OFFICINA* 22

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ISSN 2532-1218

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n. 22, luglio-agosto-settembre 2018

Artificio


Artificio di Stefanos Antoniadis L’atto insediativo, che è poi architettura, è forse la prima azione di manipolazione della storia. Molte e contrastanti le teorie che vedono le scanalature delle colonne classiche legate a segni naturali (la superficie rigata dalle asperità delle cortecce arboree) o artificiali (i panneggi delle tuniche fabbricate dall’uomo). La giustapposizione di tali linee rette, contrapposte alle sinuosità naturali, evoca tuttavia da sempre l’artefatto; come il codice a barre, dopo millenni, assurge a linguaggio universale per identificare i prodotti dell’artificio. (Treasury Building, Washington D.C., USA, 2011 fotografia dell’autore). Stefanos Antoniadis è PhD - Adjunct Professor & Research Fellow presso il Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale, Università degli Studi di Padova


Stefania Mangini

Lattine La storia del cibo in scatola ha un’origine piuttosto recente eppure è densa di spunti di riflessione per capire come l’uomo utilizzi la tecnica per dare risposte ai suoi bisogni. La conservazione del cibo è da sempre uno dei principali problemi per la sopravvivenza umana ma i metodi usati nell’antichità, come l’essicazione o la salamoia, hanno lo svantaggio di alterare in modo evidente sapore e consistenza dei cibi. La pastorizzazione, ossia il processo di sterilizzazione degli alimenti mediante il calore, tutt’oggi utilizzata per molti prodotti a lunga conservazione come il latte, fu brevettata da Luis Pasteur solo nel 1862. Tuttavia circa cinquant’anni prima il cuoco e pasticcere francese Nicolas Appert si aggiudicava dal governo francese un premio di 12.000 franchi per la produzione di cibo a lunga conservazione per l’esercito impegnato nelle guerre napoleoniche. Già nel 1809 Appert utilizzò infatti dei barattoli in vetro dove introduce carne e verdure prima di sterilizzarli con acqua bollente, inventando a tutti gli effetti la “lunga conservazione” degli alimenti. I vasi in vetro si dimostrarono però ben presto inadatti allo scopo in quanto fragili e non idonei al trasporto in trincee e campi di battaglia. Non bisognerà aspettare molto perché nel 1810 il britannico Pierre Durand brevetti la prima scatola di latta per la conservazione del cibo. L’intuizione, semplice ma geniale, consiste nell’utilizzare un foglio di latta (lamiera d’acciaio rivestita di stagno) per produrre il cilindro del corpo della lattina e i due coperchi che venivano poi saldati al corpo stesso sigillando il contenitore in modo ermetico. Inutile dire che il successo fu immediato. Già nel 1811 il brevetto fu acquisito dagli industriali, Bryan Donkin e John Hall di Londra che avviarono la prima produzione industriale di lattine vendendole dapprima alla Marina Britannica e in seguito agli eserciti europei e americani. In pochi anni i cibi conservati in lattina si moltiplicano, dalle verdure alle carni, fino al pesce e ai sughi pronti. La lattina in latta entra così a far parte del bagaglio tecnologico umano ma per almeno cinquant’anni il solo modo per aprirla sarà prenderla a martellate. Bisognerà infatti attendere il 1870 perché venga depositato il primo brevetto per apriscatole a nome dell’americano Ezra Warner. Ancora una volta sarà un bisogno concreto a stimolare l’invenzione di nuovi utensili volti a soddisfarlo e via via, il successo della lattina ha portato l’ingegno umano a trovare soluzioni ancora più efficaci. Nel 1957 vengono introdotte le lattine in alluminio, più leggere e più salubri di quelle in latta. Le nuove lattine sono prodotte in soli due pezzi: il corpo è unito al fondo e viene sagomato mediante imbutitura a partire da una sottile lamina in alluminio, mentre il coperchio è unito mediante aggraffatura. Ma non è ancora sufficiente: l’apriscatole, scomodo da trasportare, viene presto abbandonato e alla fine degli anni ‘70 viene introdotto il sistema di apertura con linguetta a strappo. Da allora i nostri cibi in scatola possono essere conservati a lungo e consumati, ovunque e da chiunque, con un gesto tanto semplice quanto aprire una lattina. Emilio Antoniol


OFFICINA* Direttore editoriale Emilio Antoniol Direttore artistico Margherita Ferrari Comitato scientifico Fabio Cian (direttore), Stefanos Antoniadis, Sebastiano Baggio, Matteo Basso, MariaAntonia Barucco, Viola Bertini, Piero Campalani, Federico Dallo, Doriana Dal Palù, Francesco Ferrari, Michele Gaspari, Silvia Gasparotto, Giovanni Graziani, Francesca Guidolin, Elena Longhin, Michele Marchi, Patrizio Martinelli, Cristiana Mattioli, Corinna Nicosia, Damiana Paternò, Laura Pujia, Fabio Ratto Trabucco, Chiara Scarpitti, Barbara Villa, Carlo Zanchetta, Paola Zanotto Redazione Valentina Manfè (esplorare), Margherita Ferrari (portfolio), Paolo Borin, Arianna Mion, Stefania Mangini, Letizia Goretti, Libreria Marco Polo (cellulosa) Copy editor Emilio Antoniol, Margherita Ferrari Impaginazione Margherita Ferrari Grafica Stefania Mangini Photo editor Letizia Goretti Testi inglesi Silvia Micali, Antonio Sarpato Web Emilio Antoniol, Margherita Ferrari Progetto grafico Margherita Ferrari

“Officina mi piace molto, consideratemi pure dei vostri” Italo Calvino, lettera a Francesco Leonetti, 1953

Trimestrale di architettura, tecnologia e ambiente N.22 lug-set 2018

Artificio

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Direttore responsabile Emilio Antoniol Registrazione Tribunale di Treviso n. 245 del 16 marzo 2017 Pubblicazione a stampa ISSN 2532-1218 Pubblicazione online ISSN 2384-9029 Accessibilità dei contenuti online www.officina-artec.com Prezzo di copertina 10,00 € Prezzo abbonamento 2018 25,00 € | 3 numeri Per informazioni e curiosità www.anteferma.it edizioni@anteferma.it

OFFICINA* è un progetto editoriale che racconta la ricerca. Gli articoli di ricercatori, selezionati e valutati dal comitato scientifico, si affiancano a esperienze professionali, per costruire un dialogo sui temi dell’architettura, tra il territorio e l’università. Ogni numero racconta un tema, ogni numero è una ricerca. Hanno collaborato a OFFICINA* 22: Stefanos Antoniadis, Moreno Baccichet, Diletta Baiguera, Stefano Barontini, Barbara Badiani, Andrea Bernava, Vladimiro Boselli, Camilla Casadei Maldini, Alice Cleva, Massimiliano Condotta, Riccardo Daniel, Alessia Franzese, Letizia Goretti, Luca Iuorio, Gabriele Al Jarrah Al Kahal, Ilaria Lusetti, Cristiana Mattioli, Tiziana Mazzolini, Fabio Merotto, Arianna Mion, Massimo Mucci, Stefano Mudu, Marco Peli, Dario Pezzotti, Progetto QUID, Raffaele Quarta, Marco Redolfi, Re.Te. Srl, Emiliano Romagnoli, Marco Rossato, Giulia Setti, Matteo Silverio, Michele Tomasella, Cristiano Tosco, Ianira Vassallo, Nicola Vitale, Giancarlo Zambon, Elisa Zatta, Bruno Zorzi.


Artificio n•22•lug•set•2018

IN COPERTINA

Artificio

Stefanos Antoniadis

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Emilio Antoniol

Cristiano Tosco

Introduzione

La manipolazione rurale

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Sul significato culturale delle tecniche irrigue tradizionali in scarsità idrica

Costruire la montagna Emiliano Romagnoli

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Stefano Barontini, Barbara Badiani, Vladimiro Boselli, Marco Peli, Dario Pezzotti, Raffaele Quarta, Nicola Vitale

Nel dettaglio ligneo Margherita Ferrari

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I rivestimenti metallici in architettura Massimiliano Condotta

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Semi-artificiali

Stefanos Antoniadis

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InFondo

a cura di Emilio Antoniol e Stefania Mangini

04 50

ESPLORARE

a cura di Valentina Manfè

68

Se fossi vetro… storia di un granello di sabbia Letizia Goretti

70

IN PRODUZIONE

58

Michele Tomasella, Marco Redolfi, Marco Rossato, Bruno Zorzi

74

60

Da rifiuto a nuova risorsa

78

66

Matteo Silverio

PORTFOLIO

Lo sfondellamento dei solai

64

Tradizione e innovazione, un dialogo possibile?

Emilio Antoniol

L'ARCHITETTO

Archeologia del contemporaneo

Moreno Baccichet, Andrea Bernava

Dinamiche progettuali e costruttive Elisa Zatta

Un mattone sopra l’altro

Diletta Baiguera, Riccardo Daniel, Tiziana Mazzolini

I CORTI

Il corpo progettuale

Camilla Casadei Maldini, Ilaria Lusetti

Produrre identità Alice Cleva

che producono valore 88 Spazi Alessia Franzese inattuali 96 Dighe Luca Iuorio 100 Isole Stefano Mudu AL MICROFONO

Quid 102 Progetto a cura di Arianna Mion CELLULOSA

un antidoto 106 Artificio: contro la solitudine

a cura dei Librai della Marco Polo (S)COMPOSIZIONE

80 84

L'IMMERSIONE

Reggio Emilia Approach

Cristiana Mattioli, Giulia Setti

Città & Produzione Ianira Vassallo

Bag 107 Polythene Emilio Antoniol


Svizzera 240: House Tour. Massimo Mucci

Continua fino al 25 novembre la Biennale Architettura 2018 dal titolo Freespace diretta da Yvonne Farrell e Shelley McNamara. Quest’anno a vincere il Leone d’oro per la migliore Partecipazione Nazionale è per la prima volta il Padiglione svizzero, con l’esposizione dal titolo Svizzera 240: House Tour. Il progetto è stato realizzato dal giovane team di architetti del Politecnico federale di Zurigo, formato da Alessandro Bosshard, Li Tavor, Matthew van der Ploeg e Ani Vihervaara. Il titolo lascia intendere che ci si troverà di fronte alla visita di una casa, come se fossimo dei turisti in viaggio. Entrando si ha la sensazione di essere in un ambiente familiare, trasmessa anche dalle comuni rifiniture standard di pareti bianche, pavimenti in legno e piastrelle, battiscopa. Tuttavia dopo pochi passi all’interno l’esperienza diventa inusuale, ricca di stupore e divertimento. Gli spazi delle varie stanze, insieme a tutti i loro dettagli delle porte, maniglie, finestre, sono realizzati con scale diverse, in modo da risultare con l’altezza minore o maggiore della dimensione standard di 240 cm suggerita dal titolo. Il risultato è una sequenza di spazi in cui si perdono i riferimenti dimensionali e ci si sente, a seconda dei casi, troppo grandi o troppo piccoli in una casa impossibile. I curatori hanno realizzato questo labi-

rinto prendendo spunto da fotografie di interni esposte nei siti internet di architetti svizzeri, successivamente montate in sequenza e tradotte in spazi tridimensionali. In questo modo sottolineano l’incapacità dell’immagine di fornire riferimenti dimensionali e di profondità dello spazio, che viene presentato vuoto, senza arredi e oggetti sulle pareti. Quindi è una rappresentazione architettonica di altre rappresentazioni di spazi, che in questo doppio passaggio di traduzione subisce alterazioni e trasformazioni scalari. L’effetto sorpresa è garantito, perché in questa visita vi sono due azioni di straniamento sovrapposte: la prima riguarda l’essere in spazi interni nudi, una condizione che normalmente non si verifica nelle case abitate e che costringe ad apprezzarne la forma, la concatenazione dei volumi, la luce; la seconda riguarda il fuori scala che altera la percezione degli spazi e il senso comune delle possibili funzioni che vorremmo attribuire. Tuttavia ci si sente liberi, in un freespace appunto, di immaginare che in qualche modo potremmo abitare questa casa. I curatori, quindi, si ricollegano al tema generale del freespace riflettendo sul fatto che l’architettura produce rappresentazioni spaziali, e che esserne consapevoli può aiutare a capire, come affermano ritirando il premio Leone d’oro, il “ruolo che svolge l’involucro interno degli appartamenti nel plasmare la nostra vita e la nostra identità”. Massimo Mucci

Il Primo Novecento al Revoltella. Monaco, Vienna, Trieste e Roma 25 gennaio - 2 settembre 2018 Museo Revoltella, Trieste www.museorevoltella.it

Questa mostra al Museo Revoltella sul primo Novecento si concentra sull’influenza e sulle vicissitudini artistiche di Vienna e Monaco nei confronti di Trieste e del territorio giuliano. Sono presenti le opere di importanti artisti locali le cui esperienze, su scala regionale, si sono mescolate con le vicende italiane ed europee; dipinti, sculture, opere grafiche che custodiscono un intenso interscambio di culture tra gli artisti che ne hanno fatto parte. Nei primi del Novecento a Monaco, Vienna, Praga e Roma si vivono gli anni cruciali delle Secessioni europee quando ancora

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Svizzera 240: House Tour. Massimo Mucci

Svizzera 240: House Tour 26 maggio - 25 novembre 2018 Venezia (Giardini e Arsenale) www.labiennale.org

nel resto d’Europa imperversava ogni forma di Avanguardia. Anche in Italia, quindi, si respira un profumo di rinnovamento nelle arti di stampo secessionista ma solo fino al 1918. Più tardi, negli anni Venti e Trenta, si manifesta la volontà di un “ritorno all’ordine”, un rifiuto delle Avanguardie, un ritorno alla tradizione, una reazione alle oscenità della guerra appena conclusa con approfondimenti puntuali e precisi di alcuni esponenti di spicco dell’arte e della cultura europea, italiana e locale. La mostra è anche l’occasione per esplorare le sale che ospitano le opere patrimonio del Museo Revoltella con alcuni lavori di autori universalmente noti tra cui Carlo Carrà, Giorgio de Chirico e Felice Casorati insieme a un vivace gruppo di artisti che ruotano attorno alla rivista Valori Plastici. Il percorso espositivo si chiude con alcune opere della Secessione Romana che porta con sé influenze sugli artisti triestini e giuliani operanti in un territorio di confine con le capitali secessioniste. Una relazione tra geografie e storie differenti ma accomunate da principi estetici di ampio respiro internazionale. Trieste, quindi, si colloca sul baricentro tra Roma, Monaco e Vienna e in questo triangolo l’arte triestina e giuliana assorbe influenze diverse e nello stesso tempo simili tra loro. Queste tre grandi città sono legate da quel filo conduttore che ha tenuto assieme mezza Europa nel nome della Secessione. Fabio Merotto

Manu propria. Il segno calligrafico come opera d’arte 16 giugno - 30 settembre 2018 Mart, Trento www.mart.trento.it

ESPLORARE


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Svizzera 240: House Tour. Christian Beutler / KEYSTONE


