RED SHOES MAGAZINE | Dicembre 2021

DICEMBRE 2021

KYLE HINES OLIMPIA REAL MADRID THE GAME

IL RECORD ITALIANO DI GIGI DATOME REDSHOESMAGAZINE

BIG PLAYERS SANDRO GAMBA 1

KYLE HINES

OLIMPIAMILANO.COM

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4 Speciale Kyle Hines 12 Devon Hall e i rookies in EuroLeague 18 Olimpia Numbers Gigi Datome 20 Olimpia vs Real Madrid The Game 26 Olimpia Big Players Sandro Gamba

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KYLE HINES

LA LEGGENDA

Dal New Jersey a Veroli, diventando un giocatore carismatico, che ha dimostrato come ci sia posto nel basket di EuroLeague per centri “undersized”. E l’ha fatto vincendo più partite di qualunque altro giocatore nella storia Sicklerville, New Jersey, è un centro nel cuore della East Coast americana, attraversato dalla Atlantic City Expressway che in 40 minuti ti porta dritto sull’oceano in una delle capitali del gioco d’azzardo. Ma gli abitanti della cittadina fondata nel 1851 da John Sickler, di qui il nome, preferiscono gravitare verso il fiume Delaware e la città di Philadelphia. In condizioni di traffico agevole, si arriva nel cuore della Città dell’Amore Fraterno in 25 minuti. Kyle Hines è di Sickerville ed un fanatico dello sport, come il fratello mino-

re Tyler, come il padre. Dicono che il padre gli avesse depositato il pallone da basket nella culla, ma lui ha provato anche l’atletica, il karate e il football.

Ma quando arrivò il momento di andare al liceo, e doveva ogni mattina percorrere 32 chilometri per arrivare a Camden, il basket diventò la sua unica passione. Fortunatamente, nel 2001 venne aperta la Timber Creek High School, molto più vicina e affrontabile da Sicklerville. Il suo allenatore si chiamava Gary Saunders, fratello di Leon Saunders che alla Roose-

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velt High School di Long Island (zona New York ma non lontana dal South Jersey da cui proviene Kyle) negli anni ’60 era stato compagno di squadra di Julius Erving, il leggendario Doctor J: a quei tempi, Erving giocava con il 42. Saunders decise che Hines aveva una personalità simile e volle che indossasse appunto il 42. “Per me la motivazione è un onore, Doctor J è stato un giocatore leggendario, ma anche una grande persona”, dice Kyle.

Ma quando sei confinato in una

Kyle Hines al Bamberg 6

piccola città della parte meridionale del New Jersey, lontano dagli occhi delle grandi università, non è facile catturare il loro sguardo. Hines poi era piccolo di statura, costruito come un linebacker, ma con il gioco riservato all’epoca a chi era alto 2.10 (in realtà non era proprio così: a molti è sempre sfuggito l’incredibile ball-handling di Hines, uno che è capace di palleggiare come un playmaker, tenendo basso il palleggio). A notarlo fu Fran McCaffery, ex playmaker, di Philadelphia, capo allenatore a UNC-Greensboro, sempre East Coast, ma a sud, nel North Carolina, la città natale di Bob McAdoo. McCaffery, fidandosi dei suoi contatti nella zona di Philadelphia, decise di dare spazio e fiducia a Kyle Hines. I suoi Spartans diventarono subito una potenza nella Southern Conference. Il playmaker era Ricky Hickman, Kyle Hines era il centro. Cinque titoli europei in un quintetto. A UNC-Greensboro, Hines ha stabilito ogni tipo di record scolastico, è stato anche giocatore dell’anno di conference da junior, finendo secondo dietro Steph Curry da senior. La sua carriera universi-

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taria è stata di altissimo livello: è stato uno dei soli sei giocatori della storia ad aver accumulato almeno 2.000 punti, 1.000 rimbalzi e 300 stoppate in carriera.

Gli altri cinque? Quattro numeri 1 del draft (Pervis Ellison, David Robinson, Tim Duncan e Derrick Coleman) e un numero 2 (Alonzo Mourning).

In realtà, dopo due anni McCaffery lasciò UNC-Greensboro per salire di livello, al Siena College, e adesso guida un college importante come Iowa.

