laghi, che bisogna continuare a intervenire attraverso attività di informazione e sensibilizzazione e con l’implementazione di servizi di raccolta efficaci per questi contesti più delicati e complicati da raggiungere. Quale miglior modo se non quello di una mobilitazione pubblica per liberare i tratti costieri dai rifiuti che rimangono un problema ambientale crescente, un rischio concreto per la fauna

VOLONTARI LUNGO LE COSTE PER SPIAGGE PULITE

Osservati speciali 33 arenili in 12 regioni della Penisola. Sono stati raccolti e catalogati 23.259 rifiuti, il 40,2% di essi è rappresentato da cinque tipologie di oggetti

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marina e costiera e anche un deterrente per il valore turistico dei luoghi».

In testa nella classifica delle tipologie risultano, come anticipato, i mozziconi di sigaretta, 3.338 quelli ritrovati (14,4% rispetto al totale), per una media di 101 cicche su 100 metri di spiaggia. A seguire 2.195 (9,4%) oggetti e frammenti di plastica di grandezza tra i 2,5 e i 50 cm, 1.566 (6,7%) di tappi e coperchi. Al quarto posto i materiali da costruzione con il 5,5% e al quinto le stoviglie usa e getta in plastica (4,2%). Sul podio dei materiali più diffusi resta sempre la plastica con il 79,7%. Segue il vetro - ceramica con il 6,6%, il metallo presente per il 4,5% e carta - cartone con il 2,9%.

Sono 4.589 gli elementi che appartengono al gruppo delle reti, attrezzi da pesca e acquacoltura in plastica abbandonati. I bastoncini cotonati rappresentano l’1,6% del totale (3% degli oggetti della SUP), mentre le cannucce e gli agitatori per cocktail l’1,2% e il 2% fra quelli rientranti nella SUP: «L’analisi dell’andamento dei prodotti messi al bando dalla direttiva europea sulla plastica monouso, effettuata dal 2014 ad oggi, ci rivela come l’incidenza di questa tipologia di rifiuti abbia oscillato da un minimo di 38,6% nel 2023 a un massimo di 56,3% nel 2024.

Rispetto, quindi, alla tendenza seguita prima dell’entrata in vigore della Single Use Plastics, nelle tre campagne di monitoraggio successive avvenute nel triennio 2022/23/24, - spiega Elisa Scocchera dell’ufficio scientifico di Legambiente - non si nota una significativa riduzione in termini percentuali. Sarà necessario continuare a monitorare l’evoluzione di questa tendenza per capire la reale efficacia delle misure previste dalla direttiva sulla plastica monouso e di conseguenza per intervenire in maniera mirata con azioni di prevenzione e corretta gestione dei rifiuti derivanti da questi prodotti». (G. P.).

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LA CONSERVAZIONE DELLA NATURA HA SUCCESSO, MA BISOGNA INVESTIRE DI PIÙ

La ricerca rappresenta un primo passo per indagare i meccanismi della malattia e testare trattamenti più efficaci anche per altre patologie genetiche che coinvolgono lo scheletro

Gli interventi di conservazione della natura funzionano davvero? Secondo un recente studio pubblicato su Science sembra proprio di sì.

La ricerca, condotta dalla ONG Re:wild in collaborazione con molti membri dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), ha valutato la reale efficacia di un’ampia gamma di misure di conservazione messe in atto negli ultimi decenni in tutto il mondo per contrastare la perdita di biodiversità. Lo studio, il primo nel suo genere, ha eseguito una meta-analisi comparativa su 186 progetti che includevano 665 casi studio. L’indagine ha concluso che la conservazione della natura ha successo e che è fondamentale aumentare gli interventi di protezione sia per arrestare e invertire la perdita di biodiversità sia per ridurre gli effetti del cambiamento climatico.

Gli autori dello studio ricordano che secondo l’IUCN più di 44.000 specie sono a rischio di estinzione, con enormi conseguenze per gli ecosistemi che stabilizzano il clima e che forniscono a miliardi di persone in tutto il mondo molteplici servizi come acqua pulita, mezzi di sussistenza, case e difesa del patrimonio culturale.

Molti studi in passato hanno analizzato singoli progetti e interventi di conservazione e il loro impatto rispetto all’assenza di azioni, ma questi documenti non sono mai stati raccolti

in un’unica analisi per vedere come e se l’azione di conservazione sta funzionando nel complesso. Gli autori del lavoro su Science hanno considerato studi che coprono oltre un secolo di interventi di conservazione e hanno valutato azioni mirate a diversi livelli di biodiversità: specie, ecosistemi e diversità genetica.

Dalla meta-analisi è emerso che le azioni di conservazione come l’istituzione e la gestione di aree protette, l’eradicazione e il controllo delle specie invasive, la gestione sostenibile degli ecosistemi, la riduzione della perdita di habitat e il ripristino, hanno migliorato lo stato della biodiversità o nella maggior parte dei casi (66%) ne hanno rallentato il declino rispetto all’assenza di azioni intraprese. Gli autori del lavoro ritengono anche che quando gli interventi di conservazione funzionano, sono molto efficaci.

Lo studio cita alcuni dei progetti di conservazione investigati in diverse aree il mondo. La gestione dei predatori autoctoni invasivi e problematici su due isole di barriera della Florida, ha portato, per esempio, a un miglioramento immediato e sostanziale del successo di nidificazione da parte delle tartarughe marine e delle sterne minori, soprattutto rispetto ad altre isole di barriera in cui non è stata applicata alcuna gestione dei predatori.

Nel bacino del Congo, la deforestazione è stata ridotta del 74% nelle concessioni di taglio

54 Giornale dei Biologi | Mag 2024 Ambiente
di Sara Bovio

del legname sottoposte a un piano di gestione forestale, rispetto alle concessioni senza piano di gestione. È stato inoltre dimostrato che le aree protette e le riserve indigene riducono significativamente sia il tasso di deforestazione sia la densità degli incendi nell’Amazzonia brasiliana.

«Il nostro studio dimostra che quando le azioni di conservazione funzionano, spesso portano a risultati per la biodiversità che non sono solo migliori rispetto a non fare nulla, ma molte volte superiori», ha dichiarato Jake Bicknell, coautore del lavoro e ricercatore presso il DICE dell’Università di Kent». «Ad esempio – continua il ricercatore - l’adozione di misure per incrementare le dimensioni della popolazione di una specie a rischio ha spesso portato a un aumento sostanziale del numero di esemplari».

Secondo gli autori anche nei casi in cui l’azione di conservazione non è riuscita a favorire la biodiversità target, altre specie autoctone ne hanno invece beneficiato involontariamente. Ad esempio, l’abbondanza di cavallucci marini è risultata inferiore nei siti protetti perché le aree marine protette aumentano l’abbondanza di predatori di cavallucci marini, tra cui il polpo.

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Dalla meta-analisi è emerso che le azioni di conservazione come l’istituzione e la gestione di aree protette, l’eradicazione e il controllo delle specie invasive, la gestione sostenibile degli ecosistemi, la riduzione della perdita di habitat e il ripristino, hanno migliorato lo stato della biodiversità o nella maggior parte dei casi (66%) ne hanno rallentato il declino rispetto all’assenza di azioni intraprese. ©

«L’azione di conservazione funziona perché questo è ciò che la scienza ci mostra chiaramente», ha dichiarato Claude Gascon, autore dello studio e direttore presso la Global Environment Facility. «È anche evidente che per garantire che gli effetti positivi durino, dobbiamo investire di più nella natura e continuare a farlo in modo continuo. Raggiungere quest’obiettivo non solo è possibile, ma è a portata di mano, a patto che si stabiliscano le priorità in modo appropriato».

Il documento sostiene inoltre che è necessario investire maggiormente nella gestione efficace delle aree protette, che rimangono la pietra miliare di molte azioni di conservazione. «Questo studio - ha dichiarato Grethel Aguilar, direttore generale dell’IUCN - ha analizzato i risultati della conservazione con molto rigore dimostrando un impatto reale e guidando così il cambiamento necessario per salvaguardare la natura su scala mondiale». Lo studio dimostra che la conservazione della natura funziona davvero, dal livello delle specie a quello degli ecosistemi, in tutti i continenti. Quest’analisi – termina Aguilar - inaugura una nuova era nella pratica della conservazione».

Giornale dei Biologi | Mag 2024 55
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COLTIVARE SU MARTE LO STUDIO OLANDESE

I ricercatori hanno sviluppato un metodo agricolo di consociazione cper migliorare la resa dei raccolti

Ormai da molto tempo l’obiettivo di diverse agenzie spaziali internazionali è quello di trovare una soluzione che permetta all’uomo di andare a vivere su Marte. Il famosissimo programma spaziale Artemis, ad esempio, sembra essere a tutti gli effetti un piano più ampio per la colonizzazione terrestre del Pianeta Rosso, l’unico del sistema solare in cui si potrebbe pensare di vivere. Non tutti gli scienziati sono però convinti di quest’ultima possibilità: Marte è attualmente inaccessibile all’uomo, pieno di insidie e osta -

coli. Se però si restasse nel campo delle ipotesi o delle fantasticherie, si potrebbe giocare a nominare tutto ciò che sarebbe necessario trovare sul pianeta per viverci. Giocando, con ogni probabilità, la prima risorsa indispensabile che verrebbe nominata sarebbe il cibo. In una futura-ipotetica vita marziana risulterebbe infatti poco economico e molto rischioso fare affidamento su degli approvvigionamenti terrestri, e ciò su cui diversi scienziati stanno lavorando è proprio l’agricoltura spaziale. L’ultima novità è arrivata da una serra della Wageningen Uni -

versity & Research dei Paesi Bassi, dove i ricercatori hanno sviluppato un metodo agricolo di consociazione che sembrerebbe migliorare la resa dei raccolti sul suolo marziano. La consociazione è una tecnica che prevede la coltivazione contemporanea di piante di diverse specie che possiedono proprietà complementari. In questo modo esse si aiutano a vicenda nella crescita, e l’uso di risorse come l’acqua e altre sostanze nutritive viene ottimizzato.

Nello specifico, i ricercatori dell’università olandese hanno piantato insieme pomodori, piselli e carote in una regolite marziana simulata, cioè un terreno privo di materia organica sviluppato dai ricercatori della NASA che corrisponde quasi del tutto, fisicamente e chimicamente, al suolo marziano. I ricercatori hanno poi aggiunto batteri e sostanze nutritive e monitorato gas, temperatura e umidità all’interno della serra per ricreare le condizioni previste in una “serra marziana”. Dalle successive analisi, il team ha osservato come i pomodori coltivati in questo modo avevano prodotto circa il doppio della resa dei pomodori coltivati da soli nello stesso terreno marziano simulato. Inoltre i frutti erano di dimensioni maggiori e le piantine fiorivano e maturavano prima.

Probabilmente, ipotizzano i ricercatori, le piante di pomodoro potrebbero aver tratto beneficio dalla vicinanza alle piante di piselli, in quanto queste ultime sono note per essere abili a trasformare l’azoto presente nell’aria (con l’aiuto dei batteri introdotti nel terreno) in un nutriente chiave. Le rese dei piselli non hanno invece mostrato cambiamenti, mentre quelle delle carote hanno subito un calo statisticamente significativo. Il fatto che però l’esperimento abbia funzionato bene per una delle tre specie è stata una grande scoperta, a partire dalla quale si svilupperanno altre ricerche.

56 Giornale dei Biologi | Mag 2024
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Ambiente
di Michelangelo Ottaviano

L’Antartide, il continente mai abitato. La sua esistenza fu postulata ancor prima della sua scoperta nell’antichità, per contrapposizione, per la necessità simmetrica di contrapporre a sud l’esistenza certa di una zona fredda a nord del pianeta. Sia Pitagora che Aristotele ritenevano infatti che, per evitare che il globo terrestre si sbilanciasse a causa del suo peso nella parte superiore, ci fosse una considerevole massa di terra a bilanciarlo alla sua base.

Nonostante le numerose spedizioni abbiano accertato la sua esistenza e permesso di mappare ogni suo angolo, questa terra remota e inospitale resta ancora oggi ricca di fascino e di scoperte. Tra i fenomeni curiosi che hanno di recente interessato il continente antartico c’è quello della cosiddetta “Maud Rise polynya”, un’enorme apertura di circa 40mila km² formatasi tra i ghiacci di questa regione. La polinia è definita come un’area di acqua marina libera dai ghiacci ma circondata dalla banchisa. La parola è un prestito linguistico dal russo, il cui significato descrive proprio questo spazio naturale nel ghiaccio, e fu usato nel XIX secolo dagli esploratori polari per descrivere le porzioni di mare navigabili. Negli anni Settanta è stata rilevata l’evidenza di tale fenomeno grazie al monitoraggio degli andamenti stagionali del ghiaccio marino antartico, ma a giustificare la sua formazione c’erano soltanto ipotesi incerte.

Di recente, uno studio pubblicato sulla rivista Science Advances ha fornito una solida spiegazione riguardo la sua esistenza. Gli scienziati hanno spiegato prima di tutto come il rafforzamento della corrente oceanica circolare intorno al Mare di Weddell, l’area della banchisa dove spazia la polinia, abbia avuto un ruolo importante nella formazione della “Maud Rise polynya”. Tale rafforzamento ha infatti innescato a sua volta un fenomeno di “upwelling”, per cui lo strato profondo di acqua calda e ricca di sale ha inizia-

LA “MAUD RISE POLYNYA”

IL VARCO TRA I GHIACCI

L’apertura nella banchisa artica larga circa 40mila km² spiegata dallo studio di science advances

to a mescolarsi con quella dello strato superficiale, meno calda e meno salata, facendo aumentare temperatura e salinità di quest’ultima e abbassando la sua temperatura di congelamento. Allo stesso tempo però, lo scioglimento del ghiaccio marino avrebbe dovuto portare ad un abbassamento della temperatura delle acque superficiali, interrompendo tale mescolamento. La chiave di volta per spiegare la formazione della polinia è il processo chiamato “Ekman transport”. Esso riguarda il movimento dell’acqua dipendente dai venti che soffiano sulla sua superficie e si tratta di un fenomeno in grado di influenzare

le correnti marine. Grazie all’“Ekman transport”, il sale accumulatosi sulla montagna sommersa Maud Rise (da qui il nome “Maud Rise polynya”) e necessario allo scioglimento del ghiaccio viene portato dalla corrente oceanica circolare, fornendo l’apporto necessario all’esistenza della polinia.

L’importanza del monitoraggio di tali fenomeni è legata alle conseguenze che possono avere sulla circolazione delle correnti oceaniche, fondamentali nella distribuzione del calore fra oceano e continente, e sulla riduzione del ghiaccio nell’Oceano Antartico. (M. O.).

Giornale dei Biologi | Mag 2024 57
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Ambiente

EMISSIONI EUROPEE

DI GAS SERRA

Secondo l’Istituto di ricerca del Ministero dell’Ambiente, calo di emissioni del 21% dal 1990. Italia indietro

Già nel 2023 le emissioni di gas serra erano diminuite del 6,2% rispetto al 2022. In realtà è dal 1990 che si registra un calo di emissioni del 21%. Anche quest’anno è evidente una diminuzione del trend. Un notevole contributo deriva soprattutto dalla produzione di energia rinnovabile e l’utilizzo di combustibili che contengono meno carbonio. Ha pesato inoltre il calo delle emissioni registrato a seguito della pandemia: l’aumento delle emissioni riportato nel 2021, in conseguenza della ripresa della mobilità e delle attività economiche dopo il periodo pandemico, si

stima sia continuato anche per il 2022. Per un paese dunque, avere un sistema produttivo ad alta efficienza energetica e con un avanzato stato di decarbonizzazione è la migliore risposta ai cambiamenti climatici.

