RED SHOES MAGAZINE | Ottobre 2020

OTTOBRE 2020

Malcolm Delaney L’INTERVISTA ANDREA CINCIARINI

TALK SHOW MESSINA E DATOME REDSHOESMAGAZINE

LO SCUDETTO CONQUISTATO A LIVORNO 1

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4 L’intervista Malcolm Delaney 10 L’intervista Andrea Cinciarini 16 Talk show time Messina e Datome 22 Olimpia Insider 25 One Team 26 Le grandi partite di Milano 29 Olimpia Numbers REDSHOESMAGAZINE

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L’INTERVISTA

MALCOLM

DELANEY “Personalmente, mi trovo in una posizione migliore dell’80 o 90 percento probabilmente dei giocatori scelti dalla NBA quando io non sono stato scelto. Conta dove finisci la carriera, non dove la cominci” - Malcolm Delaney, com’è stato crescere a Baltimore e diventare un giocatore di basket?

“E’ dura, non ci sono tanti giocatori che ce la fanno, soprattutto se provengono dalla periferia. Ci sono stati buoni giocatori, ma molti restano imprigionati nella vita di strada, non hanno avuto buoni insegnamenti, il supporto della famiglia, gente pronta ad avere un impatto positivo nelle loro vite. Per quanto riguarda me, ho avuto dei buoni modelli, la possibilità di uscire, vedere cose diverse, gente che mi ha insegnato molto più che giocare in strada. Il basket a Baltimore è competitivo, tutti i miei amici hanno giocato, ma di sicuro è difficile emergere”.

- Per voi Carmelo Anthony è un modello.

“Ha l’età di mio fratello, così ho avuto la possibilità di vederlo muovere i primi passi fino a diventare quello che è diventato. E’ stato un esempio positivo per tutti i ragazzi di Baltimore e in termini di età è vicino a noi.

Ci sono stati altri giocatori di livello prima di lui, come Sam Cassell, altrettanto famosi, ma noi ci identificavamo di più in Melo per una questione di età. Ho giocato anche per la sua squadra, il Team Melo, così al liceo per chi pensava di poter diventare un atleta professionista, lui era certamente il giocatore da seguire”.

- Dopo Baltimore, ci sono stati quattro anni stellari a Virginia Tech.

“E’ stata un’esperienza positiva, non ci si aspettava nulla da noi, ma ogni anno siamo sempre andati migliorando. Personalmente, sono stati gli anni in cui ho realizzato quanto potevo essere valido come giocatore. In estate ho cominciato ad andare ad Atlanta ad allenarmi con Carmelo. Lì certe cose hanno cominciato a diventare reali, ho visto la vita che volevo condurre, il lavoro che lui svolgeva dentro e fuori del campo.

Ho conosciuto anche altri giocatori, come Dontaye Draper che poi è andato al Real

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che facevo perché vincevamo, non per le mie statistiche. Per le vittorie di squadra. Dopo di allora, ogni anno ho cercato di vincere, ho cercato di dare il massimo individualmente, ma per aiutare la mia squadra ad avere successo

Madrid. Questi sono diventati i giocatori che ho cominciato a seguire.

Melo era una superstar nella NBA, ma giocatori come Draper o Jamon Gordon, che ha avuto una lunga carriera in EuroLeague, quelli sono i giocatori verso i quali ho cominciato a gravitare perché il loro percorso era il più simile al mio.

- Com’è stata l’esperienza NBA? “Sapevo, essendo andato nella NBA già ma- Ma nei draft non è turo, cosa aspettarmi. stato scelto.

Ad Atlanta pensavo però “I draft sono importanti, che alcune cose fossero mi sarebbe piaciuto esdiverse soprattutto alla sere scelto, ma in realtà fine, ma fa parte del gionon era fondamentale. co. Non mi piace cercaQuello che conta è dove re scuse, a questo punto la mia carriera finirà. Ci della mia carriera non mi sono giocatori che sono “Cominciamo a vincere in Italia” interessa. Ho conosciustati scelti, hanno giocato delle persone ad Atlanta, ho fatto cose to due anni nella NBA e basta. Personalpositive, è stata in generale una grande mente, mi trovo in una posizione migliore esperienza. Sono stato in grado di essere dell’80 o 90 percento probabilmente dei giome stesso o di dimostrare quello che potevo catori scelti quando io non sono stato scelto. davvero fare? No. Ma ripeto a questo punto Se guardo alla mia storia, ho scelto un pernon mi interessa”. corso differente, ma ho avuto successo nel percorso che ho scelto, ho giocato lo stesso - Dopo Atlanta, c’è stata la Cina. nella NBA. In fondo quello che volevo fare “Ad Atlanta, nel mio secondo anno la squal’ho fatto”. dra non voleva davvero vincere le partite, voleva ringiovanirsi, collezionare scelte mi- In Europa, Malcolm Delaney ha vinto gliori nel draft. Ma io ero abituato a vincetantissimo. re, per me era deprimente far parte di una “Ho ascoltato i consigli di giocatori come squadra in cui non si aspettavano di vincere Draper. Mi hanno detto che – se volevo ese non provavano davvero a vincere. Entransere considerato uno dei migliori giocatori in do in quella stagione, ero nella miglior forma Europa – dovevo vincere. Qui non importa di sempre, non mi sono mai sentito meglio, se segni 20 punti a partita o hai grandi nupoi mi sono operato alla caviglia e ho perso meri. Se perdi, a nessuno importano i tuoi fiducia dopo due anni mentalmente difficili numeri. Dopo il mio primo anno in Francia, in cui non ho potuto dimostrare quello che quando abbiamo vinto tre coppe e perso sapevo fare. In Cina sapevo che offensival’Eurochallenge in finale, ho capito cosa inmente avrei potuto essere me stesso e ho tendessero dire. Ero apprezzato per quello