Ha fatto strada. Mike Dement prese il suo posto. Nel basket universitario cambiare scuola è permesso, senza osservare un anno di stop, solo in casi eccezionali, come appunto quando un allenatore lascia un posto di lavoro per un altro. Hines avrebbe potuto approfittarne, ma si trovava bene a UNCG e decise di rimanere. Da junior incontrò anche Virginia Tech di un primo anno promettente che partiva dalla panchina di nome Malcolm Delaney.

Il suo draft avrebbe dovuto essere quello del 2008. Aveva giocato in una scuola piccola, in

All’Olympiacos ha vinto due titoli

una conference considerata debole, ma con grandi numeri e in un periodo dominato dalla Davidson di Steph Curry. Hines si presentò a Portsmouth, al camp predraft, accendendo tante spie con la sua energia e le condizioni atletiche strepitose. Quando lo misurarono, denunciò un 3.8% di grasso corporeo. Ma la statura fu subito un problema. Con le scarpe era sei piedi, cinque pollici e 25. Tradotto fa 1.96. L’apertura di braccia era 2.15, buona ma non eccezionale. C’erano anche Othello Hunter e James Gist per citare due

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giocatori che poi hanno fatto la storia dell’EuroLeague. Ma Hines venne etichettato, sul sito ufficiale della NBA, come un’ala piccola-ala grande. Nessuno aveva il coraggio di identificare come centro un giocatore di 1.96. Infatti, non venne scelto.

Non la prese bene, onestamente. Non immaginava quello che sarebbe successo di lì a poco, altrimenti se ne sarebbe fatto una ragione. Provò per Oklahoma City e Charlotte, vicino al college che aveva frequentato per quattro anni, con tanto di

Al CSKA ha giocato 7 anni 8

maglia ritirata e l’etichetta di miglior giocatore della sua storia.

Poi venne invitato a Cleveland.

Ma non successe nulla e quando Andrea Trinchieri gli propose di andare a giocare a Veroli in A2 non fu difficile convincerlo.

“Ero in un piccolo posto, ma non sarei diventato quello che sono senza Veroli. Ho conosciuto persone importanti, come Jerome Allen in campo, Trinchieri e Cancellieri come allenatori, Antonello Riva come general manager. Ero un ragazzino che non aveva mai viaggiato. La città era piccola, ma mi ha adottato, hanno fatto tutto per permettermi di sentirmi protetto”, racconta.

E’ facile dire adesso che tutto cominciò a Veroli e tutto fu subito chiaro. Non lo fu per nulla.

A Veroli, Hines rimase due anni.

Un centro sotto i due metri non convinceva nessuno. I più bravi furono quelli di Bamberg. L’allenatore canadese Chris Fleming, che oggi è assistente allenatore a Chicago nella NBA, gli costruì attorno la squadra. In Germania è rimasto un anno, prima che arrivasse Nicolò Melli, vinse il titolo da MVP e conobbe l’Eu-

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roLeague. L’Olympiacos, che lottava per vincere il titolo, con Dusan Ivkovic in panchina, gli offrì una chance al livello europeo massimo tra lo scetticismo generale. La risposta furono due titoli di EuroLeague in due anni. Nel primo anno, non giocò delle grandi Final Four, ma fu decisivo nei quarti di finale vinti con il fattore campo a sfavore contro Siena. Nelle tre vittorie dell’Olympiacos, segnò 49 punti con 20 rimbalzi. La stagione successiva, alle Final Four di Londra, ebbe 13 punti e 10 rimbalzi nella vittoria in semifinale contro il CSKA e 12 punti (4/4 dal campo, 4/5 dalla lunetta), cinque rimbalzi, tre palle rubate e tre stoppate nella finale contro il Real Madrid. A quel punto era già una leggenda. Ma quello che ha fatto va oltre le vittorie.

Nei due anni al Pireo, Hines ha aperto una strada, ha dimostrato che i centri “undersized” possono fare tanta strada in Europa e possono farla anche senza essere grandi tiratori da fuori.

“Credo che Michael Batiste sia stato il primo, il basket si è evoluto in modo tale da permettermi la carriera che ho avuto,

E’ al secondo anno a Milano

nonostante la taglia fisica, ad esempio in difesa dove adesso si cambia su tutti i blocchi.

Questo mi ha aiutato”, spiega.