I dati sono stati presentati dall’Istituto di ricerca del Ministero dell’Ambiente l’8 maggio nel report “Le emissioni di gas serra in Italia. Obiettivi di riduzione al 2030”, il quale fornisce il quadro emissivo nazionale e una valutazione dell’andamento delle emissioni di gas serra.

In Italia, però, le emissioni di gas serra stanno crescendo da circa due anni, tanto da aver raggiunto 431 milioni di

tonnellate di CO2 nel 2022 (0.4% in più rispetto al 2021). Il problema del nostro paese, secondo l’Ispra, è il settore dei trasporti. Risulta infatti che questo incida per il 26% sulle emissioni italiane (seguono la produzione di energia con il 23%, residenziale con il 18%, l’industria manufatturiera con il 13%). Il settore Agricoltura e le categorie emissive dei Processi industriali ed uso di altri prodotti (IPPU) sono responsabili rispettivamente del 7.8% e 7.6%, mentre il settore Rifiuti contribuisce al restante 4.8% alle emissioni totali. La percentuale delle emissioni causate dai trasporti, che provengono per oltre il 90% dal trasporto stradale, sono aumentate del 7% dal 1990. Questo dato è evidentemente in controtendenza rispetto agli altri settori economici, che invece presentano riduzioni. Purtroppo il numero di automobili in Italia aumenta, mentre le macchine elettriche sono ancora troppo poco diffuse. Gli obiettivi nazionali stabiliti dal regolamento Effort Sharing prevedevano una riduzione del 43.7% rispetto al 2005 delle emissioni prodotte da trasporti, residenziale – riscaldamento degli edifici- agricoltura, rifiuti e industria non-Emission Trading System – ETS. L’Italia si è avvicinata ai tetti massimi consentiti e li ha superati nel 2021 e nel 2022 a causa della mancata diminuzione delle emissioni di trasporti e del residenziale. Principalmente i trasporti stradali dunque, nonostante le direttive europee, impediscono la diminuzione di emissioni e continuano a superare il tetto massimo.

Le stime del 2023 evidenziano il superamento del limite consentito per lo stesso anno, anche se al contempo si nota un calo delle emissioni totali di circa 26 MtCO2eq. C’è da dire anche però, che il nostro paese ha rispettato sempre negli anni precedenti gli obiettivi di riduzione, sia nell’adozione di politiche sia in misure di mitigazione. Ha registrato infatti non solo il raggiungimento dell’obiettivo, ma anche un “overachievement” totale in termini di riduzione di 190 MtCO2eq.

58 Giornale dei Biologi | Mag 2024
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Ambiente
di Eleonora Caruso

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Giornale dei Biologi | Mag 2024 59

ACQUA POTABILE

UNA RISORSA DAL MARE

La dissalazione a membrana è un metodo utilizzato per trattare acqua ad alta salinità con bassi consumi energetici

Le principali cause della siccità sono rappresentate dall’aumento delle temperature, il cambiamento climatico, ma anche la dispersione e lo spreco delle risorse idriche a causa di una scarsa manutenzione degli impianti. L’Organizzazione mondiale della sanità ha previsto, che entro il 2025 metà della popolazione terrestre vivrà in aree sottoposte a stress idrico. La continua diminuzione di disponibilità idrica abbinata a una sua richiesta in costante aumento ha portato a sviluppare tecnologie di risparmio alle quali si affiancano me -

todi di trattamento dell’acqua attraverso sistemi in grado di consentirne il riutilizzo e di permettere la produzione anche di quella potabile da fonti idriche alternative, quali mari, oceani, acque reflue urbane e industriali. Francesca Macedonio, ricercatrice dell’Istituto per la tecnologia delle membrane del Cnr, spiega la tecnica e il metodo utilizzato per ottenere acqua potabile: «Tra i vari processi di dissalazione disponibili, quello più usato è la dissalazione a membrana, in particolare l’osmosi inversa RO, impiegata da circa il 90% degli impianti. Il suo successo è da attribuire

principalmente ai progressi tecnologici, che hanno consentito nel tempo a questo sistema di trattare acqua ad alta salinità, oltre a garantire il più elevato fattore di recupero, bassi consumi energetici e minor costo dell’acqua prodotta rispetto alle altre tecnologie di dissalazione».

Cosa si intende per membrana e osmosi? La ricercatrice ha proseguito: «Una membrana può essere immaginata come una barriera sottile dotata della proprietà di poter essere attraversata in maniera selettiva da specie chimiche diverse, sotto l’azione di forze spingenti e in dipendenza delle caratteristiche del materiale della membrana stessa. L’osmosi, invece, è un processo fisico che interessa due liquidi (in questo caso l’acqua salata e l’acqua dolce), che hanno al loro interno concentrazioni di soluti diverse, in questo caso i sali, e che vengono messi in contatto tra loro attraverso una membrana semipermeabile, che lascia passare l’acqua ma non i sali. Quando questo accade, il liquido con minor concentrazione di soluti tende a muoversi spontaneamente verso il liquido con la maggiore concentrazione di soluti. L’acqua dolce si sposta verso l’acqua salata, fino al raggiungimento di un equilibrio tra le due soluzioni. Nell’osmosi inversa accade il contrario: il solvente a maggior concentrazione di soluti, nel nostro caso l’acqua salata, viene spinto attraverso la membrana semipermeabile fino a raggiungere il solvente a minor concentrazione di soluti. Questo processo, che non è spontaneo, richiede energia per essere attuato. Nella Reverse Osmosis, l’acqua viene prelevata dal mare e subisce un primo trattamento che ne filtra le impurità più grossolane; quindi, viene sottoposta a forti pressioni, utilizzando potenti pompe, e viene forzata attraverso una membrana semipermeabile che lascia passare solo l’acqua e funge da filtro per i sali in essa disciolti».

60 Giornale dei Biologi | Mag 2024
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Innovazione
di Pasquale Santilio

Un team di ricercatori dell’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti “Eduardo Caianiello” del Consiglio nazionale delle ricerche, in collaborazione con la Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli, ha messo a punto un test ottico per il rilevamento della dose di rame dispersa in campioni d’acqua isolati dal fiume Sarno in Campania. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Scientific Reports.

Il metodo ottico sviluppato dal gruppo di ricerca si può definire di tipo funzionale, perché non si limita a identificare la presenza del metallo, ma riesce a quantificarne gli effetti sulle diatomee, vale a dire le microalghe che sono state utilizzate come biosensori, presenti sia in acque dolci sia in quelle salate. La tecnica impiegata per ottenere questo risultato è di microscopia innovativa detta Fourier Ptychography che, sfruttando una sorgente di luce led, è in grado di mappare migliaia di microalghe in una sola immagine con risoluzione sub-micrometrica.

Vittorio Bianco, primo ricercatore dell’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti del Cnr e autore della ricerca, ha spiegato: «Per esaminare adeguatamente le immagini prodotte, che presentano informazioni su diverse scale di ingrandimento, abbiamo per la prima volta utilizzato elementi di geometria frattale, un modello matematico che descrive efficacemente la complessità di oggetti naturali e ben si adatta all’analisi di queste immagini. Abbiamo così notato che anche dosi basse di rame (a partire da 5 micromolare) possono indurre uno stress nelle diatomee, cambiandone la forma, mentre dosi alte possono causarne la fuoriuscita del citoplasma e determinarne la morte».

La presenza di grandi concentrazioni di metalli pesanti (il rame è uno dei più diffusi) è solitamente un indicatore dell’impatto antropico, soprattutto nelle aree altamente urbanizzate

MICROALGHE PER I METALLI PESANTI

Realizzato un test ottico per quantificare la presenza di rame nelle acque valutandone gli effetti sulle microalghe

e industrializzate, dove questi metalli possono confluire negli ambienti acquatici. L’accumulo di questi metalli nelle microalghe risulta essere un problema grave per il possibile trasferimento agli organismi che se ne cibano e anche all’uomo, attraverso la catena alimentare.

Angela Sardo, tecnologo della Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli, ha specificato: «Al fine di individuare strategie di biorisanamento efficaci e su larga scala, è importante conoscere la capacità di rimozione di inquinanti da parte delle specie viventi, ma anche gli effetti tossici che

questi inquinanti possono avere su di esse in relazione alle quantità assunte. Ad esempio, il rame è un elemento chimico essenziale per la crescita delle microalghe, ma può essere fortemente dannoso in dosi elevate». Pietro Ferraro, dirigente di ricerca del Cnr-Isasi e coautore della ricerca, ha così concluso: «In futuro, questo test potrà essere utilizzato per valutare rapidamente i livelli di inquinamento da metalli pesanti anche in aree marine dove, ad esempio, vengono effettuate attività estrattive in profondità, oppure in zone acquatiche ad alta industrializzazione». (P. S.).

Giornale dei Biologi | Mag 2024 61
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Innovazione

PRODOTTI DA FORNO

CON SCARTI DEL CAFFÈ

L’utilizzo degli scarti della torrefazione del caffè sono un ingrediente ad alto valore aggiunto nei prodotti da forno

Gli scarti della torrefazione del caffè, se utilizzati come ingrediente ad alto valore aggiunto nei prodotti da forno, consentirebbero di ridurre del 73% l’impatto ambientale delle lavorazioni e di dimezzare i costi di smaltimento a carico delle aziende. Questo è quanto è emerso da uno studio condotto da Enea circa la sostenibilità economica e ambientale dello smaltimento della silverskin, vale a dire il principale scarto organico della torrefazione del caffè, che i torrefattori sono obbligati a trasformare in compost. La ricerca è sta -

ta effettuata nell’ambito del progetto europeo Biocircularcities e i risultati sono stati pubblicati sulla rivista Sustainability.

Giuliana Ansanelli, ricercatrice Enea e coautrice dello studio insieme alle colleghe Gabriella Fiorentino e Amalia Zucaro del Laboratorio Enea delle Tecnologie per il riuso, riciclo, recupero e valorizzazione di rifiuti e materiali, ha spiegato: «L’analisi del ciclo di vita ha evidenziato che l’utilizzo alimentare della silverskin consentirebbe di evitare circa 250 kg di anidride carbonica equivalente per ogni tonnellata di farina sostituita

con lo scarto del chicco del caffè, pari a un quantitativo di CO2 che può essere assorbito da 22 alberi. Invece, la sua valorizzazione come compost determina l’emissione di circa 236 kg di anidride carbonica equivalente e il suo impatto ambientale non è compensato dai vantaggi di utilizzare il compost ottenuto al posto dei fertilizzanti sintetici».

Gabriella Fiorentino ha sottolineato: «Sul fronte economico, i risultati dell’analisi dei costi del ciclo di vita indicano che l’azienda di torrefazione campana, analizzata nello studio, può conseguire una riduzione di quasi il 60% dei costi legati alo smaltimento della silverskin, passando da 448 euro/ton a 190 euro/ton, se valorizzata come ingrediente funzionale piuttosto che come compost».

Nel 2019 il settore agro-industriale della Città Metropolitana di Napoli ha generato circa 30mila tonnellate di rifiuti organici, di cui quasi il 3% proveniva da aziende di torrefazione del caffè (in gran parte silverskin).

Amalia Zucaro ha affermato: «Attualmente questo rifiuto organico viene inviato agli impianti di compostaggio, con elevati costi di trattamento. Ma in Campania c’è carenza di infrastrutture per il trattamento della frazione organica e, quindi, sarebbe auspicabile individuare modalità di gestione alternative dello scarto della torrefazione del caffè, in accordo con i principi della bioeconomia circolare e della simbiosi industriale, che permettano di ridurre impatto ambientale, costi di smaltimento a carico delle aziende e della regione e pressione sugli impianti di compostaggio. Il nostro studio- ha concluso la ricercatriceevidenzia proprio questo: l’impiego della silverskin nei prodotti da forno potrebbe rappresentare una valida soluzione a beneficio non solo dell’ambiente e dell’economia, ma anche della salute dei consumatori, visto che è ricca in fibre (35%), proteine (19%) e antiossidanti». (P. S.).

62 Giornale dei Biologi | Mag 2024
Africa Studio/shutterstock.com Innovazione
©

Èstata denominata BioVerve la biostampante messa a punto da Enea, in grado di riprodurre modelli in 3D di tumori, con la finalità di migliorare la ricerca di nuove terapie oncologiche. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Applied Sciences.

Francesca Antonelli, ricercatrice del Laboratorio Enea di Tecnologie biomediche, che ha seguito il progetto insieme alla responsabile della Divisione Enea di Tecnologie e metodologie per la salvaguardia della salute, Mariateresa Mancuso, e ai colleghi Paolo D’Atanasio, Antonio Rinaldi e Alessandro Zambotti, ha spiegato: «Rispetto alle tradizionali culture in vitro, i modelli 3D biostampati sono in grado di mimare in maniera più efficace il tessuto umano, sano o patologico, fornendo un modello complementare per studi sugli effetti delle radiazioni e delle terapie chemioterapiche sui tumori, Sebbene negli ultimi dieci anni ci sia stato un incremento molto significativo nell’utilizzo di modelli 3D da parte dei ricercatori impegnati nella lotta contro il cancro, l’impatto è stato limitato dai costi elevati delle biostampanti professionali in commercio (tra i 50 e 200mila dollari). Ecco, quindi, la nostra idea di trasformare una stampante 3D a basso costo in una biostampante 3D home-made in grado di stampare con ottimi risultati un modello tridimensionale di medulloblastoma, il principale tumore cerebrale pediatrico». La possibilità di intervenire sul tumore attraverso la chemioterapia dipende fortemente dalla presenza e dall’integrazione della barriera ematoencefalica, una struttura endoteliale che controlla strettamente la penetrazione nel cervello di molte molecole, compresi gli agenti chemioterapici. I costrutti che sono stati creati utilizzando la stampa 3D includono la barriera ematoencefalica presente nel tumore per testare la penetrazione dei farmaci attraverso di esso.

UNA BIOSTAMPANTE PER LA RICERCA SUI TUMORI

Una biostampante in grado di riprodurre modelli in 3D di tumori per affinare la ricerca di nuove terapie oncologiche

Attualmente, nonostante gli intensi sforzi dedicati ai test preclinici, molte promettenti terapie faticano a passare con successo dalla fase di laboratorio a quella della pratica clinica. Una spiegazione plausibile della discrepanza osservata tra i risultati ottenuti in fase preclinica e quelli clinicamente riportati potrebbe derivare proprio dalla mancanza di modelli cellulari preclinici in grado di replicare fedelmente la complessità del contesto clinico. Grazie alle ottime prestazioni e ai bassi costi garantiti dalla biostampante 3Dsviluppata da Enea, i ricercatori potranno

mettere a punto e, soprattutto, testare nuovi approcci terapeutici per migliorare la sopravvivenza dei pazienti affetti da cancro.