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“A Baltimore c’è talento ma venire fuori è difficile”

“Ho avuto la fortuna di incontrare le persone giuste” REDSHOESMAGAZINE

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avuto questa opportunità di andare in una società organizzata”

ni, Coach Messina mi ha detto che forse sarebbe riuscito ad avere Kyle Hines. Lo dico a memoria, - A Barcellona c’era la ma probabilmente Kyle possibilità di vincere è uno dei migliori Amel’EuroLeague. ricani che abbiano mai “Eravamo in seconda giocato in Europa, come posizione in EuroLeavittorie, trofei. Sapendo gue e primi nella ACB che ruolo avrebbe avuquando si è diffuso il to, mentalmente mi sono COVID. Avevamo la sediretto qui. Ho giocato ria possibilità di vincere contro di lui tante volte, l’EuroLeague. Tanto lanon l’ho mai davvero voro svolto durante la battuto, così averlo al stagione, tante cose che mio fianco lo vedo come sono accadute dentro e un fatto importante. Poi fuori del campo, e non c’è il Chacho, Shavon avere neppure la posche è appena arrivato sibilità di finire la stadopo aver vinto la ACB. gione è qualcosa di cui Abbiamo tanti giocatori si è parlato molto. Ma che hanno vinto e ora onestamente ci sono sono impegnati a costru“Voglio essere me stesso” cose più importanti del ire un grande club in Eubasket. La sicurezza, la salute. Se deve acropa. Siamo un gruppo di giocatori vincenti cadere accadrà” che insieme cercheranno di raggiungere traguardi più grandi. Il più grande di tutti sa- E così è arrivata Milano. rebbe l’EuroLeague, ma l’obiettivo principa“Voglio provare ad essere me stesso, lo le oggi è vincere la lega italiana. Partiamo scorso anno sono arrivato a Barcellona tardi da qui e poi vediamo cosa succede”. e la squadra era già stata messa assieme.

Quest’anno è diverso. Parlando con l’alle- Il suo mantra è “Family Over natore, fin dal primo giorno, mi ha detto che Everything”. voleva fossi me stesso, voleva costruire la “E’ molto semplice. Quando avevo 18 anni squadra attorno a me, permettendomi di esdecisi di avere il tatuaggio Family Over sere me. Ha fiducia in me come vincente, Everything, e da allora tutti sanno quanto la conosce la mia etica dentro e fuori del camfamiglia conti per me. Sono cresciuto a Balpo, come leader. Il roster che abbiamo, l’imtimore e avere tutti e due i miei genitori, una pegno del club, tutto è di alto livello. Questo famiglia unita, è stato fondamentale. Il mio per ora è di gran lunga il posto più professiofratello maggiore è il mio migliore amico, la nale in cui sia mai stato. Alla lunga ci aiuterà persona che ammiro di più. La prima volta ad avere successo”. che ho visto quello slogan, mi è rimasto in testa e da allora lo uso dappertutto, twitter, - Ci sono tanti vincenti in squadra. instagram. Adesso molta gente usa FOE, “Voglio giocare per dei vincenti, accanto a ma se guardate indietro io lo uso dal 2012, loro. In una delle nostre prime conversazio2013”

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“In Europa conta solo se vinci, non se segni”

“Siamo un gruppo di giocatori vincenti”

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L’INTERVISTA

ANDREA

CINCIARINI

“All’inizio c’era un po’ di titubanza nei miei confronti, ma oggi i tifosi sanno che giocatore e persona sono. Sanno per cosa gioco, per vincere, per dare il massimo e fare le cose che non si vedono nelle statistiche”

- Andrea Cinciarini, cosa significa essere il Capitano dell’Olimpia?