Kyle Hines ha vinto l’EuroLeague altre due volte a Mosca, nel 2016 e ancora nel 2019 quando giocava accanto a Sergio Rodriguez. Al CSKA, allenato il primo anno proprio da Ettore Messina, è diventato due volte difensore dell’anno di EuroLeague e infine nei mesi scorsi è stato incluso nella squadra ideale del decennio. “Quando ho cominciato a giocare in EuroLeague, a Bamberg, non mi sarei

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mai immaginato nulla di simile, una carriera così lunga, tutte le vittorie e tutte le Final Four”, ha confessato di recente dopo aver appreso dell’inclusione tra i primi 10 giocatori di EuroLeague degli ultimi dieci anni.

A Mosca, Hines è arrivato nel 2013, quando il capo allenatore era Ettore Messina. E la sua striscia di partecipazioni alle Final Four è proseguita. La prima fu proprio a Milano. Poi ha vinto nel 2016 e nel 2019, quest’ultima giocando accanto a Sergio Rodriguez. “Nella mia carriera sono stato fortunato: ho giocato

Il pezzo forte: la stoppata 10

vicino a Roma e visto il Colosseo, sono stato ad Atene e ho camminato sulla pista della prima Olimpiade moderna, sono stato a Mosca passando regolarmente dalla Piazza Rossa. E il basket mi ha portato in posti che altrimenti non avrei mai visto”, ha confessato negli Stati Uniti dove l’estate è attivo con camp e attività per ragazzi, assieme al fratello Tyler. “Quando ero piccolo non c’erano camp e opportunità nella nostra zona, dovevamo andare fuori o nell’area di Philadelphia, per questo abbiamo pensato di aiutare chi si trova nella nostra posizione”, ha spiegato.

Hines è arrivato a Milano nell’estate del 2020 e a Milano ha prolungato la sua striscia di partecipazioni alle Final Four.

Ma ormai è soprattutto una presenza. Nessun americano ha giocato tante Final Four o vinto tanti titoli quanti ne ha vinti lui.

L’ha fatto sempre con classe, stile, educazione, apprezzamento per quello che ha trovato in Europa. I giocatori americani, non solo i compagni di squadra, lo guardano come si guar-

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da ad una leggenda, solo che poi la leggenda va in campo e a quasi 36 anni di età continua a macinare gioco, vittorie, record.

Ha giocato oltre 300 partite in EuroLeague, ha segnato oltre 2.500 punti, ha catturato oltre 1.500 rimbalzi. Gli americani in EuroLeague arrivano tardi e finiscono di giocarci prima degli europei, per ovvie ragioni.

Per questo i numeri di Hines valgono davvero tanto. Essendo il prototipo del giocatore di squadra, però, la statistica che significa di più è quella dei titoli vinti e delle partite vinte. Nessun giocatore, americano od europeo, ha vinto più partite di lui in EuroLeague.

Il futuro? Non è detto che sia dietro l’angolo, anche se Hines – laurea in comunicazione, attivo con documentari, podcast e v-log – resterà nel basket in qualche modo, perché non potrebbe essere diversamente. “Il ritiro non può essere lontano, ne sono cosciente, ma mi piace ricordare Darryl Middleton, che è nello staff del CSKA Mosca, ha giocato fino a 44, 45 anni.

Lui mi diceva che la sua carrie-

Con Coach Ettore Messina

ra è davvero cominciata a 35 anni”, dice. “Se mi guardo alle spalle – conclude - non ho rimpianti, ho conosciuto l’Europa, ho giocato in EuroLeague, ho fatto tante esperienze, ho vinto tantissimo, ho giocato con grandi giocatori e per grandi allenatori, per alcuni dei club con più storia al mondo. Ho sempre avuto il sogno di giocare nella NBA, ma oggi sono quasi felice che non si sia avverato. Ho capito ad un certo punto che il mio vero sogno era un altro, ed era qui in Europa”.

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EUROLEAGUE

L’ANNO DEI

ROOKIE Molti debuttanti stanno giocando ad altissimo livello nella massima competizione europea. Tra questi spicca Devon Hall grazie soprattutto alla sua versatilità, in attacco e in difesa

Tra i primi 50 giocatori della passata EuroLeague per valutazione media ben 47 (il 94%) sono ancora presenti nella competizione. Uno dei tre assenti è Kevin Pangos, che gioca nella NBA, a Cleveland. Questo dato spiega eloquentemente quanto sia difficile debuttare in EuroLeague. Non è solo perché il livello tecnico è obiettivamente molto alto, lo sforzo mentale richiesto enorme (lo dice lo slogan stesso scelto per questa stagione: ogni partita conta) e la fisicità superiore persino a quella che

molti reduci hanno sperimentato nella NBA (l’ha detto Devon Hall, che nella NBA ha giocato poco, ma l’ha detto anche Troy Daniels che ci è rimasto sette anni). Il fatto è che i veterani hanno costruito un modo di giocare, di stare in campo, di comprendere gli equilibri che obbliga gli esordienti ad un lavoro di adattamento lungo e complicato. Questo spiega anche perché persino chi proviene dalla NBA, se non ha mai giocato in EuroLeague, spesso fatichi o non si adegui fino a quando non di-

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venta anch’esso un vero… giocatore di EuroLeague.