La ricercatrice Enea Francesca Antonelli ha concluso: «La possibilità di modificare le stamapnti 3D non professionali per adattarle ai processi di biostampa è in grado di ridurre in modo considerevole i costi di acquisizione della strumentazione da parte dei laboratori, consentendo l’accesso alla tecnologia da parte di una più vasta platea di ricercatori e, di conseguenza, aprendo la strada a nuove linee di ricerca biomedica». (P. S.).

Giornale dei Biologi | Mag 2024 63
Innovazione

LA CULTURA SI RINNOVA MAGGIORI MUSEI CON AUTONOMIA SPECIALE

In vigore la nuova organizzazione del Ministero, che definisce uffici centrali e periferici. Ecco i 14 istituti di prima fascia e i 53 di seconda, tra cui 17 di recente istituzione

di Rino Dazzo

64 Giornale dei Biologi | Mag 2024
Beni culturali

Il 18 maggio è entrato in vigore il nuovo regolamento di organizzazione del Ministero della Cultura, che dà attuazione al Dpcm numero 57 dello scorso 15 marzo. L’obiettivo del nuovo dispositivo è quello di rinnovare e armonizzare il funzionamento del MiC nei suoi uffici centrali e in quelli periferici, riformando prerogative e competenze e garantendo autonomia a musei, aree e parchi archeologici, oltre che agli altri luoghi della cultura. Aumenta, infatti, il numero di istituti dotati di autonomia speciale, con la promozione di tre importanti musei tra gli istituti dirigenziali di prima fascia – i Musei Reali di Torino, il Museo Archeologico Nazionale di Napoli e la Galleria dell’Accademia-Musei del Bargello di Firenze –e l’istituzione di 17 nuovi musei autonomi. Una serie di passi importanti, che rientrano in un più ampio programma di riordino del Ministero che prevede il passaggio al modello organizzativo in dipartimenti, con la scomparsa dei segretariati regionali.

Giornale dei Biologi | Mag 2024 65 Beni culturali
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In particolare, il nuovo Ministero della Cultura è articolato in quattro dipartimenti, dodici uffici dirigenziali di livello generale centrali e quindici periferici, dotati di autonomia speciale. I quattro dipartimenti sono il DiAG per l’amministrazione generale, il DiT per la tutela del patrimonio culturale, il DiVa per la valorizzazione del patrimonio culturale e il DiAC per le attività culturali. Dei dodici uffici generali centrali quattro fanno capo al DiAG (Direzione generale Risorse umane e organizzazione, Direzione generale Bilancio, programmazione e monitoraggio, Direzione generale Affari europei e internazionali e Direzione generale Digitalizzazione e comunicazione), tre al DiT (Direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio, Direzione generale Archivi e la Soprintendenza speciale Archeologia, belle arti e paesaggio di Roma), uno al DiVa (Direzione generale Musei, più i quattordici musei e parchi archeologici dotati di autonomia speciale) e quattro al DiAC (Direzione generale Spettacolo, Direzione generale Cinema e audiovisivo, Direzione generale Creatività contemporanea e Direzione generale Biblioteche e istituti culturali).

Gli uffici periferici del Ministero sono le Soprintendenze Archeologia, belle arti e paesaggio, le Direzioni regionali Musei nazionali, i Musei, le aree e i parchi archeologici e gli altri luoghi della cultura, le Soprintendenze archivistiche e bibliografiche, gli Archivi di Stato e le Biblioteche pubbliche statali. Quindi gli istituti con autonomia speciale. Quattordici quelli di prima fascia: i Musei reali di Torino, la Pinacoteca di Brera, le Gallerie dell’Accademia di Venezia, le Gallerie degli Uffizi, la Galleria dell’Accademia di Firenze e i Musei del Bargello, il Parco archeologico del Colosseo, il Museo nazionale romano, la Galleria Borghese, il Vittoriano e Palazzo Venezia, la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma, il Museo archeologico nazionale di Napoli, il Museo e il Real bosco di Capodimonte, il Parco archeologico di Pompei e infine la Reggia di Caserta.

L’obiettivo del nuovo dispositivo è quello di rinnovare e armonizzare il funzionamento del MiC nei suoi uffici centrali e in quelli periferici, riformando prerogative e competenze e garantendo autonomia a musei, aree e parchi archeologici, oltre che agli altri luoghi della cultura.

Quarantasei, invece, gli istituti di seconda fascia tra cui diciassette di nuova istituzione: Residenze reali sabaude, Musei archeologici nazionali di Venezia e della Laguna, Musei nazionali di Ferrara, Musei nazionali di Ravenna, Museo archeologico nazionale di Firenze, Ville e residenze monumentali fiorentine, Musei nazionali di Pisa, Musei nazionali di Lucca, Parchi archeologici della Maremma, Pantheon e Castel Sant’Angelo, Musei e Parchi archeologici di Praeneste e Gabii, Ville monumentali della Tuscia, Museo archeologico nazionale d’Abruzzo di Chieti, Musei nazionali del Vomero, Musei e parchi archeologici di Capri, Castello Svevo di Bari e infine Musei e parchi archeologici di Melfi e Venosa. A queste e agli altri 29 istituti di seconda fascia vanno aggiunte sette direzioni regionali museali rimaste autonome: Calabria, Campania, Lazio, Lombardia, Sardegna, Toscana e Veneto. Le altre (Piemonte, Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Umbria, Marche, città di Roma, Abruzzo, Molise, Puglia e Basilicata) sono state accorpate ad altri musei o istituti.

Dulcis in fundo, i direttori. Secondo il nuovo regolamento, gli incarichi di direzione degli istituti sono conferiti dai titolari delle strutture dirigenziali di livello generale da cui gli stessi istituti dipendono. Gli incarichi di direzione della Soprintendenza speciale di Roma e di musei e istituti di prima fascia sono conferiti con decreto del presidente del Consiglio su proposta del ministro della Cultura. Gli incarichi di direzione degli istituti di seconda fascia sono invece conferiti dal direttore generale Musei. Gli incarichi, di durata triennale o quinquennale, possono essere a ogni modo conferiti con procedure di selezione pubblica a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale e in possesso di una documentata esperienza. Per gli istituti accorpati, al direttore possono essere conferite anche le funzioni di direttore regionale Musei senza emolumenti accessori.

66 Giornale dei Biologi | Mag 2024 Beni culturali
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Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

La Federazione Italiana Sport Rotellistici in collaborazione con “Pattinaggio Creativo” ha proposto l’iniziativa di un progetto futuristico, la “Van Gogh Skate experience”. L’esperienza si svolge all’Exhibition Hub Art Center, in particolare nella mostra “Van Gogh: the immersive experience”, all’ex scalo ferroviario Lampo Scalo Farini, a Milano.

Dopo un primo momento in cui sono state esposte le idee e le motivazioni dell’iniziativa, si sono esibiti i campioni mondiali della Nazionale Italiana. I campioni, durante l’esibizione, hanno avuto la possibilità di immergersi totalmente nell’arte di Van Gogh. A esibirsi sono stati cinque campioni italiani: Roberta Sasso, campionessa mondiale di Solo dance, la quale ha anche vinto la medaglia d’oro nella specialità Coppie danza Senior in tandem con Gherardo Altieri Degrassi; Antonio Panfili, un veterano della specialità Inline e medaglia d’argento Senior nell’ultimo Mondiale colombiano; Alessandro Liberatore, pattinatore del Libero che ha ottenuto la medaglia di bronzo all’Europeo Senior 2023 e argento ai Mondiali argentini del 2022; Chiara Censori, campionessa italiana, europea e mondiale nel 2019.

I cinque atleti si sono espressi in merito all’esperienza. Roberta Sasso ha raccontato: «Ciò che solitamente portiamo in pista nelle competizioni è frutto di ore e ore di lavoro e il gesto atletico e tecnico che ne deriva è studiato e programmato per ottenere il più alto risultato possibile. Invece, in un contesto di questo tipo, il bello dell’arte è che non conosce tecnica, ma solo emozioni. È stata una sfida anche per noi, che per un pomeriggio siamo diventati un po’ più artisti e un po’ meno atleti. Ogni quadro ci ha trasmesso delle emozioni diverse che abbiamo interpretato e trasformato in movimento».

«Partecipare a questo straordinario evento, immergendomi nelle proiezioni mozzafiato delle opere di Van Gogh e dando vita a coreografie artistiche su pattini a rotelle, è stata un’esperienza

www.fisr.it

VAN GOGH SKATE

EXPERIENCE

I campioni azzurri del pattinaggio a rotelle si esibiscono unendo lo sport e l’arte

di Eleonora Caruso

davvero unica e indimenticabile - ha detto invece Antonio Panfili - Sentirmi parte integrante di quest’opera d’arte in movimento è stato incredibilmente gratificante. Mi sono sentito come se le pennellate del grande maestro prendessero vita attraverso il mio movimento sui pattini, creando un connubio perfetto tra arte visiva e espressione fisica».

Chiara Censori ha voluto descrivere cosa sia nel pattinaggio per lei: «È arte, movimento e sensazione; quando pattiniamo e ci vedete pattinare vogliamo andare oltre il salto o la trottola, arrivarvi dritti al cuore e diffondere le nostre emozioni». Alessandro Liberatore infine:

«Un evento fuori dai canoni tradizionali del pattinaggio artistico. Un incontro tra tecnologia, sport e cultura, dove la luce si fonde con molteplici forme d’arte e spettacolo».

Inoltre cento atleti agonisti hanno avuto la possibilità di creare un’esibizione ispirandosi alla mostra allestita, sotto la direzione artistica di Marta Bravin e Paola Fraschini. «È stata una grande opportunità per i ragazzi che hanno potuto pattinare dentro i quadri- è intervenuta Marta Bravin- il nostro è uno sport dinamico e per me non c’è disciplina più adatta per creare tridimensionalità dentro opere d’arte di questo genere».

Giornale dei Biologi | Mag 2024 67
Fonte:
Beni culturali

L’ITALIA E GLI ALTRI COSA ASPETTARCI DAGLI EUROPEI DI CALCIO

Francia e Inghilterra sono le grandi favorite della vigilia

Ma occhio a Spagna e Germania, sempre in agguato

Evento in programma dal 14 giugno al 14 luglio

68 Giornale dei Biologi | Mag 2024 Sport
di Antonino Palumbo

“It’s coming home”. E se stavolta fosse vero? Il tormentone degli inglesi, ovvero la speranza di vincere un grande torneo calcistico con la propria nazionale, spezzata dall’Italia a Euro 2020, tornerà a giugno nella nuova rassegna continentale. Stavolta non dovremmo esserci “noi” sulla strada dei Tre Leoni, anche se il calcio è imprevedibile e per questo tremendamente bello, ma Francia, Germania, Spagna e Portogallo su tutte. Poi, si sa, il pallone ha il suo fascino magico proprio perché capace di portare al trionfo continentale autentiche sorprese, dalla Danimarca nel 1992 alla Grecia nel 2004 fino, appunto, agli azzurri. Che sconosciuti non sono mai stati, ma che prima e dopo essersi laureati campioni d’Europa tre anni hanno “toppato” due qualificazioni di fila ai Mondiali.

Dal 14 giugno al 14 luglio torna il Campionato europeo di calcio. Germania 2024, edizione numero 17. Si torna a giocare in un solo Paese: 51 partite, 10 stadi, prima e ultima partita a Berlino, nome proprio di città che evoca ai calciofili italiani dolci, dolcissimi ricordi che risalgono ormai al

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2006. “Andiamo a Berlino!”, “Il cielo è azzurro sopra Berlino!” sono alcune delle frasi di note voci tv scolpite nella mente e nel cuore. Ma che Europeo vedremo? Cosa aspettarci dall’Italia?

Partiamo dagli azzurri. E dalle date. L’Italia non ha incontrato un sorteggio favorevole, collocata in terza fascia. La selezione di mister Spalletti debutterà il 15 giugno, alle 21 contro l’Albania, a Dortmund, lì dove consegnò alla storia la clamorosa impresa con la Germania ai Mondiali 2006, con reti di Grosso e Del Piero. Cinque giorni dopo, sempre alle 21, ci aspetta la Spagna, a Gelsenkirchen. Infine, il 24 giugno, terzo e ultimo match del girone a Lipsia, con la Croazia. La Spagna ha staccato il pass vincendo il Gruppo A di qualificazione davanti alla Scozia, stesso discorso per l’Albania nel Gruppo E su Repubblica Ceca e Polonia. La Nazionale ha fissato il ritrovo a Coverciano per la fine maggio, in attesa del recupero fra Atalanta e Fiorentina che chiuderà la Serie A. Rosa praticamente fatta per il ct Spalletti, che dovrà consegnare la lista con i partecipanti all’Europeo entro il 7 giugno. Prima di quella data ci sarà soltanto un’altra amichevole per sciogliere gli ultimi dubbi, a Bologna contro la Turchia. Non sarà certamente della spedizione Nicolò Zaniolo, l’ex romanista ora all’Aton Villa, che ha rimediato una microfrattura al piede a metà maggio, con conseguente mese (almeno) di stop. Secondi nel girone di qualificazione dietro l’Inghilterra, gli azzurri si sono qualificati battendo nei playoff l’Ucraina, con qualche brivido di troppo. Non siamo i favoriti, non ci sono “stelle” di fama mon-

L’Italia non ha incontrato un sorteggio favorevole, collocata in terza fascia. La selezione di mister Spalletti debutterà il 15 giugno, alle 21 contro l’Albania, a Dortmund, lì dove consegnò alla storia la clamorosa impresa con la Germania ai Mondiali 2006, con reti di Grosso e Del Piero.

diale (ma buonissimi giocatori, si) e ripetere l’impresa del 2021 sarà assai difficile. Ma, se si supera il girone, non c’è limite ai sogni. Come quelli di Riccardo Calafiori, stellina del Bologna fresco di qualificazione alla Champions league, nuovo poledrico elemento di una difesa che poggerà sui pilastri dell’Inter campione d’Italia, ma non solo. A suon di gol si è ritagliato la convocazione anche l’atalantino, che ha definitivamente scalzato l’udinese Lorenzo Lucca.

E le altre? Su tutte, i vicecampioni del mondo e i vicecampioni d’Europa in carica, ovvero Francia e Inghilterra. I cugini d’Oltralpe, al solito, hanno una rosa impressionante e del resto lo hanno dimostrato anche a Qatar 2022. La stella è Kyliam Mbappè, uno dei giocatori più forti e pagati al mondo. Ma non è il solo talento che fa di Didier Deschamps uno dei ct più invidiati: dal portiere Maignan a Griezmann, da Theo Hernandez a Camavinga, passando per Thuram e Dembelé, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Giocherà nel girone con Polonia, Olanda e Austria. A proposito di Inghilterra, la nazionale di Southgate è un calibrato mix fra giovani già considerati top player mondiali (su tutti Bellingham del Real Madrid) e calciatori nel pieno della maturità calcistica, reduce da una stagione decisamente prolifica nel Bayern Monaco e “affamato” di quei trofei che il Bayer Leverkusen da un lato e il Real Madrid dall’altro gli hatto “soffiato” fra Bundesliga e Champions League. Gli inglesi sono inseriti nel Gruppo C con Serbia, Slovenia e Danimarca, queste ultime due classificate a pari punti, 22, nel proprio girone di qualificazione dell’eurozona.