“E’ un motivo di orgoglio, questo è il mio sesto anno a Milano e per me l’Olimpia è la mia casa. Ricordo il giorno in cui sono arrivato, ma anche tutte le emozioni vissute in sei anni, belle e brutte che siano state. La carica di capitano ti dà quel qualcosa in più che cerco di onorare essendo di esempio, in allenamento, in campo, fuori dal campo. E’ molto importante coinvolgere giocatori, tifosi, società, cercare di essere una figura importante non solo dentro il campo.

Quindi è necessario parlare tanto per aiutare chi gioca poco o ha

qualche problema. E’ un ruolo che mi sento addosso, e cerco di farlo al meglio” - Sei stato Capitano già prima di venire a Milano.

“Sono stato Capitano a Montegranaro, dove sono stato tre anni, e a Reggio Emilia dove sono stato altri tre anni. Poi Milano. Io ho una visione del basket a 360 gradi, è una vera passione, un amore, quindi cerco di non pensare solo a me stesso, ma di avere una visione di assieme, sulla squadra, quello che c’è intorno, i tifosi, la società.

Quindi è normale finire per dare qualcosa di più e cercare di essere un po’ leader, che sia di tipo

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nigiani ha puntato su di me come playmaker titolare e da quel momento abbiamo fatto un percorso come squadra e io personalmente davvero intenso. Negli ultimi due anni ho avuto meno la palla in mano, ma non è mai stato un problema. Quello che mi chiede l’allenatore, quello che c’è da fare, che sia una “Mi piace esserci per tutti” difesa, un rimbalzo o magari un tiro da tre, portare la palla o coinvolgere le persone io - Il tuo segreto negli anni è stato ci sono”. quello di sapersi adattare prima ad essere protagonista e poi un -Sei stato spesso elogiato per la tuttofare? tua etica lavorativa.

“Ho fatto tre anni molto belli e in“E’ qualcosa di molto forte, che tensi a Reggio Emilia, dove ero ho sempre avuto, fin da bambino. parte centrale di tre anni splendidi, Per me il lavoro paga sempre, ho dove per la prima volta ho vinto, avuto grandi esempi davanti a me, sono stato MVP nelle Final Four da Djordjevic quando ero a Pesadi Eurochallenge. Poi a Milano mi ro, poi Kaukenas a Reggio Emilia, sono adattato a partire sempre da la sua etica straordinaria. A Miladietro, per poi adattarmi e finire no mi sono confrontato con grangiocando minuti importanti. E’ ovdi campioni. Ho vinto, ho giocato vio che ci sono state vittorie più tanto, ma non mi sento arrivato e sentite qui, come la prima Coppa a 34 anni sono convinto di poter Italia o il primo scudetto o ancora ancora migliorare. Negli ultimi anni quello del 2018. Quell’anno fino a il mio tiro da tre è cresciuto tanto, gennaio ho giocato poco, poi Piaemotivo, tecnico, in spogliatoio. Cerco di esserci per tutti. Vedo il basket come uno sport di squadra in cui ho messo sempre i compagni prima di me. Poi essendo un playmaker è ovvio che tendo a mettere in ritmo i compagni, non tanto me stesso, e poi mi piace coinvolgere le persone, cercare di essere importante”.

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“Per quello che mi chiede l’allenatore, io ci sono”

“Chiaro, ci sono vittorie sentite più di altre”

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ma penso di poter ancora aggiungere qualcosa. Me l’hanno insegnato i grandi campioni con cui ho giocato. E adesso voglio essere io ad aiutare i più giovani come Davide Moretti, spingerlo ad andare in palestra, a lavorare sempre di più”.

avevo 25 o 26 anni.

Adesso conosco meglio il mio fisico, so dove arrivare.

Gioco in un club attrezzatissimo dove c’è tutto per recuperare e prestare attenzione al proprio fisico e io utilizzo tutto, inclusa l’alimentazione”.

-Quando entri in campo c’è, adesso si deve dire c’era, il boato del

-Sei ai vertici di “Non mi fermo mai pià di 3 giorni” molte classifiche statistiche, soprattutto assist.

Forum.

Che significato rivestono?