Quest’anno però ci sono numerosi debuttanti che stanno facendo cose importanti. Soprattutto è significativo il minutaggio, perché quando ogni partita conta – ma in realtà conta ogni possesso, perché a fine stagione la differenza canestri è spesso determinante e quella la costruisci anche nella serata di apertura, non solo alla fine -, appunto, nessun allenatore ti tiene in campo se non sei in grado di starci produttivamente.

Alcuni dei “rookies” che stanno giocando ad alto livello rappresentano storie particolari: John Brown gioca in Europa da sei anni e la passata stagione ha disputato la finale di Eurocup, a Kazan. Per lui si trattava sostanzialmente di adattarsi in fretta ad un livello più alto, ma in un contesto simile a quello di provenienza. Ma gli altri? Elie Okobo, guardia dell’ASVEL Villeurbanne, è un giocatore di scuola francese (Bordeaux e poi Pau Orthez) reduce da tre anni in America, dove ha anche giocato nella NBA (108 14

partite a Phoenix); Donta Hall, centro dell’AS Monaco, è un vero rookie per l’Europa, dopo due anni trascorsi in America giocando 25 partite NBA in tre squadre diverse; Oscar Da Silva è tedesco, ma ha giocato tre anni al college, a Stanford, prima di tornare a casa; Josh Nebo, ala-centro dello Zalgiris, ha giocato in Israele all’esordio fuori dagli Stati Uniti; Daryl Macon del Panathinaikos ha assaggiato la NBA a Miami, lo scorso anno è stato all’AEK Atene e al Galatasaray, una tappa intermedia. E poi c’è Devon Hall: da rookie, ha giocato a Oklahoma City ma soprattutto nella G-League, poi è stato a Cairns in Australia e a Bamberg in Germania.

Eppure, Devon Hall ha subito conquistato spazio in EuroLeague, dimostrando quanto fosse completo il suo repertorio offensivo, fatto di attacchi al ferro e tiri da tre. Quando l’Olimpia ha perso momentaneamente per infortunio Malcolm Delaney, Hall è stato spostato nella posizione di playmaker e ha risposto distribuendo sei assist

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Donta Hall aveva 25 partite di esperienza NBA prima di andare a Monaco

Oscar Da Silva dell’Alba ha giocato tre anni a Stanford in America

di media nelle prime due gare giocate nel nuovo ruolo. “La versatilità è il mio forte, è quella che forse nella NBA non è apprezzata tanto, perché quella è più una lega di specialisti, mentre qui è quello che tanti vogliono. Io devo essere me stesso e fare le cose che so fare. La versatilità è sempre stata la parte più evidente del mio gioco”, dice. Infatti, anche a Bamberg giocava in più ruoli diversi, e a Milano in difesa gli è capitato di difendere su tre tipi di giocatore differenti.

Tutti i giocatori menzionati sono tra i primi 50 di EuroLeague per minutaggio medio. Qualche volta le cifre sono condizionate dal valore della squadra e dei compagni. Ma Devon Hall ha trovato spazio in una squadra che sta lottando nelle parti alte della graduatoria. Okobo dell’Asvel (primo per valutazione) e Macon del Panathinaikos sono addirittura in corsa come capocannonieri dell’EuroLeague; Donta Hall e Josh Nebo sono tra i primi 10 rimbalzisti. Macon, Okobo e Devon Hall sono tra i migliori tiratori da tre. Questa 16

sembra un’inversione di tendenza: l’EuroLeague è ancora più “friendly” nei confronti dei giocatori esperti, dei veterani, ma qualche volta dipende soprattutto dalla tipologia di giocatore.

