RED SHOES MAGAZINE | Settembre 2020

SETTEMBRE 2020

Il trionfo in SUPERCOPPA INTERVISTA KYLE HINES

SERGIO RODRIGUEZ REDSHOESMAGAZINE

LA RIMONTA SULL’ARIS 1

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4 LBA Supercoppa 2020 10 L’intervista Kyle Hines 20 Olimpia Profile Sergio Rodriguez 21 Olimpia Quiz 22 Olimpia Insider 26 Le grandi partite di Milano 30 Olimpia Numbers REDSHOESMAGAZINE

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La conquista di BOLOGNA Il primo trofeo stagionale è finito nella bacheca dell’Olimpia con un percorso immacolato, otto vittorie su otto, impreziosito dalle Final Four in Emilia dove Milano ha vinto la finale giocandola contro la squadra di casa “Quando giochi una partita secca, devi difendere forte, impedire agli avversari di fare parziali, di prenderti i rimbalzi offensivi e in generale di imporre il loro gioco”. Così Coach Ettore Messina ha spiegato il successo dell’Olimpia nella Supercoppa 2020, la quarta nella storia del club, ma un po’ più significativa perché disputata attraverso otto gare e con la partecipazione di tutte le 16 squadre della Serie A. L’Olimpia l’ha vinta da imbattuta, praticamente non ha mai inseguito nel punteggio in alcuna gara e la finale l’ha vinta in trasferta a Bologna, contro l’unica squadra che fino ad allora aveva perso solo una volta, la Virtus. L’Olimpia ha vinto

imponendo il proprio gioco, come aveva fatto nella semifinale contro Venezia, “un’altra grande squadra – dice Coach Messina -, quella che ha vinto due degli ultimi tre titoli italiani”. L’ha fatto difendendo forte, appunto, e con la difesa ha superato i momenti complicati dell’attacco, emersi in ambedue le gare nel terzo periodo. Contro Venezia il vantaggio era enorme, venti punti. Contro Bologna era più stretto, 12. Ma Milano è rimasta sempre un passo avanti, soverchiando le problematiche di giornata. In finale, dopo quattro minuti, è andato fuori gioco Vlado Micov – infortunio al gomito -, il che significa giocare con un uomo in meno, un uomo importante tra

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Malcolm Delaney MVP

l’altro. I falli, sia di Kevin Punter che di Jeff Brooks, hanno poi costretto l’Olimpia a giocare con rotazioni “di protezione”, impiegando anche tre piccoli insieme. Quando Bologna si è riavvicinata alla fine del terzo quarto, in sequenza la risposta della difesa di Milano è stata: airball di Pajola, palla rubata raddoppiando Ricci dentro l’area, stoppata di Kyle Hines su Ricci in gancio allo scadere dei 24 secondi dopo che Brooks aveva toccato la palla impendendo ad Hunter di segnare da sotto. In mezzo ci sono stati cinque punti di fila di Punter. Quando Alibegovic ha schiacciato il meno quattro, Gigi Datome ha segnato da tre e poi con un jumper dalla media direttamen8

te da rimessa dal fondo. L’ultima stoccata è stata poi quella di Sergio Rodriguez, una tripla di grande personalità che ha chiuso la partita.

E’ stata una vera vittoria di squadra, con tanti protagonisti. Basti pensare che il trofeo di MVP è stato assegnato a Malcolm Delaney, ma soprattutto per quello che ha fatto in una memorabile semifinale, da 19 punti, sei assist, quattro palle rubate e 10 falli subiti. Jeff Brooks, Delaney e Punter sono stati i giocatori più impiegati in questa Supercoppa, ma per portarla a casa sono stati necessari tutti. Andrea Cinciarini ha dato energia quando è servito, Riccardo Moraschini ha sostituito di fatto Vlado Micov in finale, Kaleb Tarczewski ha tirato con il 77% lungo l’intero arco della competizione. Datome è stato il più produttivo in finale, Rodriguez dopo aver sofferto in semifinale ha segnato i punti risolutivi nell’atto conclusivo di una “competizione che ha dato modo a tutte le squadre di avere un buon precampionato in un momento molto difficile”, come ha sottolineato ancora Messina.

