RED SHOES MAGAZINE | Tribute Issue

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TRIBUTE ISSUE

“Nei tre anni trascorsi insieme, Gigi Datome ci ha dimostrato cosa significhi essere un vero leader: campione di tecnica, ma soprattutto di perseveranza nel superare ostacoli e avversità. Grande esempio in campo e fuori, con le tante vittorie che ha contribuito a ottenere, resterà nel patrimonio morale dell’Olimpia. L’annunciato ritiro è una scelta coraggiosa perché avviene in uno dei momenti migliori della sua attività. Ma Datome può ritirarsi con uno scudetto sul petto, con il trofeo di miglior giocatore della finale in mano, accompagnato dall’abbraccio dei suoi tifosi e dall’applauso di tutti gli appassionati di questo sport. Sono sinceramente ammirato”.

Il primo canestro è stato un taglio a centro area. Il classico “screen assist” di Nicolò Melli, ovvero un blocco che libera un compagno e permette di segnare due punti facili. È stato il primo canestro della sua ultima partita da giocatore dell’Olimpia o di una qualsiasi squadra di club. Poco dopo, su una palla rubata da Shavon Shields, si è trovato lanciato a canestro, la strada vuota davanti. Il passaggio lungo è stato troppo invitante per resistere alla tentazione di schiacciare a due mani. “Quello è stato il momento in cui Kyle Hines ha capito che avremmo vinto”, ha scherzato Gigi Datome. Nel secondo tempo era arrivato a stoppare Marco Belinelli. Come ultima partita niente male. “La possibilità di finire così, vincendo, con una grande partita, il titolo di MVP, è stata un’occasione troppo grande. Ho capito che mi stava arrivando un messaggio”, dice. Quale messaggio? Non tirare troppo la corda, Gigi.

Tutti i giocatori lo dicono. L’obiettivo è smettere quando si può, quando si deve, prima di imboccare il viale del tramonto. Ma quanti riescono davvero a dire basta prima che sia troppo tardi? Non c’è nulla di male nel continuare a giocare, è diritto di ogni individuo, di ogni atleta. Chi può dirti di smettere a parte te stesso? Ma Gigi Datome ha esteso il concetto, fino a modificarne i connotati, fino a spostarne i confini. Si è ritirato da MVP della finale scudetto. Significa essersi ritirato con due scudetti negli ultimi due anni di carriera, una partita da 23 punti in Gara 6 nel 2022, un’altra da 16 punti, segnando i primi sei tiri, nel 2023.

Michael Jordan segnò il canestro della vittoria del titolo NBA nel 1998 e poi si ritirò con il secondo “three-peat”. Ma poi tornò a giocare, in un’altra squadra. Gigi non lo farà.

“Nei tre anni trascorsi insieme, Gigi Datome ci ha dimostrato cosa significhi essere un vero leader: campione di tecnica, ma soprattutto di perseveranza nel superare ostacoli e avversità – ha commentato il Sig. Giorgio Armani -. Grande esempio in campo e fuori, con le tante vittorie che ha contribuito a ottenere resterà nel patrimonio morale dell’Olimpia. L’annunciato ritiro è una scelta coraggiosa perché avviene in uno dei momenti migliori della sua attività. Ma Datome può ritirarsi con uno scudetto sul petto, con il trofeo di miglior giocatore della finale in mano, accompagnato dall’abbraccio dei suoi tifosi e dall’applauso di tutti gli appassionati di questo sport. Sono sinceramente ammirato”.

La carta d’identità dice Montebelluna, provincia di Treviso. Lì Luigi Datome è nato il 22 novembre 1987: Montebelluna in realtà è il paese di origine della mamma Antonella, che peraltro è nata e cresciuta ad Asmara in Etiopia dove il nonno era emigrato negli anni Venti, ma Gigi ha vissuto in Veneto solo pochi giorni, prima di trasferirsi a Olbia, la base di tutta la sua vita. A Olbia, c’è il Pala Datome che non è intitolato a lui come molti pensano, ma allo zio Roberto scomparso prematuramente in un incidente stradale. Il padre Sergio è un albergatore, ma soprattutto un grande appassionato di basket oltre che ex giocatore