“Sento amore, e sono grato ai ti“E’ un grande motivo di orgoglio fosi per questo, soprattutto so che e mi ripaga del lavoro che magaè un qualcosa che è stato costruri la gente non vede. Conta il laito nel tempo. All’inizio c’era un voro che fai d’estate ad esempio po’ di titubanza nei miei confronti e io non mi fermo mai per più di e d’altronde il mio percorso all’inidue o tre giorni. In vacanza cerco zio è stato difficoltoso. Non è stato sempre posti con la palestra per semplice arrivare in un club così potermi allenare. E poi c’è il lavogrande, trovarmi insieme a 13-14 ro extra che fai quando non giochi giocatori ed essere subito perfordopo una partita o nei giorni libemante. Oggi i tifosi sanno che giori. Le classifiche ti ripagano del catore e persona sono. Sanno per lavoro che fai nell’ombra, ma che cosa gioco, per vincere, per dare il personalmente faccio volentieri. Il massimo e fare le cose che non si giorno che non avrò più voglia di vedono nelle statistiche, un tuffo, farlo sarà quello in cui capirò che una palla recuperata, un tagliafuola carriera da giocatore è finita. Ma ri. Nei tabellini non appaiono ma per ora la voglia è ancora tantismagari ti fanno raddrizzare una sima, mi sento meglio di quando situazione” 14

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“Non è stato semplice: arrivi e devi subito essere performante”

REDSHOESMAGAZINE “Tutti sanno che persona sono e per cosa gioco”

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TALK SHO

MESS e DATO

Milano, la NBA, la loro storia, le l Una chiacchierata nell’amb che merita di es

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OW TIME

SINA e OME

loro idee, come si sono scoperti. bito del Festival dello Sport ssere raccontata

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Il Festival dello Sport, organizzato dalla Gazzetta dello Sport, è stato quest’anno sostanzialmente un lungo talk-show che ha coinvolto campioni di ogni epoca e ogni disciplina sportiva.

Tra questi anche il Coach dell’Olimpia, Ettore Messina, e il Capitano della Nazionale italiana, Gigi Datome. Per tre quarti d’ora hanno parlato di tutto, da questioni personali alla loro esperienza professionale, dalla NBA alla stagione di Milano. E anche del loro rapporto. “I miei primi ricordi di Ettore Messina sono stati da spettatore. Lui era un punto di riferimento per tutti in Italia, ed è stato bello essere allenato da lui sia in Nazionale che ora a Milano. Siamo protagonisti di un progetto stimolante”, ricorda Datome. “Il vero Datome – dice invece Messina - lo ricordo a Roma quando è diventato un giocatore importante di una squadra importante. Mi ha colpito la scelta NBA, soprattutto la serenità e la grinta con cui ha affrontato una situazione difficile senza mollare alle prime difficoltà. Da allenatore l’ho allenato al Preolimpico nel 2016, poi agli Europei dell’anno successivo, ma aveva avuto problemi fisici e durante la preparazione non era stato disponibile per tanto tempo. Lui è puntiglioso, ha metodo nel prepararsi. Giocatori come lui o Hines ricevono un rispetto costruito attraverso lavoro e comportamento per questo riescono sempre a incidere, che giochino più o meno bene”.

LA LORO STORIA - “Avevo lasciato l’Italia per provare a rivincere l’EuroLeague con il CSKA - raccon-

ta Messina - dopo esserci andato vicino a Treviso dove avevamo giocato una finale perdendola a Barcellona. Il CSKA era un club che aveva i mezzi e il potere economico per mettere assieme una squadra di alto livello. Come poi è successo. Inoltre, dopo anni molto belli a Bologna e Treviso, qui si era creato un clima che mi era diventato insopportabile. Da fuori può sembrare strano perché gli insulti per molti sono parte del gioco, visto quello che guadagno per fare l’allenatore. Ma io la penso in modo diametralmente opposto, preferisco che mia moglie e mio figlio possano venire alla partita senza sentirmi insultare. A Mosca mi sono trovato a vivere in una specie di bolla, perché non parlavo il russo e non leggevo i giornali neanche dopo le prime sconfitte. Ma sia lì che negli Stati Uniti, l’atmosfera agli eventi sportivi è diversa, per un fatto culturale. Per noi latini la competizione ha un significato differente”. “Ero andato via perché avevo un’offerta da Detroit cui non potevo dire no. Irrinunciabile – ricorda Datome - Adesso, sono felice di aver fatto quella scelta, ringrazio ancora Joe Dumars che volle darmi fiducia, e ancora di più sono felice di quello che ho fatto dopo a Boston. Della NBA, di come è dall’interno, avevo sentito parlare tanto dagli altri italiani ma io sono arrivato da free agent, non avevo il loro status, quello di prima scelta. Speravo fosse più facile, ma per due anni ho cercato di essere pronto per dimostrare qualcosa, di poter stare lì. Non voglio fare il genio incompreso, se fossi stato più bravo avrei giocato di più a Detroit, mi è di-

“Milano mi ha dato la possibilità di giocare ad alto livello e in Italia”

“Volevo allenare la mia squadra, prendere le mie decisioni nella mia quotidianità”19 REDSHOESMAGAZINE

spiaciuto non esserci arrivato in salute perché avevo forzato il recupero da un infortunio per la Nazionale. Ma è stata un’esperienza fortificante che mi porto dietro e i due mesi di Boston sono stati piacevoli. In seguito, Istanbul mi ha dato la possibilità di giocare in EuroLeague ad altissimo livello”.

