Renzo Mongiardino. Architettura da camera - rassegna stampa

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Architettura da camera

di Renzo Mongiardino RASSEGNA STAMPA


«Icon» • 1 settembre 2016


«Alias», supplemento domenicale de «Il Manifesto» • 9 ottobre 2016


«Abitare» • 1 dicembre 2016

Casa Heinz era un ex garage-scuderia di Londra. Mongiardino nel 1986 vi creò questo suggestivo salone facendo affrescare le pareti a Irene Groudinsky. Heinz House in London used to be a garage and stable. In 1986 Mongiardino turned them into this atmospheric salon with walls frescoed by Irene Groudinsky.

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Stanze visionarie Visionary Rooms

Eclettico, colto e teatrale. Renzo Mongiardino ha dato origine a uno stile leggendario, amato soprattutto dal mondo anglosassone. A Milano una mostra celebra il suo centenario Eclectic, cultured and theatrical. Renzo Mongiardino created a legendary style, which was popular above all in the Anglo-Saxon world. An exhibition in Milan celebrates his centenary TXT_ELENA FRANZOIA PHOTOS_MASSIMO LISTRI

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In queste pagine, alcuni ambienti del castello di Wideville a Crespières, Francia, realizzati per il miliardario americano Jack Setton negli anni Ottanta. Nel tondo, Renzo Mongiardino. On these pages, some settings in the Château de Wideville at Crespières, France, created for the American billionaire Jack Setton in the 1980s. In the tondo, Renzo Mongiardino.

“Il caso Mongiardino”. Così, già durante gli studi al Politecnico di Milano, Ernesto Nathan Rogers deiniva il compagno di stanza Renzo Mongiardino, rilevandone la predilezione per quelle atmosfere di gusto francese in cui sopravvivevano, nonostante l’allora imperante razionalismo, gusto antiquario e decorativismo. E sarà proprio la capacità di progettare nell’eterno presente di una storia dell’arte rivista dall’occhio del grande scenografo la cifra vincente della lunga carriera e delle prestigiose committenze dell’interior designer genovese, celebrato in occasione del centenario della nascita dalla mostra al Castello Sforzesco di Milano Omaggio a Renzo Mongiardino 1916-1988 (curata da Tommaso Tovaglieri con la consulenza di Francesca Simone, nipote dell’architetto, e allestita da Michele De Lucchi, ino all’11 dicembre). «Si tratta di un architetto snobbato dalla critica e frettolosamente bollato come progettista del jet-set degli anni Ottanta», afferma Tovaglieri. «In realtà Mongiardino ebbe un percorso iniziale simile per esempio a quello di Albini, con tanto di laurea in architettura nel 1942 con Gio Ponti, per poi dedicarsi interamente alla scenograia lirica e agli interni». Soprattutto dopo l’acclamatissima Tosca al Covent Garden di Londra, che nel 1964 segnò il trionfo di Franco Zefirelli e Maria Callas, Mongiardino diventò l’architetto italiano più richiesto nel mondo europeo e americano da magnati e collezionisti come gli Onassis, i Rothschild, i Thyssen. La sua poetica è ravvisabile 112

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“The Mongiardino case”. This is how Ernesto Nathan Rogers described his room-mate Renzo Mongiardino during their student days at Milan Polytechnic, his way of referring to the latter’s love of French atmosphere and taste for antiques and exuberant decoration, one he managed to cultivate even at a time when Rationalism held sway. And it was the interior designer’s ability to see art history through the eyes of a great set designer and create timeless designs that would be the secret of the success during his long career with its many commissions. The centenary of his birth is now being marked in an exhibition entitled Omaggio a Renzo Mongiardino 1916-1988 (curated by Tommaso Tovaglieri with consultancy from his grand-daughter Francesca Simone and designs by Michele De Lucchi, until 11 December) in Milan’s Sforza Castle. As Tovaglieri states: “Critics turned their backs on him, dismissively labeling him as the designer of the 1980s jet set. [But] In actual fact Mongiardino started out much in the same way as Albini, graduating in architecture in 1942 under the supervision of Gio Ponti, and then going on to put all his energies into set design for operatic performances as well as interiors.” Mongiardino became the Italian architect whose services were enlisted by the big tycoons and collectors in Europe and America, such as the Onassis, the Rothschilds, and the Thyssens – especially in the wake of the highly acclaimed 1964 production of Tosca at London’s Covent Garden – a moment of triumph for Franco Zeffirelli and Maria Callas. His poetics are evident in the book Architettura da Camera, which has been republished to