delle serie minori sarde il cui soprannome era “33” perché pare segnasse spesso 33 punti. Il club locale si chiama Santa Croce e fu fondato nel 1970. Gigi ha giocato con il 70 per quel motivo. Aveva sempre indossato il 13, prima esperienza NBA a Detroit compresa. Ma a Boston il 13 non era disponibile e fu così che decise di giocare con il 70, che rappresenta le sue origini. “Non ricordo il mio primo allenamento di basket, perché il basket è sempre stato parte della mia vita”, dice lui. Olbia è il posto in cui è diventato un giocatore. Piero Pasini, allenatore romagnolo di grande esperienza, andò ad Olbia proprio per sostenere a fine carriera un progetto costruito attorno a Gigi. Una volta lo provocò durante l’intervallo di una partita: gli disse che aveva paura, che se la stava facendo sotto. Gli fece scattare la rabbia, quel senso di sfida che non l’ha mai abbandonato. Andrea Carosi, un altro dei suoi allenatori, gli scrisse un biglietto quando aveva 15 anni e giocava in Serie B: “Per diventare qualcuno ricordati che non sei nessuno. Per diventare qualcuno rimani il Luigi di adesso”. Quel consiglio l’ha trasformato in un mantra, il manifesto della sua esistenza. Di qui probabilmente le tante passioni che lo rendono – con sua grande sorpresa – una persona diversa dallo stereotipo dell’atleta moderno. La passione per i libri risale agli anni dell’adolescenza con la saga di Harry Potter, al periodo di Roma risale quella per la chitarra, che lo accompagna ovunque, nelle stagioni di Istanbul ha cominciato a disegnare. Nel 2002, Olbia vinse il titolo italiano allievi grazie proprio a quel progetto affidato a Pie-

ro Pasini che raccoglieva i migliori prospetti della zona, costringendoli però ad allenarsi in posti diversi, a Olbia, a Sassari o a metà strada. Datome era il giocatore più alto, più bravo, più determinato di quel gruppo, di cui faceva parte anche Riccardo Fois, che oggi fa l’allenatore, nello staff dell’università dell’Arizona e della Nazionale italiana. Lo scudetto fu vinto a Bormio, battendo Biella in finale. Ma, in semifinale, la squadra di Gigi superò proprio l’Olimpia.

Ma Olbia stava stretta a Gigi, a quel punto. Agli Europei Under 16 vinse la classifica marcatori. I top club italiani provarono a prenderlo. Faceva parte della generazione più promettente del basket italiano: Andrea Bargnani, due anni più grande, dalla Stella Azzurra Roma andò a Treviso; Marco Belinelli, un anno più grande, andò alla Fortitudo Bologna; Danilo Gallinari, un anno più giovane, venne a Milano. E Datome andò a Siena, a fare incetta di titoli giovanili, portandosi dietro la mamma che non avrebbe mai permesso ad un figlio sedicenne di vivere da solo così presto. Nel 2005, al junior tournament di EuroLeague, a Mosca, guidò la sua squadra alla vittoria sul Maccabi Tel Aviv, segnando 38 punti con 19 rimbalzi e 54 di valutazione. Aveva 18 anni, ed era considerato un prospetto NBA. In realtà, sarebbe servito ancora un po’ di tempo per vederlo esplodere ai massimi livelli internazionali. A Siena in prima squadra ha giocato poco (anche se esordì in Serie A il 12 ottobre del 2003, a quindici anni e undici mesi, e tre giorni dopo il sedicesimo compleanno

segnò i suoi primi punti contro la Viola Reggio Calabria), a Scafati ha fatto due anni di apprendistato, come lo sono stati i primi due a Roma.

“Quando ero a Siena ho avuto la sensazione che ce l’avrei fatta a diventare un giocatore – racconta - Dividevo il campo con dei professionisti come Galanda o Chiacig che ero abituato a vedere in Nazionale, in televisione. Lì ho capito che potevo almeno provarci. Poi ho sentito di trovarmi a mio agio in allenamento, anche in qualche partita attorno ai 18 anni. In quel momento ho realizzato che potevo davvero fare il giocatore. Avevo ben chiari quali fossero i miei limiti, cosa avrei dovuto fare per migliorare, però sono sempre stato molto sicuro di me. Sapevo che, se avessi avuto la giusta opportunità, nel giusto contesto, avrei potuto far vedere quanto valevo. Solo che la ricerca del contesto giusto è stata molto difficile, è durata anni. Nel mio ultimo anno a Siena facevo davvero fatica a trovare minuti in campo, poi sono andato Scafati e pure a Roma ci sono stati anni in cui non avevo lo spazio che avrei voluto avere. Anche in Nazionale, è successo. Però mi sono sempre rifugiato in palestra, ho cercato di uscirne fuori attraverso il lavoro”.