Germania e Spagna non si possono mai ignorare. Le Furie Rosse contano su elementi come Rodri, match winner della Champions League 2022-2023, Dani Olmo, l’esperto Morata, Pau Cubarsì. I tedeschi hanni ritrovato il metronomo Kroos a centrocampo e Neuer fra i pali e confidano sulle giocate illumianti di Wirtz e Musiala, due giocatori di cambiare il match da un momento all’altro. Se la vedranno con Scozia (il 14 giugno alle 21), Ungheria e Inghilterra in un Gruppo A a prima vista abbordabile. Dal punto di vista televisivo, i diritti di Euro 2024 sono stati acquistati per l’Italia da Sky, che trasmetterà tutte e 51 le partite previste, e dalla Rai ne trasmetterà in chiaro 30. Tra queste, naturalmente, tutte le partite dell’Italia di Luciano Spalletti, confidando che non si fermi alla fase a gironi.

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il ct Luciano Spalletti.. La suquadra dell’Italia, vincitrice dell’ultima edizionme degli Europei di calcio.

Supercoppa, Mondiale per club, Coppa Italia. E, per concludere in bellezza, lo scudetto. Ovunque vada, sarà un successo: la stagione della Sir Safety Perugia, società maschile di pallavolo, potrebbe essere sintetizzata in queste poche parole. E se i più pignoli potrebbero notare l’assenza di titoli continentali, è solo perché in Europa Perugia quest’anno non c’era.

Con il successo in finale contro Milano, Perugia ha sfatato quello che negli ultimi anno era diventato un tabù: lo scudetto. Sempre grande protagonista in regular season, il club umbro si è fermato molto spesso sul più bello. Delle sei finali disputate in precedenza, infatti, la Sir Safety ne aveva vinta solo una, nella stagione 20172018 contro la Lube. Che, di contro, aveva già prevalso sulla rivale quattro anni prima e poi nelle finali tricolori disputate nel 2019, nel 2021 e nel 2022. Stavolta, nelle sfide-scudetto, Perugia ha incontrato la Vero Volley Monza, quinta in regular season di Superlega ma capace di eliminare le finaliste della passata stagione, Lube e Itas Trentino, quest’ultima campione in carica e poche settimane più tardi campione d’Europa. Squadra ostica, capace di imporre il fattore campo in gara-2 (al tie-break), ma che nulla ha potuto alla distanza, con Perugia che ha vinto 3-1.

Per il tecnico Angelo Lorenzetti si è trattato del quinto scudetto, il secondo di fila dopo quello con l’Itas. «A livello di risultati di più i ragazzi non potevano fare. Sono stati i più bravi nelle parti finali delle manifestazioni - il suo commento dopo la vittoria decisiva in gara 4 - poi siamo stati anche fortunati e questo bisogna ricordarselo per la prossima stagione che sarà impegnativa. Il prossimo anno finalmente giocherò sul taraflex tricolore, è un onore farlo a Perugia, sarà un qualcosa che proveremo a difendere, dovremo capire come». Non sarà l’unico titolo da difendere. Nel-

VOLLEY: PERUGIA

FA POKER

Quattro trofeo su quattro competizioni disputate per la squadra del presidente Sirci

la trionfale stagione appena conclusa, Perugia si è infatti aggiudicata la sua quinta Supercoppa Italiana, tutte nell’arco delle ultime sette edizioni. Il 3-2 in finale alla Lube è ormai un classico della competizione. In semifinale, il team del presidente Sirci aveva invece eliminato l’Itas Trentino.

Un assaggio della finale scudetto c’era stato invece in Coppa Italia, con l’atto decisivo fra Perugia e la Vero Volley all’Unipol Arena di Casalecchio di Reno. Finale: 3-1 per gli umbri, quarto trofeo in bacheca dopo quelli sollevati nel 2019, 2019 e 2022.

La Sir Safety non potrà però cer-

care il tris al Campionato del mondo per club, riservato alle vincitrici delle rispettive massime manifestazioni continentali o a chi le ha affrontate in finale o semifinale. Semifinalista della Cev Champions League 2022-2023, Perugia ha potuto così prendere parte al torneo iridato lo scorso dicembre. E A vincerlo, di nuovo, grazie ai successi su Minas e Ahmedabad Defenders nel girone, Halkbank in semifinale e ancora sui brasiliani del Minas in finale. Tutti per 3-0. Quando va al Mondiale per club, Perugia è irresistibile. Peccato non poterci riprovare il prossimo autunno. (A. P.)

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Sport
Simone Giannelli. © tiziano ballabio/shutterstock.com

ATLETICA, LA NOTTE DEI RECORD: LE IMPRESE DI DOSSO, FABBRI E FURLANI

Serata memorabile al meeting di Savona, con gli storici primati italiani della velocista e del pesista e la misura top a livello mondiale del lunghista

Roma è ormai alle porte e per “Roma” s’intendono i Campionati europei di atletica leggera in programma dal 7 al 12 giugno. E pure le Olimpiadi di Parigi sono dietro l’angolo: le gare della regina degli sport scatteranno infatti il 1° agosto. Con questi orizzonti, spicca ancor di più la serata dei record, alle idi di maggio colorate d’azzurro, con tre atleti della nazionale italiana autori di prestazioni sopra le righe nei 100 metri femminili, nel salto in lungo e nel “peso” maschile. Protagonisti, al meeting internazionale di Savona, Zaynab Dosso, ivoriana d’origine (è nata nella città di Man) e ufficialmente italiana dal 2018; Leonardo Fabbri, fiorentino di Bagno a Ripoli; Mattia Furlani, 19 anni, romano di Marino, padre italiano e madre senegalese. Una “notte magica”, si potrebbe dire, sognandone altre sugli imminenti prestigiosi palcoscenici continentali e mondiali.

Zaynab ha fatto poca differenza - quanto significativa - fra bagnato e asciutto. Ne aveva, eccome, nella serata di Savona. Perciò, dopo aver migliorato in 11”12 sotto la pioggia, in batteria, il precedente primato italiano condiviso con Manuela Levorato, in finale la 24enne emiliana si è superata abbassando il record tricolore di altri dieci centesimi: 11”02 con 0,9 metri al secondo di vento a favore. «È giunta l’ora di alzare l’asticella» era stato il suo mantra per il 2024, in piena consapevolezza delle proprie potenzialità. Nei primi mesi di quest’anno Dosso ha migliorato tre

volte il primato italiano dei 60 al coperto fino a 7”02 ed è salita sul podio, terza, ai Mondiali indoor di Glasgow sulla stessa distanza. Agli Europei e alle Olimpiadi proverà a sognare e far sognare anche nella staffetta 4x100, specialità nella quale ha contribuito al primato italiano, al bronzo europeo con Dalia Kaddari, Anna Bongiorni e Alessia Pavese due anni fa e al quarto posto iridato nel 2023.

Dopo Zaynab Dosso, a lasciare a bocca aperta il pubblico di Savona è stato Leonardo Fabbri, autentico “gigante” dell’atletica azzurra, che già lo scorso primo maggio a Modena si era già clamorosamente avvicinando al primato nazionale di Alessandro Andrei, 22,91 metri, stabilito nel 1987. Tre soli centimetri lo avevano allontanato dalla storia. Il 27enne fiorentino, però, non si è fermato al “vorrei”. E con naturalezza è andato oltre: se stesso, Fabbri, ma anche tutti i potenziali rivali sia ai prossimi Europei, sia alle Olimpiadi di Parigi. Perché la misura di 22,95 metri stabilita a Savona rappresenta la miglior prestazione mondiale stagionale.

Gara bagnata, gara fortunata per Fabbri. Anche se qui la fortuna c’entra abbastanza poco. Molto meno del talento, del sacrificio, della determinazione. Sotto la pioggia, Fabbri è entrato in gara con due lanci oltre i 21 metri, prima di volare al terzo a quota 22,67 metri. Scaldati i motori, il marcantonio toscano si è assestato a 22,47 e 22,45 metri. Mancava però la ciliegina sulla torta. L’impresa da racconta-

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re ai nipoti. Al sesto è ultimo lancio, Fabbri ha spedito la sfera di oltre 7 chili oltre ogni limite toccato prima da un italiano e superato, nella storia, solo da quattro atleti: 22,95 metri.

E, dunque, Parigi? Calma. Sulla strada verso il trionfo a cinque cerchi c’è un ostacolo titanico. Si chiama Ryan Crouser, ha vinto gli ultimi due titoli olimpici (Rio 2016) e Tokyo (2020) e detiene il record mondiale con la misura di 23,56 metri. Con cinque centimetri in meno, ha trionfato lo scorso anno ai Mondiali, davanti a Fabbri. Però quest’anno è “fermo” a 22,80 metri. Chissà.

A completare la magia del meeting di Savona è stato un altro astro nascente dell’atletica italiana, di valore mondiale. Ha 19 anni, gareggia per le Fiamme Oro ed è reduce dall’argento del Mondiali indoor a Glasgow. Si chiama Mattia Furlani, è figlio di un saltatore in alto, Marcello, e di una velocista, Kathy Seck. La sua prestazione, in terra ligure, è stata impressionante. Sulla pedana bagnata di Savona ha inaugurato la gara con un eccellente 8,25

Leonardo Fabbri. © Raffaele Conti 88/shutterstock.com

Dopo Zaynab Dosso, a lasciare a bocca aperta il pubblico di Savona è stato Leonardo Fabbri, autentico “gigante” dell’atletica azzurra, che già lo scorso primo maggio a Modena si era già clamorosamente avvicinando al primato nazionale di Alessandro Andrei, 22,91 metri, stabilito nel 1987.

(+0.8 m/s di vento), stabilendo al primo colpo il proprio personale outdoor, mentre al coperto vanta 8,34. Tutt’altro che pago, però, Furlani è atterrato al salto successivo a 8,36 metri (+1,4 m/s), una misura incredibile che gli è valsa la vittoria del meeting e il primato mondiale U20, un centimetro più in là di quanto fatto dal russo Sergey Morgunov nel 2012. Quest’anno Furlani seconda misura al mondo assolut, a pari merito con il greco Tentoglu, e a pochi centimetri dall’8,40 fissato dal giamaicano Wayne Pinnock che, a Boston, l’8 marzo scorso. Europei e Olimpiadi sono sfide importanti, enormi. Ma Mattia ha le doti tecniche e caratteriali per poterle affrontare con ambizione e serenità. Fra l’altro, a tre giorni di distanza dal nuovo primato mondiale U20, Furlani è volato negli Stati Uniti per i prestigiosi Atlanta City Games. Dove, all’ultimo tentativo, ha piazzato la zampata del campione. In condizioni meteo, non ideali, ha “stampato” un 8,06 metri andando a scavalcare Damarcus Simpson e Carey McLeod. (A. P.)

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Fonte: FIDAL
Zaynab Dosso.

GINNASTICA ARTISTICA SUL TETTO D’EUROPA

La Nazionale femminile trascinata dalla napoletana Manila

Esposito trionfa a Rimini. Alle porte ci sono i Giochi di Parigi

Le ragazze della Nazionale di ginnastica artistica femminile hanno conquistato le scorse settimane il titolo europeo a Rimini, bissando quello del 2022 e migliorando l’argento dello scorso anno. Nella finale di Rimini non c’è stata avversaria che potesse eguagliare Manila Esposito, Alice D’Amato, Elisa Iorio e Angela Andreoli, costantemente incitate dalla stellina Asia D’Amato, infortunata. Le italiane hanno staccato di ben due punti, 164.162 a 162.162, la Gran Bretagna che lo scorso anno aveva compiuto un’autentica impresa nel precederle in quel di Antalya. Ter-

zo posto e medaglia di bronzo invece per la Francia che ha completato le prove con il punteggio di 158.796.

L’Italia ha chiuso con cinque medaglie d’oro, due argenti e un bronzo. Trascinatrice assoluta è stata Manila Esposito, 17enne di Torre Annunziata (Napoli), come il campione d’Europa di calcio Ciro Immobile e la pugile bronzo olimpico Irma Testa. Sulle orme di Vanessa Ferrari, oro ad Amsterdam 2007, Esposito ha stabilito il record di tre ori individuali nella stessa edizione del Campionato europeo, trionfando nel concorso generale individuale (l’all around),

alla trave (prima italiana in assoluto a vincere un titolo europeo in questo attrezzo) e al corpo libero. A suggello di tutto, l’oro nella prova a squadre. Se ad Antalya, nella passata edizione, Manila aveva fatto intuire le proprie potenzialità conquistando un argento all’esordio in mezzo a colleghe con esperienze altisonanti tra Olimpiadi e Mondiali, quella di Rimini suona come una consacrazione. Ed eleva le aspettative per le imminenti Olimpiadi di Parigi 2024 dove le avversarie più ostiche si chiamano Simone Biles, statunitense, e Rebeca Andrade, brasiliana. Biles, ovvero la ginnasta più medagliata di sempre ai Campionati del mondo e fra Mondiali e Olimpiadi, l’unica ad aver vinto più di tre titoli iridati nel concorso individuale (sei, quanto quelli nell’all around). In poche parole, per molti, la miglior ginnasta della storia e non a caso quando l’ha incontrata Manila le ha chiesto un selfie ricordo.

Non solo Esposito, però. Nota di merito, per il successo azzurro alle finale del Campionato europeo anche per Alice D’Amato, Elisa Iorio e Angela Andreoli. Genovese, sorella gemella di Asia, Alice ha 21 anni e qualche soddisfazione se l’era già tolta. Sia nelle parallele asimmetriche, nelle quali è specialista e dal 2019 a oggi ha vinto un bronzo, un argento e due ori (compreso quello di Rimini), sia nell’all-around che l’ha vista bronzo ad Antalya 2023 e argento poche settimane fa. E’ stata anche bronzo a squadre ai Mondiali di Stoccarda 2019. Con lei, in quell’occasione, anche la coetanea Elisa Iorio, modenese, che nelle “sue” parallele asimmetriche si è piazzata seconda all’Europeo, così come fatto in precedenza in un paio di tappe di Coppa del Mondo. Giovanissima (compirà 18 anni il 6 giugno), Andreoli è già al secondo successo continentale con l’Italia, cui ha contribuito anche stavolta, come a Monaco di Baviera, con il bronzo nel corpo libero. (A. P.)

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Sport Sport
© Anders Riishede/shutterstock.com Manila Esposito.
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DIVERSAMENTE FERTILE

IL DONO DI “SENTIRE

LA VITA” FUORI DALLA PANCIA

Il testo autobiografico narra la storia di una donna, una biologa, che ha vissuto diversi anni di infertilità, con un investimento fisico, emotivo ed economico

di Anna Lavinia

Maria Carmela Padula

“Diversamente fertile”

Sizaa, 2024 – 13 euro

Fertile è una parola semplice ed inequivocabile che porta alla mente un sentimento pieno di vita, come la terra rigogliosa in primavera o i grappoli d’uva maturi sulle viti. Quando il suo significato si tinge di sentimenti di assenza attraverso il termine infertilità, diventa una nemica da combattere, di quelle subdole che entrano nella vita con prepotenza e senza bussare non chiede permesso, per nutrirsi dell’angoscia nell’attesa di una gravidanza. Una diagnosi che condanna la donna agli occhi degli altri, della società e, sopra ogni cosa, di se stessa.