La vittoria in Supercoppa è stata la nona nell’era Armani (dal 2008) e si aggiunge a tre scudetti e due Coppe Italia. La riconquista della leadership italiana è l’obiettivo principale della stagione. Aver vinto il primo trofeo, superando tutte le altre partecipanti al campiona-

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to di Serie A consegna all’Olimpia soprattutto tanta fiducia nel lavoro svolto e in quello da svolgere. Nel weekend bolognese, tre dei nove stranieri sono stati tenuti a riposo senza eseguire un vero turnover, ma per dare la precedenza ai giocatori che erano a Milano l’anno passato compatibilmente con le esigenze della squadra e la situazione fisica (che ha costretto ad esempio Michael Roll a non giocare comunque). Ma la Supercoppa disputata lungo un mese di competizione ha richiesto l’impegno di tutti. Nella prima fase, tutti hanno giocato e dato il loro contributo. “E’ stato importante certificare con una vittoria la bontà del lavoro prodotto fino a questo momento”, ha commentato Gigi Datome. In fondo, tutti i nuovi – e non solo loro – sono venuti a Milano parlando di vittorie, successi con cui rinfrescare la storia dell’Olimpia. Per Kyle Hines è un mantra. In fondo i vincenti vincono, è questo quello che fanno. Hines non è un giocatore di statistiche, ma è in tutti i momenti chiave. Se c’è da toccare, deviare una palla, effettuare una stoppata, tenere vivo un rimbalzo o rapinare un canestro in “coast-to-coast” lui è presente.

Lui è l’ancora della difesa che rispettando i canoni del basket moderno tende a “cambiare” sui blocchi per mantenere alta la pressione sul perimetro e togliere il tiro da tre

agli avversari. Hines è l’uomo chiave di questo sistema perché parte marcando il centro, ma può finire il possesso, piegato sulle gambe come in uno squat perfettamente eseguito, sul playmaker avversario.

Per questo il dato più rilevante della finale vinta contro Bologna non è solo nei 17 punti di Datome o nelle 13 palle rubate, quanto nel 2/13 di Milos Teodosic, gli 11 punti totali delle tre guardie avversarie, Teodosic, Markovic e Adams. In semifinale, l’Olimpia aveva condizionato con la sua difesa anche il bomber Michael Bramos. La difesa è stata la spina dorsale della squadra.

Poi al momento giusto il talento ha chiuso la partita in attacco.

Gigi Datome top scorer

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L’INTERVISTA

KYLE HINES

“Sono nato con il pallone nella culla; il 42 mi è stato dato in onore di Julius Erving; la NBA era un sogno, ora sono grato non si sia avverato; il mio obiettivo non cambia: voglio vincere, aggiungere trofei e vittorie; io e Rodriguez abbiamo un rapporto speciale” - Kyle Hines, come è nata la passione per il basket?

“La storia dice che mio nonno mise un pallone da basket e uno da football nella mia culla, appena uscito dall’ospedale. Da allora, i miei genitori mi hanno raccontato che sono sempre stato rapito dal basket. Guardavo lo sport in televisione, basket, football. Fin dall’inizio, questo è il mondo in cui sono cresciuto, lo sport è stata sempre la mia passione. Anche mio padre era un atleta, giocava a football, ma ha anche giocato per un po’ a basket. Io lo seguivo dappertutto, in tutte le cose che faceva, mi allenavo con lui, andavo in sala pesi. In sostanza, il mio amore per lo sport, per il basket, è soprattutto una questione familiare”.

numero che Doctor J indossava all’high school, e secondo lui la mia personalità era simile alla sua. Per me è stato un onore indossare il 42 in suo onore. Doctor J è un giocatore leggendario, ma anche una persona di valore”.

- E’ vera la storia che il numero 42 è indossato in onore di Julius Erving?

“E’ una storia vera. Il mio allenatore al liceo (Gary Saunders-ndr) veniva da Long Island, da Roosevelt, e il fratello Leon era molto amico di Julius Erving. C’è una storia secondo cui fu lui a dare a Doctor J il soprannome Doctor J. Quando ero al liceo, ci seguiva dappertutto e diceva che dovevo indossare il numero 42 perché era il

- Sarebbe stato normale attendersi un po’ di interesse dalla NBA? “Pensavo che la NBA potesse essere un’opzione realistica, ma il percorso è differente per ogni persona. Io se mi guardo indietro non ho alcun rimpianto, sono venuto in Europa, ho giocato in EuroLeague, ho sperimentato tante cose diverse, ho vinto tanti titoli, giocato con grandi compagni e per grandi allenatori, per alcuni dei club

- A UNC-Greensboro i numeri accumulati hanno fatto storia.