non solo nel volume Architettura da camera, riedito in occasione della mostra, ma anche nelle oltre cento scatole di materiali del fondo donato dalla iglia alla Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli di Milano. Date però le rapide oscillazioni delle mode e del gusto, non molto rimane dei suoi interni colti e visionari che rivelavano il fondamentale inlusso della scenografa viscontiana Lila De Nobili, e in cui squisiti pezzi di antiquariato si alternavano a citazioni realizzate da rafinate maestranze artigiane, mentre strutture durevoli convivevano con fragili e deperibili apparati scenograici costruiti con materiali poveri. Accade così che siano stati completamente smantellati gli interventi realizzati nel 1983-84 per il miliardario americano Jack Setton nel Castello di Wideville a Crespières, in cui particolarmente signiicativa della personale indagine di Mongiardino sul passato era la sala-studio. Qui la riscoperta della straordinaria tradizione delle tarsie lignee rinascimentali rendeva omaggio non solo ai capolavori di fra’ Giovanni da Verona, ma anche alle nature morte con strumenti musicali del pittore bergamasco seicentesco Evaristo Baschenis. Citazioni di mosaici bizantini ravennati, ma anche suggestioni del Secessionismo Viennese, caratterizzavano la sala da bagno. Di Casa Heinz, realizzata nel 1986 a Londra, si sono salvati purtroppo i soli affreschi. Mongiardino aveva trasformato per l’editrice e mecenate americana Drue Heinz un garage-scuderia in una vasta sala, afidando a Irene Groudinsky il compito di decorare le pareti con trompe-l’oeil bucolici ispirati alle opere di Ciro Ferri per la seicentesca Villa Falconieri di Frascati. Un affascinante e antico paesaggio iorito in un ex anonimo interno.

coincide with the exhibition, and in over 100 boxes of materials from the fund bequeathed by his daughter to the Achille Bertarelli Civic Collection of Prints in Milan. But because fashions and tastes come and go so quickly, little remains of his cultivated and visionary interiors, designs that revealed the fundamental influence of Visconti’s set designer Lila De Nobili, in whose creations exquisite antiques were to be found alongside works elegantly fashioned by master craftsmen, and where lasting structures were juxtaposed with fragile, temporary scenery made from low-grade materials. And so it was that everything that was built in 1983-84 for American billionaire Jack Setton’s Wideville Castle in Crespières, where Mongiardino had lavished particular attention on the study, was subsequently dismantled. Here he rediscovered the remarkable Renaissance tradition of wood inlaywork, paying tribute not only to the masterpieces of Fra’ Giovanni da Verona, but also to the still lives with musical instruments of the 17th-century Bergamo painter Evaristo Baschenis. In the bathrooms there were references to the Byzantine mosaics of Ravenna, and to the Vienna Secession. Frescoes are all that remain of the Heinz House in London, designed in 1986. Mongiardino had turned a garage-cum-stable into a huge room for American publisher and benefactor Drue Heinz, commissioning Irene Groudinsky to decorate the walls with bucolic trompe-l’oeil designs inspired by Ciro Ferri’s works for the 17th-century Villa Falconieri in Frascati. It was a delightful old-world landscape recreated in an otherwise anonymous interior

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«Amadeus» • 1 dicembre 2016

Renzo Mongiardino

PARTITURE d’architetto Stanze private, dimore antiche e moderne, il cinema, il teatro. E l'opera lirica. Una mostra omaggio a Milano nel centenario della nascita rievoca una irripetibile figura di scenografo di Giovanni Gavazzeni