Le cose sono cambiate davvero nel corso della stagione 2010/11. Quella è stata la sua prima stagione finita in doppia cifra, 10.8 di media, l’anno seguente ha sfiorato l’impresa di terminare l’anno oltre il 60% da due, il 40% da tre e il 90% nei tiri liberi. Si fermò al 58.9%

da due. Nel 2012/13 fu MVP del campionato portando Roma alla finale scudetto, persa contro Siena, praticamente triplicando i tiri da tre in stagione (da 88 a 221) e i tiri liberi (da 65 a 203). Quell’anno Roma vinse i quarti di finale contro Reggio Emilia in gara 7 e lo stesso fece in semifinale contro Cantù, ribaltando la serie da 2-3 a 4-3. “Sono cresciuto molto fisicamente in quell’anno, ho lavorato sul mio corpo, oltre che tecnicamente, anche quando ero in Nazionale. Poi ho avuto più minuti, quelli ti permettono di stare in campo, aumentare la fiducia. Quando non esci per un tiro sbagliato prendi fiducia, e questo crea consapevolezza. Sentire maggiore responsabilità sulle spalle, avere un ruolo importante in squadra, automaticamente ti responsabilizza”, riflette.

Il premio per una stagione di livello altissimo fu coronare il sogno di giocare nella NBA. Scelse di giocare a Detroit, sesto italiano di sempre a riuscirci dopo Enzo Esposito, Stefano Rusconi, Andrea Bargnani, Marco Belinelli e Danilo Gallinari, prima di Nicolò Melli e Simone Fontecchio. A differenza dei tre quasi coetanei, lui non era stato scelto nei draft, era un “undrafted” che aveva attirato le attenzioni degli scout esplodendo sul campo, a suon di canestri come quelli che avevano portato Roma alla finale scudetto. Tra l’altro senza giocare l’EuroLeague.

Il suo contratto fu firmato da Joe Dumars, uno dei grandi del basket degli anni ’80 e ’90, due volte Campione NBA con i Pistons,

l’unica squadra per cui avesse mai giocato e in seguito ha lavorato vincendo anche da general manager. Ma Dumars era a fine corsa, così come il capo allenatore Maurice Cheeks: Datome, che Dumars aveva scelto, non ebbe spazio a Detroit, anche a causa di una preseason saltata tutta dopo un infortunio rimediato agli Europei del 2013. L’anno dopo, con un nuovo boss, Stan Van Gundy, le cose andarono anche peggio e Gigi fu costretto a tre partite in G-League insieme a Spencer Dinwiddie che adesso è una star a Dallas. “La NBA è stata un’esperienza pazzesca, intensa, che mi ha messo a dura prova, soprattutto dovevo avere fiducia in me stesso quando tutto l’ambiente attorno a me era invece scettico. È stata un’esperienza formativa, che mi ha rafforzato mentalmente”, dice.

La frustrazione di Detroit si tramutò in qualcosa di indimenticabile nel febbraio del 2015 quando venne ceduto a Boston e dopo qualche settimana di adattamento entrò nella rotazione dei Celtics, giocando anche bene e debuttando nei playoff, nella serie persa contro i Cleveland Cavaliers che quell’anno avrebbero vinto il titolo trascinati da LeBron James. In quei due mesi a Boston, Datome dimostrò di essere un giocatore NBA, si tolse la soddisfazione incredibile di giocare in una delle città storiche del basket mondiale, indossando un’uniforme unica. Cominciò allora ad indossare il suo numero 70. “A Boston, mi sono divertito, ho avuto la possibilità di stare in campo e di sentirmi un giocatore NBA. Aver visto quel mondo dall’interno, per due anni, è