Devon Hall ha la taglia fisica, l’atletismo e la tecnica per giocare in più ruoli. “Essere in grado di difendere su tanti giocatori di ruoli differenti e in attacco di giocare in posizioni differenti, credo ti dia un vantaggio, perché essenzialmente puoi stare in campo praticamente in ogni momento”, ha detto Hall. E questa è un’altra chiave, perché c’è sempre un lavoro che può svolgere e serve in quel preciso momento. Ma c’è anche un altro aspetto che non manca di sottolineare e può spiegare tante cose: “In America i giocatori sono un po’ più dotati di qualità tecniche, ma qui la durezza, la grinta che hanno, la fisicità del gioco è completamente differente. E c’è maggiore attenzione all’aspetto collettivo, che mi piace, così devi imparare a seguire il flusso del gioco e leggere le situazioni”, dice.

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Per John Brown (Unics) l’EuroLeague è il coronamento di una carriera in crescita

Elie Okobo ha giocato a Phoenix, ora lotta per il titolo di capocannoniere

olimpia

NUMBERS

GIGI DATOME IL BOMBER ITALIANO

Superando i 2.163 punti di Gianluca Basile, Gigi è diventato il primo scorer tricolore nella storia dell’EuroLeague.

Perché è un traguardo più importante di quanto si pensi Gianluca Basile ha segnato 2.163 punti nella sua carriera in EuroLeague giocando per quattro squadre differenti, Fortitudo Bologna, Barcellona, Cantù e infine l’ultimo anno a Milano, nella stagione 2012/13. Gigi Datome l’ha superato nel mese di novembre, nella gara contro l’Olympiacos, diventando il nuovo recordman italiano per punti segnati nella massima competizione continentale. Il suo primo canestro lo segnò il 24 febbraio 2005 quando aveva 17 anni e giocava a Siena. L’avversario era il Cibona Zagabria. La sua squadra vinse 90-62.

In carriera, Datome ha segnato 71 18

punti con Siena, 205 con Roma, poi 1.538 al Fenerbahce, mentre viaggia verso i 400 in maglia Olimpia. Analizzando le cifre dei primi due cannonieri italiani emerge che la media punti è simile, 9.7 per gara Basile, 8.6 Datome. Basile era più giocatore di volume, Datome più di precisione. Ad esempio, nel tiro da tre Datome ha il 44% abbondante in carriera: tra chi ha segnato almeno 300 triple (lui è il 17° di sempre al momento), solo Petteri Koponen è stato più preciso in carriera. Dalla lunetta, Datome ha il 91% in carriera (quinto di sempre tra chi abbia realizzato almeno 200 tiri liberi), Basile l’81% ed era un giocatore che si

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Massimo Bulleri.

guadagnava un cospicuo numero di viaggi.

C’è un altro aspetto che li unisce: sono due giocatori italiani che hanno vinto il titolo europeo con una squadra straniera. Basile nel 2010 ha vinto l’EuroLeague con il Barcellona, Datome nel 2017 l’ha vinta con il Fenerbahce. Se consideriamo i primi sei italiani della classifica marcatori, cinque hanno vinto l’EuroLeague all’estero (Gregor Fucka e Denis Marconato al Barcellona nel 2003; Daniel Hackett al CSKA nel 2019) e il sesto è Nicolò Melli che non l’ha vinta ma ha giocato due Final Four e una finale. Il pedigree dei soggetti rende il record di Datome più significativo di quanto possa sembrare. Il settino per la cronaca è 20

Gigi in questa stagione era già diventato il primo italiano per presenze, il primo a raggiungere e poi superare quota 250. E’ stato il 26° giocatore in assoluto a raggiungere questa soglia. E’ vero che in assoluto i giocatori “antichi” sono penalizzati perché la vecchia Coppa dei Campioni aveva pochissime gare confrontandola con la realtà odierna, ma se parliamo di EuroLeague parliamo comunque di una storia lunga 20 anni. Non c’è dubbio che i record abbiano un valore. Lo stesso Gigi ha speso due anni in cui avrebbe potuto ingrossare il volume delle proprie cifre giocando nella NBA. Anche questo aspetto è importante

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Non è una partita come tutte le za perché oltre alla posta in pa una rivalità lunga oltre 50 anni, vinse il titolo europeo elimina nella finale di Madrid, i castiglia La partita è come sempre da circoletto rosso. Quando a Milano arriva il Real Madrid, come succederà il 16 dicembre, non è mai solo una questione di classifica o di importanza della posta in palio, è soprattutto una questione di prestigio.