Dopo la prima esperienza a Mosca e anche una a Madrid, Coach Messina ha prima assaggiato la NBA ai Los Angeles Lakers e poi ha fatto l’esame di laurea cestistica lavorando a San Antonio per il grande Gregg Popovich. “Andai ai Lakers in un momento in cui avevo bisogno di staccare e sentivo di non avere l’energia per operare in prima persona. Coach Mike Brown mi offrì questa possibilità. Ero ai Lakers, con Kobe Bryant, Pau Gasol, insomma è stata un’esperienza di studio, di aggiornamento. Tra il primo e il secondo anno della seconda esperienza a Mosca, invece Gregg Popovich mi propose di andare a fare il suo primo assistente, perché due volte chi aveva quel ruolo era andato via, Brett Brown a Philadelphia e Mike Budenholzer ad Atlanta. Ma ero legato a Mosca e dovetti rinunciare. Lui mi tenne il posto e andai a San Antonio per fare un’esperienza importante anche per la mia famiglia. Poi mi stimolava lavorare nella più grande franchigia sportiva al mondo, per come lavorano da tanti anni, fedeli a certi principi, al rispetto per tutte le persone. In cinque anni che ho passato lì, nessuno ha mai scaricato la colpa di una sconfitta su nessuno, su un arbitro ad esempio: hanno sempre

avuto pari dignità nell’accogliere le vittorie e nell’incassare le sconfitte. Per questo sono convinto che gli Spurs abbiano vinto tanto per venti anni. Mi piaceva anche l’idea di vedere la parte finale della carriera di Manu Ginobili.

Chi è Popovich? Quando ero bambino c’era questa figura mitica, Barnard, il chirurgo che effettuò il primo trapianto di cuore. Per me andare a lavorare con Popovich era come andare a lavorare con Barnard e fare il piccolo chirurgo.

E quando lui è mancato, purtroppo è successo per la perdita della moglie, ho allenato tre partite di playoff che per me è stato come se fossero finali di EuroLeague”.

MILANO - “La scelta è stata facile perché vedevo la possibilità di restare a giocare ad alto livello e farlo in Italia era qualcosa che mi mancava – puntualizza Datome -. La città la conoscevo poco, ci ero sempre stato di passaggio, ma tutti me ne parlano bene, ora la sto scoprendo, ricevo tanti buoni consigli. Tutto questo rappresenta un valore aggiunto”. “Avevo voglia di allenare in prima persona – ammette Messina -, di avere un progetto mio, la mia quotidianità, di prendere le mie decisioni. Ho parlato con la proprietà trovando persone che vedono lo sport in un modo che ritengo corretto. Mi sono sentito onorato che avessero pensato a me, dandomi la possibilità di riprodurre in piccolo, ma non tanto piccolo, uno schema organizzativo simile a quello di San Antonio. Spero di restituire qualcosa di quello che mi hanno dato”.

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8 NUMERO DA CAMPIONI La storia dell’8 è ricca di aneddoti che coinvolgono Sandro Gamba, Danilo Gallinari e passano attraverso il mito di Mike D’Antoni. Ma la scelta nel suo caso fu rocambolesca Il 17 novembre del 2005, in una partita di EuroLeague contro il Prokom Trefl Sopot fece il suo debutto in campo, per due minuti e 15 secondi, Danilo Gallinari, allora 17enne. Indossava la maglia numero 12. In quel periodo infatti, il suo amato 8 che rifletteva giorno, mese e anno di nascita (8/8/88), era sulle spalle di un altro giocatore che ha lasciato il segno anche se in un’epoca priva di vittorie, Claudio Coldebella. Gallinari quell’anno giocava con il numero 12 che era stato del padre Vittorio.

L’aneddoto è solo uno dei tanti che riguardano probabilmente il numero più ricco di storia dell’Olimpia, l’8 che dal 13 marzo 2015 risulta ritirato in onore del suo proprietario storico, Mike D’Antoni.

Al di là delle vittorie, e della longevità, D’Antoni è primo nel libro dei record di società per presenze, punti, assist, palle recuperate, canestri da due punti,

canestri da tre punti e tiri liberi segnati. In termini di assist e palle rubate, il secondo ha meno della metà delle sue cifre.