stato pazzesco. Sono felice di aver maturato questa esperienza, nonostante le frustrazioni siano state superiori alle soddisfazioni. Però mi sono divertito e, nel mio piccolo, aver fatto certe cose a Detroit ma soprattutto a Boston, ha un valore anche romantico. Lo dico da appassionato: ho giocato nei Celtics”, racconta. L’estate del 2015 è stata quella in cui avrebbe potuto venire a Milano. Non è un mistero, perché l’Olimpia confessò il proprio interesse. Jasmin Repesa lo disse in conferenza stampa. Ma gli interessi allora non erano coincidenti. Il Fenerbahce aveva appena giocato le Final Four di EuroLeague e aveva la struttura per puntare al titolo. Datome andò a Istanbul giocando la finale per il titolo tre volte di fila. Dopo la delusione di Berlino 2016 e il trionfo di Istanbul 2017, segnò 16 punti in 26 minuti nella semifinale con lo Zalgiris a Belgrado ottenendo il terzo visto consecutivo per la madre di tutte le partite, perdendola 85-80 contro il Real Madrid. Nel 2019 a Vitoria, dopo un anno record, 25-5 in stagione regolare, 3-1 allo Zalgiris nei playoff, il Fenerbahce arrivò spento in terra basca, vittima degli infortuni e perse la semifinale con l’Efes che Gigi non ebbe neppure la possibilità di giocare. A Istanbul, ha vinto comunque anche tre titoli turchi, uno da MVP nel 2016, tre coppe nazionali, l’ultima nel 2020, la Coppa del Presidente. È stato, quello, un matrimonio perfetto. Non se l’è dimenticato lui, non se lo sono dimenticato a Istanbul, dove negli anni seguenti è stato sempre accolto coma una specie di figliol prodigo. “Tanto dell’affetto che ho ricevuto in quegli anni è stato una conseguenza dei suc-

cessi che abbiamo conseguito, ma anche di quello che abbiamo fatto vedere in campo –spiega -. Penso sia stato un gruppo che ha reso i tifosi orgogliosi della nostra mentalità. Eravamo molto legati al Fenerbahce, a Istanbul, alla Turchia, tanto che molti si sono fermati, hanno fatto nascere lì i loro figli, tanti di noi si sono trovati veramente bene. Non è stato facile entrare nel cuore dei tifosi. So che all’inizio erano un po’ scettici perché ero arrivato a rimpiazzare Bjelica che era stato MVP di EuroLeague, anche se io ho giocato più da 3 che da 4. Con il tempo, ho ricevuto un affetto e un amore pazzeschi. Ancora oggi i tifosi mi scrivono”.

A Milano era arrivato per vincere da protagonista anche in Italia. Il progetto somigliava a quello trovato a Istanbul nel 2015: andava costruita una cultura, un modo di fare, di essere, di comportarsi e di lavorare. C’era già Sergio Rodriguez, stava arrivando Kyle Hines. Un anno dopo sarebbe arrivato Nicolò Melli. Sono loro i “Padri Fondatori” della Cultura Olimpia coltivata da Ettore Messina in questi anni. E mentre costruiva tutto questo, Datome ha vinto cinque trofei, due scudetti, da protagonista, due Coppe Italia di cui una da MVP, una Supercoppa, anche quella da protagonista. Aveva obiettivi e li ha raggiunti. Ha superato ostacoli e avversità. Si è sempre fatto trovare pronto quanto doveva. Nel 2022 il suo massimo di punti stagionale l’ha realizzato la notte dello scudetto, 23 punti. La miglior partita del 2023 l’ha giocato in Gara 7 di finale. Quando ha capito che non doveva

tirare troppo la corda, che nel suo 36esimo anno di vita, il ventesimo trascorso sul campo, ritirarsi al top sarebbe stato hollywoodiano, ma perfetto.

Ha scelto di finire con la maglia della Nazionale, perché quella è stata la maglia indossata più spesso. Ha disputato il primo Europeo nel 2007 quando non aveva ancora 20 anni. Fu una convocazione rocambolesca, dettata dagli infortuni, che precorse un po’ i tempi. Poi li ha giocati altre cinque volte più il Mondiale del 2019 e adesso quello del 2023. Era presente anche al Preolimpico del 2016: per tanti giocatori della sua generazione, l’evento più triste della carriera, a causa di quella sconfitta dopo un supplementare con la Croazia a Torino che cancellò il sogno olimpico. Alcuni di quella squadra sono andati ai Giochi cinque anni dopo, ma successe, ingiustamente, nell’unica estate in cui Gigi dovette dire no, logorato da una stagione lunghissima, la prima a Milano, quelle delle oltre 90 partite ufficiali. Non smette di giocare un giocatore qualunque, smette un ragazzo che partito da Olbia ha conquistato l’Europa, ha conosciuto la NBA, ha finito da campione a Milano, sul tetto d’Italia. Sarà indimenticabile, anche per questo. È stato grande fino all’ultimo momento.

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