Olimpia e Real Madrid si sono incrociate spesso e la loro è una storia che affonda le radici oltre 50 anni fa. Il Real Madrid ha vinto la sua prima Coppa dei Campioni nel 1964 battendo in finale lo Spartak Brno dopo aver perso la finale in due anni consecutivi. Ma in quella stagione arrivò in finale eliminando proprio il Simmenthal. Non fu una sorpresa: le squadre italiane in quelle stagioni giocavano senza stranieri e partivano con un handicap. Il Real Madrid giocò quattro finali in cinque anni, ma venne eliminato nel 1966 proprio dall’Olimpia. L’impresa fu possibile perché nel 1965, la Federazione aprì di nuovo ad uno straniero per il 22

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e altre, è la partita per eccellenalio e al prestigio si porta dietro fin dal 1964. Nel 1966 l’Olimpia ando il Real Madrid. Nel 1967, ani risposero. E non è finita… campionato e due per le coppe e l’Olimpia rispose con due stelle, Skip Thoren e Bill Bradley. Il primo era un centro da Illinois che fu incluso nel primo quintetto di All-America: ai tempi odierni sarebbe andato dritto nella NBA, ma quella era un’epoca differente, con poche squadre e pochissimi posti. Il suo primo anno da professionista, Thoren lo spese a Milano. Bradley era una prima scelta assoluta, dei Knicks, disponibile solo perché in quel periodo studiava a Oxford.

L’Olimpia eliminò il Real Madrid nell’equivalente dei quarti di finale: a Madrid, il grande Emiliano Rodriguez segnò 20 punti e il Real s’impose 71-66, ma nel retour-match del Palalido il Simmenthal giocò una partita prodigiosa, vinse 93-76 con 40 punti di Gabriele Vianello e 27 di Bill Bradley. Così si qualificò per le Final Four dove sconfisse il CSKA Mosca e REDSHOESMAGAZINE

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Malcolm Delaney nella vittoria sul Real di un anno fa a Madrid

poi nella storica finale di Bologna lo Slavia Praga. La stagione successiva Real Madrid e Olimpia Milano si affrontarono di nuovo in finale, ma in gara unica a Madrid, il Real si riprese lo scettro 91-83 (29 punti di Emiliano; Red Robbins, che era uno dei due americani, l’altro era Steve Chubin, segnò 32 punti in finale). Nel 1984 le due squadre si affrontarono nella finale di Coppa delle Coppe a Ostenda, 81-80 per il Real Madrid. Decisivo Brian Jackson, un biondo tiratore che avrebbe giocato anche a Venezia, dalla lunetta. L’Olimpia quell’anno fu vittima della fuga di Earl Cureton: l’americano venne sostituito in Italia da Antoine Carr, ma i correttivi in coppa non erano ammessi.

Così perse quella finale giocando con una squadra italiana più Mike D’Antoni.

I NUMERI - In competizioni europee Olimpia Milano e Real Madrid si sono 24

incontrate 34 volte, con un bilancio di 23-11 per il Real Madrid che aveva una striscia di 14 successi consecutivi prima di cadere a Milano nel girone di andata della stagione 2020/21, 78-70 con 25 punti di Sergio Rodriguez e 17 di Shavon Shields. 17 volte questa gara si è giocata a Madrid e il bilancio è 15-2 per gli spagnoli. La prima vittoria milanese a Madrid risale all’Uleb Cup 2003/04. Finì 62-61 (11 Lonnie Cooper e Claudio Coldebella; Antonis Fotsis ne fece 19 per il Real che poi perse la finale contro l’Hapoel Gerusalemme). L’Olimpia era guidata da Attilio Caja. La seconda vittoria, la prima nella massima competizione europea a Madrid, risale alla passata stagione, 80-76, con 17 punti di Sergio Rodriguez e 14 di Malcolm Delaney. 15 volte si è giocato a Milano (9-7 Olimpia).

Una volta in campo neutro (Ostenda, appunto, 0-1).

LA REAL MADRID CONNECTION Sergio Rodriguez ha giocato nel Real Madrid sei stagioni, di rientro dalla NBA e prima di passare a Philadelphia per una stagione (successivamente ha giocato due anni a Mosca e poi è venuto a Milano). In queste sei stagioni ha vinto l’EuroLeague nel 2015, è stato MVP della competizione nel 2014, ha vinto tre volte il titolo spagnolo, quattro volte la Coppa del Re, tre volte la Supercoppa spagnola. Due volte ha vinto la classifica degli assist nel campionato spagnolo. Nel 2018/19, con il CSKA Mosca, ha battuto il Real Madrid in semifinale sulla strada del suo secondo titolo europeo.