“A UNC-Greensboro, nella Southern Conference, ho trascorso anni di grandi successi. E’ una scuola piccola, ma sono riuscito a ottenere grandi riconoscimenti, record, a far parte di elenchi importanti, insieme a nomi famosi, Hall of Famers. UNC-Greensboro è un posto speciale per me, è il posto in cui ho davvero cominciato a capire di essere un buon giocatore di basket”.

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con più storia in Europa.

La NBA è sempre stata un sogno, ma oggi sono contento che quel sogno non si sia avverato. Ho realizzato che il mio vero sogno era un altro ed era competere per vincere dei titoli qui in Europa”.

- Tutto è cominciato a Veroli.

“E’ stato bello, Veroli, per chi non la conosce, è un paese piccolo, con 5-6.000 abitanti, ma mi hanno fatto sentire come se fossi uno di loro. C’era gente che mi invitava a cena, che si preoccupava che stessi bene, ho avuto anche grandi compagni, alcuni sono stati in Nazionale, come Micky Mian, altri erano grandi americani, penso a Jerome Allen.

“Perchè il 42” E ho giocato per eccellenti allenatori e general manager, come Antonello Riva, Andrea Trinchieri, Massimo Cancellieri.

Ho avuto l’opportunità di crescere e gettare le fondamenta per diventare il giocatore che sono diventato. Sono felice di aver cominciato la mia carriera a Veroli: una piccola città dove tutti hanno grandi sogni e grande determinazione, dove abbiamo fatto cose importanti” - Dopo è arrivata la chiamata di Bamberg e dell’EuroLeague.

“E’ stata una chiamata inattesa, volevo giocare in EuroLeague, ma non pensavo succedesse così velocemente. Sono stato fortunato, perché a quei tempi la seconda divisione in Italia era molto competitiva, c’erano tante buone squadre e grandi giocatori. Così quando sono andato a Bamberg ho capito di essere stato preparato bene, grazie alle squadre e agli allenatori con cui avevo fatto esperienza in A2”.

- L’Olympiacos ha vinto due volte di fila l’EuroLeague, un fatto raro da parte di una squadra evidentemente speciale.

“Sì, quella squadra era speciale per la chimica che si era creata dentro e fuori del campo. I

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giocatori che c’erano, Vassilis Spanoulis, Pero Antic, Georgios Printezis, Joey Dorsey, Sloukas... Tutti noi abbiamo grandi ricordi di quello che abbiamo ottenuto, ma la chimica ha fatto la differenza, eravamo come fratelli. Sono convinto che quella sia la ragione che ci ha portato a vincere così tanto. Ci fidavamo l’uno dell’altro, ci piacevamo sinceramente uno con l’altro e volevamo solo il meglio per gli altri. Questa è la cosa più importante”.

- Il CSKA Mosca ha sempre una squadra fortissima, ma tutta la sua stagione sembra decidersi alle Final Four di EuroLeague. E’ difficile giocare con questa pressione?

“E’ difficile, ma al tempo stesso è quello che vuoi come giocatore. Competere ogni anno per vincere titoli. E’ la ragione per cui ci alleniamo ogni giorno: vincere titoli. Al CSKA ogni anno il tema è vincere l’EuroLeague o fallire. Ci preparavamo mentalmente tutta la stagione per vincere una o due partite alle Final Four. Ma quello è il tipo di pressione che mi piace, che voglio. Tutti i giocatori che aspirano al successo ad un certo punto devono capire come gestirla. Io sono stato fortunato di sperimentare quel tipo di successo due volte con quella squadra e vincere tanto” - Kyle Hines è il giocatore americano che ha vinto più volte l’EuroLeague, quattro. Sensazioni?

“E’ una soddisfazione incredibile - un risultato eccezionale - realizzare di essere in cima a quella graduatoria, considerando quanti grandi giocatori americani sono stati in EuroLeague e hanno costruito qui la loro carriera. E’ un grande risultato, un onore, ma mi auguro di vincerne ancora una o due di EuroLeague, prima che la mia carriera finisca”.