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utte le cose della nostra vita avvengono dentro l’ambiente che ci circonda, quindi dentro un’architettura». Renzo Mongiardino (1916-98), genovese trapiantato a Milano, aveva la capacità di vedere il creato come architettura. «Anche quando siamo in mezzo a un bosco, il bosco è la nostra architettura, la luce che passa fra gli alberi è la stessa che illuminava il lampadario della mia infanzia, e noi non facciamo altro che imitare, rifare, ricreare quello che la Natura e la Storia ci offrono». Nel palazzo avito di Albaro (Genova), Mongiardino imparò a conoscere le ore segrete nelle quali una stanza si mostra in tutta la sua bellezza, fino ad ascoltarne la voce quando si trattava di pensare alla soluzione più adatta alla sua trasformazione. Una sensibilità scaturita dalla necessità di confrontarsi con la ricostruzione postbellica nell’Italia devastata dalla seconda guerra mondiale. Questo spinse Mongiardino a concepire una convivenza fra passato e presente, respingendo una visione caricaturale dell’antico, armonizzato in una “partitura architettonica”. «L’antico tra virgolette mi disturba più che la sua assenza; se non si è in grado di comprendere – o peggio, se non si vuole comprendere – la struttura logica che regola l’impiego degli ordini, è meglio evitarli. Perfino il Borromini, che il rigorismo neoclassico additava come il peggior nemico dei buoni principii, se lo si osserva attentamente lo si vede rispettare sempre quelle regole basilari, come l’appiombo delle lesene o come gli aggetti dei timpani e delle cornici, che costituiscono l’impianto strutturale di qualsiasi partitura architettonica». Un atteggiamento che divenne divisa di vita e di pensiero: «ritrovare il senso delle cose vicine per tornare amici di ciò che esiste. Qualsiasi cosa può essere reimpiegata come un tempo, a condizione che, nell’accostarla, si proceda con cautela, con applicazione, con intelligenza; in una parola: con amore. Soltanto così sarà possibile liberarsi di quei

complessi nei confronti dell’antico che sono all’origine dell’atteggiamento ironico proprio del post-modern; atteggiamento sterile che non può portare a nulla». Ovviamente una scelta così personale spinse l’architetto genovese a solcare emisferi artistici speciali: con la fantasia frequentò la scenografia teatrale e cinematografica, e in parallelo creò un suo mondo speciale, verosimile impasto di sapienza antica ed esigenze di vita moderna, definito perfettamente dal titolo del suo prezioso libro, Architettura da camera, tra breviario estetico, summa artigiana e memoria di lavoro (ristampato in occasione del centenario della nascita da Officina Libraria, in una nuova edizione a cura di Francesca Simone). Si capisce la congiura del silenzio davanti a un atteggiamento profondamente colto e personale verso la storia dell’arte in epoche, come il dopoguerra, gli anni del boom, il ’68 e seguente decennio plumbeo, dove gli slogan ideologici rimbalzavano sulla carta e nei disegni, mentre la ricostruzione del Belpaese spesso era la declinazione del verbo mettere le mani sulle città. A questo si aggiunga il fastidio di stampo tartufesco davanti alla fila di committenti hors catégorie che si rivolgevano all’Architetto Mongiardino, magnati in fuga e arbitri d’eleganza, tutti villeggianti in residenza nel cosmo “surrealneobarocco” di questo Efesto moderno – come abbiamo definito, preannunciando questo approfondimento, l’artista e i suoi committenti – nella passata rubrica “Cronaca Minima”, presentando la mostra di 300 studi architettonici e scenografici curata da Tommaso Tovaglieri, con la consulenza di Francesca Simone, nipote di Mongiardino che a Milano il Castello Sforzesco ospita nella Sala del Tesoro sino all’11 dicembre. La passione verso l’architettura da camera, il ripristino di manieri e la creazione di appartamenti incantati, le sfide virtuosistiche come la ristrutturazione di spazi minimi (la “fetta di polenta” di Antonelli a Torino) o la trasformazione di una galleria cieca in festosa sala fulcro-abitativo sono operazioni che condividono un sentimento comune: «la Amadeus 53


convinzione che le cose del passato, se amate, possono continuare a vivere di vita propria e in questo contribuire a rendere il mondo contemporaneo, se non migliore, in qualche modo meno ostile». In questo senso il lavoro di scenografo per il teatro d’opera e (poi per il cinema) germina dalla stessa pianta nel periodo post bellico. Il primo impegno teatrale di Mongiardino nel reame melodrammatico si compie nella città natale, Genova. Fra le rovine del vecchio Carlo Felice, una Sovrintendente di ferro, Celeste Gandolfi vedova Lanfranco, organizza stagioni eroiche, dove affida a giovani di genio, come Franco Zeffirelli, la messa in scena di opere di repertorio. Mongiardino debutta con il Don Pasquale di Donizetti (con costumi di risulta presi dalle sartorie teatrali superstiti). All’estremo capolavoro dell’opera comica donizettiana, Mongiardino tornerà quasi vent’anni più tardi, per la Staatsoper di Amburgo,