Develop Worldwide Farra di Soligo (TV) info@dwide.net www.dwide.net

Develop Worldwide è una startup innovativa che ha ideato un servizio digitale per il settore immobiliare, dwide.net. Si tratta di una piattaforma multi-sided le cui parole chiave sono rigenerazione urbana, consumo di suolo, valorizzazione di immobili. Con dwide.net vogliamo far convergere equity, idee e operatori del settore immobiliare, allo scopo di “matchare” domanda e offerta in maniera virtuosa favorendo i processi di trasformazione e rifunzionalizzazione del patrimonio immobiliare privato grazie alle competenze degli utenti iscritti. La Regione Veneto è in testa alle classifiche sul consumo di suolo; oggi è un territorio con molti volumi edilizi problematici, vuoi per le dimensioni, per la posizione infelice o lo stato manutentivo. Con la crisi economica e la conseguente chiusura di molte attività, che hanno portato all’inutilizzo di molti capannoni, è accentuata la percezione di degrado e di scarsa attenzione per il territorio. Su questo tema, autorevoli centri di ricerca e studi ci mettono in guardia; Lorenzo Bellicini, Direttore del Cresme, sostiene che “il recupero dell’edilizia esistente cresce da anni, ma ormai è al massimo, più di tanto non si può andare. Per fare un ulteriore salto deve

partire la rigenerazione urbana”. Oggi il settore immobiliare sembra effettivamente essere ripartito, ma in questo contesto di nuove sfide servono operatori con creatività, competenze urbanistiche, immaginazione e una visione che consideri i nuovi modi di “abitare, produrre, aggregarsi”, che conoscano profondamente il concetto di sostenibilità, che abbiamo competenze per trasformare quei volumi edilizi di cui parlavamo prima. Alcuni di questi professionisti sono sempre stati ai margini del processo ideativo immobiliare. In dwide.net mettiamo in rete queste competenze, i progettisti utenti di dwide.net appunto, per ripensare i tanti immobili privati da valorizzare: proprietà a vocazione turistica da rilanciare, edifici storici, edifici ricettivi, industriali, aree urbane da trasformare, ecc. In dwide.net l’intelligenza collettiva partecipa alla “governance intelligente”. Smart city non deve significare infatti solo IOT (Internet Of Things) o shared mobility: se coinvolgere i cittadini nelle scelte può apparire utopia, coinvolgere l’intelligenza collettiva è doveroso e in dwide.net sarà possibile. Dwide.net è una piattaforma riservata per professionisti, con tre ruoli possibili. L’utente “investitore” consulta le opportunità immobiliari presenti in bacheca, precedentemente inserite dal “consulente immobiliare” che tratta l’immobile per conto della proprie-

tà; l’utente “progettista”, collaborando con quest’ultimo su un’idea o concept di valorizzazione dell’immobile, potrà ampliare i propri contatti lavorativi e acquisire commesse lavorative. Oggi, una esigenza sentita dagli operatori, è quella di avere a disposizione un censimento/elenco pubblico degli edifici privati disponibili per il riuso, la rigenerazione o l’uso temporaneo. Su questa esigenza concreta, con Confartigianato Imprese Veneto, abbiamo recentemente avviato una partnership che dà la possibilità agli associati di utilizzare la piattaforma per vendere e/o locare gli immobili di proprietà, per lo più a destinazione artigianale e industriale, non più utilizzati e quindi disponibili per una nuova destinazione. Sarà su questa tipologia di beni immobili che ci dovremo concentrare nei prossimi anni per la programmazione e pianificazione del territorio, sperando anche di poter lavorare con strumenti legislativi efficaci. Dwide.net non è solo un portale di annunci immobiliari, non è un intermediario immobiliare e non è una piattaforma della gig economy. Ci teniamo molto alla parola “sviluppo”, che ritorna anche nel nostro motto aziendale: “Oggi non è più solo tempo di costruire, ma di sviluppare. Largo quindi alle idee, noi la chiamiamo #rigenerazionesocial. Questo fa dwide.net”. Giancarlo Zambon

develop

worldwide

La bacheca delle idee di dwide.net e l’ex Municipio di Vidor (TV). Impresa Comarella srl e Develop Worldwide srls

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ESPLORARE


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Stabilimento balneare anni ‘60 a Revine Lago (TV). GE.A.R. srl e Develop Worldwide srls


Nella cultura occidentale il rapporto tra uomo e natura ha sempre trovato una sua chiave di lettura nel ruolo affidato alla tecnica. Nel mondo classico la natura era concepita come “ordine immutabile”, un limite invalicabile governato dalla necessità (Galimberti, Psiche e techne, 1999, p. 474). La tecnica, dono di Prometeo agli uomini, non poteva dominare la natura ma solo svelarla: la techne era dunque intesa come imitazione della natura, strumento che permetteva all’uomo di progredire (pro-ducere) tanto a livello materiale quanto a livello intellettuale, traducendosi, prima che in una competenza pratica, in una forma di conoscenza della physis, intesa come verità (Heidegger, La questione della tecnica, 1976, p. 9). L’avvento della visione giudaico-cristiana porta ad un primo mutamento del rapporto tra uomo e natura, ora intesa come dominio dell’uomo che, grazie alla tecnica, può dominare il mondo per lui creato. Se la società industriale pre-tecnologica che si origina da questa visione inverte il rapporto uomo-natura, assoggettando quest’ultima all’agire umano, la società tecnologica, nata dall’evoluzione della prima grazie al progresso, produce la totale subordinazione alla tecnica tanto dell’uomo quanto della natura (Galimberti, op. cit., p. 681). Lentamente la tecnica si impone quale condizione universale per il raggiungimento di qualunque fine e, da mezzo, essa stessa diventa il fine di

ogni processo: l’obiettivo finale è migliorare gli strumenti per produrre sempre di più. La tecnica odierna non è più disvelamento ma artificio e “guarda alla natura non come ad un organismo che ha in sé il principio del proprio dispiegamento [...] ma come a un materiale da organizzare secondo schemi non percettivamente e intuitivamente reperibili in natura (Galimberti, op.cit., p. 484). E in questo scenario la tecnica trasforma anche la produzione: oggi “si deve fare tutto ciò che si può fare” (Severino, Il destino della tecnica, 1998); e così la produzione diventa di massa, usa e getta, fatta di prodotti “nati per morire e destinati alla transitorietà” (Anders, L’uomo è antiquato II, 1992, p. 31) al punto da generare un dislivello, che Anders definisce “prometeico”, tra la nostra capacità produttiva e la nostra capacità di immaginare le conseguenze di un operare in cui l’uomo è asservito alle macchine. In OFFICINA*22 tecnica e artificio assumono valenze multiple: dalla manipolazione della materia alla ridefinizione del senso di una pratica, fino alla rigenerazione dell’esistente, del costruito e delle nostre città. Città che oggi non sono più “spazi recintati nel mondo naturale” ma luoghi artificiali che hanno preso il posto della natura che ha perso il suo ruolo di “ordine immutabile” o di “dominio dell’uomo” per diventare semplice materia, “puro materiale da utilizzare” (Galimberti, op.cit., p. 475). Emilio Antoniol


In western culture the relationship between man and nature has always found a crux in the role given to the technique. In the classical world nature was conceived as an "immutable order", an impassable limit governed by necessity (Galimberti, Psiche e techne, 1999). The technique could not dominate nature but only reveal it: the techne was therefore seen as an imitation of nature, an instrument that allowed man to progress (pro-ducere) both at the material and intellectual level, resulting as a form of knowledge of physis (Heidegger, The Question Concerning Technology, 1954). The advent of the Judeo-Christian vision leads to a first change in the relationship between man and nature, now understood as the domain of man that, thanks to technology, can dominate the world. If the pre-technological industrial society reverses the relationship between man and nature, the technological society, born from the evolution of the former one, produces the total subordination to technology of man as much as nature (Galimberti, op.cit.). The technique slowly imposes itself as the universal condition for the achievement of any purpose and

becomes the aim of every process. Today's technique is no longer a revelation of nature but it is artifice and "looks at nature [...] as a material to be organized according to patterns that are not perceptively and intuitively available in nature (Galimberti, op.cit.). In this scenario, the technique also transforms the idea of production: today "we must do everything that can be done" (Severino, Il destino della tecnica, 1998); and so the production changes and becomes a mass production, made of products "born to die and destined to transience" (Anders, Man is antiquated II, 1992) to generate a "Promethean gap� between our productive capacity and our ability to imagine the consequences of the production in which man is subservient to machines. In OFFICINA* 22 technique and artifice take on multiple valences: from the manipulation of matter to the redefinition of the sense of a practice, up to the regeneration of the cities. Cities that today are no longer "enclosed spaces in the natural world" but artificial places that have taken the place of a nature that is become simple matter, "pure material to use" (Galimberti, op.cit.). Emilio Antoniol


Stefano Barontini Ricercatore universitario, Università degli Studi di Brescia, DICATAM. stefano.barontini@unibs.it

Barbara Badiani Professore associato, Università degli Studi di Brescia, DICATAM. barbara.badiani@unibs.it

Vladimiro Boselli Dottorando, Università degli Studi di Brescia, DICATAM. v.boselli@unibs.it

Dario Pezzotti Dottorando, Università degli Studi di Brescia, DICATAM. d.pezzotti001@unibs.it

Raffaele Quarta Borsista di ricerca, Università degli Studi di Brescia, DICATAM. raffaele.quarta@unibs.it

Nicola Vitale Ricercatore indipendente, Slow Food. nicolaemarina@libero.it

Marco Peli Assegnista di ricerca, Università degli Studi di Brescia, DICATAM. marco.peli@unibs.it

Sul significato culturale delle tecniche irrigue tradizionali in scarsità idrica

01. Un terreno coltivato con la tecnica dello zaï. Tratta da IUCN/Sylvain Zabre

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ARTIFICIO


la conoscenza tradizionale non è necessariamente indigena, poiché, in virtù della propria adattabilità, essa è esportata verso contesti diversi da quelli ove è nata, ivi si radica ed è assimilata oasi, un paradigma agroecologico per la conservazione del suolo Suolo e oasi sono due sistemi di grande valore paradigmatico per la vita e per la sopravvivenza dell’uomo. Essi sono intimamente legati, da un lato, dal rischio di degrado e di desertificazione cui è soggetto il suolo e, dall’altro, dalla lotta compiuta dalle oasi per mitigare la desertificazione. L’oasi è tipicamente, infatti, un agroecosistema fortemente antropogenico e, come il suolo, autopoietico1 che consente di riattivare i processi di formazione del suolo in zone altrimenti ostili e fortemente degradate (Laureano, 1995). L’importanza della mitigazione del degrado del suolo e della lotta contro la desertificazione trascende i confini delle aree comunemente considerate desertiche. La desertificazione è infatti un fenomeno in lenta evoluzione che può manifestarsi in ogni area; essa non è necessariamente conseguenza dell’aridità, ma insorge, anche lontano da zone già desertiche, quando l’abuso del suolo diventa eccessivo (Şen, 2008). La Thematic Strategy for Soil Protection dell’Unione Europea2 identifica a esempio, per l’Europa, otto cause principali di degrado del suolo (erosione, diminuzione della sostanza organica, compattazione, salinizzazione, frane, contaminazione, sigillazione e perdita di biodiversità), molte delle quali sono direttamente o indirettamente riconducibili a pratiche agricole. Come conseguenza di ciò, l’analisi dello stato di salute dei suoli europei, nei confronti del degrado, mette in luce alcuni segnali di allerta, soprattutto per l’Europa mediterranea, molte aree della quale, tra cui la pianura padana, zone endoalpine e aree costiere dell’Italia, non sono aliene al rischio di desertificazione. D’altro canto, considerando le caratteristiche delle oasi e dell’agricoltura tradizionale ci accorgiamo che con i suoli condividono alcune proprietà fondamentali (autopoiesi, biodiversità, simbiosi e, con la simbiosi, coevoluzione e adattamento), e contrastano spontaneamente molte delle principali cause di degrado identificate dalla UE. Consentendo, infatti, la coltivazione delle aree mar-

Le tecniche irrigue tradizionali sono uno degli assi portanti delle oasi e un presidio nella lotta contro la desertificazione. La loro importanza trascende l’essere una mera eredità storica, perché hanno innervato le società tradizionali di tutta l’area mediterranea e dell’Asia centrale. Si propone con questo lavoro una riflessione su loro significato culturale, attualità e futuro, come punto di partenza per una rilettura dell’importanza dell’agricoltura nella protezione e conservazione del suolo, e della sua possibile relazione con la pianificazione territoriale.* Traditional irrigation techniques are an axle for oases and a defence method against desertification. Their importance goes beyond the mere historical heritage, in fact they innervated traditional societies of the whole Mediterranean basin and central Asia. With this paper we propose a reflection upon their cultural meaning, their current and future state as a starting point for a reanalysis of the importance of agriculture in soil protection, and of its possible relationship with land planning.*

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02. Limonaia del Pra’ de la Fam (Tignale, Brescia), al momento dell’apertura dopo i mesi invernali. Stefano Barontini

ginali e di versante, proteggono il suolo sia da erosione sia da franamento, contribuiscono ad arricchirlo di sostanza organica e ne stimolano la biodiversità, producendo anche prodotti pregiati e con grande valore aggiunto. Le tecniche irrigue tradizionali sono un asse portante delle oasi e dell’aridocultura, oltreché dell’agricoltura irrigua intensiva3, talché per molte aree dal bacino mediterraneo all’Asia centrale si possa parlare di “civiltà idrauliche”, ovvero di civiltà il cui sviluppo fu consentito essenzialmente dalla capacità di gestire le risorse idriche ai fini dell’irrigazione. Una considerazione di Starr (2013) sullo sviluppo delle grandi oasi centroasiatiche, che consentirono con la loro presenza il fiorire delle rotte commerciali tra il bacino mediterraneo, la Cina e l’India, ci consente di cogliere la centralità del ruolo giocato dall’irrigazione in aree desertiche: “Un’importante forza fece sì che in tutta l’Asia centrale una civiltà e un’elevata cultura potessero svilupparsi e conservarsi. […] L’azione non era dovuta alla natura ma al genere umano, in particolare, alla sua graduale padronanza dell’arte e della tecnologia dell’irrigazione. Fu l’irrigazione, e solo l’irrigazione, a rendere possibile la nascita di una civiltà su alcune delle terre centroasiatiche altrimenti sterili. In questo senso, è giusto definire l’Asia centrale una civiltà idraulica” (Starr, 2013). Quale ruolo, per la conoscenza tradizionale, nella mitigazione della desertificazione? Secondo un rapporto dell’United Nations Convention to Combat Desertification (UNCCD), la conoscenza tradizionale ha un ruolo molto importante nella lotta alla desertificazione. Essa è infatti di ampia diffusione, dinamica e in grado di adattarsi ai cambiamenti, come una conoscenza viva, di difficile catalogazione, che varia nel tempo, con il contesto e con l’attore in gioco (UNCCD, 2005, p.50). Fatta salva la necessità di verificarne l’efficacia caso per caso, si può in altri termini dire che la conoscenza tradizionale sia coevolutiva e si inserisca strutturalmente e organicamente

negli ecosistemi antropogenici. Essa inoltre è fondata sulla capacità delle popolazioni di veicolarla tra le generazioni, è pratica ed empirica e, per origine culturale, sistemica e olistica. Si può ammettere che la conoscenza tradizionale non sia necessariamente una conoscenza indigena, poiché, in virtù delle proprie capacità di adattamento, essa è esportata verso contesti diversi da quelli ove è nata e ivi si radica ed è assimilata. Due, tra le tecniche tradizionali che sono citate nel rapporto, consentono di mettere in evidenza alcuni aspetti culturalmente interessanti: lo zaï e i terrazzamenti. Lo zaï è un microbacino a cono, scavato nel terreno, di diametro in genere inferiore al metro e profondità inferiore a mezzo metro (img. 01). Lo zaï raccoglie le scarse precipitazioni e il sedimento che esse trascinano. Il sedimento è in genere prezioso per le coltivazioni, perché composto da suolo superficiale e sostanza organica: si ricordi che una delle principali cause di degrado del suolo, cui si è accennato, è proprio l’erosione. Lo zaï è emblematico perché è un’interessante esempio di come una tecnica tradizionale possa essere rivitalizzata, infatti lo zaï tradizionale fu migliorato dal contadino burkinabé Yacouba Sawadogo, all’inizio degli anni ‘80 del Novecento, e da quel momento tornò rapidamente a diffondersi in molte zone aride dell’Africa. Tecniche affini sono praticate per lo stesso motivo anche nell’aridocultura del bacino mediterraneo (a esempio le conche per le viti a Pantelleria), talvolta in abbinamento con muretti a secco per aiutare la condensazione dell’umidità atmosferica e della rugiada. I terrazzamenti, che possono essere irrigati, come i giardini d’agrumi (limonaie) del Garda (img. 02), o addirittura non irrigati4, sono invece presentati come una delle strutture tradizionali più diffuse e caratteristiche del bacino mediterraneo. Di essi viene messa in luce la capacità di armonizzarsi con il territorio, dandogli forma, valorizzando i materiali e le competenze locali, sia ambientali sia architettoniche, fino a costruire paesaggi culturali, intensamente antropogenici, dove “i centri storici sono la cristallizzazione