Il tuo corpo ha deciso di venire meno a quella garanzia di riproduzione biologica acquisita naturalmente al momento della nascita. Decide per te, per fare qualcosa di assolutamente diverso da quello che ti aspettavi o che avevi semplicemente rimandato fino a quel momento. Il tuo organo riproduttivo, senza scrupoli, ti mette di fronte al fatto che sei tu la persona che deve ricevere quella diagnosi di infertilità. Un termine che non lascia spazio a mal comprensioni, fraintendimenti o false speranze. Una questione intima e profonda che spesso fa rima con tabù: l’in-

fertilità è qualcosa di cui non si deve parlare o se proprio si deve fare, occorre farlo sottovoce.

La donna dietro a queste pagine, una biologa, tenta qualcosa di diverso, dà voce a quei pensieri che talvolta si vorrebbero nascondere per vergogna o per dolore ma che possono e devono essere normalizzati per guardare in modo diverso l’infertilità.

Nel suo racconto autobiografico rigoroso ed essenziale, mette nero su bianco la sua vita e prende per mano la lettrice e il lettore – perché l’infertilità non è solo una questione femminile –accompagnandoli in un viaggio verso un punto di vista alternativo. Un percorso lungo e faticoso fatto con la mente e con lo spirito di chi ci prova senza nascondersi tra le parole compassionevoli e di pena di chi invece non comprende come una donna non voglia o non possa avere figli.

La particolarità di questa testimonianza sono le parole di chi attraversa il percorso dell’infertilità nella doppia veste di professionista e di paziente. Se da un lato mostra un esempio, una traccia per le altre donne nella medesima condizione, dall’altro aiuta ad avere dimestichezza con termini ancora poco noti. Follicoli, cellule

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Libri

uovo, AMH, PMA e stimolazione embrionale. Sono tante e complicate le variabili e le possibilità nella matematica della fertilità. Iniziare a fare la loro conoscenza può aiutare a comprendere meglio noi stessi, il mondo e la vita in qualsiasi modo essa possa arrivare.

Tra punture, aspettative, esperienze solitarie e condivise, la scrittura diventa un esercizio introspettivo che scava nel dolore e nella forza del proprio corpo. Un libro che insegna ad essere fertili in tanti modi ed a coltivare il seme della generatività anche fuori dalla pancia.

La parola fertilità racchiude al suo interno una delle caratteristiche più nobili che si possono attribuire alle persone e alla loro vite. E nel suo riflesso si scorge anche qualcos’altro, il cambiamento. Quello del corpo in continua evoluzione e quello della mente. La fertilità come una macchia d’olio si espande e arriva al cuore, all’anima. Sei tu che decidi dove farla sbocciare, in qualsiasi ambito tu voglia. Cambiare fa paura ma la vita è anche questo e a volte ci riserva incredibili sorprese, soprattutto quando ormai pensavamo di aver scritto l’ultima pagina del nostro libro.

Stefano Vendrame

“Trappole alimentari”

Longanesi, 2024 – 18 euro

L’acido ortofosforico nelle bibite fa sì che lo zucchero contenuto in esse non sembri cosi nauseante e ne fa bere sempre più. Ingegnosi sistemi dell’industria alimentare fanno vendere e consumare a dismisura. Le trappole che portiamo a tavola tutti i giorni spiegate minuziosamente ci mettono in guardia prima che sia troppo tardi. (A. L.)

Francesca Marzia Esposito

“Ultracorpi”

Minimum Fax, 2024 – 19 euro

Si accartocciano, si imbruttiscono e cambiano nel corso del tempo ma con una costante dedizione, sacrificio e tanta disciplina i corpi potrebbero modificarsi a nostro piacimento. La scrittrice e danzatrice attraversa anoressia e vigoressia, due derive complementari ma opposte a cui spesso è sottoposta la materia che racchiude la nostra anima. (A. L.)

Joanne Anton

“Come si amano le piante”

Wudz Edizioni, 2024 – 17 euro

Bizzarre ma del tutto naturali sono alcune relazioni che avvengono tra le piante. Ad esempio da un’alga e un fungo può nascere un piccolo lichene. Dai primi giorni di vita sulla Terra fino ad arrivare ai comuni cespugli dei nostri giardini, un lungo viaggio nel tempo alla scoperta della bellezza e dell’amore in natura. (A. L.)

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Libri

CONCORSI PUBBLICI PER BIOLOGI

SAINT CAMILLUS INTERNATIONAL UNIVERSITY OF HEALTH SCIENCES – UNICAMILLUS

Scadenza, 2 giugno 2024

Procedura di selezione per la chiamata di un professore di seconda fascia, settore concorsuale 06/A3 - Microbiologia e microbiologia clinica, per la facoltà dipartimentale di Medicina. Gazzetta Ufficiale n. 36 del 0305-2024.

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI RAGUSA

Scadenza, 2 giugno 2024

Stabilizzazione del personale precario per la copertura di quattro posti di dirigente psicologo e un posto di dirigente biologo. Gazzetta Ufficiale n. 36 del 03-05-2024.

UNIVERSITÀ DI BOLOGNA “ALMA MATER STUDIORUM”

Scadenza, 7 giugno 2024

Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato in tenure track della durata di settantadue mesi e pieno, settore concorsuale 05/D1 - Fisiologia, per il Dipartimento di farmacia e biotecnologie. Gazzetta Ufficiale n. 38 del 10-05-2024.

AZIENDA SOCIO-SANITARIA TERRITORIALE OVEST MILANESE DI LEGNANO

Scadenza, 9 giugno 2024

Concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di un posto di dirigente biologo, disciplina di Patologia clinica. Gazzetta Ufficiale n. 38 del 10-05-2024.

AZIENDA SOCIO-SANITARIA TERRITORIALE DELLA VALLE OLONA DI BUSTO ARSIZIO

Scadenza, 9 giugno 2024

Conferimento dell’incarico quinquennale di dirigente medico o biologo, responsabile della struttura complessa Servizio di immunoematologia e medicina trasfusionale, disciplina di medicina trasfusionale, area della medicina diagnostica e dei servizi. Gazzetta Ufficiale n. 38 del 10-05-2024.

UNIVERSITÀ DI ROMA “TOR VERGATA”

Scadenza, 13 giugno 2024

Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato e pieno, settore concorsuale 05/E1 - Biochimica generale, per il Dipartimento di scienze cliniche e medicina traslazionale. Gazzetta Ufficiale n. 39 del 14-05-2024.

SCUOLA NORMALE SUPERIORE DI PISA

Scadenza, 18 giugno 2024

Procedura di selezione per la copertura di un posto di ricercatore a tempo determinato, settore concorsuale 05/F1 - Biologia applicata, per la classe di scienze. Gazzetta Ufficiale n. 40 del 17-05-2024.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ASSEGNO PROFESSIONALIZZANTE ALL’ISTITUTO DI RICERCA SULLE ACQUE DEL CNR DI BARI

Scadenza, 7 giugno 2024

Presso l’Istituto di Ricerca Sulle Acque del Cnr di Bari è indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 assegno professionalizzante per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti l’Area progettuale “Scienze del Sistema Terra e Tecnologie per l’ambiente” da svolgersi nell’ambito del Progetto P.R.I.N. P.N.R.R. – 2022 “P2022SLCFR - INNOVATIVE MEMBRA-

NE TECHNOLOGIES FOR ADVANCED AND SUSTAINABLE WASTEWATER TREATMENT IN VIEW OF BOOSTING A CIRCULAR ECONOMY APPROACH” CUP: B53D23027260001, per la seguente tematica: “Tecnologie innovative per la depurazione delle acque reflue anche finalizzate al riuso degli effluenti; gestione di impianti sperimentali, caratterizzazioni chimico-fisiche e microbiologiche, raccolta ed elaborazione di dati sperimentali, sintesi critica dei risultati e collaborazione alla redazione di rapporti e articoli scientifici”. Il bando è stato pubblicato sul sito internet www.cnr.it, sezione “concorsi”.

CONSIGLIO NAZIONALE DELLE RICERCHE - ASSEGNO ALL’ISTITUTO BIOECONOMIA DEL CNR DI ROMA Scadenza, 28 giugno 2024 - Presso l’Istituto per la BioEconomia del Cnr di Roma è indetta una selezione pubblica, per titoli e colloquio, per il conferimento di n. 1 assegno GRANT per lo svolgimento di attività di ricerca inerenti le Aree Strategiche “Biologia, Biotecnologie e Biorisorse” e “Agricoltura, Ambiente e Foreste” da svolgersi presso nell’ambito del programma di ricerca CARTAGENA_- Attuazione degli obblighi posti dal Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza e dal Protocollo addizionale di Nagoya – Kuala Lumpur in materia di responsabilità e risarcimenti”- CUP B81G18000640005 per la seguente tematica: “supporto tecnico-scientifico al MASE nell’ambito dell’Accordo di Collaborazione per l’attuazione degli obblighi posti dal Protocollo di Cartagena sulla biosicurezza e dal Protocollo addizionale di Nagoya-Kuala Lumpur in materia di responsabilità e risarcimenti, comprese attività in ambito internazionale”. Il bando è stato pubblicato sul sito internet www.cnr.it, sezione “concorsi”.

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Concorsi

NUOVE OPPORTUNITÀ

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Troverai gli avvisi pubblici dedicati ai Biologi

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GLI EFFETTI DELLA CRISI CLIMATICA SULLA SALUTE FISICA E MENTALE

Come proteggere la salute umana dagli effetti dei cambiamenti climatici attraverso la mitigazione e l’adattamento

Nel Sesto Rapporto di Valutazione del Panel Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC) si legge che i rischi legati al clima instabile stanno aumentando velocemente e peggioreranno prima del previsto. Queste stime, insieme al progressivo aumento del riscaldamento globale, rendono ancora più complicato lo sviluppo e l’insediamento di strategie utili per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici, e l’adattamento della vita umana a nuove condizioni ambientali della Terra non è così scontato e non è un processo che può verificarsi rapidamente.

Il rapporto rivela che 3,6 miliardi di persone vivono in aree altamente suscettibili ai cambiamenti climatici e che i Paesi a basso reddito, così come le aree in via di sviluppo, contribuiscono in misura minima alle emissioni globali eppure subiscono gli impatti sanitari più gravi. In queste regioni, il tasso di mortalità causato da eventi meteorologici estremi, nell’ultimo decennio, è stato 15 volte superiore rispetto alle altre zone del mondo. Questi numeri ci dicono che il cambiamento climatico sta influenzando la salute fisica e mentale in molteplici modi rappresentando una minaccia anche per quei fattori sociali che, in condizioni normali, contribuiscono a mantenere lo stato di salute. Ne sono un esempio i mezzi di sussistenza e l’accesso alle cure sanitarie o alle strutture di supporto sociale [1].

Quando parliamo di cambiamenti climatici facciamo riferimento a diversi eventi che comprendono l’aumento delle temperature, le variazioni nelle precipitazioni, l’incremento nella frequenza e nell’intensità di alcuni avvenimenti meteo-

* Comunicatrice scientifica e Medical writer

rologici estremi e l’innalzamento del livello del mare. Questi sono una vera e propria minaccia per la nostra salute perché condizionano la disponibilità e la qualità del cibo che mangiamo, dell’acqua che beviamo, dell’aria che respiriamo e le temperature stagionali a cui ci siamo adattati. Le previsioni informano che si tratta di pericoli destinati ad aumentare e la loro gravità dipenderà dalla capacità che i sistemi di sanità pubblica e sicurezza mostreranno nel prepararsi a fronteggiare queste minacce mutevoli, nonché da fattori come il comportamento individuale, l’età, il genere e lo stato economico. Infatti, gli impatti varieranno anche in base a dove si vive, alla vulnerabilità individuale, al grado di esposizione e alla capacità di adattarsi a questi cambiamenti [2].

Effetti dei cambiamenti climatici sulla salute

Il Lancet Countdown è una collaborazione internazionale di ricerca che monitora in maniera indipendente gli impatti dei cambiamenti climatici sulla salute basandosi su determinati indicatori. Dal rapporto elaborato per il 2023 emerge che il mondo ha registrato le temperature globali più elevate degli ultimi 100.000 anni. Gli adulti di età superiore ai 65 anni e i bambini di età inferiore a 1 anno, per i quali il caldo estremo può essere particolarmente pericoloso, sono esposti al doppio delle giornate di ondate di calore rispetto a quanto avrebbero sperimentato nel periodo compreso tra il 1986 e il 2005. Ancora più grave è il dato delle morti causate dal caldo che hanno visto un aumento dell’85% rispetto al periodo 1990-2000 nelle persone di età superiore ai 65 anni.

L’area della Terra interessata da gravi siccità è del 47% e ha messo a rischio la sicurezza idrica, l’igiene e la produzione alimentare. Le temperature elevate e la siccità registrate nel 2021

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di Daniela Bencardino *

hanno portato 127 milioni di persone in più rispetto agli anni precedenti a non avere cibo a sufficienza aumentando il rischio di malnutrizione. Inoltre, sempre più popolazioni sono a rischio di malattie infettive potenzialmente letali, come dengue, malaria, vibriosi e il virus del Nilo occidentale.

L’aggravarsi di questi impatti sulla salute si traduce in perdite economiche che danneggiano i mezzi di sussistenza, limitano la resilienza e vincolano i fondi disponibili per affrontare il cambiamento climatico. Le perdite economiche derivanti da eventi estremi sono aumentate del 23% dal 2010 mentre la perdita di capacità lavorativa dovuta al caldo eccessivo ha colpito maggiormente i Paesi meno sviluppati aggravando le disuguaglianze globali [3,4].

Inquinamento atmosferico

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L’inquinamento dell’aria causato dall’ozono provoca diversi problemi di salute, tra cui la riduzione della funzione polmonare, l’aumento degli ingressi ospedalieri e delle visite al pronto soccorso per asma e, purtroppo, l’aumento delle morti premature. La formazione dell’ozono è favorita dall’aumento delle temperature, delle concentrazioni di sostanze chimiche nonché delle emissioni di metano mentre il particolato dipende principalmente da incendi e periodi di stasi atmosferica [5].

Il cambiamento climatico porta anche al prolungarsi della stagione del polline i cui granuli, dispersi da piante e fiori, vengono trasportati dall’aria e possono causare varie reazioni allergiche. Le piogge intense e le temperature in aumento possono compromettere la qualità dell’aria anche all’interno delle case o degli ambienti di lavoro, favorendo la crescita di muffe che complicano le condizioni respiratorie di persone con asma e allergie [6].