Come abbiamo già visto la scelta del numero 8 da parte di D’Antoni è stata abbastanza casuale: indossava il 5, il suo numero di riserva ai tempi del college e della NBA rispetto al 10, ma Dino Boselli glielo chiese per onorare il suo idolo Giulio Iellini. D’Antoni prese l’8 perché era il vecchio numero di Boselli, quindi fu un semplice scambio. Ma l’8 era già stato a suo modo un numero memorabile.

L’8 originale dell’Olimpia infatti era Sandro Gamba! Gamba è il detentore di uno dei pochi record societari di cui D’Antoni non si sia impossessato, quello per il maggior numero di stagioni giocate in maglia Olimpia, ben 15. Dopo il ritiro di Gamba, il numero 8 passò in automati-

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co sulle spalle di Massimo Masini.

Masini arrivò a Milano nel 1963 quando aveva 18 anni da Montecatini Terme.

E’ attualmente il terzo realizzatore nella storia dell’Olimpia con 4.002 punti, preceduto solo da D’Antoni e Roberto Premier. In carriera ha segnato 15.3 punti per gara in biancorosso. Nel 1966 a 21 anni vinse la Coppa dei Campioni giocando assieme a Skip Thoren come tandem di lunghi e fu decisivo in semifinale contro il CSKA Mosca segnando 15 punti. L’anno dopo era una stella della squadra: segnò addirittura 40 punti contro l’Olimpia Lubiana in trasferta nel girone eliminatorio. Quando l’Olimpia perse gradualmente i veterani della supersquadra degli anni’60, Masini diventò di fatto la bandiera del club, supportato da Iellini e poi Brumatti. Quando l’Olimpia giocò tre spareggi

Sandro Gamba 24

Danilo Gallinari

consecutivi contro Varese, lui formava la coppia meglio assortita con Arthur Kenney. Quest’ultimo era l’ala forte, ma con una tremenda componente fisica nel suo gioco, e andava a combattere contro Dino Meneghin, Masini viceversa che era un giocatore tecnico andava contro il secondo lungo di Varese.

Masini andò via nel 1974, poi il numero passò dal giovanissimo Dino Boselli a Mike D’Antoni. Coldebella lo indossò per anni e infine l’ultimo ad averlo vestito è stato Danilo Gallinari. Nella stagione 2007/08, Gallinari fu nominato “Rising Star” di EuroLeague proprio con l’8 dell’Olimpia. Ma dal 2015, l’8 ha solo un proprietario e un solo posto in cui è visibile, nella palestra di allenamento del Mediolanum Forum. Perché quello è il numero di un solo uomo, di Mike D’Antoni.

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All’Olimpia uno dei tre premi di EuroLeague L’impegno dei club europei per sostenere le loro comunità locali viene premiato ogni anno con gli “One Team Awards”. One Team è il programma di responsabilità sociale di EuroLeague Basketball, che utilizza il potere del basket per insegnare preziose lezioni di vita e dare importanti opportunità alle persone svantaggiate e a rischio di esclusione sociale.

La cerimonia di premiazione annuale è stata pensata per celebrare i successi del programma, che è stato sviluppato la scorsa stagione da tutte le 42 squadre della Turkish Airlines EuroLeague e della 7DAYS EuroCup. Per il secondo anno consecutivo, il vincitore del Gold Award è stato l’Anadolu Efes Istanbul, che ha lavorato con un gruppo di atleti speciali per assistere il loro sviluppo personale e l’integrazione nella comunità. L’argento è stato assegnato all’Olympiacos Pireo. Il programma dell’Olimpia è stato premiato con la medaglia di bronzo.

L’Olimpia ha svolto due programmi separati, uno per lavorare con bambini provenienti da contesti sociali difficili e un secondo per sostenere i bambini affetti da autismo. L’allenatrice One Team dell’Olimpia, Marilisa Zanini ha dichiarato: “Per tutta la stagione abbiamo cercato di regalare ai ragazzi piacevoli ricordi e momenti indimenticabili. I ragazzi hanno lavorato sodo, hanno imparato a lavorare con i

compagni e a dare fiducia alle persone che li stavano aiutando. Hanno apprezzato l’aiuto degli ambasciatori, che hanno dato loro consigli e sogni da seguire”.

Jordi Bertomeu, Presidente e CEO di Euroleague Basketball, ha dichiarato: “Ora più che mai, è fondamentale che i nostri giocatori, allenatori e club rimangano in contatto con le comunità locali, e questo è qualcosa che siamo in grado di ottenere attraverso questo fantastico programma”.

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L E D A I L G A LA BATT

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L TUFFO

OLIMPIA BIG GAMES - 5 Il gesto eroico di Bob McAdoo, il canestro-non canestro di Andrea Forti, una partita epica che valse l’ultimo scudetto di un ciclo sublimando il carattere di un gruppo memorabile.