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ignorando l’invito del Sovrintendente Rolf Liebermann a ideare scene “leggere”. Per il fortunato spettacolo di Gian Carlo Menotti, Mongiardino si vide un grande cortile di palazzo napoletano, e scene tutte “costruite” che approfittavano del palcoscenico mobile per cambi di scena rapidi (anche se occorsero sei camion per portare le scene “leggere”). Gli artisti che lavoravano nel cantiere del Carlo Felice erano pronti per farsi largo alla Piccola Scala (Zeffirelli ne sarà per anni quasi il protagonista assoluto per le deliziose “operine” settecentesche e le farse romantiche). Non è raro che “quelli” della Scala (il direttore artistico Francesco Siciliani e il segretario generale Luigi Oldani) tenessero presente quanto la Lanfranco faceva a Genova e così anche Mongiardino passò il battesimo scaligero nel 1962 con L’occasione fa il ladro di Rossini. In via Filodrammatici Mongiardino si presentò insieme ad altri sodali destinati a luminose carriere: Beppe Menegatti

curava la regia («era una casa napoletana dell’alta aristocrazia, dove le persone hanno arredato l’atrio d’ingresso, la scena era a metà strada fra il decorato e il realistico»), un giovane Jean-Marie Simon firma i costumi e sul palcoscenico si imponeva Fiorenza Cossotto, già allieva della Scuola dei Cadetti scaligeri, destinata a breve a diventare il mezzo soprano italiano di riferimento, raccogliendo il testimone abbandonato da Giulietta Simionato Pochi anni dopo, nel ’64, Zeffirelli lo coinvolge nella rentrée vocalmente drammatica di Maria Callas in Tosca al Covent Garden. La voce è ormai un commovente tempo remoto (vissi d’arte); l’attrice disperatamente formidabile. Mongiardino cambia il terzo atto: non il solito spalto visto dall’alto, ma uno scorcio sfuggente di Castel Sant’Angelo, chiuso da un lungo muraglione, dal quale sale la scaletta che Tosca impiega per lanciarsi nel vuoto. La Callas miope e semiceca, conta meticolosa i gradini, considera attentamente i punti dove cantare, e si suicida, come ricorda Mongiardino fa parte di una specie rara di artisti nati dalla lezione colta e antiquaria di Visconti, non a caso ammira e lavora con la già leggendaria, Lila De Nobili. La sua personalità nella ricostruzione in studio della Padova shakespeariana nella spumeggiante versione della Bisbetica domata che Zeffirelli costruisce attorno ai due mostri sacri (e co-produttori) Elisabeth Taylor e Richard Burton, è determinante al pari dei costumi di Danilo Donati. Nel dare forma alla città veneta tardo-rinascimentale non prescinde da una microscopica sensibilità coloristica. Per un fondo che non lo convince pensa a un colore gialloverdognolo. Gli viene in mente di mandare un collaboratore nella corte di un pollaio a prendere il campione del verde giusto: cacca d’oca. L’importante è non fare qualcosa alla “Carpegna”, vale a dire qualcosa di non riuscito, secondo la definizione presa a prestito dall’errore di un assistente americano che tra Carpaccio