Ettore Messina ha allenato il Real Madrid per due anni con un record di 2313 in EuroLeague. Tra i suoi giocatori in quel periodo ha avuto Sergio Llull, oltre allo stesso Sergio Rodriguez.

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TROY DANIELS

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M A G O R SAND

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MBA

OLIMPIA BIG PLAYERS - 7 Nel 2022 compirà 90 anni. Nessuno ha vinto quanto lui vestendo la maglia numero 8 dell’Olimpia. E la sua carriera di allenatore ha addirittura superato quella di giocatore Il 25 aprile 1945, il giorno della liberazione, Sandro Gamba era un bambino, vivace, che amava il ciclismo perché era lo sport del fratello, avrebbe tifato per Fausto Coppi e su una bici Rossignoli regalatagli del padre si sentiva il padrone del mondo, pronto a scalare il Tourmalet, l’Alpe d’Huez e il Mortirolo.

Ma sarebbe andata diversamente e tutto sarebbe cominciato proprio il 25 aprile 1945.

Tutti hanno una storia legata al 25 aprile 1945, o a uno di quei giorni in cui in Italia è stata fatta la storia. Ma poche storie possono essere belle, struggenti, emblematiche, come quella di Sandro Gamba.

Il futuro leone di via Washington era in strada quel giorno perché i bambini vivevano così, allora, per strada, e poi la guerra stava per finire e c’era voglia di divertirsi. Ma nel caos totale quelli che il piccolo Sandro sentì esplodere nell’aria erano colpi di mitra.

Il piombo vagava dappertutto. Una raffica lo colpì alla mano destra quasi portandogliela via. Sarebbero serviti due anni per rimetterla a posto, ma “quell’episodio mi cambiò la vita”.

C’erano gli americani, lo convinsero a praticare il loro sport perché sarebbe servito per rieducare la mano offesa. “Palleggia con questa palla, colpiscila dolcemente, poi sempre più forte, tirale degli schiaffoni”, gli spiegarono. Gamba cominciò a palleggiare e non smise più.

L’Olimpia giocava proprio in via Washington 33, all’epoca. Era un altro segno del destino.

Gamba non sarebbe mai diventato un giocatore di classe, ma un combattente sì: “Una

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volta Meneghin mi disse che apprezzava il fatto che io le cose le ho sempre dette in faccia senza giri di parole. Non avevo paura di niente. La vita mi aveva insegnato a non avere paura di niente”, racconta.

Gamba sarebbe arrivato all’Olimpia giovanissimo, migliorando tanto e in fretta. Era un giocatore di perimetro, grande fisico, durissimo, grande difensore, durissimo, un uomo squadra. Sì, va detto ancora, durissimo.

Avrebbe vinto 10 scudetti, i primi da comprimario, poi da protagonista di una formazione terrificante, nella quale i deputati a fare canestro erano altri. Romeo Romanutti, tiratore arrivato da Trieste ma nato in Croazia, e Sergio Stefanini, il primo centro moderno secondi i testimoni, proveniente da Venezia e mezzo brasiliano, soprattutto. “Ero una guardia, un po’ anche playmaker – ricorda Gamba – ma non segnavo tanto, il mio massimo forse è stato 12 punti, ma ero tenace”.

All’Olimpia, Gamba ha giocato più stagioni di qualsiasi altro giocatore, 15, 247 partite in Serie A, un numero enorme considerata l’epoca, quando 22 potevano bastare per decidere uno scudetto, non c’erano i playoff, 1.083 punti segnati. Il resto a quei tempi

non lo contavano. Gamba era un giocatore part-time come tutti a quei tempi. Il premio scudetto era un abito di sartoria che Adolfo Bogoncelli preparava su misura per i suoi giocatori. Il trattamento di cui godevano però era di prima classe. Il Borletti/Simmenthal aveva le tute di raso e le maglie rosse acquistate negli Stati Uniti. I migliori giocatori italiani prima o poi arrivavano sempre a Milano e Cesare Rubini aveva creato una cultura vincente. “Ci aspettavamo di vincere, la sconfitta doveva essere un fatto inatteso.