- Ma negli Stati Uniti è possibile spiegare

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“All’Olympiacos una chimica speciale”

“Ho scelto un ruolo preciso”

“A Milano per vincere”

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le dimensioni di questo statura posso dimostrare successo? che la percezione di me è “Quello che ho fatto qui sbagliata”. onestamente non riesco a spiegarlo a casa perché -Dopo una carriera come spesso non lo comprendo questa, per cosa gioca neanche io. Come atleKyle Hines, quali motivata pensi sempre a cosa ti zioni? aspetta, finisci una parti“Per me non cambierà mai ta e ti preoccupi di quella nulla, gli obiettivi sono semdopo, finisci una stagione pre gli stessi, vincere trofei, e subito pensi a quella sevincere campionati. Questa guente. Alla fine, non sono è la ragione per cui sono mai riuscito a prendermi un venuto all’Olimpia Milaattimo per comprendere la no. Per essere parte di un grandezza di vincere l’Euclub, di una squadra, di un roLeague o altri titoli. Ma un gruppo che aiuti a riportare giorno quando la mia caril maggior numero di titoli riera sarà finita, cercherò a Milano, che sia in Italia o di farlo e assaporarlo sul in EuroLeague. Questo è serio. La mia famiglia mi ha l’obiettivo, questo è quello sempre sostenuto in tutte su cui sono concentrato. E le mie squadre, nella mia “Tutto iniziò a Veroli” credo debba essere così città tutti sono a conoscenper tutti qui, abbiamo mesza di quello che sta accadendo, anche loro mi so assieme una squadra che può finire la stagiosostengono. E quest’anno saranno grandi tifosi ne vincendo dei titoli”. dell’Olimpia Milano”.

- Il point-man è Chacho Rodriguez: avete vin- A inizio carriera Kyle Hines aveva numeri to l’EuroLeague insieme a Mosca. eccezionali, ora è conosciuto soprattutto “Chacho rende il mio lavoro molto più facile, come grande difensore. quello che devo fare è portare un blocco e li“Invecchiando ho capito che dovevo avere un berarmi, o correre lungo il campo. Abbiamo un ruolo specifico, soprattutto in squadre di alto ligrande rapporto in campo e fuori. Nei due anni vello, e interpretarlo al meglio avrebbe permesche abbiamo speso insieme a Mosca abbiamo so alle mie squadre di vincere più partite. Persosviluppato una grande chimica insieme. Lui è nalmente, sono orgoglioso quando riesco a fare una delle ragioni per cui sono qui: ho l’opportuuna buona difesa, difendere sulla palla, aiutare nità di giocare ancora insieme a lui, sviluppare il la squadra diventando una presenza in difesa. E nostro rapporto in campo. A Mosca abbiamo vinin attacco cerco di fare quello di cui la squadra to tanto insieme. Spero di potermi ripetere qui”. ha bisogno, che sia piazzare blocchi, prendere rimbalzi offensivi, eseguire il passaggio giusto, - A casa svolge un grande lavoro per i ragazsegnare qualche canestro, credo che il mio ruozi della sua comunità. lo sia stato questo per tutta la mia carriera e ha “La mia città è Sicklerville, nel New Jersey, una aiutato le mie squadre ad avere successo”. piccola città in cui io, mio fratello, la mia fami- Da sempre è un cosiddetto “undersized”, glia, abbiamo creato un’accademia cestistica. un centro sottodimensionato rispetto agli Facciamo diverse cose con i ragazzi, camp, avversari. clinic, e quest’anno abbiamo donato un campo “Mi piace, mi diverte, mi diverto ad andare conda basket alla comunità per dare ai ragazzi la tro giocatori più grossi, a giocare contro di loro, possibilità di giocare in un posto che possono mi piace essere una specie di sfidante, che la chiamare casa e magari riuscire a ottenere gli gente sottovaluta. E’ qualcosa che mi esalta, stessi risultati che venendo dallo stesso posto, a dispetto della mia taglia, a dispetto della mia da Sicklerville, abbiamo ottenuto noi”.