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ARTIFICIO


03. Muretto a secco e giardino pantesco a Pozzallo (Modica, Ragusa). Nicola Vitale

04. Noria de Casas del Rio (Requena Utiel, Valencia). C00

di conoscenze appropriate per la gestione e la conservazione dell’ambiente” (UNCCD, 2005). I terrazzamenti sono quindi di grande importanza culturale perché mostrano che la fusione di storia e paesaggio tipica dei centri mediterranei fa sì che lo studio dell’ecosistema agricolo e, in particolare, delle tecniche irrigue tradizionali debba essere condotto con un approccio quantomeno interdisciplinare, in cui le diverse epistemologie (dell’agronomo, dello storico, dell’architetto, dello scienziato del suolo, del geografo, del filologo, dell’ingegnere idraulico, del pianificatore, ecc.) convergano e interagiscano profondamente al fine di comprendere la fitta rete di legami culturali, produttivi e ambientali, che soggiace - o è soggiaciuta in epoca storica - a questi ambienti. Un’ipotesi di classificazione per le tecniche irrigue tradizionali Le tecniche irrigue tradizionali possono essere tecniche di approvvigionamento (ovvero quelle che conducono l’acqua a serbatoi ove essa viene temporaneamente raccolta), tecniche di distribuzione (per portare l’acqua alle piante), oppure tecniche in cui approvvigionamento e distribuzione non sono in realtà disgiunti, come è il caso dello zaï. Per questo motivo, per una prima classificazione delle tecniche irrigue tradizionali, fatto salvo mantenere in un gruppo autonomo le macchine idrauliche per il sollevamento e le tecniche tipiche della distribuzione di precisione, preferiamo qui mettere in evidenza la sorgente di approvvigionamento dell’acqua, piuttosto che la struttura. Le tecniche vengono quindi suddivise in: 1 - tecniche basate sulla raccolta delle acque di falda: pozzi e qanate; 2 - tecniche basate sulla cattura dell’umidità atmosferica: muretti a secco o in terra cruda, tu’rat (img. 03); 3 - tecniche basate sulla raccolta delle precipitazioni, alla microscala (come lo zaï, i cordoni di pietra panteschi e i microbacini a lunetta, in pietra realizzati, in aree del

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anche se spesso in abbandono, possono continuare a contribuire alla costruzione di sistemi agroecologici Mediterraneo meridionale, intorno a ciascuna pianta del giardino) o alla macroscala (come l’accoppiamento di uadi e sbarramenti, barrages, per raccogliere in serbatoi le piene conseguenti alle rare precipitazioni intense); 4 - sistemi di sollevamento, dai più semplici a leva come lo shadouf, fino a quelli con maggiore complessità meccanica come la saqiyya e la noria, naoor (img. 04); 5 - sistemi di distribuzione (img. 06). Le qanate meritano una riflessione particolare. Esse sono gallerie che venivano scavate da valle, nella fascia pedemontana dove poi sarebbero sorte le case, i giardini e gli orti, fino a intercettare un “pozzo madre” scavato a monte. Presso il “pozzo madre”, anche a decine di chilometri di distanza dall’uscita della galleria, i tecnici specializzati, muqanni, avevano precedentemente verificato la presenza di una falda sufficientemente produttiva. L’aerazione e la manutenzione erano garantite da una serie di pozzi o camini di ventilazione scavati a intervalli regolari lungo la galleria. Le qanate, originarie, secondo una tesi accreditata da molti, dell’Altopiano Iranico (Goblot, 1979), si sono poi diffuse in tutto il mondo e, in particolare dal Marocco fino allo Xinjiang (img. 05), radicandosi al nord e al sud del Mediterraneo e declinandosi secondo le condizioni geomorfologiche e climatiche locali. La stessa varietà dei nomi con cui sono identificate nelle diverse aree (qānāt, foggara, khettara, karez, kanarjin, aflāj, ecc.)

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05. Mappa delle informazioni raccolte in letteratura sulle tecniche irrigue tradizionali. Stefano Barontini, Marco Peli, Raffaele Quarta

attesta la versatilità di questa tecnica nell’essere assimilata dalle culture locali. Molto spesso, nelle tecniche di irrigazione tradizionali non esiste la separazione funzionale tipica della progettazione moderna. Spesso l’approvvigionamento principale (la precipitazione o la captazione di acqua di falda) convive con un approvvigionamento secondario (tipicamente la condensazione dell’umidità atmosferica): è questo il caso delle qanate – in cui l’aria traspirata dall’oasi condensa nei pozzi di aerazione e percola fino alla galleria –, del-

pianta, all’interno del quale l’approvvigionamento è consentito dal drenaggio delle rare precipitazioni attraverso i fori laterali, dalla condensazione dell’umidità atmosferica sui muretti a secco, e dalla mitigazione dell’evaporazione dal suolo, grazie all’ambiente ombreggiato e protetto dalla chioma della pianta di agrumi. Significato culturale delle tecniche irrigue tradizionali I concetti finora introdotti consentono di enucleare alcuni aspetti del significato culturale delle tecniche irrigue tradizionali. Esse chiedono di essere studiate e conservate perché sono anzitutto un’eredità e un’identità culturale, ma non sono semplicemente da musealizzare perché, innervando il territorio, propongono una chiave di lettura dei paesaggi storici e degli ecosistemi antropogenici. Inoltre, consentendo l’aridocultura, sono un’asse portante delle oasi

il loro significato culturale trascende la dimensione storica e locale lo zaï – la cui forma depressa consente di incentivare la condensazione dell’umidità atmosferica –, e del giardino d’agrumi pantesco, un alto muro costruito intorno a ogni

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06. Particolare della tecnica distributiva presso i giardini d’agrumi dell’Alcazar di Siviglia. Marco Peli

e della lotta contro la desertificazione. Esse sono quindi flessibili e coevolutive, e in grado di adattarsi anche ai cambiamenti climatici. Le condizioni di scarsità idrica, in cui queste tecniche consentono di gestire le colture, possono essere considerate una suggestione di scenari cui potrebbero andare incontro anche aree umide del nord del Mediterraneo a fronte di cambiamenti climatici o di degrado del suolo. La capacità di diffusione e di adattamento che hanno mostrato le hanno rese prassi che trascendono la dimensione della tradizione locale e che proiettano lo studio in una prospettiva ecumenica. La mappa dell’immagine 05, a esempio, rappresenta alcuni dei siti del bacino mediterraneo, delle zone iranizzate e dell’Asia centrale, ove la presenza di tecniche irrigue tradizionali è documentata dalla letteratura, e fornisce un colpo d’occhio sulla capacità che esse hanno avuto di muoversi lungo le rotte commerciali e delle migrazioni5. Infine le tecniche di irrigazione tradizionale permettono la costruzione di paesaggi agricoli intensivi e autopoietici anche nelle aree marginali e abbandonate, consentendo così contemporaneamente di stimolare la biodiversità, manutenere i versanti e mitigare la pericolosità idrogeologica. Quale futuro per le tecniche irrigue tradizionali? Le tecniche irrigue tradizionali sono attualmente contese tra distruzione, abbandono, musealizzazione e riscoperta per mitigare la desertificazione o per coltivare prodotti pregiati, eventualmente anche in funzione di ecosystem services (Millennium Ecosystem Assessment, 2005). È opinione degli autori che il futuro delle tecniche irrigue tradizionali non sia già scritto, ma che, comprendendone l’importanza culturale e considerandole caso per caso, come è strutturale alla loro natura profondamente capace di adattarsi alle esigenze del territorio, possano essere in molti casi valorizzate nel processo di conservazione del suolo.*

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NOTE 1 – Ovvero l’oasi deve cercare le risorse, per il proprio rinnovamento, all’interno di una complessa rete di relazioni simbiotiche, incluse tra queste quelle che si stabiliscono tra uomo e natura. 2 – Documenti SEC(2006)1165, SEC(2006)620. 3 – Si veda a esempio Malanima (1997) per una classificazione di agricoltura intermittente (o debbio), agricoltura irrigua e aridocultura. Le tecniche irrigue cui si fa qui riferimento sono più tipicamente caratteristiche dell’aridocultura. 4 – Il paesaggio montano, per la propria conformazione, è quasi sempre in condizioni di scarsità idrica, anche se la precipitazione è abbondante. Qualora sia coltivato con piante che richiedono tanta acqua, come gli agrumi, deve essere irrigato con un efficace e complesso sistema di canalizzazioni e opere di distribuzione. È questo il caso emblematico delle limonaie del Garda, che non potevano per l’irrigazione fare aggio sull’abbondanza d’acqua del lago – come viceversa faceva la pianura irrigua di valle – ma erano irrigate grazie all’acqua invasata a monte o prelevata direttamente dai ruscelli (Barontini et al., 2016b). 5 – In questo senso, le tecniche irrigue tradizionali sono state anche un mezzo di interazione culturale per riconoscere la continuità tra nord e sud del Mediterraneo e il punto di partenza per la realizzazione di una mostra documentaria cui collaborarono studenti e ricercatori appartenenti sia alla comunità migrante sia alla comunità locale (Barontini et al., 2017). La mostra documentaria è disponibile come rapporto tecnico dell’Università di Brescia, DICATAM (www.barontini.files.wordpress.com/2016/04/2016_barontini_etal_at_ unibs_tr_tecniche_irrigue_pub_e_poster.pdf) (Barontini et al., 2016a). BIBLIOGRAFIA - Barontini S., Boselli V., Louki A., Ben Slima Z., Ghaouch F.E., Labaran R., Raffelli G., Peli M., Al Ani A.M., Vitale N., Borroni M., Martello N., Bettoni B., Negm A., Grossi G., Tomirotti M., Ranzi R. e Bacchi B., “Bridging Mediterranean cultures in the International Year of Soils 2015: a documentary exhibition on irrigation techniques in water scarcity conditions”, in “Hydrology Research”, 2017, 48(3), pp. 789–801. - Barontini S., Louki A., Ben Slima Z., Ghaouch F.E., Labaran R., Raffelli G., Al Ani A., Borroni M., Boselli V., Peli M., Negm A. e Vitale N., “Tecniche irrigue in condizioni di scarsità idrica”, Technical Report del DICATAM, Università degli Studi di Brescia, Brescia, n.1, 2016. - Barontini S., Vitale N., Fausti F., Badiani B., Bettoni B., Bonati S., Cerutti A., Peli M., Pietta A., Ranzi R., Scala B., Tononi M. e Zenucchini V., “L’irrigazione tradizionale delle limonaie del Garda tra scarsità idrica e antropizzazione del territorio”, In: Castellarin A., Archetti R., Baratti E., Cappelletti M., Carisi F., Domeneghetti A., Gaeta M.G., Paci A., Persiano S., Pugliese A. e Samaras A.G. (a cura di), “Atti del XXXV Convegno Nazionale di Idraulica e Costruzioni Idrauliche”, Università di Bologna Alma Mater Studiorum A.D. 1088, Bologna, 2016, pp.1235–1238. - Goblot H., “Les qanats. Une technique d’acquisition de l’eau”, Mouton Éditeur, Paris—La Haye—New York, 1979. - Laureano P., “La piramide rovesciata. Il modello oasi per il pianeta Terra. Nuova edizione”, Bollati Boringhieri, Torino, (1995) 2013. - Lee M.D. e Visscher J.T., “Water Harvesting in Five African Countries”, IRC Occasional Paper 14, The Hague, 1990. - Millennium Ecosystem Assessment, “Ecosystems and Human Well—Being: Synthesis”, Island Press, Washington, 2005. - Şen Z., “Wadi hydrology”, CRC Press, Taylor & Francis Group, Boca Raton—London—New York, 2008. - Starr S.F., “L’illuminismo perduto. L’età d’oro dell’Asia centrale dalla conquista araba a Tamerlano”, Einaudi, Torino, (2013) 2017. - UNCCD, “Revitalizing Traditional Knowledge. A Compilation of Documents and Reports from 1997 – 2003” (“Promotion of Traditional Knowledge. A Compilation of Documents and Reports from 1997 – 2003”), UNCCD, Bonn, Germany, 2005.

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Cristiano Tosco Dottore in Architettura. tosco.cri@gmail.com

La manipolazione rurale

01. Dettaglio della colombaia-belvedere che conclude il portico della Tuminera. Cristiano Tosco

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due casi di riaffermazione della cultura materiale nel progetto contemporaneo Attraverso la rilettura interpretativa di due progetti realizzati si intende affrontare la questione della tecnica come elemento da riscoprire per operare in contesti dove le competenze sono storicamente tramandate e tradotte. Lo studio materiale della Tuminera di Gabetti e Isola e della borgata alpina di Paraloup è il pretesto per riconsiderare il progetto d’architettura rurale nella contemporaneità e per offrire modelli di risposta a mutate condizioni ambientali in territori dove la trasformazione è un processo ciclico, lento e ininterrotto.* Through an interpretative rereading of two realized projects, the article aims to face the technical question as an element to be rediscovered in order to work on contexts where competences are historically passed down and translated. The case studies of “Tuminera” by Gabetti and Isola and Paraloup’s alpine village are the pretext to reconsider the project of rural architecture in our modernity and to offer some answer models facing changed environmental conditions in territories where transformation is a cyclical, slow and uninterrupted process.*

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are architettura non è una pratica di natura astratta. Tanto l’iter procedurale, che conduce alla materializzazione di un’idea, quanto le forme di ragionamento coinvolte, si stanziano su uno sfondo impregnato di tentativi espressamente materiali. Tale storia operativa ha le sue ragioni nel controllo della materia quale impulso antropico primigenio. Nel tempo l’essere umano ha stabilito un preciso rapporto con l’ambiente naturale che per molti anni si è supposto univoco, una forma di sopraffazione che ha consentito di toccare l’apice parabolico del progresso materiale della condizione novecentesca di città, metropoli e urbanizzazione globalizzata (Brenner, 2014). Ora che la materia, sul versante discendente del fenomeno mondiale, ha acquisito un ruolo di controllo indiretto sulle decisioni dell’uomo, è utile interrogarsi su uno stato particolare della storia del costruire che smaschera i meccanismi di manipolazione più direttamente di altri e li pone su un piano disposto in verticale nel tempo. In questo modo, si è forse in grado di raccogliere informazioni preziose circa il valore della tecnica nell’alterazione materiale dei contesti, come protocollo perpetuo e multiforme che dal passato, con modalità più spontanee e reiterate, arriva agli ultimi decenni del XX secolo e ai primi del XXI, con la consapevolezza del proprio bagaglio culturale. L’ambiente rurale, in quest’ottica, sembra richiamare lo sforzo fisico e quello mentale che l’architettura comporta, coniugandoli in un “approccio tipico dell’artigiano. Pensare e fare allo stesso tempo”1. Un rapido sguardo alla riscoperta delle tecniche del costruire tramandate dal progetto d’architettura moderno e contemporaneo2 permette di rivalutare la capacità di manipolare la materia, in forma diretta e in condizioni di scarsità di risorse, come necessario argomento di approfondimento nel dibattito sul progetto d’architettura riferito al nostro secolo. Nello specifico, il presente contributo indaga il contesto piemontese alpino e prealpino, per la ricchezza del patrimonio architettonico vernacolare e per la conseguente traduzione dello stesso quale bacino ricco di tecniche e pratiche riutilizzate e adattate a necessità nuove, affrontando

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02. Tuminera: lo spazio del portico. Cristiano Tosco

03. Tuminera: dettaglio di un pilastro a doppio puntone e della copertura. Cristiano Tosco

questioni attuali con la commistione di mezzi tramandati e avanzamenti tecnologici. Tanto nella Tuminera di Gabetti e Isola a Bagnolo Piemonte (1978-1982) quanto nella borgata alpina di Paraloup in Valle Stura (2006-2014), l’azione produttrice antropica, nel frangente della manipolazione di risorse locali e di buone pratiche ereditate, ha dimostrato di saper rispondere contemporaneamente all’attualità delle esigenze e al rispetto, in fase operativa, di una tradizione diffusa nel territorio. In entrambi i casi, le forme di manipolazione si inseriscono in palinsesti contemporanei di criticità e opportunità, rendendo la cultura materiale capace di pronunciarsi sui temi dell’oggi e divenendo ponte di collegamento e fattore attivo nel cambiamento degli scenari antropici. La condensazione degli spazi dell’abitare e del lavoro in un unico oggetto architettonico, è l’occasione per Roberto Gabetti e Aimaro Oreglia d’Isola - con la collaborazione di Guido Drocco, Enrico Moncalvo ed Emilia Paglieri - di sperimentare forme di manipolazione artificiale della pietra e del legno.