L’ultimo scudetto vinto dall’Olimpia nell’era D’Antoni-Meneghin-Premier, con Bob McAdoo, e Franco Casalini in panchina fu vinto nella memorabile battaglia di Livorno, una delle partite più famose nella storia del basket italiano. L’Olimpia ebbe il match-point in Gara 4 a Lampugnano, ma perse e due giorni dopo in un caldo infernale andò a giocarsi il titolo a Livorno, in un palasport bollente di passione e di gente. Ecco la storia di una partita ingiustamente nota anche per la maxirissa di fine gara che ha cancellato nella memoria la bellezza dello spettacolo, per intensità ed emotività. Fu la partita del canestro di Andrea Forti sulla sirena, ma un attimo dopo il fischio, e del tuffo leggendario di Bob McAdoo.

27 maggio 1989

LA PARTITA - Alessandro Fantozzi, livornese e bandiera della Libertas, segnò da tre al primo colpo, esultò come se avesse vinto la Coppa del Mondo e tirò di nuovo da tre al secondo possesso offensivo. Dopo l’errore chiese scusa. Livorno aveva fretta di vincere. Troppa fretta. Fu una partita che giocò tutta sul filo dei nervi. Fu una gara ad elastico. Ad inizio ripresa Livorno la afferrò per la gola e se la lasciò scappare ancora. Milano aveva nove giocatori contro sei (il settimo di Livorno era il playmaker Walter De Raffaele utilizzato per far respirare Fantozzi): utilizzò Montecchi in quintetto e dalla panchina Premier, Pittis, Aldi e Pessina. Ebbe un passaggio negativo in cui Pittis si fece fischiare un tecnico (quarto fallo) e ad Albert King sanzionarono un antisportivo. Coach Casalini chiamò timeout e richiamò mezza squadra, troppo intenta a parlare con gli arbitri Grotti e Zeppilli, soprattutto D’Antoni, più che a giocare. Pessina era il più agitato. Sembrava che l’Olimpia, stanca e logora, in un clima impossibile, fosse sul punto di implodere.

Quello che nessuno ha abbastanza rimarcato parlando di quella partita è che Milano con tutti i suoi trofei e le lunghe carriere alle spalle volle vincerla più dei pur ammirevoli avversari. Non è una colpa: nessuno a quei tempi voleva vincere più di quella Olimpia. Ci furono alcuni possessi significativi. Un pallone che Pessina di forza semplicemente strappò dalle mani di David Wood per segnare a rim-

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balzo. Un rimbalzo conteso da cento braccia che fu preda di Meneghin che aveva 39 anni. Premier saltò Andrea Forti dal palleggio e arrivò al ferro estendendosi in avanti, come se fosse sul punto di capitolare.

Dopo l’intenzionale fischiato a King, una crisi nervosa di Roberto Premier, le urla a braccia agitate di Pessina e la sensazione che Livorno stesse per andarsene, Milano esplose a più otto! Premier, fino a quel momento nullo, erratico, giocò 10 minuti spettacolari. Dopo una crisi di nervi in quel clima nessuno avrebbe avuto la lucidità per mettersi mentalmente in partita con una vis agonistica straordinaria. Premier lo fece. Ma nel momento in cui la Philips sembrava avesse vinto, Livorno si liberò di tutta la tensione e giocò la sua pallacanestro migliore trascinata da Fantozzi e un fantastico Wendell Alexis, che giocò probabilmente la più grande Gara 5 che un giocatore potesse giocare senza vincerla.

IL TUFFO - Da 80-72, Livorno tornò a meno tre, con Alberto Tonut proteso in contropiede dopo una palla persa da D’Antoni. Nessuno in quel momento realizzò che il tuffo con cui McAdoo gli deviò la palla oltre la linea laterale sarebbe diventato probabilmente il singolo atto più famoso nella storia dell’Olimpia o dell’intero basket italiano. La bellezza del gesto è indescrivibile, il cuore ancora di più. La sorpresa è di Tonut: intento a proteggersi da King, che gli corre accanto alla sua sinistra, si volta senza capire come abbia fatto la palla a sfuggirgli di mano. In quel momento, come un siluro, McAdoo completa il tuffo tra le braccia di operatori tv, fotografi e tifosi appollaiati tutti sulla linea di fondo. “So che se ne parla ancora – dice McAdoo – fu una giocata atipica perché ammetto che in tanti anni di NBA non avevo mai fatto nulla di simile.