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“È una sfida giocare contro gente più grossa”

“Sono orgoglioso di difendere” REDSHOESMAGAZINE

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L’inventore del CHACHISMO Fantasia, creatività, estro. Questo è lo stile di gioco che a Madrid era diventato un modo di essere, una cultura. Come quella che Sergio Rodriguez vuole costruire a Milano Era il 2004. Corey Brewer si era infortunato proprio durante la finale che l’Estudiantes aveva raggiunto contro il Barcellona e, da pronostico, avrebbe perso. Sergio Rodriguez aveva 18 anni ed era in vacanza a Tenerife perché la sua stagione doveva essere finita. L’Estudiantes si trovò senza un playmaker e lo richiamò d’urgenza. Rodriguez entrò in campo nel finale di partita, dopo il quinto fallo di Nacho Azofra, e segnò subito un canestro di grande fattura, superando Roger Grimau e arrivando al ferro. Perché a 18

anni questo era quello che faceva meglio, arrivare al ferro, creare, distribuire assist. Il tiro da tre che è diventato il marchio di fabbrica di uno dei primi sei o sette bomber di tutti i tempi in EuroLeague è arrivato dopo.

A quei tempi era già il Chacho, diminutivo di Muchacho, come a Tenerife venivano apostrofati tutti i ragazzini. Rodriguez tifava già per il Real Madrid perché era una questione di famiglia, nel calcio e nel basket. Poi andò a giocare a Bilbao, quindi all’Estudiantes che a quei tempi lo portò anche a esordire in Eu-

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roLeague. I progressi nel tiro da fuori lo spedirono nel draft NBA. Nel 2006, venne scelto al primo giro da Portland. La sua carriera NBA cominciò in Oregon, poi ha giocato a Sacramento e New York dove il suo allenatore era Mike D’Antoni. Non era il momento migliore. A fine anno tornò in Europa. Firmò per il Real Madrid. Si aprì così l’era del Chachismo, con un’Euro-

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League vinta, altre Final Four, titoli spagnoli. Nel frattempo, anche tante vittorie, medaglie olimpiche con la Nazionale. La generazione di Rodriguez, anticipata da Pau Gasol, è paragonabile a quella degli argentini. Ne fanno parte Marc Gasol, Rudy Fernandez, Josè Calderon per dirne alcuni. Rodriguez, con la sua barba, fatta crescere nell’estate del 2012 a Mykonos un po’ per curiosità e un po’ per pigrizia, è diventata un simbolo, quello di un playmaker estroso, fantasioso, creativo, nel gioco, ma anche nel look. E nella scelta dei giocatori da imitare. “Mi piacevano quelli del mio ruolo, possibilmente, che giocavano per vincere e sapevano creare.

Come Jason Williams, Allen Iverson e in Spagna Raul Lopez”, racconta.

Jason Williams era “White Chocolate”

e ha fatto il playmaker a Sacramento prima di lui. Era in grado di passare la palla con il gomito. Iverson è stato l’1.80 più duro di quel periodo soprattutto negli anni eroici di Philadelphia. Lopez era un playmaker del Real Madrid che ha giocato anni nella NBA senza averne il fisico. Il fisico per giocare nella NBA non ce l’avrebbe avuto neppure Rodriguez, ma ha sempre avuto tutto il resto. Dietro barba e sorriso, si nasconde un guerriero, che non teme gli scontri, e velocità, trattamento di palla e immaginazione ne hanno fatto in effetti un giocatore NBA credibile. Il tiro ha fatto il resto. Al Real Madrid tornò perché era la miglior soluzione possibile in quel momento. Quando finì quella storia, ebbe un’altra chance NBA, a Philadelphia. “Sono stato

fortunato perché ho giocato in grandi club, nella NBA, in città eccezionali, e quando in Europa sono andato all’estero prima ho avuto l’opportunità di vincere a Mosca e adesso sono a Milano”, ammette. A Mosca ha vinto l’EuroLeague eliminando il Real Madrid in semifinale.

Giocava assieme a Kyle Hines, “che praticamente ha domina-

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to l’Europa difensivamente per una decina di anni”, e già in passato ha diviso il ruolo con altri campioni senza problemi.

Al Real Madrid gli è capitato di essere MVP di EuroLeague nel 2014 partendo dalla panchina.

Non c’è dubbio che il Chacho sia un giocatore leggendario in Europa, uno dei più grandi interpreti di sempre del ruolo, forse il migliore nell’arte dell’alley-oop. A Milano è arrivato da vincente, ma carico di motivazioni. “Il nostro compito non è solo vincere, ma creare una

cultura, basata sullo stile, la sportività, il lavoro, una cultura che possa durare molti anni, anche quando non ci saremo più. Siamo nel momento giusto per farlo, perché qui c’è tutto”, dice. Le sue dichiarazioni d’amore per Milano sono frequenti. Il Chacho era stato il primo in piena crisi a voler fare qualcosa per sostenere la città e i suoi ospedali. “E’ il posto migliore in cui potrei trovarmi adesso, non ne vedo uno più adatto a me, in campo e fuori, anche la mia famiglia è felice”, dice.