Insorgenza di malattie infettive

La variabilità climatica è uno dei fattori che favorisce l’adattamento di patogeni a nuove aree geografiche alterando le caratteristiche con cui si manifestano le malattie. La trasmissione delle malattie infettive, soprattutto quelle mediate da

vettori, è molto sensibile a piccole variazioni del clima, alle alterazioni della natura da parte dell’uomo e alla diversità degli ospiti animali. Ad aggravare il quadro è il costante aumento dei viaggi internazionali e del commercio che facilitano e velocizzano la diffusione dei patogeni supportando l’emergere di nuove epidemie. Tuttavia, gli investimenti che sono stati fatti nella risposta alle epidemie, i miglioramenti strutturali e lo scambio di informazioni messi in campo durante la pandemia da COVID-19 potrebbero contribuire a mitigare la minaccia di infezioni emergenti. Inoltre, gli sforzi per sviluppare vaccini universali (come, ad esempio, quelli che conferiscono immunità contro tutte le varianti del virus dell’influenza o dei coronavirus) potrebbero rappresentare un enorme passo avanti nell’affrontare le infezioni attuali e quelle future. Il lavoro che bisogna fare dovrebbe essere concentrato sui cambiamenti simultanei attraverso modelli in evoluzione di fattori demografici, climatici e tecnologici. Bisogna prestare attenzione ai patogeni in circolazione nelle popolazioni animali selvatiche e domestiche e sfruttare le nuove tecnologie, compresi i progressi nella raccolta di dati e sorveglianza. C’è molta innovazione intorno alla sorveglianza: dalla reinterpretazione delle informazioni ottenute con strumenti classici come la PCR al ricorso ad approcci di sierologia multipla per identificare anomalie che potrebbero suggerire l’emergenza di patogeni. Infine, la ricerca deve allinearsi con una visione globale del rischio di malattia perché in un mondo sempre più connesso, il rischio legato alle malattie infettive

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è condiviso. La pandemia da COVID-19 ha fatto emergere la necessità di un quadro collaborativo e mondiale per la ricerca e il controllo delle malattie infettive [7].

Insicurezza alimentare

Il cambiamento climatico avrà indubbiamente effetti significativi anche sulla sicurezza alimentare attraverso percorsi diversi, ad esempio potrà aggravare le malattie trasmesse dagli alimenti attraverso la comparsa, la persistenza e la virulenza di alcuni patogeni. Allo stesso modo, la siccità, le temperature elevate e una maggiore frequenza di eventi meteorologici estremi possono mettere a dura prova l’agricoltura. La carenza di acqua non potrà più garantire l’irrigazione dei campi, il caldo potrà compromettere il mantenimento della catena del freddo, la diffusione di parassiti porterà a un maggiore utilizzo di pesticidi e ancora le alluvioni improvvise diffonderanno contaminanti chimici nei corsi d’acqua naturali. Il risultato di tutto ciò sarà un aumento di infezioni alimentari, intossicazioni, resistenza antimicrobica e accumulo a lungo termine di sostanze chimiche e metalli pesanti nell’organismo umano [8].

L’aumento delle temperature

Il caldo estremo è associato principalmente a malattie cardiovascolari, respiratorie, cerebrovascolari e renali causando un aumentato numero di morti premature, soprattutto in aree urbane con una popolazione in età considerata maggiormente a rischio. Ridurre i rischi per la salute legati alle temperature elevate è possibile grazie alla pianificazione di un adattamento messo in atto dalla sanità pubblica. Ad esempio, assistere le persone più vulnerabili e aumentare la consapevolezza dei rischi che si corrono induce all’adozione di comportamenti protettivi riducendo morbilità e mortalità. Inoltre, mettere a

disposizione dei locali pubblici con aria condizionata, controlli sanitari e distribuzione di acqua è un importante intervento di prevenzione e sanità pubblica. Queste e altre misure preventive possono ridurre le esposizioni al caldo e aumentare la capacità di farvi fronte mentre il clima si riscalda. Attraverso progetti a lungo termine, le aree urbane possono essere modificate o progettate con nuove tecnologie o infrastrutture modificate (ad esempio, facciate fresche, tetti verdi, strutture ombreggianti e superfici riflettenti) che garantirebbero anche una maggiore ecosostenibilità [4].

Salute Mentale

Gli effetti dei cambiamenti climatici sulla salute mentale possono essere classificati in diretti e indiretti. I primi si verificano principalmente dopo eventi meteorologici acuti e includono disturbo da stress post-traumatico, ansia, disturbo da abuso di sostanze, depressione e persino istinto suicida. Gli effetti indiretti, invece, comprendono perdite economiche, spostamenti e migrazioni forzate, competizione per la scarsità delle risorse e aggressività. I fattori di rischio sono la giovane età, il genere femminile, il basso stato socioeconomico, la perdita o la malattia di una persona cara, eventuali malattie mentali preesistenti e problemi sociali. Tuttavia, anche nei soggetti sani la consapevolezza della crisi climatica in corso scatena stati emotivi preoccupanti così intensi da causare disturbi mentali. Il supporto psicologico non dovrebbe mai mancare all’interno delle comunità per proteggere la salute mentale e a maggior ragione non dovrebbe essere sottovalutato in quelle zone già fortemente colpite da catastrofi climatiche [9].

Necessità di un’azione globale

Per ridurre al minimo questi effetti è necessario arrestare

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i danni all’ambiente, ridurre le emissioni di gas serra e incoraggiare comportamenti ecosostenibili tra le popolazioni. L’Unione Europea (UE) è in prima linea e con l’accordo di Parigi firmato da tutti i suoi Stati membri sta già lavorando per diventare la prima economia e società a impatto climatico zero entro il 2050.

Con l’accordo di Parigi i governi si sono impegnati a: - mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C in più rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C; - presentare piani d’azione nazionali per ridurre le rispettive emissioni; - comunicare ogni cinque anni i piani d’azione fissando obiettivi sempre più ambiziosi;

- comunicare, anche al pubblico, i risultati raggiunti nell’attuazione dei rispettivi obiettivi per garantire trasparenza e controllo; - fornire finanziamenti per il clima ai Paesi in via di sviluppo per aiutarli a ridurre le emissioni e a diventare più resilienti agli effetti dei cambiamenti climatici [10].

L’UE fa parte della convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) che rappresenta il principale accordo internazionale sull’azione per il clima con l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra, principali responsabili del riscaldamento globale, a tutela della biodiversità, dell’integrità degli ecosistemi e della salute umana.

Ogni anno, i Paesi aderenti partecipano a incontri internazionali noto come COP (conferenze delle parti) per discutere dei progressi fatti. A ottobre 2023 il Consiglio ha delineato e approvato le posizioni generali dell’UE per la 28° conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 28) di Dubai (30 novembre-12 dicembre 2023). Da un lato, questa conferenza invita alla prevenzione con le azioni di riduzione delle emissioni di gas serra e il mantenimento del riscaldamento globale entro i limiti fissati dall’Accordo di Parigi, e dall’altro sottolinea la necessità di attuare la strategia del sistema sanitario per contenere queste emissioni. Infatti, secondo l’ultimo rapporto dell’IPCC bisognerebbe tagliare il 43% delle emissioni dei gas serra entro il 2030 e l’84% entro il 2050 rispetto ai livelli del 2019 per raggiungere gli obiettivi previsti dall’accordo di Parigi [11]. Alla luce di ciò, il 10 novembre 2023, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un piano dettagliato per costruire sistemi sanitari resilienti ai cambiamenti climatici e a basse emissioni di carbonio. Questo documento serve a dare concretezza agli impegni presi e a garantire un settore sanitario che funga da esempio nella riduzione delle emissioni [12].

Conclusioni

I cambiamenti climatici stanno mettendo a rischio la salute e la sopravvivenza umana in tutto il mondo. Queste minacce variano notevolmente in base alla distribuzione geografica ma soprattutto alla vulnerabilità delle popolazioni, intrinsecamente correlata alle caratteristiche epidemiologiche e socioeconomi-

che spesso sbilanciate. Attualmente le nazioni e le comunità più svantaggiate sono quelle maggiormente colpite. Pertanto, è necessaria una transizione che minimizzi le disuguaglianze globali, eviti gli impatti negativi e garantisca la sicurezza per la salute pubblica accelerando sia le azioni di mitigazione che di adattamento. Una strategia utile è senza dubbio quella di favorire lo scambio globale di conoscenze concentrandosi sulla raccolta e sul monitoraggio degli indicatori di rischio e dei progressi compiuti. Al momento, la sfida più importante è quella di studiare in modo efficace l’adattamento perché molti indicatori si basano su dati forniti dal singolo individuo, quindi sono informazioni soggette a distorsioni. Inoltre, gli sforzi di adattamento condotti da enti e organizzazioni o dalla società civile non vengono ancora registrati in modo standardizzato, ciò limita il monitoraggio dei progressi a livello globale.

Bibliografia

1. Panel I, Change C, Lee IH, Report TS, Mukherji A, Report S. Urgent Climate Action Can Secure A Liveable Future For All. 2023;1–4.

2. Crimmins, A., J. Balbus, J.L. Gamble, C.B. Beard, J.E. Bell, et al., The Impacts of Climate Change on Human Health in the United States: A Scientific Assessment. Eds. U.S. Global Change Research Program, Washington, DC, 2016, 312 pp. http://dx.doi. org/10.7930/J0R49NQX

3. Romanello M, Napoli C di, Green C, Kennard H, Lampard P, Scamman D, et al. The 2023 report of the Lancet Countdown on health and climate change: the imperative for a health-centred response in a world facing irreversible harms. Lancet. 2023;6736.

4. Ebi KL, Vanos J, Baldwin JW, Bell JE, Hondula DM, Errett NA, et al. Extreme Weather and Climate Change: Population Health and Health System Implications. Annu Rev Public Health. 2020;42:293–315.

5. Bhat TH, Jiawen G, Farzaneh H. Air pollution health risk assessment (Ap-hra), principles and applications. Int J Environ Res Public Health. 2021;18:1–29.

6. Ray C, Ming X. Climate change and human health: A review of allergies, autoimmunity and the microbiome. Int J Environ Res Public Health. 2020;17:1–7.

7. Baker RE, Mahmud AS, Miller IF, Rajeev M, Rasambainarivo F, Rice BL, et al. Infectious disease in an era of global change. Nat Rev Microbiol. 2022;20:193–205.

8. Duchenne-Moutien RA, Neetoo H. Climate change and emerging food safety issues: A review. J Food Prot [Internet]. 2021;84:1884–97. Available from: https://doi. org/10.4315/JFP-21-141

9. Ramadan AMH, Ataallah AG. Are climate change and mental health correlated? Gen Psychiatr. 2021 Nov 9;34(6):e100648.

10. Della C, Al C, Europeo P, Della C, Al C, Europeo P. Accordo di Parigi – convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. 2020;

11. 2023 Synthesis report on GST elements. Views on the elements for the consideration of outputs component of the first global stocktake Synthesis report by the secretariat Content Background and mandate. 2023;1–65.

12. Istituto Superiore di Sanità. La conferenza delle parti sul clima: a Dubai una doppia opportunità per la salute. Disponibile online: www.epicentro.iss.it/ambiente/cop-282023.

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LE PATOLOGIE DELL’OCCHIO E LA QUESTIONE DELLA DIFFERENZA DI GENERE

Recenti studi hanno spiegato come ci sia una differenza importante sugli esiti delle patologie della vista tra uomini e donne

Recenti studi scientifici presentati al congresso nazionale degli oculisti ambulatoriali dalla Società Scientifica Goal evidenziano come donne e uomini reagiscano in modo diverso per determinate patologie della vista.“Stando ai dati internazionali donne e uomini reagiscono in modo diverso per determinate patologie della vista. Abbiamo presentato dei dati scientifici al nostro congresso nazionale Roma”, dice il dott. Danilo Mazzacane, segretario generale della società scientifica degli oculisti ambulatoriali Goal.”

Due su tre sono donne nella percentuale di persone che perdono la vista, questo è in parte dovuto al fatto che l’aspettativa di vita per le donne è di cinque anni più lunga e ai dati che confermano che c’è una disuguaglianza di genere nell’accesso alle cure sanitarie; inoltre concorrono fattori legati allo stile di vita (fumo, esposizione al sole) e differenze biologiche dipendenti dal sesso. Gli estrogeni sono utili nel processo di invecchiamento in quanto favoriscono una distribuzione favorevole del grasso corporeo e una metabolizzazione benefica dei lipidi, hanno effetti neuroprotettivi; consentono l’attivazione del sistema immunitario e un miglioramento della risposta allo stress; hanno proprietà antiossidanti e quando le donne entrano in menopausa diventano più fragili anche per le patologie oculari”. Le ricerche effettuate stabiliscono una chiara correlazione tra il manifestarsi di malattie oftalmiche e le varie fasi di vita in cui la donna subisce cambiamenti ormonali, che vanno dal periodo preadolescenziale al post menopausa.

Anche gli uomini hanno cambiamenti ormonali ma in misura differente e reagiscono a farmaci in modo diverso rispetto alle donne per talune patologie anche perché molti trial

non hanno ancora una parità di genere nel testare gli effetti collaterali dei farmaci in modo equo. Le patologie oftalmiche più pericolose e che possono portare alla cecità sono la degenerazione maculare senile che colpisce al 69 per cento le donne rispetto agli uomini, il glaucoma, al 61 per cento, la cataratta al 61 per cento, la retinopatia diabetica al 51 per cento, un dato questo che può aumentare e qualora le pazienti abbiano sviluppato diabete gestazionale durante la gravidanza, presentarsi in una forma più aggressiva; inoltre nella miopia elevata le donne hanno il 50 per cento in più di rischio rispetto agli uomini nello sviluppare complicanze retiniche. I dati di una meta-analisi di dati su 53.173 soggetti evidenzia che vi sono alcune prove scientifiche che suggeriscono un rischio più elevato di NVAMD (Degenerazione maculare neovascolare legata all’età) nelle donne rispetto agli uomini (OR, 1,2; 95% CrI, 1,0 –1,5). Un fattore chiave nella patogenesi dell’AMD (Degenerazione maculare legata all’età tardiva) è il sistema del complemento: ci sono livelli più elevati di fattore B e fattore I nelle femmine rispetto ai maschi con AMD rispetto ai controlli di pari età.

La disuguaglianza sessuale è maggiore nei paesi sviluppati in cui le donne vivono più a lungo e giocano un ruolo rilevante fattori biologici e socioeconomici. Studi negli Stati Uniti per età hanno rilevato un maggiore carico di perdita della vista nelle donne ed evidenziato che la compromissione della vista correlata all’AMD aumenta il rischio di depressione clinica e ansia. I dati evidenziano che le donne danno priorità al benessere e alla salute degli altri rispetto alla propria e che durante il covid abbiano avuto un maggiore calo della vista a causa del maggiore carico di impegno in assistenza, in attività di insegnamento scolastico domiciliare, in maggiori ore in

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smart working per conciliare assistenza anziani e figli. L’AMD avanzata è più comune nelle donne, un pò perché vivono più degli uomini, ma anche per le problematiche biologiche e socioeconomiche. Ci sono nuovi target per il trattamento delle maculopatie e si è visto che le donne necessitano di maggiori controlli con OCT per problemi alla retina dovuti all’avanzamento degli anni di vita. Nuovi studi hanno poi approfondito il tema delle modificazioni oculari in gravidanza che si suddividono in fisiologiche, patologiche, pre-esistenti o insorte durante la gravidanza. “Ne ha parlato in modo approfondito la dott.ssa oculista, Ten. Col. me Stefania Speranza, Capo Sezione Oculistica del Centro Polispecialistico del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri,” sottolinea il dott. Danilo Mazzacane, responsabile scientifico con lei del congresso nazionale degli oculisti ambulatoriali Goal,”Tra le modificazioni oculari fisiologiche si menzionano il melasma e cloasma: le donne hanno un aumento della pigmentazione pelle per il novanta per cento e si tratta di una problematica ormono-mediata e spesso hanno un cloasma «maschera gravidica» per il 70 per cento nella regione malare, perioculare e palpebrale. Inoltre le donne che hanno avuto delle gravidanze hanno più probabilità degli uomini di avere la ptosi mono o bilaterale e un infarcimento del fluido interstiziale del muscolo elevatore e della sua aponeurosi. Durante il periodo della gravidanza vi è una elevata produzione estrogeni/progesterone con un annullamento della produzione di androgeni quindi vi sono alterazioni del film lacrimale più frequenti rispetto agli uomini.

bilità corneale e una modifica refrattiva (shift miopico). Tra le modificazioni fisiologiche vi è il fuso di Krubemberg transitorio e un aumento del diametro pupillare per l’aumentata attività del sistema simpatico in gravidanza. Le donne soprattutto in gravidanza presentano più degli uomini variazioni della pressione oculare; infatti circa il 24 per cento delle donne gravide ha una riduzione della pressione oculare e gli studi evidenziano che potrebbe essere dovuto ad un aumento del deflusso uveo-sclerale per riduzione della pressione venosa episclerale (riduzione delle resistenze vascolari sistemiche per vasodilatazione secondaria ad acidosi) oppure ad un aumento dell’elasticità tissutale del trabecolato sclerale per produzione di relaxina; nelle donne con ipertensione oculare vi è un peggioramento in circa il dieci per cento.