Non so cosa sia scattato”. “Eravamo abituati alle sue gesta, a cose incredibili, lo vedevamo tutti i giorni in allenamento quindi sul momento ho archiviato quella giocata come un’altra grande giocata di Bob, per quanto inusuale per lui – dice Casalini – E’ dopo, a mente fredda, che resti basito”. Ma la palla rimase alla Libertas e sulla rimessa Fantozzi segnò da tre. La grande beffa è tutta qui: se McAdoo non si fosse tuffato, Tonut avrebbe segnato due punti e Livorno sarebbe rimasta sotto di uno. Invece fu 80-80. Rimarcarlo è come rovinare una bellissima storia. In questo caso, la straordinarietà del gesto supera il suo significato pratico.

L’EPILOGO - Sull’80-80 ancora Premier segnò da tre attingendo a non si sa quali energie. Alexis rispose con una tripla frontale ma con il piede sulla linea. Un centimetro costato tantissimo: 83-82.

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D’Antoni chiamò il famoso gioco a elle da destra, girò attorno al blocco monumentale di Meneghin palleggiando con la mano sinistra. Guadagnò quel tanto che bastava per “perdere” Fantozzi e segnare ancora da tre. 86-82. Favoloso. Ma Alexis segnò nuovamente da tre per il meno uno. La scelta di Livorno fu quella di non commettere fallo, il che avrebbe lasciato pochissimo tempo per rimediare.

Forse anche questa decisione in condizioni normali sarebbe stata dibattuta. Sull’ultimo possesso della stagione, Premier sbagliò il tiro del match-point e l’Olimpia si trovò clamorosamente, inopinatamente, stranamente esposta al contropiede avversario.

Fantozzi lanciò un pallone lungo ad Andrea Forti ma forse dopo un’esitazione. Il tentativo di stoppata di Meneghin e McAdoo fu tardivo. Forti da sotto segnò il canestro più facile e potenzialmente importante della sua carriera. Solo che lo segnò dopo il suono della sirena. Quello che successe dopo è letteratura. Invasione di campo, arbitri rifugiati negli spogliatoi, i giocatori di Milano che rientrano convinti di aver vinto (nel filmato si vedono un paio di loro – incluso D’Antoni – esultare dopo aver guardato l’arbitro), quelli di Livorno che non capiscono.

Ma negli spogliatoi emerge la verità: il canestro di Forti non è mai stato convalidato. Il general manager dell’Olimpia Toni Cappellari nello spogliatoio degli arbitri si fa consegnare il referto vincente. Lo mostra negli spogliatoi, “ma era passata almeno un’ora”, dice Premier, ed esplode la gioia. Un canestro in più o in meno non avrebbe mai cambiato una leggenda. Ma sarebbe sbagliato dire che vincere quella battaglia, in quel modo, non abbia aggiunto nulla alla storia di quella squadra. Forse non ha aggiunto molto alla storia del club, uno scudetto di tanti, ma quel gruppo di giocatori quel sabato pomeriggio livornese ha sublimato la propria storia.

IL TABELLINO Enichem Livorno 85 Philips Milano 86 Enichem: Fantozzi 18, Forti 6, Alexis 32, Carera 13, Tonut 11, Wood 5, De Raffaele. Allenatore: Alberto Bucci Philips: D’Antoni 9, Premier 20, Meneghin 10, McAdoo 7, King 22, Pittis 6, Pessina 8, Montecchi 2, Aldi 2. Allenatore: Franco Casalini.

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NUMBERS

Sergio Rodriguez, la corsa ai 3.000 punti Rodriguez ha cominciato la sua stagione di EuroLeague a 209 punti di distanza dai 3.000 in carriera. Il traguardo è stato tagliato nella storia da sette giocatori, due di essi hanno superato il muro dei 4.000 punti, ovvero il top-scorer di tutti i tempi Vassilis Spanoulis e Juan Carlos Navarro, che però si è ritirato e quindi ha finito a quota 4.152. Gli altri in graduatoria sono tutti ancora lontani dai 4.000, per quanto tutti in attività. Nando De Colo, per età e caratteristiche, è colui che ha la chance migliore di raggiungere i 4.000, ma non basterà questa stagione. Gli altri over 3.000 sono Georgios Printezis, Paulius Jankunas, Felipe Reyes e Sergio Llull che ha tagliato il traguardo proprio nella partita di Milano del Real Madrid.

Nel frattempo, Rodriguez è salito sul podio della classifica degli assist capeggiata anche quella da Spanoulis.

Ha superato Dimitris Diamantidis che si è ritirato a quota 1.255. Il Chacho è anche sesto nelle triple segnate, ma di tutti i primi sei bomber della storia, lui è l’unico che abbia una percentuale di realizzazione superiore al 40%.

Sergio Rodriguez è ottavo nei punti segnati in carriera, dopo aver scavalcato Milos Teodosic. Rispetto alla media carriera può raggiungere i 3.000 punti in 19 partite, rispetto alla media della stagione scorsa potrebbe farcela in minor tempo, anche in 16 presenze sul campo.

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