RODRIGUEZ NELLA TOP 10 DEGLI SCORER Sergio Rodriguez ha segnato 2.791 punti nella sua carriera di EuroLeague e si trova nella Top 10 assoluta davanti a Marcus Brown e Ante Tomic.

All’ottavo posto figura Milos Teodosic con 2.807 punti. Rodriguez è a 209 punti dai 3.000.

Rispetto alla media carriera raggiungerebbe il traguardo in 19 partite, rispetto alla media della stagione scorsa potrebbe farcela in 16.

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olimpia QUIZ GAME

Quanto conoscete la vostra olimpia?

Antoine Carr

Nella stagione 1983/84 l’Olimpia dovette giocare gran parte della Coppa delle Coppe (persa in finale con il Real Madrid) con un solo americano, perché Earl Cureton scappò per la NBA e non era possibile ai tempi sostituirlo. In campionato chi prese il suo posto?

Fu un intreccio di mercato memorabile. Earl Cureton, che aveva vinto un titolo NBA da terzo centro dei Philadelphia 76ers, firmò con Detroit che ebbe difficoltà a mettere sotto contratto la sua prima scelta da Wichita State, Antoine Carr. Quando Cureton scappò per giocare nei Pistons, l’Olimpia rimediò firmando proprio Carr. Quest’ultimo giocò solo in campionato in cui Milano perse la finale contro la Virtus Bologna completando un ciclo di quattro finali consecutive perse in due anni tra campionato e coppa che poi avrebbe lasciato spazio ai trionfi delle stagioni successive. Carr ha poi giocato nella NBA il resto della sua carriera raggiungendo la Finale NBA con Utah due volte nel 1997 e 1998. In ambedue le stagioni, i Jazz persero contro i Chicago Bulls di Michael Jordan.

Nella stagione 1980/81, l’Olimpia firmò come straniero John Gianelli nell’ultima settimana precedente il via del campionato. Nei giorni precedenti era venuto a Milano a trattare con il club un futuro Hall of Famer NBA. Chi era?

L’Olimpia tentò di sfruttare l’impasse nella trattativa con i Boston Celtics e firmare addirittura Kevin McHale. Al momento di mettere nero su bianco, i Celtics si arresero e accettarono le richieste del giocatore riportandolo in America dove avrebbe vinto tre titoli a Boston. McHale era stato acquistato dai Celtics assieme a Robert Parish in cambio dei diritti su Joe Barry Carroll e Rickey Brown. Uno scambio che avrebbe fatto epoca e che coinvolse due futuri giocatori di Milano, Carroll e Brown, oltre che ruotare attorno al caso McHale.

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Riccardo Pittis 22

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LA NOBILE STORIA DEL NUMERO 7 Gianfranco Pieri indossandolo ha vinto nove scudetti e la Coppa dei Campioni del 1966.Ricky Pittis è stato in seguito degno erede. Così Malik Hairston e Arturas Gudaitis La storia del numero 7 dell’Olimpia è una storia nobile: l’hanno indossato tra gli altri anche Preston Shumpert, Malik Hairston, che è stato anche Capitano dell’Olimpia con quel numero, e di recente Ricky Hickman (MVP delle Final Eight di Coppa Italia nel 2017) e Arturas Gudaitis (ma lo scudetto del 2018 l’ha vinto con il 77, perché la singola cifra apparteneva allora a Dada Pascolo). Ma due giocatori emergono su tutti: Gianfranco Pieri e Riccardo Pittis. Pieri arrivò a Milano da Trieste a 18 anni, nel 1955, e ha giocato nell’Olimpia fino al 1968 (poi ha chiuso la carriera giocando due anni a Gorizia). E’ stato uno dei più grandi playmaker italiani di sempre, alto per i tempi e non solo (1.90), elegante, con tante armi a sua disposizione. L’Olim-

pia lo volle dopo una partita in cui a 17 anni segnò 34 punti, convincendo Il Principe Rubini – allenatore e giocatore fino a quel momento – a smettere di andare in campo per allenare e basta. Quel giorno lo marcarono tutte le stelle dell’Olimpia anni ’50, ma nessuno ebbe successo. Così Pieri venne acquistato e siccome gli cambiarono ruolo spostandolo in regia, lui che era abituato a giocare da ala, all’inizio ebbe anche qualche difficoltà di adattamento. “Non dico che si pentirono, ma il primo anno fu difficile”, ricorda il grande Pieri. Ma i dubbi sono durati poco: Pieri ha vinto da titolare nove scudetti e la Coppa dei Campioni del 1966, oltre a raggiungere la finale anche l’anno seguente a Madrid contro il Real. Pieri ha anche giocato due Ol-