Nella Tuminera, infatti, questioni di natura platealmente tipologica si sottopongono a non celate strumentalizzazioni che vedono nella produzione, come processo transitorio e trasformativo della materia, un elemento pretestuale e quasi ossessivo che connette tra loro i dettagli e le lavorazioni derivati dal passato con un trattamento morfologico rinnovato. Il tema della produzione sembra essere geneticamente radicato nell’intervento architettonico: a partire dalla destinazione a luogo di produzione casearia con materie prime locali fino al dettaglio dello spacco della pietra o del larice grezzo, ogni elemento comunica una propria intima posizione all’interno di un processo costruttivo deterministicamente connesso all’ambiente circostante, costituito da allevamento, agricoltura, cave di pietra, boschi. Per descrivere tale propensione alla manipolazione delle risorse locali, l’edificio si può sottoporre a una lettura per parti, una traduzione tipologica della propria struttura fisica. La copertura, il muro di spina, i pilastri e il conseguente portico che si genera, rappresentano gli

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04. Vista panoramica della Tuminera. Cristiano Tosco

elementi chiave attorno ai quali l’intervento può dimostrare i termini e i limiti della produzione rurale, e quindi stabilire il valore di rimaneggiamento e di rinnovo di significato che il patrimonio materiale del luogo, rappresentato da ampie falde, misurati portici, “pantalere” e uso del mattone, incontra nel progetto contemporaneo. Il setto in mattoni pieni, unitamente al piano interrato servito da rampa, è una testimonianza dello sfruttamento topografico e orografico dell’area naturale: la soluzione di sviluppo lineare dei moduli funzionali - in ordine da Nord a Sud: produzione, corte aperta, vendita e abitazione - è una forma di adattamento alla lieve pendenza del sito. Il muro di spina, fungendo a intermittenza da divisore e da connettore e operando fisicamente sulla sua permeabilità, è “[…] forse una delle più intellettualistiche variazioni proposte da Gabetti e Isola sul tema del rapporto architettura/natura”3. Su di esso insiste una copertura dalle dimensioni e gli aggetti generosi, che rafforza la dignità tipologica del tetto non solo attraverso la ripetizione sfalsata del modello a capanna, ma anche e soprattutto con l’impiego delle lose in pietra di Luserna assemblate in un disegno a losanghe. In questo modo Gabetti e Isola non generano solo un ponte di connessione visiva con i tetti circostanti, ma dichiarano interesse al territorio e a ciò che offre: le cave di pietra di Luserna sono elemento diffuso nel paesaggio. Parallelamente alla spina laterizia e alla protezione litica, corre “una teoria di pilastri a doppio puntone, in larice grezzo, su cui il tetto […] sembra librarsi, come sospeso, indipendente rispetto agli spazi interesterni che va a ricoprire”4. Ecco che il portico, delimitato da una scansione verticale di sostegni irrobustiti da saette nel nodo superiore, collabora con i tipi del muro e della copertura per produrre uno spazio culturalmente riconoscibile e socialmente attivo. L’edificio si fonda sul significato della riscoperta tanto tipologica quanto tecnica e materiale, e offre una specifica soluzione a un problema di adeguamento contestuale. La Tuminera non costituisce un riferimento tanto in se stessa

quanto come polo reattivo di una serie di processi alla scala territoriale, sintomi dell’artificio dinamico delle economie, dello sfruttamento consapevole delle risorse locali e della ricerca delle pratiche diffuse nella tradizione che la costruzione di un’opera determina. A distanza di 34 anni, in Valle Stura (Rittana, Cuneo), la borgata alpina di Paraloup vede la realizzazione di un progetto di recupero che si attiva a partire da ciò che resta. Il gruppo di progettisti, formato da Dario Castellino, Valeria Cottino, Giovanni Barberis e Daniele Regis, assume un atteggiamento di ricostruzione nettamente riconoscibile nei confronti dei ruderi e delle tracce del nucleo costruito. Il tema dell’uso materiale delle risorse locali si sposta questa volta su strati di lettura tra loro apparentemente sconnessi: il mantenimento delle strutture solide in loco, la sintetizzazione volumetrico-formale e l’uso di legno e acciaio per tracciare un contatto fisico e concettuale. La storia di Paraloup è fatta di resistenza e di livelli. Nonostante gli alpeggi stagionali e il successivo abbandono, l’ostinazione a non scomparire della borgata è espressa tanto dal passato partigiano quanto dalla permanenza dei materiali dei quali si compone. Questi, anche attraverso l’intervento di

l’architettura come perpetua manipolazione materiale

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recupero integrale, continuano a mantenere la propria posizione nei sedimi originali, nei due tracciati “viari” primigeni, nella conservazione dei volumi e delle forme. L’introduzione di livelli perfettamente sovrapposti a quelli della storia locale incisa nella pietra e nel suolo - ammette l’avvento di due materiali specifici: castagno locale non trattato e lamiere in acciaio zincato. Il primo è adottato per l’innesto di nuove “scocche abitative” in assi a trama verticale su pacchetto isolante. La riproposizione formale ha il proprio coronamento nella copertura metallica, la quale, questa volta, pur non rappresentando

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05. Vista del complesso di Paraloup con affaccio sulla valle. Fabrizio Trimboli

una manipolazione diretta delle risorse, affronta il contatto con il contesto costruito tramite una sagomatura filologica (si tratta e si trattava di tetti a capanna).

vede nella produzione e nel riuso di tecniche e materiali una logica pretestuale del progetto rurale, che è del tutto rinnovato ma non è ancora in grado, almeno per ora, di slegarsi da quella “funzione narcisica” del patrimonio (Choay, 1992) della cultura contemporanea. Ciononostante, l’intervento, attraverso la particolare declinazione manipolativa, acquisisce i connotati di una buona pratica per il trattamento dei simboli e dei manufatti alpini pur agendo con perentorietà sull’architettura locale forzando le condizioni di un contesto all’interno della propria apparenza storica, forse ormai consumata. Oggi che l’abbandono dei borghi rurali e la questione delle “aree interne” italiane sono diventati temi di dibattito diffusi, la Tuminera e Paraloup costituiscono due esempi operativi che se astratti favoriscono modelli utili di intervento. La manipolazione del patrimonio rurale non è altro che la naturale conseguenza di una storia ciclica dove le fasi del divenire sono

la Tuminera e Paraloup: tra riscoperta tipologica e livelli materiali del progetto La borgata si rinnova e, nello sforzo di una riproposizione di se stessa attraverso il proprio corpo ferito che mostra cuciture e addizioni, è in realtà tutta mutata. Dagli usi insediati di spazio culturale, luogo di ristoro e albergo diffuso, ai criteri strutturali degli edifici per i quali le murature esistenti sono state consolidate e rese indipendenti, Paraloup cela il messaggio implicito di un uso estetico della storia in cui la produzione e il rimaneggiamento costruiscono palcoscenici di pura facciata. Questa possibilità

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06. Dettaglio del trattamento delle murature e dell’estradosso delle coperture. Cristiano Tosco

legate tra loro da una conoscenza precostituita, attraverso la quale poter tentare un avanzamento intellettuale che, se vantaggioso, a sua volta diverrà esso stesso tradizione. La necessità di rammentare temi così scontati, come il deterministico legame tra produzione e dato materiale o culturale locali, trova ragione nelle parvenze di un distacco tra la consapevolezza tecnica e la rappresentazione del pensiero progettuale. Lo studio di progetti che producono a partire da risorse effettivamente esistenti sul territorio, stabilendo legami con tecniche e consuetudini che hanno saputo superare la prova del tempo, è una premessa di fondamentale importanza nell’operare in contesti non urbani. Questo significa che aldilà delle etichette convenzionali serve saper guardare alla storia dei luoghi come fonte documentale per una trasformazione degli stessi e ridurre al massimo il margine di errore interpretativo attingendo, dove possibile, dai manufatti stessi, artifici costruiti da comunità di secoli passati che giungono ai giorni nostri come risposte parziali a condizioni mutate.*

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NOTE 1 - Sennett R., “L’uomo artigiano”, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 40. 2 - Dalla celebre mostra sull’Architettura rurale italiana curata da Giuseppe Pagano del 1936 (Pagano G., Guarniero D., “Architettura rurale italiana”, Quaderni della triennale, Milano, 1936) all’intima ricerca di Mario Ridolfi tra gli anni ’60 e ’80 del Novecento (Cellini F., D’Amato C., “Mario Ridolfi. Manuale delle Tecniche tradizionali del Costruire: il Ciclo delle Marmore”, Electa, Milano, 1997). 3 - Guerra A., Morresi M., “Gabetti e Isola. Opere di architettura”, Electa, Milano, 1996, p. 180. 4 - Acocella A., “L’architettura di pietra”, Firenze, Lucense-Alinea, 2004, p. 624. BIBLIOGRAFIA - Acocella A., “L’architettura di pietra”, Firenze, Lucense-Alinea, 2004. - Brenner N., “Stato, spazio, urbanizzazione”, traduzione di Pullano T., Milano, Guerini Scientifica, 2016. - Cellini F., D’Amato C., “Mario Ridolfi. Manuale delle Tecniche tradizionali del Costruire: il Ciclo delle Marmore”, Electa, Milano, 1997. - Choay F., “L’Allegoria del patrimonio”, a cura di D’Alfonso E., Officina Edizioni, Roma, 1996. - Croset P.A., “Gabetti e Isola. Due architetture in Piemonte”, in “Casabella”, 1982, n. 485 (novembre), pp. 2-11. - Guerra A., Morresi M., “Gabetti e Isola. Opere di architettura”, Electa, Milano, 1996. - Pagano G., Guarniero D., “Architettura rurale italiana”, Quaderni della triennale, Milano, 1936. - Sennett R., “L’uomo artigiano”, Feltrinelli, Milano, 2008. - Regis D. (a cura di), “Atlante dei borghi rurali alpini. Il caso di Paraloup”, Fondazione Nuto Revelli, Cuneo, 2012.

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Emiliano Romagnoli Docente a contratto presso l’Università degli Studi di Firenze. emiliano.romagnoli@unifi.it

Costruire la montagna

01. Il padiglione centrale della colonia ai piedi del monte Antelao. Nicola Noro per Progettoborca

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il villaggio a Corte di Cadore di Edoardo Gellner Nel villaggio turistico di Corte la natura si è ripresa ciò che l’uomo le aveva tolto, rovesciando il paradosso per il quale il turismo nel suo processo di valorizzazione dei luoghi, distrugge proprio ciò che lo genera: il paesaggio. L’uso delle risorse da parte di Edoardo Gellner rende il villaggio un esempio di come l’architettura possa costituirsi come “restauro di paesaggio”. Le tecniche costruttive artigianali, la conservazione delle alberature esistenti, e la dispersione delle acque meteoriche hanno modificato il microclima della zona permettendo alla natura di “ricostruirsi” spontaneamente.* In the Corte’s tourist village, nature has recovered what man had taken away from it, overturning the paradox whereby tourism, in its process of enhancing places, destroys precisely what generates it: the landscape. Edoardo Gellner’s use of resources makes the village an example of how architecture can be described as “landscape restoration”. The artisan construction techniques, the preservation of the existing trees, and the dispersion of rainwater have modified the microclimate of the area allowing nature to “rebuild” spontaneously.*

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he cosa dobbiamo intendere per paesaggio? Non solo l’intatta natura nel suo grandioso scenario di cime, ghiacciai, boschi e prati, ma anche l’opera dell’uomo che in quest’ambiente si è inserita, trasformandolo e creando al paesaggio un nuovo volto, realizzando insomma un paesaggio costruito e umanizzato”1. In queste parole dell’architetto Edoardo Gellner la sua visione di paesaggio appare chiara: l’uomo dà segno di sé attraverso le proprie opere che inevitabilmente e inesorabilmente segnano e trasformano un luogo. Con il piano di Cortina per Edoardo Gellner inizia l’analisi degli insediamenti montani che lo porterà poi a concepire contemporaneamente le modalità costitutive dell’edificio vero e proprio, le regole di aggregazione delle cellule nella formazione dei tessuti e il modo di porsi nei confronti dei condizionamenti esterni. In contraddizione rispetto al costume progettuale della Cortina degli anni ’50, dove dilagava un presunto e idealizzato “stile ampezzano”, E. Gellner elabora una reinterpretazione del linguaggio tradizionale. Egli, quindi, reinterpreta il linguaggio dell’architettura anonima, della quale tenta di indagare la vera e propria essenza, le regole costruttive, le ragioni tettoniche dell’impiego dei materiali, delle strutture e delle murature, le logiche climatiche degli orientamenti, delle aperture e delle coperture. Negli anni Gellner matura una sensibilità particolare per il diverso trattamento dei fronti nei confronti dell’insolazione e delle visuali, per il rispetto delle preesistenze, per l’utilizzo intelligente delle pendenze e delle irregolarità del terreno, per l’esibizione autentica dei materiali. Come egli stesso scrive in Architettura anonima ampezzana, la trasformazione ambientale di Cortina avvenuta a partire dagli anni ’50 ha avuto ripercussioni negative sul patrimonio storico-edilizio. Questa trasformazione è stata guidata da un’idea, legittima, di avere più spazio, più luce, ma soprattutto servizi tecnologici e igienici adeguati a un vivere moderno, tuttavia, a Cortina, questa trasformazione ha trovato espressione al di fuori di un adeguato supporto culturale. Una volta che è andata perduta l’antica cultura del fabbricare, sedimentazione secolare di una società contadino-montanara piutto-

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il villaggio turistico di Corte diverrà un esempio di come l’architettura possa costituirsi come restauro di paesaggio 02. Il contesto ambientale del Villaggio Eni con l’emergenza della Chiesa. Nicola Noro per Progettoborca

sto evoluta, nell’impatto travolgente con le forze economiche legate al turismo, questa nuova condizione di ricchezza non ha saputo, né avrebbe potuto offrire ricambi culturali validi. Dal punto di vista dell’architettura rurale ampezzana, dice E. Gellner, tale insufficienza ha significato il rigetto dell’autentico, onesto contenuto del vecchio costruire, e il baratto con le false forme puramente edonistiche di un “rustico” confezionato dalla speculazione edilizia a consumo dell’utenza del turismo residenziale. Nel lavoro su Cortina Gellner riesce a mettere a punto un repertorio di soluzioni tecnologiche adatte alle particolari situazioni ambientali che contribuirà, significativamente, a definire il suo modo di costruire in montagna. E. Gellner elabora soluzioni tecnologiche che hanno risvolti importanti in termini di linguaggio, si pensi ad esempio al “tetto freddo”. Come nell’architettura tradizionale, nelle opere di E. Gellner il dato tecnologico è essenza, non già unicamente elemento costitutivo. A Cortina l’architetto ha la possibilità di osservare gli

elementi che caratterizzano l’habitat montano e, nell’ambito delle sue esplorazioni su tecniche, materiali e geografia del sito, l’analisi che approfondisce maggiormente è quella degli edifici nei rapporti con l’ambiente naturale. L’occasione di esprimere quanto analizzato e studiato nel lavoro su Cortina per E. Gellner arriva nel ’54 quando gli viene affidato da Enrico Mattei un importante incarico: la progettazione del villaggio vacanze di Corte di Cadore per i dipendenti della neonata ENI. Voluto così da Enrico Mattei, allora presidente dell’Agip e dell’Ente Nazionale Idrocarburi, E. Gellner è chiamato a realizzare un villaggio di vacanza per circa seimila abitanti su un’area di duecento ettari. Situato nel comune di Borca di Cadore, a pochi chilometri da Cortina d’Ampezzo, ai piedi del Monte Antelao e di fronte al Monte Pelmo, in uno scenario dolomitico di rara suggestione, il villaggio (img. 05) costituisce un’esperienza unica per dimensione e rara per atteggiamento progettuale. Il complesso prevede una serie di strutture: residenze per famiglie, colonie per bambini, alber-

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la natura qui infatti si è ripresa ciò che l’uomo nel tempo le aveva tolto

03. Le tende del villaggio Eni. Nicola Noro per Progettoborca

04. Lo spazio interno delle tende del villaggio Eni. Nicola Noro per Progettoborca

ghi per single, una chiesa, un centro sociale mai realizzato e un campeggio per circa duecento giovani. Quest’ultimo oltre a presentare una struttura comune per servizi, è caratterizzato da una serie di piccoli rifugi dormitorio, tutti uguali, denominati “tende”. Il villaggio turistico di Corte diverrà un esempio di come l’architettura possa costituirsi come “restauro di paesaggio”3, grazie anche all’uso delle risorse naturali da parte dell’architetto, grazie alla lettura dell’orografia del terreno e alla profonda conoscenza dei materiali locali e delle tecniche di posa in opera degli stessi. La natura qui, infatti, si è ripresa ciò che l’uomo nel tempo le aveva tolto, rovesciando il paradosso per il quale il turismo nel suo processo di valorizzazione dei luoghi, distrugge proprio ciò che lo genera: il paesaggio. “Disseminare centinaia e centinaia di casette di vacanza (questo era il tema) lungo le pendici dell’Antelao, in uno dei più decantati paesaggi dolomitici, portava in primo piano il difficile problema dell’inserimento di questo particolare tipo