Nel caso di donne che allattino vi è poi una azione pro-infiammatoria della prolattina (IL-1, IL-6 e IFN-a) con distruzione delle cellule acinari delle ghiandole lacrimali. Le donne soffrono di più in gravidanza di disidratazione da iperemesi. Sempre durante la gravidanza le donne subiscono delle modificazioni corneali in quanto l’amento della produzione di acido ialuronico mediato dagli estrogeni con “iper-idratazione corneale” causa un aumento dello spessore corneale, un aumento della curvatura corneale; una riduzione della sensi-

Inoltre le donne in gravidanza hanno fisiologicamente un ispessimento coroideale per un aumento del volume ematico e della ritenzione idrica. Tra le modificazioni per problematiche pre-esistenti alla gravidanza quali la retinopatia diabetica le donne con questa patologia di grado lieve/moderato mostrano nel 50 per cento dei casi una progressione che tuttavia regredisce generalmente nel terzo trimestre e nel post partum. Mentre le pazienti con NPDR di grado severo mostrano rischio del 5-12 per cento di sviluppare PDR e la pazienti con PDR mostrano una progressione nel 45 per cento dei casi. Ecco perché per le donne con retinopatia diabetica è consigliato durante la gravidanza un trattamento laser preconce-

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zionale e di fare controlli oftalmologici mensili. Durante la gravidanza vi è una progressione per neoplasie quali adenomi ipofisari, meningiomi, melanomi uveali, osteomi coroideali. Mentre per le donne in gravidanza per patologie preesistenti quali uveiti non infettive si è notato un miglioramento del decorso e una riduzione delle recidive. Per quanto concerne invece il coinvolgimento oculare nelle patologie insorte in gravidanza gli studi europei scientifici presentati al congresso nazionale degli oculisti ambulatoriali Goal di Roma evidenziano che un aumento della ipertensione arteriosa gravidica (511%)influisce sulla salute degli occhi e che aumentano i casi di pre-eclampsia legate a crisi epilettiche. Tra le patologie che possono insorgere in gravidanza si menzionano la corioretinopatia sierosa centrale con ispessimento coroide ed aumento del cortisolo sierico; e aumentano casi di assetto trombofilico gravidico che causano occlusioni vascolari arteriose o venose a carico di retina, coroide e nervo ottico.

Tra le patologie oculari che aumentano nelle donne sia in gravidanza che durante e dopo la menopausa ci sono le problematiche inerenti l’occhio secco. Gli studi evidenziano una prevalenza della malattia dell’occhio secco nella coorte di donne in gravidanza con una percentuale del 40,8 per cento. Diversi sono i fattori significativamente associati all’occhio secco quali l’aumento di colesterolo, un incremento della sensibilità corneale in gravidanza. In uno studio su 86 donne incinte tra la 13a e la 40a settimana di gestazione le soglie erano significativamente più alte nel gruppo di studio rispetto a un gruppo di controllo di donne non incinte. La diminuzione della sensibilità corneale non era correlata alla durata della gestazione, ma all’ aumento di peso durante la gravidanza e alla pressione arteriosa media. L’uso di colliri per la problematica dell’occhio secco nelle donne in gravidanza non è stato associato ad alcun esito neonatale avverso; i risultati ottenuti dai sostituti lacrimali sono spesso inadeguati in primis perché un sostituto lacrimale non è simile alla lacrima naturale; inoltre la superficie oculare è danneggiata e necessita di interventi correttivi (es. mancanza di gycocalix, mancanza di cellule caliciformi, infiammazione etc.); in più il sostituto lacrimale non può aderire all’epitelio per un periodo di tempo significativo.

Gli studi più recenti pertanto spiegano che vi sono cambiamenti fisiologici e patologici durante la gravidanza che sono comuni in tutti i distretti dell’organismo e vi sono modifiche possibili anche a livello oculare e retinico; la maggior parte dei cambiamenti sono reversibili altri possono essere definitivi. “I cambiamenti fisiologici non necessitano di trattamento, mentre i cambiamenti patologici necessitano di monitoraggio per evitarne progressione ed eventuali trattamenti necessitano di attenzione per possibili conseguenze madre e feto” spiega la dott.ssa Elena Piozzi, medico oculista, ricercatrice e socia della società scientifica degli oculisti ambulatoriali Goal,” Differenti modifiche fisiologiche a livello coroide sono state riportate in gravidanza ed anche un ispessimento della stessa, specie nel 2° trimestre, è stato riscontrato (kara e altri). Ecco perché definire parametri anomali può essere biomarker per pre-eclampsia associata generalmente ad un aumentato spessore e ad iperperfusione.” Altri studi mediante OCTA hanno confrontato lo spessore della coroide subfoveale in donne gravide e non e si è visto che lo spessore della coroide subfoveale si modifica in pazienti gravide rispetto alle non gravide. I cambiamenti ormonali influenzano l’autoregolazione dei piccoli vasi coroideali.

A differenza dei lavori precedenti in uno studio recente lo spessore dei substrati coroideali risulta più basso e la perfusione corio-capillare ridotta nel terzo trimestre di gravidanza. Un altro studio valuta lo spessore coroideale di donne gravide sane o con pre-eclampsia e si è visto che la gravidanza non induce di per sé aumento di spessore, mentre la pre-eclampsia induce aumento di spessore, ma che non tutti gli aumenti di spessore sono patologici. Questo suggerisce che fattori aggiuntivi non del tutto noti quali l’iperpermeabilità vascolare, una diminuita pressione osmotica colloidale, cambiamenti quantitativi di prostaglandine che inducono l’ iperperme-

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abilità e portano a CRSC (Corioretinite sierosa centrale) in gravidanza. La gravidanza è fattore predisponente, di solito la CRSC può comparire al terzo trimestre di gravidanza; c’è una incidenza annuale dello 0.008 per cento; ci sono studi che evidenziano una ridotta acuità visiva e metamorfopsie. Con un OCT si evidenzia fibrina iperriflettente sottoretinica; può esserci una possibilità di recidiva alla gravidanza successiva.Si risolve per lo più dopo il parto spontaneamente. La causa della CRSC non è completamente compresa e gli studi angiografici sono sconsigliati. La gravidanza interessa l’asse ipotalamo pituitario surrene determinando aumento delle catecolamine e del cortisolo. La CRSC compare in corrispondenza del picco del cortisolo plasmatico nel 3 trimestre di gravidanza.

La risoluzione spontanea accade per lo più in corrispondenza del calo di cortisolo al momento del parto. L’iperpermeabilità vascolare coroideale è la maggior causa. Il cortisolo potrebbe indurre disfunzione dei vasi coroideali inibendo il collageno determina assottigliamento delle pareti vasali coroideali favorendone la permeabilità.Livelli di estrogeni progesterone e renina-angiotensina aumentano in gravidanza e la

differente omeostasi degli ormoni vasoregolatori indotta può determinare iper-ipoperfusione coroideale. Solo raramente gli studi evidenziano che dopo il parto possono accadere problematiche di perdita visiva, emorragie retiniche, edema del disco o una ischemia retinica. Le occlusioni vascolari in gravidanza invece dipendono dalle modifiche ormonali vascolari ed immunologiche indotte dalla stessa e i fattori di rischio aggiuntivi risultano essere una persistenza di forame ovale, la bassa proteina S o la sindrome anticorpi anti-fosfolipidi. L’Organizzazione mondiale della Sanità e la Federazione di Ginecologia ed Ostetricia classifica l’iperglicemia come diabete gestazionale, diabete in gravidanza. Il diabete gestazionale insorge per la prima volta durante la gravidanza specialmente dopo le 24 settimane. Gli studi presentati al congresso Goal evidenziano che le pazienti diabetiche necessitano di controllo oculare prima di pianificare la gravidanza e che devono essere avvisate di comparsa di possibile peggioramento di retinopatia diabetica in gravidanza. E’ pertanto fondamentale un costante controllo e monitoraggio di glicemia e pressione ed un controllo oculare dal primo trimestre poi in base alla gravità della retinopatia. Le donne sono a maggior rischio di sviluppare cecità per retinopatia diabetica rispetto agli uomini e tale rischio aumenta in gravidanza.

Un recente studio di meta-analisi presentato al congresso GOAL ha valutato la variabilità di prevalenza e progressione di retinopatia diabetica in gravide D1 e D2 e la necessità di stime precise di prevalenza e progressione di questa patologia in gravide affette da D1 e D2 per elaborare linee guida di gestione in gravidanza e, a tale scopo, ha esaminato diciotto studi osservazionali su 1464 gravide con D1 e 262 con D2 al fine di valutare prevalenza e progressione della retinopatia diabetica. L’obiettivo dello studio era valutare quante donne in gravidanza con preesistente diabete Tipo 1 e Tipo 2 siano affette da retinopatia diabetica e quante sperimentino la progressione della retinopatia diabetica durante la gravidanza. Questo Studio di revisione e meta-analisi ha evidenziato che il rischio di progressione di retinopatia diabetica è similare in donne affette da diabete Tipo1-2 e che la prevalenza di retinopatia diabetica è maggiore in donne in gravidanza (52-57 per cento) rispetto alla popolazione non gravida (34,6 per cento). Inoltre, nonostante il miglioramento della gestione del diabete e del diabete in gravidanza, la progressione della retinopatia diabetica resta alta rispetto alle non gravide e il monitoraggio deve essere simile in presenza di retinopatia diabetica sia nel Tipo 1 che nel Tipo2. Il diabete è in aumento nel mondo così come il numero di donne gravide con diabete per l’aumentata età gestazionale e per la precoce insorgenza del diabete Tipo 2.

La prevalenza di retinopatia diabetica è stimata intorno al 14 per cento e c’è un ampio range nel diabete tipo 1(34-72 per cento) nel mondo. I fattori di rischio per la progressione sono la durata del diabete, il livello iniziale di retinopatia

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diabetica, uno scarso controllo glicemico e una ipertensione e pre-eclampsia. Dagli studi risulta un basso rischio di progressione nel diabete 2 pur essendoci alcuni casi con progressione rapida. Ecco perché durante la gravidanza serve un esame oculistico completo, uno successivo a 28 settimane se normale e uno a 16-20 settimane se al prim esame era presente una retinopatia diabetica al suo esordio; mentre se la retinopatia diabetica è grave i controlli devono essere mensili e comunque avere la retinopaatia diabetica non è una controindicazione al parto vaginale contrariamente alle fake news che girano; solo se è presente una retinopatia diabetica non trattata è da considerare cesareo per evitare complicanze come emorragia vitreale. Negli ultimi anni, il controllo glicemico è migliorato e ha portato a un notevole calo della prevalenza della retinopatia durante la gravidanza con conseguente modifica della strategia di screening della retina.

Quasi la metà delle donne con diabete di tipo 1 e la maggioranza con diabete di tipo 2 non presentavano retinopatia all’inizio della gravidanza. Se all’inizio della gravidanza era presente un buon controllo glicemico, nessuna di queste donne ha sviluppato retinopatia con pericolo per la vista. L’implicazione è che un ulteriore screening fotografico dopo quello inizio gravidanza potrebbe essere posticipato fino al post-partum nelle donne senza retinopatia e con un buon controllo glicemico all’inizio della gravidanza. Il glaucoma normotensivo per le donne o anche detto neuropatia ottica glaucomatosa da tensione normale o glaucoma a tensione normale è diverso rispetto agli uomini come patologia. Von Graefe (1857) per la prima volta teorizza che il glaucoma potrebbe insorgere nel contesto di una IOP normale. Le problematiche sono varie dall’assottigliamento delle fibre inferiori ed infero-temporali, all’atrofia peri-papillare, alle emorragie

papillari, per arrivare a difetti profondi della vista. La dott.ssa Gemma Rossi, MD Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo, ASST Bergamo Est, al congresso nazionale Goal ha presentato i dati dei più recenti studi sul glaucoma normotensivo evidenziando le differenze di genere della patologia.

“Il genere ha ruolo negativo su prognosi”, spiega la dott.ssa Gemma Rossi, ”Le percentuali di questa patologia variano anche in base alle etnie ad esempio nelle popolazioni caucasiche l’incidenza è per i Paesi Bassi del 39 per cento; per gli USA del 32 per cento; in Italia del 30 per cento; mentre per le popolazioni asiatiche l’incidenza è nel Sud Corea del 77 per cento e in Giappone del 92 per cento; nella popolazione del Sud Africa l’incidenza è del 57 per cento; nella popolazione afro-americana risulta essere del 50 per cento. I fattori di rischio per il glaucoma normotensivo sono diversi tra cui l’età, la storia familiare, il genere femminile ne è maggiormente soggetto, l’ipotensione sistemica e notturna, le apnee notturne”. Gli studi presentati dalla dott.ssa Gemma Rossi sottolineano che occorre considerare l’effetto dei farmaci sulla pressione arteriosa sistemica, sulla frequenza cardiaca e sulla perfusione del nervo ottico ed utilizzare farmaci con effetti neuroprotettivi. Inoltre gli studi evidenziano che il NAD (Nicotinamide Adenin Dinucleotide) è un cofattore enzimatico fondamentale per mantenere la produzione di energia nei mitocondri e che assumere la vitamina B3 aiuta a prevenire il glaucoma.

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NEUROIMMUNOLOGIA: IL METABOLISMO DEI NEURONI DEPUTATO ALLA MEMORIA

Studi svelano un ruolo del recettore Trem2 nel controllo dello sviluppo neuronale regolando l’idoneità metabolica dei neuroni in modo specifico per regione

Dal sistema immunitario dipendono la formazione e il funzionamento delle aree deputate alla memoria: i dati pubblicati di recente su Immunity (29.1.2023) intitolato “Trem2 expression in microglia is required to maintain normal neuronal bioenergetics during development” aprono un nuovo capitolo nel campo della neuroimmunologia, con implicazioni per le malattie del neurosviluppo e per quelle neurodegenerative, in primis l’Alzheimer. Dicono gli autori: ”Il recettore trigger espresso sulle cellule mieloidi 2 (Trem2) è un gene specifico delle cellule mieloidi espresso nella microglia cerebrale, con varianti associate a malattie neurodegenerative, compreso il morbo di Alzheimer. Trem2 è essenziale per il raffinamento sinaptico mediato dalla microglia, ma non è chiaro se Trem2 contribuisca a modellare lo sviluppo neuronale.