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Gregor Fucka, che vinse lo scudetto e la Coppa Italia del 1996 con l’allora Stefanel. Nel 1996/97 Fucka fu il capocannoniere della squadra che si fermò ad una partita dalle Final Four di EuroLeague a Roma nonostante la perdita a metà stagione del playmaker titolare Nando Gentile. In quella stagione europea Fucka segnò 344 punti in 22 gare. Era uno dei giocatori di Trieste che Bepi Stefanel e Bogdan Tanjevic portarono a Milano trasferendo il marchio. Dopo di lui, si arriva quindi a Hairston (due anni, con una finale scudetto), Hickman e Gudaitis, quest’ultimo secondo rimbalzista di sempre dopo Kaleb Tarczewski in EuroLeague con la maglia dell’Olimpia, oltre che vincitore di uno scudetto e due Supercoppe italiane.

Ricky Hickman

impiadi, a Roma nel 1960 e a Tokyo nel 1964. Tutti ne decantano le qualità come prototipo del playmaker moderno. Per rivedere un “numero 7” storico avremmo dovuto attendere Riccardo Pittis, prodotto delle giovanili Olimpia che vanta 269 presenze e 2570 punti in maglia biancorossa nel campionato di Serie A. Pittis è stato uno dei membri della squadra del Grande Slam del 1987, ma aveva 19 anni e giocava poco, e poi è diventato un elemento chiave dalla panchina nel 1988 quando l’Olimpia rivinse la Coppa dei Campioni. Pittis ha segnato 563 punti anche nell’equivalente dell’attuale EuroLeague con la maglia di Milano, ma ha anche vinto la Coppa Korac prima di essere ceduto a Treviso. Partito Pittis, il 7 è stato indossato in seguito da 24

Arturas Gudaitis

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6 novembre 1986

OLIMPIA BIG GAMES - 4 La Coppa dei Campioni del 1987 nacque con un’impresa surreale.

Battuta a Salonicco di 31 punti, l’Olimpia rimontò nel ritorno vincendo di 34 e sventando un’eliminazione clamorosa La storia dell’Olimpia è costellata di grandi imprese ma nessuna è più grande di quella che si consumò il 6 novembre 1986, a inizio stagione, contro l’Aris Salonicco. Quella straordinaria rimonta da meno 31 è tale anche per quello che ha generato in seguito. Senza quell’impresa a Lampugnano, non ci sarebbe stata la Coppa dei Campioni del 1987 e neppure il Grande Slam. “Erano tempi diversi, non c’era internet, lo scouting era agli inizi e non avevamo la percezione di cosa fosse davvero l’Aris”, ricorda Dan Peterson.

Certo, Nick Galis era un fuoriclasse ma si sarebbe affermato negli anni seguenti, così Panagiotis Giannakis. L’Aris era la squadra più temuta di Grecia ma l’Italia era abituata a dominare e quello era solo il turno preliminare di Coppa dei Campioni.

A Salonicco fu una tragedia in parte annunciata: squadra di veterani, l’Olimpia partiva piano, in ritardo, si metteva in forma nel corso della stagione. Inoltre, i due americani, Bob McAdoo e Kenny Barlow, erano arrivati a ridosso del via per sostituire Russ Schoene e Cedric Henderson.

McAdoo era anziano, Barlow era un

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rookie. L’Olimpia era impreparata: fu travolta, senza energia, senza difesa da una squadra indemoniata in un ambiente impossibile. Nick Galis segnò 44 punti, all’intervallo l’Aris era già avanti 60-34. “Pensai che saremmo stati eliminati e che mi avrebbero licenziato – dice Dan Peterson –, per giorni non ho detto una parola”.