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edilizio nell’ambiente naturale, che si doveva non deturpare, anzi semmai tentare di esaltare con quest’opera di umanizzazione. […] Si trattava di operare scelte in altre direzioni per quanto riguardava possibili nuovi rapporti formali fra architettura e montagna. Così, per la visione del paesaggio, inteso quale insieme di case, boschi e montagna, si decise di ubicare le costruzioni trasversalmente alla pendenza del terreno, con coperture a falda unica; questo scandire le orizzontali lungo le pendici boschive formanti piede alla massa dell’incombente Antelao, viene solo qua e là interrotto da pochi edifici più importanti, il Padiglione centrale della colonia (img. 01) e la chiesa (img. 06) che emergono dal contesto edilizio per la diversa forma della copertura a due falde fortemente spioventi” (Gellner, 1994). L’assunto, in questa circostanza, è integrare architettura e paesaggio. Alla base vi è il preciso proposito di poter riqualificare il sito attraverso il progetto. Il risultato è quanto mai eloquente: l’intervento non ha contaminato in negativo l’ambiente, ma anzi ha contribuito a una sua progressiva

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05. Case unifamiliari del villaggio Eni. Nicola Noro per Progettoborca

rivitalizzazione, agendo perfino sul microclima, e a favore di un ripopolamento vegetale e animale. I primi schizzi e sviluppi progettuali dell’intero villaggio, elaborati da Gellner, rivelano alcuni tratti singolari: grappoli di tetti a doppia falda dotati di un certo verticalismo caratterizzano il versante sud dell’Antelao nei pressi del piccolo comune di Borca di Cadore. Dopo i primi confronti con lo stesso Mattei, Gellner volge verso soluzioni più distese; solo alcune emergenze continuano a segnare marcatamente l’intervento, la chiesa e l’aula comune della colonia, entrambe caratterizzate da una copertura a doppia falda che dal colmo raggiunge il suolo. A partire dalla chiesa, per uno strano processo di gemmazione, fioriscono un po’ più a monte le “tende” del campeggio (img. 03), anch’esse prodotte dalla singolare iterazione di una sezione resistente triangolare equilatera (img. 04). Meno eclatanti rispetto alle altre parti del villaggio e sicuramente di minor impatto, date anche le dimensioni, le “tende”, tuttavia, sembrano contenere un

principio di sintesi e di economia paradigmatico per Gellner del suo modo di intendere la montagna. Come accade nei deceni2, intorno a degli spazi comuni si coagulano gruppi di dieci tende che nella loro apparente casualità seguono invece delle precise regole aggregative e planivolumetriche. Infatti, tutte le “tende” si dispongono secondo la linea di massima pendenza del terreno con delle lievi oscillazioni legate all’orografia e alla volontà di esporre sempre due lati della struttura verso sud, per godere del massimo apporto solare. Tutte le “tende” sono affiancate lungo lo “stillicidio” e tutte (a eccezione di quelle per i capisquadra) presentano un accesso da sud con un piccolo spazio antistante che rimanda all’antico “sorei” e cioè lo spazio per le attività all’aperto tipico delle costruzioni rurali locali. Ripensando alle Regole per chi costruisce in montagna4 di Adolf Loos, che nel 1913 esortava a non pensare al tetto, ma alla pioggia ed alla neve, E. Gellner, nella concezione delle “tende”, ricuce attraverso il progetto quell’antico legame tra architettu-

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Gellner ricuce, attraverso il progetto, quell’antico legame tra architettura e territorio 06. La chiesa del villaggio Eni nel suo contesto ambientale. Nicola Noro per Progettoborca

ra e territorio che è proprio dell’architettura tradizionale. Proprio quel legame che a Cortina è andato perduto nel tentativo di dare risposta alla domanda di facile e stereotipata “montagna” nel periodo di rapida ascesa nel panorama del turismo internazionale nel corso degli anni Cinquanta. Si trattava di resistere soprattutto al fascino dei luoghi troppo belli, diceva Edoardo Gellner e infatti alla facile mimesi del contorno Gellner contrappone un’attenta risposta al quesito di quale debba essere l’atteggiamento dell’architetto contemporaneo che si trovi ad operare in montagna. Gellner elabora, in “polemica con il rustico”5, un linguaggio asciutto, moderno, che affonda le sue radici nella grammatica dell’architettura anonima montanara e che differenzia le risposte figurative proprio in relazione alla consistenza del paesaggio. “Fu una lezione utilissima: imparai ad apprezzare la sincerità e l’esattezza tecnica con cui venivano impiegati i materiali disponibili, la pietra e il legno, e l’asciuttezza con cui venivano fornite, grazie a secoli di esperienza, precise risposte alle esigenze di riparo e di lavoro del montanaro”6.*

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NOTE 1 - In AA.VV., “Edoardo Gellner, Architetture Organiche” per Enrico Mattei 1954-1961, Atti della giornata di studi Roma-Gela-Pieve di Cadore, Gangemi Editore, Roma, 2006. 2 - Centene e Deceni corrispondono alla divisione del territorio nell’alto medioevo, i Deceni sono annucleamenti rurali di circa dieci case, in Edoardo Gellner, “Architettura Anonima Ampezzana”, Franco Muzzio e Co Editore, Padova, 1981. 3 - In Friedrich Achleitner, Paolo Biadene, Edoardo Gellner, Michele Merlo, “Edoardo Gellner Corte di Cadore”, Skira Editore, Milano, 2002. 4 - Tratto dal testo di Adolf Loos, “Parole nel vuoto”, Adelphi, Milano, 1972. 5 - Definizione utilizzata da Franco Mancuso nella monografia “Edoardo Gellner architetto”, Electa, Milano, 1996. 6 - In AA.VV., “Edoardo Gellner, Architetture Organiche” per Enrico Mattei 1954-1961, Atti della giornata di studi Roma-Gela-Pieve di Cadore, Gangemi Editore, Roma, 2006. BIBLIOGRAFIA - AA.VV., “Edoardo Gellner. Architetture organiche per Enrico Mattei 1954-1961” Gangemi, Roma, 2006. - Achleitner F., Biadene P., Gellner E., Merlo M., “Edoardo Gellner Corte di Cadore”, Skira Editore, Milano, 2002. - Gellner E., Scarpa C., “La chiesa di Corte di Cadore”, Electa, Milano, 2000. - Gellner E., “Architettura Anonima Ampezzana”, Franco Muzzio Editore, Padova, 1981. - Mancuso F., “Edoardo G., “Il mestiere di architetto”, Electa, Milano, 1996. - Merlo M., “Quasi un diario, appunti autobiografici di un architetto”, Gangemi, Roma, 2009.

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Margherita Ferrari Dottoranda in Nuove tecnologie, informazione territorio e ambiente, Dipartimento di Culture del Progetto, UniversitĂ Iuav di Venezia. margheritaf@iuav.it

Nel dettaglio ligneo

01. Interno del Teatro Vidy, 2017. Ilka Kramer, Yves Weinand Architectes, Lausanne

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nella geometria degli elementi costruttivi sono racchiusi storici saperi legati alla trasformazione del legno, un artificio che oggi l’uomo sta modificando con le nuove tecnologie La carpenteria lignea rappresenta uno scenario in cui i più innovativi strumenti si incontrano con storiche tradizioni manifatturiere. Si tratta di un’importante trasformazione che non riguarda solo gli strumenti del mestiere, ma inevitabilmente anche la progettazione, come quella degli elementi costruttivi in legno e dei loro collegamenti. I dettagli costruttivi tornano protagonisti, frutto della capacità di utilizzare le tecnologie in relazione alla natura del materiale e alle sue proprietà.* The wooden carpentry represents a scenario in which the most innovative tools meet historical manufacturing traditions. This is an important transformation that does not only concern the tools of the trade, but inevitably also design, such as that of the wooden construction elements and their connections. The construction details return to the protagonists, the result of the ability to use the technologies in relation to the natural material and its properties.*

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impiego del legno in edilizia ha una storia antica, e antiche sono anche le tradizioni legate alla lavorazione di questo materiale, che racchiudono un sapere proprio di un luogo riferito non solo alle tecniche di lavorazione, ma anche di riconoscimento della materia stessa, nei suoi pregi e difetti, nella sua natura. Accanto a queste tradizioni si stanno oggi sviluppando tecnologie innovative, capaci di fornire nuovi strumenti per la lavorazione del legno, sempre più precisi e veloci, e sempre più intelligenti. Diviene cruciale indagare l’impatto che queste nuove tecnologie hanno sulla lavorazione dei materiali e sul sapere legato alla trasformazione della materia. La carpenteria e la morfologia dei nodi di assemblaggio di componenti edilizi rappresentano il campo ideale per descrivere questo impatto, in cui l’innovazione si incontra con le tradizioni manifatturiere. Nella geometria degli elementi costruttivi sono infatti racchiusi storici saperi legati alla trasformazione del legno, un artificio che oggi l’uomo sta modificando con le nuove tecnologie. L’uomo può migliorare l’impiego del legno in edilizia, sia attraverso l’uso di nuovi materiali derivati dal legno, come il lamellare1, sia ridefinendo le tipologie di elementi strutturali2 e relativi collegamenti. La trasformazione degli strumenti per la produzione riguarda inevitabilmente anche la progettazione dei componenti edilizi stessi. Con il progresso tecnologico degli ultimi duecento anni, questo cambiamento si è velocizzato3: la chimica ha introdotto nuove leghe per realizzare strumenti sempre più resistenti che, insieme alla meccanica e all’elettronica, hanno sviluppato macchine utensili capaci di riprodurre ripetutamente un gesto lavorativo. Il tornio e la fresatrice sono solo due esempi di strumenti che riproducono un tipo di lavorazione della materia, amplificando le potenzialità e la precisione del corrispettivo gesto umano. Se queste macchine sono infine integrate con processi informatici, acquisiscono una propria autonomia e quindi sono in grado di riconoscere le condizioni di lavoro e di rispondere alle stesse:

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03. Maggie’s Manchester. Nigel Young/Foster + Partners

sono le soglie dell’automazione (Lilley, 1957). Gli strumenti più conosciuti appartenenti alla filiera del legno sono, ad esempio, le macchine CNC – Computer Numerical Control, la cui flessibilità si è amplificata con l’incremento della digitalizzazione. Maggiore è il grado di flessibilità, maggiori saranno le lavorazioni eseguibili e soprattutto la libertà di movimento che lo strumento potrà avere: le macchine CNC sono classificate sulla base del numero di assi4 perché iden-

nelle loro geometrie e materiali, riavvicinando così i processi dell’architettura che con la produzione industriale di massa si erano allontanati (Nardi, 1994). Se nel Novecento alcune scelte costruttive, e quindi progettuali, erano vincolate principalmente al mercato e alla disponibilità di componenti offerti dalle fabbriche, oggi grazie a linee di produzione sempre più flessibili, è la produzione ad adattarsi alle richieste del cliente. Le nuove tecnologie contribuiscono a governare puntualmente il progetto e a definire anche la morfologia degli elementi costruttivi, restituendo all’architettura quella naturale bellezza che si identifica appunto con la struttura (Nervi, 1997), non più nascosta dietro rivestimenti, ma protagonista e generatrice di spazio.

le tecnologie possono contribuire a ridefinire il paradigma della progettazione, in ogni suo dettaglio, a partire appunto da quello strutturale, individuando e ridisegnando nuove morfologie di collegamento tificano i gradi di libertà su cui lo strumento si può muovere e quindi la capacità di integrare all’interno dello stesso processo un maggior numero di lavorazioni. Accanto alla flessibilità meccanica propria delle macchine, è importante considerare anche il ruolo dei software che hanno permesso di interfacciare il mondo della progettazione e del disegno, con quello esecutivo e della produzione: rispettivamente corrispondono ai sistemi digitali CAD – Computer Aided Design e CAM - Computer Aided Manufacturing. Essi contribuiscono a ridefinire la produzione industriale, dissociandola dalla standardizzazione e rendendola customizzata, capace cioè di riprodurre la varietà dei prodotti richiesti (Paoletti, 2010). Le tecnologie di ultima generazione, frutto dell’integrazione di macchine flessibili come le CNC e di sistemi di progettazione digitale, agevolano la comunicazione tra la progettazione architettonica e la produzione e permettono di intervenire direttamente sulla morfologia degli elementi,

Nelle carpenterie Governare puntualmente la progettazione, corrisponde anche a monitorare la produzione, e in una filiera come quella del legno significa ottimizzare l’impiego della materia, riducendo gli scarti di lavorazione e sfruttando quanto più possibile le sue proprietà intrinseche5. Il settore manifatturiero che meglio descrive questa trasformazione, al confine tra il progetto e la materia, è quello della carpenteria lignea: conoscere la trasformazione in questo ambito aiuta a comprendere anche il legame tra progettazione e produzione e come la tecnologia possa contribuire a rafforzarlo. Tra le carpenterie europee si contraddistingue il Lehmann Group, nato dalla segheria svizzera di fine Ottocento dell’omonimo Sägerei Leonhard Lehmann. La compagnia segue tout court la produzione e lavorazione del legno, dalla gestione delle foreste per la materia prima al riciclo degli scarti per la produzione di pellet. È attiva in Europa e collabora con architetti internazionali e centri di ricerca accademici: le competenze che contraddistinguono una carpenteria simile, così come altre aziende che lavorano

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03. Maggie’s Manchester: gli elementi del telaio: le travi , le colonne reticolari e il collegamento triangolare. Nigel Young/Foster + Partners

materie prime, stanno proprio nella capacità di interpretare la trasformazione della materia in maniera innovativa, quindi di utilizzare la tecnologia in relazione alla natura del materiale e alle sue proprietà. A partire dall’integrazione di queste competenze con la progettazione architettonica, è possibile non solo realizzare strutture più o meno complesse ottimizzando l’impiego della materia, ma anche sperimentare forme nuove per il legno e sagomare direttamente la morfologia di ogni singolo componente strutturale. Il Maggie’s Centre a Manchester (Foster+ Partners, 2016) (img. 02) costituisce uno dei più recenti esempi di integrazione tra progettazione e produzione, costruiti in Europa. La struttura è costituita da 17 portali identici realizzati in abete, disposti linearmente a distanza di 3 m l’uno dall’altro: ogni portale è costituito da due colonne, due travi a sbalzo e quattro travi inclinate per la copertura (img. 03). Queste parti si connettono tramite piastre d’acciaio a un elemento triangolare che costituisce l’incastro del portale. Ad eccezione di quest’ultimo, travi e colonne sono elementi reticolari e le dimensioni delle aste interne sono variabili, in funzione al carico che devono sopportare. Ne risulta quindi un progetto molto complesso, poiché le aste da produrre sono oltre 10 mila e presentano differenti geometrie. In questo caso la tecnologia ha contribuito a ottimizzare la produzione di tutte le parti e l’impiego di materiale (Maddock et al., 2017): la peculiarità della customizzazione contemporanea non è tanto la capacità di rispondere alla richiesta del progettista, ma piuttosto di rispondere in maniera sempre più efficiente, sia in termini di qualità che di costi. La customizzazione oggi è senza dubbio meno onerosa ed esclusiva rispetto a un tempo, ma non deve essere confusa con l’innovazione: nell’antico Giappone i templi erano costruiti con migliaia di pezzi, sagomati uno a uno che, una volta dismessi, erano perfino reintegrati in strutture più modeste