Quando vincevamo di poco andavamo via arrabbiati, proprio come i nostri avversari”, racconta.

L’Olimpia è stata il grande amore di Sandro Gamba, assieme alla Nazionale. Sperava di partecipare alle Olimpiadi del 1952 quando era giovane, ma non fu possibile. Nel 1956 a Melbourne, la Federazione decise di rinunciare perché erano Olimpiadi programmate d’inverno, durante il campionato, e nel 1960 temeva di aver perso il treno, perché aveva 28 anni e a quei tempi era considerato superato. Invece, il coach Nello Paratore si affidò ancora ad un gruppo di veterani. L’Italia a sorpresa arrivò quarta, eliminata in semifinale dagli Stati Uniti, ma dopo una grande resistenza, e nella finale per il bronzo fu superata dal Brasile. In quei giorni, la Nasa lo incluse nell’elenco degli atleti con le caratteristiche fisiche ideali per entrrare nel programma aerospaziale che avrebbe portato Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins sulla Luna nove anni dopo. Gamba rifiutò la proposta.

Ma dentro la testa, da qualche parte nel suo cervello, lo rimpiange ancora oggi.

Sandro Gamba e Dan Peterson, in una foto la storia dell’Olimpia

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Nel 1961, diventò

Capitano dell’Olimpia, traghettando il club tra la generazione di Romanutti, Stefanini e Pagani a quella successiva, di Gianfranco Pieri e Sandro Riminucci.

Nel 1963, smise di giocare a 31 anni, e diventò allenatore. Il Simmenthal, sempre avanti sui tempi, fece di lui il primo vero assistente nella storia del basket italiano.

Rubini era un moDa giocatore, Sandro Gamba ha vinto 10 scudetti, tutti con l’Olimpia tivatore, un uomo carismatico, gestiva Robbins, Arthur Kenney e in Italia elementi media, pubblico, arbitri, avversari e giocatoche l’Olimpia, non ritenendoli adatti alle prori. Ma gli schemi, le strategie, le scelte degli prie necessità, distribuiva ad altre squadre, uomini appartenevano a Gamba. Rubini era come Doug Moe a Padova, Joe Isaac alla carisma, fascino, provocazione, gestione.

Pallacanestro Milano e Bob Lienhard addiGamba era lavoro, sudore, lacrime. Rubini rittura a Cantù. era intelligenza naturale, costruita sul marciapiede. Gamba era uno studioso. Insieme Probabilmente, l’unico momento brutto della avrebbero conquistato l’Italia e l’Europa con sua esperienza all’Olimpia è legato al divorl’Olimpia, poi anche in Nazionale si sarebbezio. Aveva avuto rassicurazioni che sarebbe ro ripetuti ma prima Gamba sarebbe stato il subentrato a Cesare Rubini se Milano avesgrande artefice della seconda metà dell’epose vinto lo scudetto del 1972. Lo vinse, ma pea varesina. non successe nulla. Nel 1973, il terzo spaQuando decise di ritirarsi come giocatore, Gamba non sapeva che l’offerta di allenare accanto a Cesare Rubini avrebbe avviato una carriera che l’avrebbe spedito nella storia, membro della Hall of Fame di Springfield.

Quando Adolfo Bogoncelli gli propose di allenare, la sua unica richiesta fu quella di potersi recare due volte all’anno negli Stati Uniti per aggiornamento. Ancora oggi considera quello l’elemento chiave della sua storia di allenatore, perché gli ha permesso – quando nessuno lo faceva – di aggiornarsi direttamente alla fonte, di studiare e al tempo stesso di scovare, vedendoli direttamente, gli americani migliori. Così ha portato a Milano tra gli altri Skip Thoren, Steve Chubin, Red

reggio consecutivo con Varese, fu doloroso, avrebbe alimentato rimpianti eterni anche nei giocatori, ma ancora nulla.

In quel momento, la sua reputazione aveva superato di gran lunga il suo ruolo. Aveva offerte da numerose squadre, ma soprattutto di Varese, i rivali storici, che stavano per salutare Asa Nikolic. Fu un salto del fossato epocale. A Varese, Gamba avrebbe vinto due volte il titolo europeo scrivendo pagine leggendarie. Dopo, ha allenato portandola in alto l’Auxilium Torino (in seguito anche alla Virtus Bologna per due anni), ma la terza carriera l’ha vissuta in Nazionale dove ha ottenuti i risultati più grandi.

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