Quello che disse alla squadra era di provare a vincere, anche di un punto, per salutare la Coppa dei Campioni in modo positivo. Aggiunse che se avessero voluto qualificarsi avrebbero dovuto farlo rimontando un punto al minuto, non tutto insieme, non con grandi parziali. La squadra eseguì e vinse di 34. Fu una gara brutta, difensiva, sporca e cattiva. L’Olimpia rimontò gradualmente e poi negli ultimi cinque minuti quasi la giocò… in difesa. “Vincendo salvammo la carriera italiana di Bob McAdoo”, scherza Mike D’Antoni. Fino ad un certo punto: se fosse stata eliminata magari l’Olimpia avrebbe cambiato davvero perché “quel” McAdoo qui non era ancora diventato il grande Bob. Ma a fine partita fu lui ad abbracciare Dan Peterson di spalle. “Quando mi disse che loro ci credevano chiesi se fosse serio”, ricorda il Coach. Incredibilmente McAdoo disse che ci credevano perché avevano visto quant’era tranquillo l’allenatore. “Non ebbi il coraggio di dirgli che in effetti più che tranquillo ero rassegnato”. L’Olimpia partì bene, ma non prese subito il largo, complice il terzo fallo di Meneghin che obbligò Peterson a pescare 28

dalla panchina Fausto Bargna prima del previsto. Fu Roberto Premier a metà del primo tempo a lanciare la fuga che spaventò l’Aris e convinse Milano. Dal più quattro, l’Olimpia schizzò a più 14, 44-30, a metà gara.

Restavano però altri 17 punti da rimontare. Due triple di Franco Boselli nella ripresa scavarono una voragine di 25 punti con 11 minuti da giocare.

A quattro minuti dalla fine, Mike D’Antoni mise l’Olimpia per la prima volta avanti nel doppio confronto (+32). Il minuto finale fu una bolgia, squadre stremate, attacchi in crisi. McAdoo fece solo 4/14, ma D’Antoni mise tre bombe nei momenti determinanti e fu ancora lui a proteggere il vantaggio dell’Olimpia e una qualificazione diventata leggendaria: 83-49.

IL TABELLINO Tracer Milano 83 Aris Salonicco 49 Olimpia Milano: Premier 20, Meneghin 12, Barlow 12, McAdoo 12, D’Antoni 9, Boselli 9, Bargna 8, Gallinari 1, Pittis, Governa, Ambrassa, Guardascione.

All: Peterson Aris Salonicco: Galis 16, Giannakis 15, Lipiridis, Subotic 7, Romanidis 2, Jackson 5, Filippou 4.

All: Ioannidis.

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Nel mirino di Micov c’è addirittura Bob McAdoo Vlado Micov è primo di sempre in maglia Olimpia per punti segnati in carriera in EuroLeague. Superato Alessandro Gentile, ha valicato nella scorsa stagione quota 1.000 punti segnati, rafforzando la propria leadership. Micov in tre anni ha segnato 1.048 punti con 85 presenze (è primo anche in questo). Alle sue spalle figurano oltre a Gentile (825), Curtis Jerrells (730), Arturas Gudaitis (701) e Keith Langford (609). Ma Vlado ha la possibilità di raggiungere il primo posto in una graduatoria più significativa che tiene conto non solo dell’era EuroLeague, ma anche di quella precedente, quella della vecchia Coppa dei Campioni.

Mischiando infatti tutti i format, Micov al momento figura al secondo posto, a 148 punti di distanza dal primatista Bob McAdoo. Il grande McAdoo ha giocato la Coppa dei Campioni per tre stagioni, 1986-87, 1987-88 e 198990. A causa delle regole dell’epoca non poté giocare l’edizione 1988-89 in cui l’Olimpia si sarebbe presentata da detentrice del trofeo. Infatti, ad essa erano ammesse solo le squadre vincitrici dello scudetto, senza eccezioni, mentre Milano nel 1988 aveva perso la finale contro Pesaro, finen30

do così esclusa. McAdoo ha segnato 1.292 punti con la maglia dell’Olimpia ed è primo (25.8 per gara) anche nella media punti, davanti ai 19.8 di Rickey Brown (1987/88) e Mike James ma prodotti in una singola stagione.

Micov, ha una media carriera di 10.3 punti a partita: rispettandola supererebbe McAdoo in 15 gare giocate. Anche per un giocatore che presta poca attenzione ai numeri si tratterebbe di un risultato di grande prestigio.

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