04. Tempio giapponese, dettaglio sulla curvatura del tetto.

per abitazioni private. Le coperture di alcuni templi giapponesi presentano gli angoli ricurvi verso l’alto6 (img. 04): questa forma non era realizzata tramite elementi lignei curvi, come accadeva per i ponti dell’Antica Roma, ma si impiegavano tanti elementi sagomati in modo da riprodurre la curvatura del tetto (Zweger, 2015). Le travi della copertura poste in angolo erano dentellate all’estradosso per ospitare numerosi elementi chiamati “travi volanti”, che corrispondono a quelle che noi oggi conosciamo come travi secondarie, cioè elementi della struttura che contribuiscono ad irrigidire il telaio, in questo caso per sostenere la copertura. Ciascuno di questi elementi a sbalzo ha una lunghezza differente in base alla posizione all’interno del telaio (Parent, 1983). Anche queste costruzioni richiedevano quindi la produzione di migliaia di pezzi differenti l’uno dall’altro, ma in quell’epoca non esistevano neppure le più rudimentali macchine per il taglio. Quindi, sebbene ci siano oltre 1000 anni di differenza, il Maggie’s Manchester e i templi giapponesi sono entrambi

la capacità di interpretare la trasformazione della materia in maniera innovativa è quella di utilizzare la tecnologia in relazione alla natura del materiale e alle sue proprietà

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frutto di un’elevata capacità di customizzazione, ottenuta grazie alle carpenterie e alle maestranze capaci di impiegare gli strumenti a propria disposizione nella maniera ottimale. Il progresso tecnologico ha contribuito a trasformare gli strumenti del mestiere e per questo motivo ha reso possibile trasferire in maniera sempre più ottimale lavorazioni storicamente affidate al gesto umano, a macchine in grado

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05. Teatro Vidy, montaggio pannelli strutturali. Ilka Kramer, Yves Weinand Architectes, Lausanne

la customizzazione oggi è senza dubbio meno onerosa ed esclusiva rispetto a un tempo, ma non deve essere confusa con l’innovazione

di riprodurre autonomamente gli stessi movimenti e dotate della stessa sensibilità. Tuttavia il limite tecnologico è rappresentato proprio da questa somiglianza, ovvero dalla capacità di riprodurre meccanicamente uno storico gesto di lavorazione. Oltre questa soglia, il gesto meccanico può superare il gesto umano: ed è proprio in questo campo che la creatività dell’uomo può ampliare i confini della progettazione, nella natura della materia impiegata. Le tecnologie possono infatti contribuire a ridefinire il paradigma della progettazione, in ogni suo dettaglio, a partire appunto da quello strutturale, individuando e ridisegnando nuove morfologie di collegamento. Si tratta di sperimentazioni basate sulla disponibilità dei prodotti lignei e degli strumenti per la lavorazione, a partire dalle conoscenze di queste tecnologie che hanno profonde radici soprattutto nel Nord Europa, in Cina e in Giappone (Zweger, 2015). Dalla combinazione di questi saperi, prendono forma sistemi costruttivi nuovi in cui il dettaglio strutturale diviene parte fondamentale del

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06. Teatro Vidy, collegamento dei pannelli strutturali. Ilka Kramer, Yves Weinand Architectes, Lausanne

07. Teatro Vidy. Ilka Kramer, Yves Weinand Architectes, Lausanne

progetto stesso: a partire dal concetto di origami ad esempio e dai nodi legno-legno, Yves Weinand con il gruppo di ricerca IBOIS del Politecnico di Losanna, ha elaborato una tecnologia che impiega pannelli strutturali inclinati, sagomandone i margini per permettere l’incastro l’uno con l’altro. Il sistema di nodo impiegato è quello a coda di rondine ed è stato adattato all’inclinazione degli elementi da collegare. Questo complesso sistema è stato realizzato tramite l’integrazione di software di disegno e macchine a controllo numerico, che hanno permesso di sagomare ad hoc i collegamenti. La tecnologia sperimentale è stata infine impiegata su scala architettonica per la realizzazione di una nuova sala per il Teatro Vidy a Losanna, inaugurato nel settembre del 2017 (img. 06). La struttura verticale e di copertura è realizzata tramite pannelli lignei tra loro inclinati e incastrati: è formata da un doppio strato di pannelli, tra i quali è stato inserito del materiale isolante. La peculiarità del teatro consiste nella tipologia di collegamento impiegato tra i pannelli: si tratta di una connessione legno-legno a coda di rondine ma con superfici e facce inclinate, condizioni che rendono molto complessa la riproduzione di questi tagli sul pannello. Questi dettagli sono stati realizzati proprio grazie all’impiego di tecnologie automatizzate, capaci di sagomare con il minimo margine d’errore i dettagli lignei. Le nuove tecnologie impiegate nella filiera del legno contribuiscono quindi a migliorare la produzione dal punto di vista di costi e tempi, e anche di riduzione degli scarti, ma allo stesso tempo sono anche i mezzi che permettono di sperimentare nuove forme, sia sul piano morfologico che della materia stessa. Questo campo di sperimentazione, rafforzando il dialogo tra progettazione e produzione, permette di recuperare non solo “le radici delle nostre tradizioni che abbiamo estirpato e dimenticato legate alla conoscenza della natura dei materiali” (Zweger, 2015), ma anche di restituire al dettaglio architettonico un proprio ruolo all’interno del progetto e di progettare la materia nei millimetri della sua natura.*

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NOTE 1 - Il legno lamellare è un prodotto ottenuto dall’assemblaggio di più tavole lignee tramite colla; ne risulta un prodotto molto resistente, utilizzato soprattutto per coprire ampie luci. 2 - Con tipologie strutturali si intendono gli elementi portanti di un manufatto: gli elementi monodimensionali come travi, pilastri o listelli, oppure gli elementi bidimensionali, come pannelli. 3 - In questa crescita hanno contribuito differenti fattori, in particolar modo l’informatica e il web che hanno permesso di costruire una dimensione digitale trasferendo al suo interno sempre più informazioni, con importanti ripercussioni sul piano sociale e lavorativo. 4 - Gli assi di una macchina CNC costituiscono i gradi di libertà. Con assi si intende la direzione sulla quale la macchina può effettuare l’operazione: a 2 assi significa ad esempio che si può muovere sugli assi X e Y, a 5 assi che può muoversi anche lungo l’asse Z, inclinarsi o ruotare. Il numero degli assi può crescere ulteriormente e arrivare anche a diverse decine, e varia in funzione della tipologia della macchina e delle operazioni da svolgere. 5 - Con proprietà intrinseche, si intendono le proprietà del legno soggette alla natura stessa del materiale. Saper lavorare un legno comporta prima di tutto riconoscerne le caratteristiche. I legni sono classificati come specie, e a loro volta come varietà in base al luogo di provenienza, poiché condizioni ambientali differenti influenzano direttamente lo sviluppo naturale del materiale. La capacità meccanica di un legno è quindi variabile a seconda della sua provenienza, della presenza di nodi negli anelli, di insetti o funghi: tutti fattori che possono compromettere la qualità finale della materia. Riconoscere puntualmente questi aspetti permette di selezionare più accuratamente la materia in funzione del suo impiego finale. 6 - Gli angoli della copertura erano rivolti verso l’alto per contribuire a contenere la neve sul piano. BIBLIOGRAFIA - Lilley S., “Automation and social progress”, International Publishers, 1957. - Maddock R., De Kestelier X., Ridsdill Smith R., Haylock D., “Maggie’s at the the Robert Parfett Building, Manchester”, in Sheil B., Menges A., Glynn R. and Skavara M. (a cura di) “Fabricate 2017”, UCL Press, Londra, 2017. - Nardi G, “Nuove radici antiche”, Franco Angeli, Milano, 1994. - Nervi P., “Scienza o arte del costruire?”, Città Studi, Milano, 1997. - Parent M.N., “The roof in Japanese Buddhist Architecture, Weatherhill”, New York and Tokyo, 1983. - Paoletti I., “Forme complesse del costruire”, Maggioli Editore, Rimini, 2010. - Zweger K., “Wood and wood joints”, Birkhauser, Basilea, 2015.

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Massimiliano Condotta Architetto PhD, Ricercatore presso Dipartimento di Culture del Progetto, UniversitĂ Iuav di Venezia. condotta@iuav.it

I rivestimenti metallici in architettura

01. St. Mary's Medieval Mile Museum, Kilkenny, ampliamento che ricostruisce il coro della navata centrale. McCullough Mulvin Architects; photo Christian Richters

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in un’ottica di progettazione sostenibile, non solo sotto l’aspetto energetico ma anche culturale, si sta assistendo a un approccio nell’uso del metallo come elemento di rivestimento per creare affinità con il contesto L’uso del metallo nelle costruzioni è una tradizione antica e il suo utilizzo in architettura è stato possibile a seguito di processi di trasformazione del minerale in una materia prima lavorabile con tecniche artigianali. Ora l’innovazione è orientata allo sviluppo di nuove tecnologie e sistemi di produzione in grado di fornire all’architetto soluzioni on-demand. L’articolo intende indagare il rapporto tra natura, uomo e tecnologia per quanto riguarda i sistemi di rivestimento metallico anche attraverso esperienze di ricerca tra università e impresa.* The use of metal in buildings is an ancient tradition and its use in architecture was possible as a result of transformation process of minerals into raw material that can be worked with artisanal techniques. Nowadays innovation is directed to the development of new technologies and production systems that provide architects with on-demand solutions. The article intends to investigate the relationship between nature, men and technology with regard to metal coating systems also through a research experience between university and industry.*

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ulla 53ª strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue a New York, a fianco della grande e imponente superficie vetrata del MoMA, si erigeva un edificio di ridotte dimensioni, ma nonostante ciò dall’aspetto massiccio e presente, divenendo un frammento del fronte urbano in grado di trasmettere familiarità, confidenza, sicurezza: si trattava del The Folk Art Museum, ora abbattuto1. Come scrivono i progettisti Tod Williams e Billie Tsien “we wanted the building to reflect the direct connection between heart and hand”. A tal proposito il suo ingresso era modellato a richiamare la forma di una mano aperta, ed era realizzato con pannelli in white bronz2 appositamente prodotti in una fonderia artistica tramite colatura su stampi di sabbia a loro volta ottenuti dal calco del pavimento in cemento. Le imperfezioni della pavimentazione così impresse negli stampi avevano generato variazioni uniche e impreviste sulla superficie dei pannelli. Il risultato era un elemento architettonico che, attraverso una forma geometrica appositamente disegnata – “forma dell’espressione” – e resa concreta attraverso un materiale idoneo – “sostanza dell’espressione”3 – esprimeva un messaggio, un concetto profondo che traspirava attraverso la pelle dell’edificio, anticipando ciò che esso conteneva. Al suo interno infatti, erano esposte opere prodotte dai così detti self-taught artists, talenti che non hanno avuto una formazione artistica, ma che attraverso un’osservazione diretta della natura, del mondo circostante e attraverso impegno, artificio e tecniche originali e innovative con cui manipolare la materia hanno saputo produrre importanti opere d’arte. La scelta del metallo come elemento di finitura e come sostanza con cui trasmettere questo messaggio, non poteva essere migliore. Esso rappresenta infatti un passo importante nello sviluppo della società umana. L’età dei metalli, l’epoca successiva all’età della pietra, vede un’innovazione rivoluzionaria nella produzione di utensili: se i manufatti lapidei erano prodotti utilizzando direttamente la materia prima trovata in natura senza bisogno di ulteriori processi

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02. American Folk Art Museum. Massimiliano Condotta

di lavorazione se non sbozzature meccaniche, gli oggetti in metallo sono il prodotto di un artigianato complesso, che prevedeva l’adozione del fuoco e l’utilizzo di fornaci. Metallo e uomo sono quindi intimamente legati e il loro rapporto è antico, atavico. Forse anche per questo il Folk and Art Museum riusciva ad avere quella forza espressiva da molti ora rimpianta. L’uso del metallo ha una tradizione antica anche nelle costruzioni. Il suo impiego in architettura è stato però possibile solo a seguito della trasformazione del minerale in una materia prima lavorabile; un processo complesso che ne ha rallentato la sua applicazione per molti secoli, limitandola alle grandi architetture civili o di culto. Grazie al miglioramento della tecnologia, il suo uso si è poi esteso, consentendo di combinare la produzione industriale, che ottiene facilmente ed economicamente elementi semilavorati, con le tecniche artigianali che sapientemente li installa negli edifici. Si pensi ad esempio al caso

dei tetti di Parigi che dopo la fondazione nel 1837 della Société Vieille Montagne (l’attuale VMZinc), hanno iniziato a essere rivestiti in zinco, in un processo di manutenzione e modernizzazione che andava a sostituire le vecchie coperture in ardesia e cotto, creando un linguaggio urbano esteso a tutta la città. Sino ai primi del Novecento il metallo veniva utilizzato quasi esclusivamente come materiale per le coperture e applicato con tecniche artigianali. Sono state le sperimentazioni di Füller e Prouvé, iniziando a declinare le tecniche della standardizzazione e della prefabbricazione all’edilizia, a introdurre l’uso del metallo anche in facciata mediante l’impiego di pannelli prefabbricati. Alla fine del XX secolo, l’avvento delle tecniche di produzione automatizzate e gestite dai sistemi CAM (Computer-Aided Manufacturing), ha dato l’avvio a una nuova epoca che ha visto l’utilizzo del metallo per rivestire edifici con forme dinamiche generate dagli algoritmi dei software di modellazione.

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03. Dettaglio del rivestimento del Folk Art Museum. M. Condotta

04. Ampliamento dell’Abbazia di Cluny. Bernard Desmoulen

Si pensi per esempio al Guggenheim Museum di Bilbao o alla Walt Disney Concert Hall. Quest’ultima era inizialmente pensata con un rivestimento in marmo, ma poi, sia per motivi economici sia per semplicità costruttiva, è stata realizzata in pannelli di acciaio inox. Per queste opere particolari del periodo decostruttivista – in cui le forme geometriche sono scomposte in forme fluide generate al computer in una sorta di “barocco digitale” – la scelta del metallo come materiale di rivestimento è quindi dovuta a motivazioni tecniche – perché ben si presta a poter essere plasmato in superfici curve – e di linguaggio, trasmettendo quel senso di contemporaneità, dinamismo, malleabilità, unicità che l’edifico vuole rappresentare. Negli ultimi anni tuttavia – in un’ottica di progettazione sostenibile non solo sotto l’aspetto energetico ma anche culturale4 – si sta assistendo a un approccio diverso da parte dei progettisti nell’uso del metallo come elemento di rivestimento. La sua naturalità, il suo legame intrinseco con la terra, il suo essere un materiale “vivo” che nel tempo grazie ai processi di ossidazione muta il suo aspetto e si adatta all’ambiente, lo rende una finitura per l’edificio che autocostruisce col tempo il suo aspetto, instaurando così una grande affinità con il contesto: “finishing end construction, weathering construct finishes” (Mostafavi et al., 1993). Un esempio di questa tendenza è il progetto di recupero e ampliamento dell’Abbazia di Cluny. A inizio Novecento, la Scuola nazionale di Arti e Mestieri si è insediata nel grande edificio conventuale del XVIII secolo e più recentemente, nel 2005, ha bandito un concorso per dotare la scuola di un ristorante su un lotto d’angolo addossato alla vecchia cinta muraria. Il progetto vincitore è stato quello di Bernard Desmoulin che, per inserire in modo “sostenibile” il nuovo corpo, si è affidato alla corretta e attenta scelta “non tanto di 'materiali', ma piuttosto di 'materie'

che conferiscono alla costruzione un aspetto immutabile che pare già contenere il suo processo d’invecchiamento. Serramenti di acciaio, lamine di acciaio arrugginito e legno s’innestano, solo sfiorandolo, sul tessuto medioevale, come se il ristorante fosse sempre stato lì” (Blaisse, 2011). Il sistema di fissaggio dei pannelli metallici attraverso rivetti a vista, inoltre, comunica un senso di manualità che ben si collega idealmente ai manufatti delle preesistenze. Altro caso è quello dell’ampliamento della St Mary’s Hall, in origine la St Mary’s Church, a Kilkenny in Irlanda, recentemente restaurata e ampliata per essere trasformata in un museo. Per il rivestimento delle parti ampliate non è stata scelta la pietra, materiale con cui è edificata l’antica struttura, bensì piombo in lastre. Il suo utilizzo ha permesso di rendere evidenti e distinte le parti in ampliamento rispetto all’edifico originale e, allo stesso tempo, di creare un’affinità con le preesistenze. Le colorazioni naturali che la facciata in metallo ha assunto dopo un breve periodo di adattamento, la fanno dialogare perfettamente con la texture e le

il risultato è un prodotto industriale con le caratteristiche di versatilità e personalizzazione di un artefatto artigianale

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sfumature grigie delle murature. Il processo artigianale che ha richiesto la realizzazione del rivestimento in piombo si percepisce grazie alle piccole differenze nelle sagomature delle varie lastre, che conferiscono un senso di affinità concettuale, e non solo visiva, delle parti di nuova edificazione. L’attuale interesse per il metallo in architettura è pertanto legato alla polivalenza intrinseca del metallo come materiale della natura. Si valorizzano così non solo le variazioni cromatiche dovute ai processi di ossidazione, ma anche le

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05. St. Mary's Medieval Mile Museum, Kilkenny, ampliamento che ricostruisce il coro della navata centrale. McCullough Mulvin Architects; foto Christian Richters

Ne è testimone un recente progetto di ricerca e sviluppo che Mazzonetto S.p.A., azienda di produzione e commercializzazione di laminati metallici e sistemi per coperture e facciate, ha realizzato in collaborazione con l’Università Iuav di Venezia5. Obiettivo dell’azienda è stato quello di ideare un sistema di rivestimento metallico che garantisse versatilità di installazione sia su tetti sia su facciate, ma soprattutto la possibilità di creare pattern compositivi personalizzabili dando l’opportunità al progettista di disegnare la composizione finale. Si è deciso dunque di concepire e sviluppare un sistema modulare, composto da pannelli che si agganciassero e incastrassero tra loro autonomamente e potessero essere realizzati in dimensioni e proporzioni diverse in modo da poter realizzare infinite composizioni.

utilizzo di elementi costruttivi derivati da processi creativi di trasformazione automatizzata delle materie prime naturali in elementi progettati on-demand imperfezioni e le differenze che le tecniche artigianali di fissaggio e composizione generano; tutti fattori che contribuiscono a definire una finishes superficiale varia, ma allo stesso tempo personalizzabile e quindi in grado di rendere unico il progetto. Ecco che l’innovazione è orientata allo sviluppo di nuove tecnologie e sistemi di produzione in grado di fornire all’architetto soluzioni che permettano di progettare l’involucro dei suoi edifici in maniera personalizzata, con un risultato affine all’impiego di tecniche artigianali.

