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NICOLÒ MELLI

ha detto. È cambiato, ma neanche così tanto. Era andato via nel 2015 da giocatore emergente, è tornato da campione affermato, da Capitano. Ora è anche un giocatore storico

È un incubo. Non c’è tifoso dell’ Olimpia che nel 2015 fosse già sugli spalti del Mediolanum Forum che non lo ricordi come tale. Un incubo. Gara 7 di semifinale. L’Olimpia, che in stagione regolare ha vinto 20 partite consecutive, che ha spazzato via Bologna al primo turno e perso in Gara 1 per la prima volta in casa, contro un avversario durissimo, è stata capace di rimontare da 1-3 a 3-3 nella serie. Superando ogni ostacolo, la sesta partita in trasferta, l’espulsione e squalifica per due gare di Daniel Hackett, l’Olimpia è lì a nove secondi e 75 centesimi dalla finale scudetto. Sarebbe la seconda consecutiva. È avanti di tre punti dopo i due tiri liberi segnati da Bruno Cerella. L’arena è piena.

Il Coach di Sassari, Meo Sacchetti, spende il time-out e avanza la palla. Bisogna difendere per altri dieci secondi scarsi o anche qualcuno di meno, per poi fare un fallo, eliminare il tiro da tre come opportunità di pareggio. Nicolò Melli era in panchina nel possesso precedente, ma dopo il time-out torna in campo, correttamente. Deve marcare Jeff Brooks, l’ala forte della Dinamo. Ma Brooks va ad eseguire un blocco in allontanamento per liberare Jerome Dyson, il miglior attaccante di Sassari. Melli non esita. La sua difesa sui cambi di marcatura è già una delle pietre angolari di Nik come giocatore. Quindi Brooks blocca, Hackett resta con lui, Melli cambia e segue il taglio. Dyson per ricevere palla deve andare praticamente a metà campo. Melli arriva. Melli è aggressivo. Melli si ferma un attimo prima di provocare il contatto. Vuole solo mangiare secondi. Il fallo, se lo commetterà, lo commetterà dopo uno o due palleggi, forse dopo tre palleggi. Ma Dyson lo vede, è furbo, scaltro, forse anche nervoso, forse vede che la finale sta fuggendo via. Dyson protegge la palla, attende Melli. Ruota le braccia con la palla in mano e colpisce il futuro capitano dell’Olimpia con il gomito. Lo abbatte. Steso. Melli – lo sappiamo – non è certo un giocatore soft, è un duro. Non va a terra facilmente. Ma l’impatto è violento. Sarebbe fallo in attacco. Evidente. Ma l’arbitro Roberto Chiari, esperto, di alto livello, con una carriera in EuroLeague che parla per lui, è lì. A un metro dalla scena. Potrebbe vedere tutto. Invece sbaglia. Succede, ma sbaglia. Legge male le intenzioni di Melli. Nell’irruenza del suo sprint vede la volontà di commettere un fallo tattico. Anticipa le sue intenzioni, non aspetta il contatto, decide prima che andrà a commettere fallo. Forse gli sfugge il movimento di Dyson, magari vede solo quello di Melli. Fallo del difensore. Due tiri liberi. Melli non può neppure andare a rimbalzo, perché per rialzarsi lo devono soccorrere, è scosso. Arriva Marco Monzoni, il fisioterapista, arriva il Dottor Ezio Giani, il medico sociale. Sono ancora tutti e due all’Olimpia. Lo aiutano a rialzarsi e a tornare in panchina. Il resto è un incubo. Dyson sbaglia il secondo libero, Sassari ha a rimbalzo, oltre a Shane Lawal, non l’ala forte Jeff Brooks, ma Rakim Sanders. David Moss non riesce a tagliarlo fuori, la palla non la cattura nessuno, schizza via, Dyson la raccoglie, tira, sbaglia ancora. Lawal e Sanders sono in mezzo all’area per tutti gli otto secondi della rocambolesca sequenza. Potrebbe essere infrazione. Alla fine, la palla finisce a Sanders e Sanders segna. Nel supplementare Milano si arrende. Lo scudetto lo vincerà la Dinamo, meritatamente intendiamoci (quell’anno le due squadre si affrontarono 11 volte, prima di Gara 7 il bilancio era 5-5; il supplementare dell’undicesima sfida fu risolutivo). Per Nicolò Melli sarà l’ultima partita della sua prima carriera milanese.