In questo studio dimostriamo che Trem2 svolge un ruolo chiave nel controllo del profilo bioenergetico dei neuroni piramidali durante lo sviluppo. In assenza di Trem2, lo sviluppo di neuroni nel cornus ammonis dell’ippocampo (CA) 1 ma non nel sottocampo CA3 mostrava un metabolismo energetico compromesso, accompagnato da una ridotta massa mitocondriale e da un’ultrastruttura anormale degli organelli. Ciò è stato accompagnato dal riarrangiamento trascrizionale dei neuroni piramidali dell’ippocampo alla nascita, con un’alterazione pervasiva della fosforilazione ossidativa e metabolica e delle firme dei geni mitocondriali, accompagnata da un ritardo nella maturazione dei neuroni CA1. I nostri risultati svelano un ruolo di Trem2 nel controllo dello sviluppo neuronale regolando l’idoneità metabolica dei neuroni in modo specifico per regione”. Il focus è sui meccanismi che, durante lo sviluppo cerebrale, modificano il metabolismo dei

neuroni deputati alla memoria. Il sistema immunitario non si limita a proteggere il cervello da traumi o infezioni, al contrario: grazie alla ricerca in neuroscienze, oggi sappiamo che svolge molte altre funzioni fondamentali per la salute e il funzionamento dell’organo.

Spiegano i ricercatori: “Negli ultimi anni il concetto obsoleto secondo cui il cervello è un organo immunologicamente privilegiato è stato sostituito dall’osservazione che tra il sistema nervoso e il sistema immunitario si verifica una continua diafonia, soprattutto durante lo sviluppo e l’invecchiamento. Le microglia, le principali cellule immunitarie residenti nel cervello, rappresentano l’attore protagonista di questi processi. Oltre a rappresentare una linea di difesa contro gli insulti patogeni, le microglia stanno emergendo anche come coinvolte in modo centrale nelle funzioni fisiologiche essenziali per il corretto sviluppo e plasticità del sistema nervoso centrale, regolando l’apoptosi neuronale, la neurogenesi, la formazione di mielina e la rimozione delle sinapsi soprannumerarie durante lo sviluppo”.

Lo studio pubblicato su Immunity evidenzia che le cellule immunitarie che risiedono nel cervello – le cosiddette cellule della microglia – guidano lo sviluppo e la maturazione delle aree dell’ippocampo deputate alla memoria. Lo fanno modificando il metabolismo dei neuroni che compongono queste aree. I ricercatori evidenziano:” Il recettore trigger espresso sulle cellule mieloidi 2 (Trem2) è un recettore transmembrana della superfamiglia delle immunoglobuline, espresso nel cervello esclusivamente dalla microglia, che controlla il profilo funzionale delle microglia regolandone il metabolismo energetico. In seguito all’impegno con ligandi legati alla membrana o solubili, inclusi lipidi, lipoproteine, DNA e pro-

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dotti batterici, Trem2 attiva una segnalazione di trasduzione del segnale intracellulare tramite le proteine adattatrici DAP10 e DAP12 e migliora la fagocitosi microgliale di neuroni apoptotici, detriti cellulari, prodotti batterici e aggregati proteici, inclusi i peptidi neurotossici di β-amiloide. Inoltre, Trem2 promuove la sopravvivenza e la proliferazione delle cellule e modula la segnalazione infiammatoria, controllando il passaggio dallo stato omeostatico a quello della microglia associata alla malattia (DAM)”.

Lo studio, coordinato da Michela Matteoli, professoressa ordinaria di Farmacologia in Humanitas University e direttrice del Programma di Neuroscienze di Humanitas, aggiunge un tassello inedito del puzzle sulla relazione complessa tra immunità e sistema nervoso, un tassello che potrebbe cambiare il nostro approccio a diverse malattie del neurosviluppo e neurodegenerative, tra cui l’Alzheimer.

«Abbiamo scoperto che se il recettore della microglia TREM2 non funziona correttamente, i neuroni della memoria nell’ippocampo presentano anomalie nel loro metabolismo energetico durante lo sviluppo, con implicazioni che si protraggono nel tempo”, spiega la prof.ssa Michela Matteoli,” La scoperta è entusiasmante non solo perché svela una funzione inedita delle cellule della microglia, ma perché sappiamo che difetti nel metabolismo dei neuroni in questa area sono coinvolti in diverse malattie neurodegenerative, tra cui l’Alzheimer. Il fatto poi che mutazioni in TREM2 costituiscano un fattore di rischio per l’insorgenza della malattia, come dimostrato alcuni anni fa da studi di screening genetico su pazienti, suggerisce la rilevanza di questo processo». Lo studio è stato svolto in collaborazione con il gruppo della dott.ssa Simona Lodato, a capo del Laboratorio di Neurosviluppo di Humanitas e docente di Istologia ed Embriologia di Humanitas University, la dott.ssa Katia Cortese dell’Università di Genova e il dott. Rafael Arguello del CNRS di Marsiglia. Tra i finanziamenti che l’hanno reso possibile ci sono l’ERC Advanced Grant ottenuto da Matteoli nel 2022 e una borsa postdoc del programma HiPPO di Fondazione Humanitas per la Ricerca, che ha sostenuto il lavoro della dott.ssa Erica Tagliatti, prima autrice dello studio insieme alla dott. ssa Genni Desiato. Spiegano le ricercatrici:“ Poiché il metabolismo mitocondriale è un fattore chiave delle transizioni del destino cellulare nel cervello, abbiamo testato se la downregulation osservata dei geni coinvolti nelle vie OXPHOS in assenza di Trem2 microgliale potesse essere coinvolta nella possibile alterazione delle dinamiche di differenziazione/sviluppo delle popolazioni neuronali dell’ippocampo. Per comprendere come la mancanza di Trem2 nella microglia influisca sull’impegno neuronale, abbiamo esaminato il percorso di sviluppo delle linee neuronali deducendo la topologia della traiettoria e lo pseudotempo”. Negli ultimi

© Peshkova/shutterstock.com

anni, l’idea del cervello come organo privilegiato dal punto di vista immunologico, isolato dal resto dell’organismo, è stata rivoluzionata: grazie alla ricerca scientifica, oggi sappiamo che a partire dalle prime fasi dello sviluppo fino all’invecchiamento il dialogo continuo tra cellule nervose e cellule immunitarie garantisce il funzionamento del cervello e che le sue alterazioni sono anzi coinvolte in molteplici malattie. Protagoniste assolute di questa continua interazione sono le cellule della microglia – le cellule immunitarie che risiedono nel cervello – e in particolare un loro recettore, chiamato TREM2, coinvolto in molti processi e identificato già nel 2013 perché, quando mutato, aumenta il rischio di sviluppare demenza e Alzheimer. I ricercatori sottolineano: ”Le microglia sono cellule altamente dinamiche che pattugliano il parenchima cerebrale, rilevando l’attività neuronale e regolando le funzioni neuronali attraverso il rilascio di un ampio spettro di fattori immunoregolatori. Attraverso processi secretori e mediati dal contatto cellula-cellula, la microglia regola dinamicamente lo sviluppo neuronale, la crescita, la formazione di sinapsi e le funzioni fisiologiche delle cellule cerebrali. Abbiamo dimostrato che la mancanza del recettore immunitario Trem2 determina l’incapacità della microglia di eseguire correttamente l’eliminazione delle sinapsi soprannumerarie durante lo sviluppo del cervello. Inoltre, abbiamo dimostrato che i topi adulti carenti di Trem2 mostrano connettività cerebrale alterata e difetti comportamentali. Abbiamo pure dimostrato che il deficit di Trem2 compromette il profilo energetico e trascrittomico neuronale, suggerendo che i primi disordini metabolici nei neuroni possono contribuire alla connettività e ai difetti comportamentali che si verificano nei topi adulti. In questo studio, forniamo diverse linee di prova che indicano che le risorse mitocondriali ed energetiche dei neuroni CA1 sono profondamente alterate in assenza

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di Trem2 microgliale. Le microglia reagiscono all’ambiente riprogrammando in modo flessibile le loro vie metaboliche, in un processo chiamato immunometabolismo”.

La distribuzione dei dati in ciascuna serie di esperimenti è stata prima testata per verificarne la normalità utilizzando il test di Shapiro-Wilk. La somiglianza delle varianze tra ciascun gruppo di dati è stata testata utilizzando il test F.

Il meccanismo che lega le versioni difettose di TREM2 all’insorgenza dell’Alzheimer è ancora oggetto di studio: scoprirlo potrebbe aprire la strada allo sviluppo di nuovi approcci terapeutici per la malattia, che è ancora orfana di cure efficaci. Il lavoro pubblicato su Immunity, seppur limitato ai modelli sperimentali, è rilevante perché svela un ruolo inedito di TREM2 proprio nella formazione e nel funzionamento delle aree che presiedono alla memoria, quelle più colpite dalla malattia di Alzheimer. «Secondo i risultati ottenuti in laboratorio, in assenza di TREM2 i neuroni che compongono l’area della memoria nell’ippocampo non solo si sviluppano in ritardo, ma presentano delle anomalie di trascrizione e comportamento che permangono nel tempo, soprattutto di tipo metabolico: se manca Trem2 nella microglia, i mitocondri dei neuroni – che sono delle vere e proprie “centrali energetiche” delle cellule – sono in numero inferiore e hanno una struttura e una funzionalità ridotta», spiegano le prime autrici dello studio, dott.ssa Erica Tagliatti e dott.ssa Genni Desiato.

«Per la prima volta abbiamo dimostrato che le cellule della microglia e il loro recettore TREM2 hanno un ruolo nel controllare la maturazione dei neuroni della memoria e soprattutto il loro profilo metabolico». La scoperta è stata condotta in laboratorio e su modelli preclinici: saranno necessarie ulteriori ricerche per capire le sue reali implicazioni nello studio di malattie come demenze e Alzheimer, ma le strade aperte sono tante. I pazienti con varianti genetiche di TREM2 potrebbero infatti avere problemi di metabolismo – fino a oggi mai considerati – proprio nell’area del cervello deputata alla memoria, problemi che potrebbero indebolire l’area e renderla più suscettibile alla neurodegenerazione. Non solo, ma l’impatto metabolico della mancanza di TREM2, osservato dai ricercatori durante lo sviluppo, potrebbe ripresentarsi in età avanzata, quando sappiamo che i livelli del recettore si riducono in modo fisiologico.

«Questa ricerca dimostra ancora una volta che nel cervello lo sviluppo e l’invecchiamento sono due facce della stessa medaglia e dovrebbero essere studiati congiuntamente. Negli ultimi anni, per esempio, si è scoperto che alcune proteine implicate nei disturbi neurodegenerativi svolgono un ruolo importante già durante lo sviluppo del cervello. Processi disfunzionali a carico di tali proteine durante lo sviluppo possono quindi produrre effetti a lungo termine, anche perché influiscono su un tessuto, come il tessuto nervoso, che non subisce il continuo rinnovo cellulare osservato in altri organi del corpo», conclude la prof.ssa Michela Matteoli. Tutti gli esperimenti sono stati eseguiti in conformità con le linee guida stabilite dal Consiglio della Comunità Europea (Direttiva 2010/63/UE del 22 settembre 2010) e dal D.Lg. 26/2014. Lo studio è stato approvato dal Comitato Istituzionale per la Cura e l’Uso degli Animali (IACUC) dell’Humanitas Research Hospital e dal Ministero della Salute italiano.

Sul tema neuroimmunologia e cervello si segnalano anche Mnesys che è un Partenariato Esteso ( 25 realtà internazionali) per la tematica Neuroscienze e Neurofarmacologia, concepito dall’Università degli Studi di Genova che ne è il soggetto proponente. Il progetto è stato selezionato insieme ad altri 14 progetti dal MUR a seguito del bando competitivo (Avviso n. 341 del 15.03.2022 Partenariati Estesi), emanato con Decreto Direttoriale 15 marzo 2022 per la presentazione di proposte di intervento per la creazione di “Partenariati estesi

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alle università, ai centri di ricerca, alle aziende per il finanziamento di progetti di ricerca di base” nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, Missione 4 “Istruzione e ricerca” – Componente 2 “Dalla ricerca all’impresa” – Investimento 1.3, finanziato dall’Unione europea – NextGenerationEU. Si pone l’obiettivo di sviluppare nuovi approcci per le neuroscienze sperimentali e cliniche in una prospettiva di medicina di precisione, personalizzata e predittiva con un impatto trasformativo sulla cura delle patologie del sistema nervoso e del comportamento. MNESYS sarà articolato in sotto-progetti (SPOKES) ciascuno dei quali sarà focalizzato su aspetti specifici dello studio e suddiviso in attività (WORKPACKAGES) specifiche tra cui neuroimmunologia e cervello. Si segnala anche il progetto per il cervello umano ( Human Brain Project — HBP) che è un’iniziativa di ricerca a lungo termine e su vasta scala all’avanguardia nella ricerca sul cervello digitale.

È stata lanciata nel 2013 per una durata di dieci anni. Si tratta di uno dei più grandi progetti di ricerca in Unione Europea e di una delle iniziative faro “Tecnologie emergenti e future (TEF) europee”. Coinvolge oltre 500 scienziati e ingegneri in oltre 150 università, ospedali e centri di ricerca in tutta Europa. L’HBP e i suoi 123 partner sono cofinanziati dalla Commissione europea. Il finanziamento totale, compresi i contributi dei partner, ammonta a 607 milioni di EUR, di cui 406 milioni provenienti dai finanziamenti dell’Unione Europea. Il progetto “Brain umano” si concentra su tre aree di interesse scientifico fondamentali: le reti cerebrali, il loro ruolo nella coscienza e le reti neurali artificiali, nonché l’ampliamento dell’infrastruttura innovativa EBRAINS e dei relativi strumenti e servizi. Interessante anche uno studio del team di ricercatori dell’Unità di Neuroimmunologia, guidati dal professor Gianvito Martino, neurologo, neuroscienziato e direttore scientifico dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, pubblicato su Nature Communication che aggiunge un importante tassello alla definizione dei meccanismi cellulari e molecolari che regolano i circuiti cerebrali che sottendono la nostra capacità di pensare e, in particolare, di decidere. Oggi si conoscono le aree cerebrali coinvolte nel processo mentale della decisione ma poco si sa delle cellule e delle molecole coinvolte nel processo decisionale.

Lo studio del San Raffaele, condotto su un modello sperimentale, ha identificato una popolazione di cellule del cervello, le cellule staminali periventricolari, e una proteina da esse secreta, denominata IGFBPL1 (insulin-like growth factor binding protein-like 1), la cui mancanza rende meno capaci di decidere, in altre parole rende più indecisi. Lo studio mostra correlazione tra persone con sclerosi multipla, che manifestano disturbi cognitivi quali la difficoltà a processare le informazioni, e la presenza di lesioni cerebrali dovute alla malattia proprio nell’area ‘periventricolare’, dove sono presenti appunto le staminali produttrici di IGFBPL1. (C. B.).

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