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06. Prototipo del modulo di rivestimento metallico realizzato artigianalmente durante la fase di studio del prodotto. Massimiliano Condotta

La progettazione di un sistema così complesso è stata possibile grazie al supporto di algoritmi di modellazione tridimensionale e parametrica nella fase di concezione del prodotto, del 3D prototyping nella fase di verifica e affinazione dei disegni costruttivi, e di tecniche di produzione computer-aided per il momento della produzione. Questo metodo di lavoro ha reso il processo ideativo più dinamico offrendo la capacità di valutare in tempo reale sia i potenziali esiti prestazionali attraverso sistemi di simulazione e di rappresentazione del concept di prodotto (Di Nicolantonio, 2017) sia l’influenza di variazioni del singolo modulo sull’esito finale del sistema nel suo complesso. Il risultato è quello di un prodotto industriale con le caratteristiche di versatilità e personalizzazione di un artefatto artigianale. Il sistema è stato sottoposto a brevetto6 e prossimamente inizierà la sua messa in produzione. Nell'immagine 06 si possono vedere alcuni prototipi realizzati artigianalmente durante la fase di studio. Grazie ai sistemi automatizzati di cui l’azienda Mazzonetto si sta dotando, l’elemento modulare sarà prodotto, on-demand, in diverse misure e in vari metalli, sia nei meno nobili alluminio e acciaio – in vari colori e gradazioni della stessa tinta per riprodurre un effetto cromatico – sia in inox, rame e zinco, unendo quindi alle variazioni di forma dei vari moduli anche variazioni cromatiche dovute al naturale adattamento del materiale. Nel corso dei secoli, mediante la tecnica e i suoi progressi l’uomo ha saputo trasformare le risorse naturali ottenendo oggetti artificiali da utilizzare come materiale da costruzione. Nel caso dei metalli ha sfruttato in questo modo alcune delle loro proprietà come la resistenza meccanica, la plasticità e la durabilità, esaltando più recentemente anche i processi cui il metallo è naturalmente sottoposto, come l’ossidazione. Forse la nuova frontiera dell’architettura sostenibile potrebbe quindi essere l’utilizzo di elementi costruttivi derivati da processi creativi di trasformazione automatizzata delle materie prime naturali in elementi progettati on-demand.*

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NOTE 1 - Sfortunatamente, l’edifico e la facciata metallica del Folk and Art Museum, costruito nel 2001, sono stati abbattuti nel 2014 per fare spazio all’ampliamento del MoMA. 2 - Il white bronze, o Tombasil, è il termine usato negli Stati Uniti per indicare una lega di rame, alluminio, zinco ed altri metalli come ferro, nichel e manganese. 3 - Per l’approccio semiotico derivato dalle ricerche di semiotica strutturale di Hjemslev e Greimas, che scompone la lettura di un’opera architettonica nei piani di “forma” e “sostanza”, si veda (Spigai et al., 2006), (Condotta, 2013). 4 - Per un approfondimento sul concetto di sostenibilità culturale e sul rapporto tra sostenibilità e durabilità si veda (Condotta, 2018), (Powter, 2005), (Albrecht, 2014). 5 - Il progetto è stato seguito da Valeria Tatano e Massimiliano Condotta, Università Iuav di Venezia, Dipartimento di Culture del Progetto. 6 - Titolo brevetto “Elemento modulare metallico per il rivestimento a tenuta d’acqua di tetti e facciate di edifici” della Mazzonetto S.p.A a Loreggia (Padova) depositato il 23 febbraio 2017 con il numero di domanda 102017000020762. Inventori: Massimiliano Condotta, Valeria Tatano, Jacopo Mazzonetto. BIBLIOGRAFIA - Alberto_sh, “American Folk Art Museum,” in Blog: New York 13, 2010. Ultima consultazione aprile 2018, www.ash-nyr.blogspot.it/2010/04/new-york-13.html - Albrecht B., “La lunga durata del progetto e sostenibilità”, in Barucco MA. (a cura di), “Durabilità”, Aracne, Roma, 2014, pp. 8-27. - Condotta M., "Using Controlled Vocabularies for a Creative Interpretation of Architectural Digital Resources", Getty Research Journal, no 5, 2013, pp. 157-163, The University of Chicago Press on behalf of the J. Paul Getty Trust, Chicago, IL, USA. - Condotta M., Zatta E., “A tool for urban sustainable retrofitting processes, a customizable and interactive index to support decision-making and cultural sustainability in urban areas”, in C.P. of The International Sustainable Development Research Society (ISDRS) Conference, Messina, 2018. - Blaisse L., “Cluny: Ristorante della scuola nazionale superiore di arti e mestieri, di Bernard Desmoulin”, in Il Giornale dell’Architettura, 28 febbraio 2011. Ultima consultazione aprile 2018, www.ilgiornaledellarchitettura.com/web/2011/02/28/cluny-ristorante-della-scuolanazionale-superiore-di-arti-e-mestieri-di-bernard-desmoulin/ - Di Nicolantonio M., “Gli strumenti digitali per il design”, in Forlani M. C., Vallicelli A. (a cura di), “Design e innovazione tecnologica, modelli d’innovazione per l’impresa e l’ambiente”, Gangemi, Roma 2017, pp. 24-31. - Mostafavi M., Leatherbarrow D., “On weathering: the life of buildings in time”, The Mit Press, Cambridge, 1993. - Powter A., Ross S., “Integrating Environmental and Cultural sustainability for Heritage Properties”, APT Bulletin: The Journal of Preservation Technology, 36(4), 2005, pp. 5-11. Consultabile: www.jstor.org/stable/40003157 - Spigai V., Condotta M., "Collaborative e-learning in engineering and architecture: on-line design laboratories." In "Accomodating new Aspects of Interdisciplinarity in Contemporary Construction Teaching", Fifth EAAE-ENHSA Construction Teachers’ Sub-network Workshop, School of Architecture, University Iuav of Venice”, Conference Proceedings; ed. Maria Voyatzaki, pp. 47-56. EAAE, European Association for Architectural Education, 2006. - Williams T., Tsien B., “American Folk Art Museum”, 2001. Ultima consultazione giugno 2018, www.twbta.com/work/american-folk-art-museum

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Stefanos Antoniadis Architetto PhD, Adjunct Professor & Research Fellow presso ICEA Dipartimento di Ingegneria Civile Edile e Ambientale, UniversitĂ degli Studi di Padova. stefanos.antoniadis@unipd.it

Semi-artificiali

01. Wrecks-scape, Fondamenta San Gerardo Segredo, Giudecca (VE). Stefanos Antoniadis, 2018

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manufatti generativi di nuove nature Nel dominio della pubblica conversazione, ma anche in alcuni ambienti accademici, il paesaggio contemporaneo offre l’imbeccata a reazioni di indignazione per le – apparenti – fratture e disarmonie inflitte al territorio. Molte le visioni, di matrice storica, che pongono il green in contrapposizione con il gray, la campagna con la città, la biodiversità con l’intensiva antropizzazione. Le controverse diadi natura-artificio assumono spesso toni di opposizioni etiche bene-male dal precipitato pratico non irrilevante, animando opinioni pubbliche e orientando scelte programmatiche per la gestione del territorio. Una disamina smarcata dei recenti sviluppi che interessano alcuni oggetti incriminati (metropoli, infrastrutture e relitti) potrebbe invece far vedere le cose sotto altra luce, e rappresentare un avanzamento disciplinare per una gerenza innovativa della complessità contemporanea.* Contemporary landscape induces indignation for the – apparent – fractures and disharmonies of the territory both In common sense and in some academic workplaces. Some points of view, bound to a historical background, place the green in opposition to the gray, the countryside to the city, biodiversity to intensive anthropization. The controversial nature-artifice dyads often take on tones of a good-evil ethical opposition, which has a non-irrelevant impact, animating public opinion and directing policy choices for land use. On the contrary a review of recent developments affecting some incriminated objects (metropolis, infrastructure and wrecks) could show things in a different light and represent a disciplinary advancement for an innovative management of complexity.*

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a credenza che l’architettura, impresa cardine tra gli artefatti eseguiti dall’uomo sin dai tempi più lontani, vanti origini naturali è una visione più che consolidata nella storia. Da Vitruvio a Marc-Antoine Laugier, per quasi duemila anni, in molti hanno concorso alla costruzione di una teoria evoluzionistica fisiocratica che vede l’architettura cristallizzare, via via, l’inevitabile comportamento plastico o elastico di alcuni elementi naturali sottoposti a sforzo1, impiegati nelle costruzioni primordiali, in determinati sistemi strutturali, e sfoggiare note soluzioni formali a partire dall’osservazione del vero naturale2. In realtà il pensiero di Laugier, non certo l’ultimo della serie di pensatori a far derivare l’architettura dalla natura, trascende la mera ricostruzione evolutiva e riconosce nella bienséance3 naturale “il grande principio dal quale diventa possibile dedurre leggi immutabili” (Herrmann, 1962). La seconda edizione francese del suo fortunato Essai sur l’architecture (Laugier, 1753), revisionata, arricchita da un dizionario dei termini e pubblicata due anni dopo la prima stampa, vanta anche un frontespizio illustrato al fine di conferire maggiore incisività alla propria visione teorica. L’illustrazione (img. 02), divenuta piuttosto celebre, è un’incisione allegorica ad opera di Charles Eisen che raffigura l’Architettura, sotto le sembianze di dea o donna virtuosa seduta sui conci sfarzosi di un edificio distrutto, indicare al genio della ragione, un bambino alato, una capanna primitiva. Essa è costituita da un insieme di alberi, ancora in sede e non tagliati e levati, che sorreggono fronde e rami appena trattati a costituire un tetto tra le chiome parzialmente mantenute. Il significato è chiaro e, soprattutto agli addetti ai lavori, noto: la natura è unica sorgente per la generazione di architettura, e il primo riparo, prodotto del rousseauiano uomo allo stato di natura, assurge a modello per opere auspicabilmente immuni da fallimenti e obsolescenze. Tralasciando le figure antropomorfe, irreali e dalla sola carica allegorica di convenienza narrativa, l’immagine illustrata raffigura sostanzialmente un paesaggio ambigua-

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02. Frontespizio della seconda edizione dell’Essai sur l’Architecture di Marc-Antoine Laugier. Incisione allegorica di Charles Eisen, 1755

03. Cavalcavia a Mestre (VE). Maria Rosa Torresan, 2017

mente antropizzato, segnato da una composizione di elementi naturali, e da un’architettura in rovina, o meglio da alcuni frammenti provenienti da una costruzione arrogante perché troppo scostata dalla prassi “secondo natura”. Paesaggio, natura e frammenti (a volte rifiuti) sono concetti straordinariamente attuali che ancora fomentano i dibattiti architettonici e intorno alla produzione più in generale. Azzardando una massima semplificazione, si potrebbe ammettere che il rebus “natura generatrice di artificio”, decantato dall’illustrazione di Laugier, goda tutt’ora di ottima salute e consenso. Si tratta di un fortunato paradigma interpretativo declinato per secoli, nelle diverse discipline e alle diverse scale, in continuità con i risultati e le applicazioni attuali sia in ambiti tecno-ecologici che di produzione della forma. La recente storia dell’architettura è costellata di interpreti che hanno eletto la natura loro musa ispiratrice, dalla storica corrente organica teorizzata da alcuni maestri di primo Novecento fino alle ultimissime realizzazioni fitomorfe

e zoomorfe di certe archistar, anche se recenti esperienze fanno sorgere dubbi legittimi sull’attinenza con il pensiero laugeriano e la capanna primigenia (ma non è questa la sede per affrontare la questione). Ancora più manifesta invece è la progressiva corsa al raggiungimento di standard produttivi, costruttivi e tecnologici “dalla parte della natura”, che ha forgiato una sequela di attività e approcci caratterizzati dai familiari prefissi bio-, eco-, green- e sustainable- attorno ai quali si consuma il modo di fare formazione, architettura e gestione del territorio. Lungi dal ritenere questa teoria errata di per sé o dall’avallare operazioni contro l’ambiente, il salutare esercizio di soffermarsi un istante a rilevare ciò che accade tra le pieghe del modello ipotizzato, osservando quei fenomeni che sembrano non collimare con lo schema ribadito da tempo, rappresenta un’occasione di riflessione utile ai progressi dell’attività di ricerca in ogni settore disciplinare. Ci sono stati periodi, caratterizzati da fermenti culturali più o meno interni alla disciplina del costruire o

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04. New York City, fotogramma dal documentario “Planeth Earth II - Episode VI: Cities”. BBC (produttore: Fredi Devas), 2016

05. New York City, poster del film “I’m legend”, regista: Francis Lawrence (Warner Bros Pictures, 2007).

semplicemente segnati da crisi che hanno generato riflessioni obbligate, in cui porsi determinate domande4 era sicuramente lecito. Oggi, però, si sono forse concretizzate condizioni che autorizzano a formularne altre. Tenendo saldo il trinomio paesaggio - natura - artificio, risulta interessante “stressare” – non per arbitrario diletto, ma per rendere conto della realtà fattuale in cui ormai operiamo (img. 03) – le posizioni occupate dai singoli termini applicando alcune permutazioni: siamo davvero sicuri che il razionale rap-

addirittura lo spazio orbitale intorno alla Terra. Il crescente grado di obsolescenza dei prodotti, anche architettonici, l’ammonto sempre più consistente di edifici e aree in abbandono e la recente produzione edilizia secondo il paradigma della proliferazione dell’oggetto rivelano l’essenza scattered (Rasmussen, 1974) del nostro paesaggio contemporaneo: il frammento “non costituisce più una quota trascurabile, come si poteva dire un tempo, ma la cifra comune della nostra condizione” (Barone, 2010). Le infrastrutture, vera “architettura del mondo” (Ferlenga et al., 2012), della mobilità fisica e digitale avvolgono tutto il globo; la popolazione finisce per vivere nelle aree a più alto tasso di artificialità del pianeta: le mega-città. All’incremento dell’inurbamento della popolazione non corrisponde tuttavia una più chiara ridefinizione del perimetro del centro abitato, ma la fusione tra grandi metropoli5 e non solo (si pensi al Nord-Est d’Italia), per un dissolvimento della forma stessa della città che, come già aveva intuito Laugier, assume sempre più le sembianze di “un accumulo non regimentato […] a sua volta riconducibile alla dimensione arcana ma caotica della foresta” (Fabbrizzi, 2003). Ma se l’analogia attuata dal pensatore francese condusse, di lì a poco, alla nascita di una nuova prassi per gli interventi urbani – essere “giardinieri della città”, addomesticandola e abbellendola con viali e parchi – spargendo i semi per nuove categorie estetiche come il pittoresco e il neoclassico, la città-paesaggio del nostro tempo è andata ben oltre la capacità, passiva, di essere letta e trattata, generando essa stessa, a nostra insaputa, nuove nature. New York City è considerata universalmente l’ambiente meno naturale esistente sulla Terra, e di fatto occupa le prime posizioni nella classifica delle aree più densamente costruite del pianeta. Eppure, contro ogni immaginazione, questo luogo così irreversibilmente alterato dall’uomo re-

la credenza che il prodotto artificiale sia generato da principi naturali è un fortunato paradigma interpretativo declinato per secoli porto di causalità sia da intendersi univocamente nel verso indicato da Laugier e dagli altri pensatori? Esistono oggi gli estremi per sostenere addirittura un’inversione dell’equazione nella nuova formula “artificio generatore di natura”? L’ambiente urbano in cui viviamo non è più quello del passato, e non esiste un paesaggio propriamente naturale, se non cadendo nel cliché dell’oasi vergine, lontana dalle nostre geografie quanto dalle nostre vite. Esistono piuttosto sistemi dal diverso grado di antropizzazione. Ma soprattutto bisogna riconoscere che la presenza di quelle rimanenze, confinate nell’angolo inferiore destro nella composizione grafica dell’incisione francese, si è fatta oggi molto più consistente. Mentre nella mente dell’abate quell’accumulo di resti di un’architettura decaduta doveva assumere un valore esclusivamente simbolico, i nostri occhi e le nostre coscienze fanno del frammento un’esperienza reale e ormai quotidiana. Se nell’illustrazione essi si dispongono, quasi garbati, marginalmente su di un prato, nella nostra realtà una massiccia presenza di rottami popola