La storia di Melli comincia molti anni prima della sua nascita quando Julie Vollertsen, da Lincoln, Nebraska, decise che la pallavolo sarebbe stata il suo sport e le sarebbe riuscito molto bene, così bene che nel 1980 sarebbe andata a Mosca per le Olimpiadi se gli Stati Uniti le avessero giocate e non boicottate. Due anni dopo vinse la medaglia di bronzo ai Mondiali in Perù e nel 1984 a Los Angeles guidò la squadra alla medaglia d’argento olimpica, battuta solo in finale dalla Cina. Per questo, Nicolò ha come sogno quello di chiudere la carriera nel 2028 alle Olimpiadi di

Los Angeles, nel luogo dove in parte tutto è cominciato. Tutto è cominciato lì perché, dopo la medaglia olimpica, Julie decise di imbarcarsi in una carriera professionistica in Italia, a Reggio Emilia, dove avrebbe vinto una Coppa Italia, una Coppa CEV e conosciuto Leopoldo Melli, buon giocatore nelle serie minori reggiane. Nel 1991 dalla loro unione nacque

Nicolò. Nel 1999, Sports Illustrated ha inserito Julie Vollertsen nell’elenco dei cinquanta atleti più significativi di sempre nello stato del Nebraska.

La prima volta da giocatore, Melli andò a saltare per la palla a due. Normale, perché era il più alto e già discretamente atletico. Solo che vedendo la palla salire in aria anziché toccarla ad un compagno decise che sarebbe stato più appropriato sferrargli un gran pugno. La palla volò via. Ma gli arbitri correttamente la consegnarono agli avversari. Quando era al minibasket, tra i compagni di squadra ebbe brevemente anche Alessandro Gentile. “Nicolò era il più grande e grosso, spostava tutti, incontenibile”, raccontava. Era un predestinato. Si parlava di lui che era ancora un bambino, come quella volta in cui –complice un’epidemia influenzale –debuttò in prima squadra a 14 anni. Andò solo in panchina, in realtà, ma fu un fatto epocale. Qualche tempo dopo si presentò al Palalido, perché era stato organizzato un camp tra i migliori prospetti italiani, ospite e giudice della gara addirittura Michael Jordan. L’arena era piena, anche se nessuno sembrava interessato alla partita, tutti volevano vedere Jordan. Anche i ragazzi che erano riusciti a vederlo in tv solo a fine carriera o forse neanche. Melli fu MVP di quella partita e poi lo portarono in America con i migliori ragazzi d’Europa. Era sulla rampa di lancio. Infatti, lo volevano tutti. Debuttò in Serie A2, Reggio Emilia sapeva di non poterlo tenere, ma il prezzo era alto. Nell’estate del 2010, aveva 19 anni, lo prese l’Olimpia con un contratto lungo. Un progetto.

Quattro anni dopo il suo arrivo a Milano, Nicolò Melli vinse il suo primo scudetto. Anche se aveva finito la stagione precedente con discreto spazio nella squadra in cui i due lunghi titolari erano Antonis Fotsis e Ioannis Bourousis, la squadra era stata concepita immaginando per Melli un ruolo nel secondo quintetto. CJ Wallace doveva essere l’ala forte titolare, ma si infortunò subito. Arrivò quindi Kristijan Kangur, che fece quello per cui era stato chiamato. Di fatto, l’ala grande del quintetto era Nicolò Melli. Quell’anno giocò 47 partite su 48. In Gara 2 di semifinale, Coach Luca Banchi scelse Wallace per il quintetto. L’Olimpia perse.

Da Gara 3, Melli diventò il titolare. Giocò da starter tutte le rimanenti 11 partite, incluse tutte le sette della finale scudetto. In Gara 6, a Siena, prima del canestro passato alla

Nicolò Melli ha trovato la consacrazione definitiva giocando due anni al Bamberg storia di Curtis Jerrells, segnò lui una tripla cruciale nel corpo a corpo. Due sere dopo a Milano giocò la miglior partita della carriera, fino a quel punto, una gemma preziosa da 11 punti e 13 rimbalzi. L’Olimpia vinse lo scudetto il 27 giugno 2014. Non l’avrebbe fatto senza il suo apporto. Con un titolo conquistato e un playoff di EuroLeague sul quale costruire, l’Olimpia decise tuttavia di investire anche su un’ala forte da quintetto scegliendo una superstar assoluta, Linas Kleiza, ex MVP di EuroLeague, ex capocannoniere, ex giocatore NBA di eccellente caratura. Un giocatore molto diverso da Melli, molto attaccante e poco difensore, un tiratore.