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e Mantegna, disse Carpegna. Un altro ammiratore delle qualità di Mongiardino è Gian Carlo Menotti che lo vuole al Festival dei Due Mondi di Spoleto per la ripresa moderna, nel ’67, del Furioso all’isola di San Domingo di Donizetti (Menotti aveva pensato a Lila De Nobili, che impegnata con il grande film di Richardson, I Seicento di Balaclava, indica l’amico, altro segno della stima reciproca fra i due artisti). L’architetto a Milano e il regista in America, realizzano uno spettacolo raffinatissimo ispirato alla vegetazione di maestose piante esotiche, come si vedono nei jardins des plantes francesi. Ancora Menotti coinvolge nel ‘72 Mongiardino per La traviata alla Fenice, con l’astro direttoriale del suo protetto Thomas Schippers. La stella dello spettacolo è la diva del belcanto made in usa, Beverly Sills. La belcantista arriva tardi, rimane scioccata e rifiuta tutto quanto la circonda, a partire dal salone di Violetta in cui campeggiano grandi tele, odalische e nudi che alludono spiccatamente alla professione di demimondaine della Traviata. Nello stesso anno per l’apertura della Scala con Un ballo in maschera di Verdi, Mongiardino realizza scene di straordinario impatto teatrale, a partire dalla plasticità lignea degli ambienti. Resterà indelebile l’impressione del passaggio a vista nel terzo atto dallo studio di Riccardo allo scoppio della festa, con

l’improvvisa comparsa di gigantesche polene rotanti che richiamavano l’ambiente marino (e i prediletti omenoni di Leone Leoni), mentre le maschere e la morte danzano in domino nel ventre di un galeone. Il saluto di Mongiardino al teatro d’opera avviene con un Onegin a Spoleto di rara e malinconica eleganza. Sono passati venticinque anni dal Ballo scaligero, ma non si è attenuato il rammarico di quanti consideravano di aver “perso” nel frattempo uno dei maggiori scenografi del tempo (panorama già orbato dal ritiro della De Nobili, dopo la leggendaria Manon Lescaut di Spoleto con Visconti nel ’73). Il “gusto” teatrale passava con naturalezza nel privato delle alcove: stanze di collezionisti, ispirate a un ventaglio

ottocentesco o a un orologio col quadrante in porcellana di Sèvres, a un tappeto pregiato o ai mosaici di Sant’Apollinare, a stoffe indiane e turcherie, idee che poi vengono vulgate da innumerevoli imitatori. La retina di Mongiardino mantiene l’impressione di tutto quanto ha visto: i bianchi smaltati, gli azzurri, i turchesi pallidi, i rosati, gli ori, soprattutto ama gli inganni sublimi che imitano marmi e legni antichi, come lo studiolo capolavoro del Castello di Wideville con le tarsie dipinte a imitazione di quelle di Giovanni da Verona e nature morte di strumenti musicali alla Evaristo Baschenis. Accanto a lui lavorano collaboratori e assistenti dalla sapienza sciamanica, come Rostislav Doboujinskij, «il più abile inventore d’inganni: ali di libellula, crosta di pane, teste di animali per il teatro, maschere leggere come piuma e vere come il ritratto più somigliante di un topo, di un cane, di un maiale, di tutti gli animali dell’arca; finti cuoi, lampadari di seta e misteriosi materiali trasparenti, ogni inganno nelle sue mani diventa vero. È necessaria la curiosità, la lente, il tatto per capire di cosa è fatto un oggetto e come sia stata manipolata la materia per raggiungere la perfezione». Per capire Mongiardino basta forse condividere l’aspirazione a una perfezione che sa di non essere perfezione. Una tensione riassunta nelle quattro virtù di una massima del duca Gaston de Lévis: l’immaginazione dipinge, lo spirito compara, il gusto sceglie, il talento esegue.

In apertura, Renzo Mongiardino nel 1989 in un laboratorio di falegnameria milanese durante le prove di montaggio dello studiolo-biblioteca di Casa Sharp a New York; nelle pagine precedenti, Mongiardino scenografo: bozzetto per Il Furioso all’isola di San Domingo di Donizetti (Festival dei due Mondi, 1967); due foto di scena del Ballo in maschera (Teatro alla Scala, 1972) e uno studio per La traviata (Teatro La Fenice, 1972); qui, l'architetto: schizzo per "la città ideale". Il Fondo Mongiardino è conservato presso la Civica Raccolta delle Stampe "Achille Bertarelli” di Milano