In alcuni momenti della sua stagione, Kleiza somigliò molto al giocatore che l’Olimpia sperava di aver preso. In EuroLeague, a Turow, segnò 28 punti con otto triple. Ad un certo punto ne mise sei di fila e quando sbagliò la settima, il pubblico di casa lo applaudì ironicamente. Era riuscito a sbagliare! Una volta in casa contro Reggio Emilia segnò 30 punti in 17 minuti, un record, con 8/10 da tre. A Sassari, in stagione regolare, segnò 21 punti in 19 minuti. Sbagliò la prima tripla, ne mise cinque di fila nel terzo quarto, sbagliando l’ultima solo perché scagliata da metà campo allo scadere. Ma furono lampi nel buio. Quell’anno, Melli, che doveva essere il suo cambio, giocò in quintetto praticamente sempre. E nel giorno più importante della stagione, quello di Gara 7 contro Sassari, Kleiza non venne utilizzato. Anche per questo, nei tiri liberi finali, con Melli obbligato in panchina, Banchi dovette mandare David Moss a rimbalzo. Non poteva chiedere a Kleiza di alzarsi per la prima volta a otto secondi dalla fine.

La vita, la storia, è lastricata di situazioni estemporanee. Cosa sarebbe successo se… Cosa sarebbe successo se, in Gara 7, qualcuno di Milano avesse catturato l’ultimo rimbalzo o se il fallo fischiato a Melli fosse stato correttamente sanzionato con un fallo in attacco o addirittura antisportivo? Cosa sarebbe successo se l’Olimpia avesse vinto quello scudetto? Forse Melli sarebbe rimasto, non avrebbe cercato altrove la propria strada, quella dell’affermazione definitiva, del riconoscimento. O forse no. Forse sarebbe andato via lo stesso, forse era destino, forse – indipendentemente dagli episodi – Melli sarebbe volato in Germania, dove il suo status di giocatore di élite sarebbe stato ribadito con forza. Lo scudetto del 2014, quello vinto con la sua doppia doppia in finale, è stato il primo di quattro conquistati nel giro di cinque anni. Due in Germania e uno in Turchia al Fenerbahce. Curiosamente, la sua prima partita esterna con la squadra turca la giocò proprio a Milano. Fu la partita in cui Vlado Micov con un missile sulla sirena forzò il tempo supplementare. Il Fenerbahce vinse lo stesso, Melli ebbe 15 punti e 11 rimbalzi. In seguito, avrebbe prodotto 23 punti con il Barcellona e 21 contro Baskonia nella gara che qualificò il Fenerbahce alle Final Four. Infine, la prova mostruosa da 28 punti in finale contro il Real Madrid, segnati in realtà negli ultimi tre periodi.

Avesse vinto il Fenerbahce, sarebbe stato MVP delle Final Four. Abbiamo già visto che la vita non è sempre giusta. Melli avrebbe potuto andare nella NBA già nel 2018, dopo quella partita, quello straordinario “losing effort”. Rinunciò per tentare di vincere l’EuroLeague l’anno dopo, per completare il ciclo in modo trionfale. Il Fenerbahce è tornato alle Final Four, a Vitoria, ma in condizioni non ottimali. Gigi Datome, ad esempio, era infortunato e inutilizzabile. La semifinale con l’Efes non ebbe storia. Rinfoderato il sogno nel cassetto, Melli ha fatto davvero il salto nella NBA, a New Orleans. Ha giocato 60 partite da rookie in una squadra che, ceduto Anthony Davis ai Lakers, è stata progressivamente ricostruita attorno a Zion Williamson. A Dallas, è passato a metà della stagione successiva all’interno di uno scambio più complesso. In totale, nella NBA ha giocato 105 partite, 1.608 minuti. Comunque, non è cosa per tutti.