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«Il Venerdì», supplemento settimanale de «La Repubblica» • 2 dicembre 2016

cinemateatromusicadanzatelevisio

I IN 138 CANZONI I

MUSICA PER CAMALEONTI

COM’È CONTEMPORA IL PASSATO DI FOSSA

GIOVANNI GAVAZZENI

L’architettura surreale di Mongiardino è armonia per gli occhi utte le cose della nostra vita avvengono dentro l’ambiente che ci circonda, quindi dentro un’architettura». Renzo Mongiardino (1916-’98), genovese trapiantato a Milano, aveva la capacità di vedere il creato come architettura. «Anche quando siamo in mezzo a un bosco, il bosco è la nostra architettura, la luce che passa fra gli alberi è la stessa che illuminava il lampadario della mia infanzia, e noi non facciamo altro che imitare, rifare, ricreare quello che la Natura e la Storia ci offrono». Nel palazzo avito di Albaro (Genova), conobbe le ore segrete nelle quali le stanze e gli oggetti si mostrano in tutta la loro bellezza, arrivando ad ascoltarne la voce quando si trattava di pensare alla soluzione più adatta alla sua trasformazione. Fra le macerie dell’Italia devastata dalla Seconda guerra mondiale, Mongiardino inseguì un’armonia di passato e presente, respingendo una visione fra virgolette dell’antico. Un atteggiamento che divenne divisa di vita e di pensiero: «ritrovare il senso delle cose vicine per tornare amici di ciò che esiste. Qualsiasi cosa può essere reimpiegata come un IL LIBRO ARCHITETTURA tempo, a condizione che, nell’accostarla, DA CAMERA DI RENZO si proceda con cautela, con applicazione, MONGIARDINO (OFFICINA LIBRARIA, con intelligenza; in una parola: con amore». PP.240, EURO 45) Così l’architetto genovese solcò emisferi artistici speciali: la scenografia teatrale e cinematografica (coinvolto da registi del calibro di Franco Zeffirelli e Gian Carlo Menotti), e in parallelo creò le sue «partiture architettoniche», amalgamando sapienza antica ed esigenze di vita moderna. Partiture che sono storie di luoghi e materie, narrate in un libro unico, Architettura da camera, a mezza strada fra breviario estetico, summa artigiana e memoria di lavoro. Si capisce la congiura del silenzio davanti a un atteggiamento profondamente colto e personale verso la storia dell’arte in epoche, come il dopoguerra, gli anni del boom, il ’68 e seguente decennio plumbeo, dove gli slogan ideologici rimbalzavano sulla carta e nei disegni, mentre la ricostruzione del Belpaese spesso declinò verso il mettere le mani sulle città. A questo si aggiunga il fastidio davanti alla fila di committenti hors catégorie che si rivolgevano all’architetto Mongiardino, magnati in fuga e arbitri d’eleganza, tutti villeggianti in residenza nel cosmo “surreal-neobarocco” di questo Efesto moderno.

SERENA CAMPANINI / AGF

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Qualche anno fa Ivano Fossati era Fazio, a dire basta con la musica. E biare, di andare. Ci lasciava i suoi suoi concerti, le sue 460 canzoni, quando ti prende ti resta addosso, nell’anima. Ma forse il primo a non prio lui, se di lì a poco faceva uscir libro pieno zeppo di parole e di foto dir poco ir sto futuro da Renato di musica gini che i anticipav deluxe ap lo, Conte dentro 10 versione nibile da o le) più un ne con fot e una lun cantautor Dieci c no la sua sica (in tu SOPRA, IVANO FOSSATI. È APPENA USCITO IL SUO COFANETTO e che pren CONTEMPORANEO: 10 CD IN VERSIONE il titolo d DELUXE, 4 IN QUELLA STANDARD ni. Si com della voc tempo per Tosca, pezzo lento, un piano che ricorda La costruzione meno perentorio. Idealista, secon brano inedito, è invece più rock, f album di Noemi. Salvato a fatica tempo il demo che dà il titolo al terz noi, brano storto e imprevedibil Mannoia su «quelli che la competiz fuori ogni giorno». La lingua del san solo piano, dal film di Mazzacurat nimo quarto cd; mentre Ho visto fine del quinto, è la sua versione di con De André. Di nuovo solo pian della tigre, che chiude il sesto cd co il film di Mazzacurati (la partenza protagonisti). Da ricordare ancora u rara di Jeux d’enfants, una cover ru della sigla di Ballarò, una straor acustica di Vola e chiusura con Dol suoi primissimi brani rifatto nel ke-up e senza nostalgia. (g

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«T Magazine» • 17 aprile 2016

















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