Melli è andato via nel 2015 da giocatore emergente, è tornato da campione affermato. È tornato da Capitano della squadra, per meriti acquisiti, per carisma e leadership. “Da Capitano quello che ho provato a fare, anche se il leader lo scelgono i compagni fisiologicamente e noi ne abbiamo di leader, Hines, Datome, Shields e altri, è stato tenere il gruppo compatto nei momenti difficili. Non abbiamo avuto una buona EuroLeague, ad un certo punto potevamo mollare, invece siamo riusciti a finirla bene. Non era scontato,” ha detto dopo lo scudetto.

Dopo Gara 6 a Bologna, una brutta partita da dimenticare in fretta, è stato lui a richiamare tutti i compagni in spogliatoio implorandoli di restare uniti, “Stay Together and Win the Championship”.

Ci sono stati quindi sei anni di lontananza tra la partenza e il ritorno. Sei anni sono tanti in generale, tantissimi in una carriera sportiva.

Quando vinse nel 2014 cercò il padre Leopoldo in tribuna. Quando ha vinto nel 2022 e di nuovo nel 2023 ha cercato moglie e figlia. Le foto con la coppa e Matilde in braccio sono ricordi indelebili. Nel 2022 piccolissima, nel 2023 un po’ più grande. Ora è un uomo, un veterano. E dell’Olimpia è già – va detto – un giocatore storico. Ha giocato 252 partite di campionato, una in più di Pino Brumatti, 16° di sempre; è il quinto rimbalzista difensivo, il sesto rimbalzista, il settimo rimbalzista offensivo; il terzo stoppatore; è il primo rimbalzista di club in EuroLeague, il primo nei recuperi, il quarto nei punti, il secondo per presenze. I numeri raccontano solo una parte della storia di un giocatore come Nik, che si misura con le vittorie come succedeva a Dino Meneghin e come succede a Kyle Hines, ma ogni tanto vanno riportati per evitare che dietro l’etichetta di difensore, uomo squadra, si nasconda la verità. In Gara 7, nel 2014, segnò 11 punti e catturò 13 rimbalzi. In gara 5, nel 2023, sono stati 13 punti e 12 rimbalzi. Ovviamente, dovrebbe essere difensore dell’anno ogni anno, almeno in Italia. Ma alle volte si guardano lo stoppate e le palle recuperate per misurare l’impatto difensivo. Melli è oltre.

Inutile aggiungere che nell’arco delle sette partite della finale dell’ultima stagione, nessun giocatore dell’Olimpia è stato continuo come Nik. Avrebbe potuto essere lui l’MVP della serie. È stato lui in fondo a segnare i due tiri liberi decisivi di Gara 2. Ma il pensiero non gli ha mai sfiorato il cervello. Quando ha saputo che era stato nominato Gigi Datome, era contento più dello stesso Gigi. Non solo perché contano le vittorie di squadre, ma anche per l’amicizia sincera che li lega. A parte la Nazionale, hanno condiviso due anni a Istanbul e adesso altri due a Milano, vincendo tre titoli nazionali in simbiosi. In aereo, Melli è l’ultimo giocatore, sulla destra del velivolo;

Datome è l’ultimo sulla sinistra.

Così da pochi metri di distanza possono parlarsi oppure uno avvicinarsi all’altro per guardare insieme, sul cellulare, “Borat” o magari discutere dell’ultimo libro, un’altra passione che condividono. L’anno prossimo sarà tutto un po’ diverso, anche per lui.

“Rispetto al 2014 sono sicuramente cambiato. Per fortuna, aggiungerei”, ha detto. È cambiato, ha più di trent’anni, ha moglie, figlia, un centro sportivo e fisioterapico a Reggio Emilia, tante vittorie in bacheca, tanta esperienza maturata in giro per il mondo, ma neanche così tanto. L’ironia è la stessa, la forza di non prendersi troppo sul serio c’è ancora tutta, i commenti sferzanti quando è in panchina restano. Nell’ultima stagione, ha giocato 76 partite su 80. Ne ha saltate appena quattro. Da italiano non ha mai goduto del “privilegio” di poter tirare il fiato ogni tanto, ma non succedeva neppure quando era straniero. A Bamberg non potevano permetterselo, a Istanbul non volevano. All’Olimpia probabilmente tutte e due le cose. La storia prosegue, la storia va avanti. Una presenza dopo l’altra, un rimbalzo, un punto segnato, una stoppata eseguita dopo l’altra scalando i libri di storia. Quella storia di cui è già parte.