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07. Estratto di Zombie poster, dal progetto Cadáveres Inmobiliarios: Base de datos del periodo postburbuja en España. Numeroteca, Julia Shulz-Dornburg, Basurama, n’UNDO e Montera34, 2017

06. Esempi di moduli utilizzati per la costruzione di barriere in Europa. Fabi G. (et al.), “Overview on artificial reefs in Europe”, 2011, p. 158, fig. 2

plica involontariamente, quanto perfettamente, le condizioni ideali per l’evoluzione dei falchi pellegrini (img. 04). La città “detiene la più alta densità di falchi nidificanti del mondo”6, tanto da indurre il Department of Environmental Conservation dello Stato di New York a elaborare uno specifico programma di monitoraggio e ricerca. I grattacieli offrono vantaggiose asperità ove i rapaci possono nidificare, e costituiscono alti presidi da cui sono in grado di prendere il vento. L’eccezionale vastità della superficie cementificata riscaldata dal sole genera termiche7 che permettono al predatore di planare sulla città per molto tempo senza fatica. La fluidodinamica dei ven-

York City è già il tempio di una specie selvatica, pur restando una delle più ambite dimore della società dei consumi. Luogo per eccellenza di implacabili speculazioni insediative per circa quattro secoli ed habitat per sedici milioni di persone oggi, la nuova sorprendente configurazione della componente naturale della conurbazione “non è l’elefante nella stanza che nessuno riesce a scorgere. È l’elefante che ingloba la stanza”10 (Meier e Hiss, 2013). Più a sud, in Florida, i manati dei Caraibi, grossi mammiferi acquatici simili ai trichechi, hanno trovato invece il loro ambiente ideale nelle acque calde dei canali artificiali provenienti dai grossi impianti di produzione di energia elettrica: tali infrastrutture, per nulla associate al patrimonio naturalistico secondo il senso comune, sono ora diventate riserve protette e mete turistiche predilette (Lonely Planet, 2015). Si tratta di esempi sparsi, che però dovrebbero accendere uno sguardo diverso sul paesaggio intensivamente artificiale, potenzialmente molto più capace di supportare ecosistemi, o persino generarne di nuovi, di quanto siamo portati a credere. Le capacità generative dell’artificio sono ancora più eclatanti se orientiamo l’attenzione all’universo dei frammenti e dei rottami che da esso derivano. Una prerogativa mostrata con banale, quanto straordinaria, evidenza dai relitti per eccellenza: quelli sottomarini. Rottami, a volte immensi, sul fondo del mare che se in un primo momento appaiono come una marcata compromissione dell’ambiente naturale, poi si rivelano essere detonazioni vitali originanti rigogliose oasi dall’alto grado di biodiversità. Sarebbe errato leggere il fenomeno come una rivincita della natura, come un riprendere, da parte sua, ciò che le è stato tolto; la dinamica del biofouling11 è molto più affascinante: più che un ripristino, è un upgrade. L’oggetto artificiale si comporta come un vero e proprio dispositivo di innesco per condizioni più favorevoli allo sviluppo di “nuove nature”.

esistono oggi gli estremi per sostenere un’inversione dell’equazione nella nuova formula “artificio generatore di natura” ti che intercettano le superfici dei grattacieli crea correnti ascensionali che aiutano i falchi a guadagnare l’altezza utile per poi lanciarsi in picchiata, mentre alle quote più basse e a livello strada si trovano, per tutto il periodo dell’anno, molte potenziali prede. Questo combinato disposto di condizioni favorevoli ha consentito che in soli quarant’anni una specie animale considerata a rischio di estinzione nello Stato, principalmente a causa di residui di pesticidi (DDE) nelle loro prede di campagna8, sia tornata non solo a proliferare, ma a fondare la più numerosa colonia stanziale del pianeta e a evolversi. Le più complesse configurazioni spaziali e ambientali della metropoli stanno rendendo i falchi urbani molto più smart dei loro cugini delle terre selvagge9, facendoli raggiungere velocità superiori, affinando vista e tattiche di caccia più articolate ed efficaci. Non è dunque necessario ipotizzare scenari post-apocalittici in cui viene meno la presenza del genere umano per introdurre temibili comunità di rapaci e predatori in una città (img. 05): New

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08. Subway Reef, NY DailyNews. Roberto Borea, 2016

Sulla scia di queste riflessioni, di recente si è giunti ad affondare volontariamente oggetti artificiali con l’intento di potenziare opportunamente la capacità biotica di alcune aree. E così, ad esempio, dal 2001 le carrozze della metropolitana di New York City ritirate per obsolescenza vengono gettate nell’oceano al largo delle coste degli Stati orientali (img. 08). Ad oggi oltre duemilacinquecento vagoni, depurati preventivamente di quelle componenti ritenute effettivamente inquinanti, giacciono ormai sul fondale marino a costituire supporto vitale per innumerevoli organismi. Oltre alle immagini dei vagoni lasciati cadere in mare, è sorprendente esaminare il campionario di oggetti convenzionalmente utilizzati (img. 06) nelle diverse aree geografico-culturali per la costruzione delle artificial reefs e la loro distribuzione nella raramente osservata geografia sottomarina (Fabi et al., 2011): una sorta

le capacità generative dell’artificio sono evidenti se orientiamo lo sguardo all’universo dei relitti e dei frammenti

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di abaco di oggetti rifiutati, tipicamente visti come frammenti sgraditi e inquinanti del nostro mondo artificiale, dai grezzi blocchi cavi di cemento armato agli ingombranti pneumatici dei mezzi pesanti12. Eppure spargiamo questi materiali come fossero semi artificiali per implementare vantaggiose condizioni naturali o, più correttamente, semiartificiali. Sulla superficie terrestre potrebbe accadere lo stesso, interessando un numero ancora maggiore di frammenti. Segmenti di viadotti, tratti di infrastrutture idriche, scheletri di edifici rimasti incompiuti (img. 07), opere provvi-

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09. Lago di Padova, ortofoto scattata il 16 marzo 2012 in cu si vede la piastra di fondazione. Google Maps, 2018

10. Lago di Padova, ortofoto scattata il 29 maggio 2015, in cui il bacino si presenta già nella conformazione attuale. Google Maps, 2018

sionali e gru da cantiere mai disassemblate (img. 11) sono relitti alla scala dell’uomo e del paesaggio in attesa di un riscatto di opinione. Senza finire troppo distanti, anche il nostro territorio vanta un caso emblematico. L’abbandono, nel 2011, di un cantiere per la realizzazione di un grosso centro commerciale tra gli svincoli infrastrutturali di Padova Est, fermatosi alla vasta platea ipogea di fondazione (img. 09), ha innescato la formazione spontanea di un lago per l’accumulo e la confluenza di acqua piovana (img. 10). Guaine impermeabili e soletta in cemento armato, immenso relitto urbano adagiato sul fondale, hanno favorito la permanenza dell’acqua, mentre sui bordi un nuovo paesaggio cominciava a svilupparsi, popolato da specie animali, di terra e di aria, fluviali e lacustri. Parallelamente alla nascita di una pagina informale con la quale gli utenti di un social network hanno cominciato a proiettare visioni d’esercizio per il nuovo gradito specchio

d’acqua attraverso sagaci parodie fotografiche, l’aggiornamento geografico operato da Google nel 2013 lo censisce ufficialmente come Lago di Padova. Ironia della sorte ha voluto che questo processo di accreditamento, da centro commerciale incompiuto a lago, si verificasse all’ombra del Ponte Darwin dedicato al celebre naturalista e biologo, quasi si trattasse di un monito preterintenzionale comprovante l’effettiva esistenza di questa nuova condizione evolutiva che inverte la comune congettura causale tra artificio e natura. Le carcasse artificiali non sono dunque necessariamente degli incidenti che sottraggono vitalità e biodiversità all’ambiente, e la polverizzazione del confine tra ciò che è artificio e ciò che è rimasto “naturale” non è indice di un cattivo stato di salute del territorio. Ponendo sempre attenzione a minimizzare la produzione di elementi nocivi – inquinamento dell’aria e impiego di materiali da costruzione ecologicamente pericolosi sono il corrispettivo del

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la polverizzazione del confine tra ciò che è artificio e ciò che è rimasto “naturale” non è indice di un cattivo stato di salute del territorio

11. Nidi di cicogna bianca su gru a torre mai smantellata ad Eraskhoun, Armenia. Acopian Center for Environment, “Birds of Armenia Project”, 2006

carburante e dei carichi tossici dei relitti marini – questi frammenti incarnano, in molti casi, più potenzialità biotiche, oltre che formali, di quante l’opinione comune ne attribuisca. La vignetta allegorica di Marc-Antoine Laugier va ridisegnata e il dito puntato su quel cumulo artificiale di materiali che attende, anzitutto, di essere guardato in modo nuovo, gettando così le basi per una vera innovazione nella gestione del consistente e complesso inventario degli oggetti artificiali del paesaggio contemporaneo.* NOTE 1 - Cfr. Juan Caramuel de Lobkowitz, “Arquitectura civil recta y obliqua” (1678), Tav. XV, fig. I, “Dell’evoluzione della forma della colonna a partire al tronco arboreo”, in cui si propone come origine del capitello la deformazione per schiacciamento della testa del tronco, tagliato di netto, da parte del carico della copertura dell’edificio. 2 - Cfr. Vitruvio, lib. IV, c. 1. Un aneddoto descrive la prima inventio – si ricordi che in latino il termine deriva dal verbo invenio, ossia “trovare”, palesando l’autentica dinamica di rinvenimento di un objet trouvé – del capitello corinzio. Lo scultore Callimaco (V sec. a.C.) si trovò nei pressi di un monumento funerario ad osservare un canestro, contenente gli orpelli di una giovane defunta di Corinto, coperto da una tegola e lasciato da tempo sulla tomba, circondato da una pianta d’acanto cresciuta inaspettatamente. 3 - Per Marc-Antoine Laugier è propria della natura quella qualità formale che ad essa

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conviene e nient’altro, distante dalla bellezza arbitraria e coincidente piuttosto con la compostezza dell’opportunità naturale, oggettiva. 4 - Dalle riflessioni sulla dicotomia città-campagna al tempo in cui i luoghi costruiti erano di fatto nettamente separati e identificabili (ora molto meno) rispetto l’intorno agreste, alle politiche di mera protezione (spesso fallite) di alcune porzioni di paesaggio considerate offlimits, agli interrogativi sulle ricadute formali dell’utilizzo dei nuovi materiali da costruzione rispetto ad una continuità tipologica consolidata (ora perduta), alle congetture teoriche (ora rimesse in discussione) sulla conveniente durabilità limitata degli edifici derivate da crisi, o comunque nuovi scenari, di natura energetico-economica. 5 - Cfr. United Nations, Department of Economic and Social Affairs, Population Division, “The World’s Cities in 2016” - Data Booklet (ST/ESA/ SER.A/392), 2016. 6 - “New York City has the highest density of nesting peregrine anywhere on the planet”, cfr. “Planeth Earth II – Episode VI: Cities”, BBC (produttore: Fredi Devas), 2016, da 06’35” a 10’55”. 7 - Con questo termine si indicano in ambito fisico-meteorologico i moti ascendenti dell’aria che si sviluppano dal riscaldamento di una porzione di superficie. 8 - “They were eliminated as a nesting species in the state by the early 1960s, due mainly to pesticide (DDE) residues in their prey. The release of young captive bred birds from 19741988 helped lead to their return as a nesting species. Peregrines first returned to nest on two bridges in New York City in 1983”, Department of Environmental Conservation (State of New York), Peregrine Falcon Program, 2003. 9 - “And now, among skyscrapers, they’re more successful than their cousins living in the wilderness”, Planeth Earth II – Episode VI: Cities, cit.. 10 - “…trying to call attention to an […] almost invisible fact: the natural world of the New York-New Jersey metropolitan region […] is still, despite everything, such a powerful and dynamic force that it does not even do it justice to call it the elephant in the room that nobody mentions. The elephant envelops the room.” 11 - Dal verbo inglese ‘to foul’ (lett.: insudiciare), è il processo di colonizzazione dinamica delle superfici sommerse ad opera di organismi marini. 12 - Bad practices escluse, ovviamente. Vedi caso Osborne Reef, la barriera artificiale costruita negli anni ’70 al largo di Fort Lauderdale (Florida) con oltre 2 milioni di pneumatici legati con clip in acciaio e nylon su 36 acri di superficie sottomarina. I sistemi di fissaggio reciproco non efficienti fecero sì che singoli elementi collidessero e si disperdessero, distruggendo la vita che cominciava ad attecchire. BIBLIOGRAFIA - Barone P., “Un groviglio di serpenti vivi”, in Kirchmayr R. e Odello L. (a cura di), “Aut Aut, vol. 348. Georges Didi-Huberman. Un’etica delle immagini”, Il Saggiatore, Milano, 2010, p. 210. - Fabbrizzi F., “Architettura verso natura: natura verso architettura”, Alinea editrice, Firenze, 2003, p. 81. - Fabi G., Spagnolo A., Bellan-Santini B., Charbonnell E., Çiçek B. A., Goutayer García J. J., - Jensen A. C., Kallianiotis A., Neves dos Santos M., “Overview on artificial reefs in Europe”, in “Brazilian Journal of Oceanography”, vol. 59, special issue, São Paulo, 2011, pp. 155-166. - Ferlenga A., Biraghi M., Albrecht B., “L’ architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi”, Compositori, Bologna, 2012. - Herrmann W., “Laugier and Eighteenth Century French Theory”, A. Zwemmer Ltd, London, 1962, p. 48. - Meier C., Hiss T., “Welcome to the H2O Region - Your Second Address!”, in Waldman J. (a cura di), “Still the Same Hawk”, Empire State Editions, Fordham University Press, New York, 2013. - Laugier M. A., “Essai sur l’architecture”, Chez Duchesne, Paris, 1755 (1a edizione 1753). Traduzione italiana: Ugo V. (a cura di), “Saggio sull’Architettura di Marc-Antoine Laugier”, Aesthetica edizioni, Palermo, 1987. - Lonely Planet, “Florida”, 3a edizione italiana, EDT, Torino, 2015, p. 20. - Rasmussen S. E., “London: The Unique City”, The M.I.T. Press, Boston, 1974, c.1.

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Plastica Ogni anno nel mondo sono prodotti oltre 330 milioni di tonnellate di plastica, un materiale artificiale prodotto dall’uomo mediante sintesi chimica di differenti sostanze tra cui la principale è il petrolio. Le plastiche sono molte e hanno caratteristiche differenti ma, da oltre un secolo, sono presenti in ogni momento della nostra quotidianità. La più diffusa a livello europeo, con circa il 30% sul totale della produzione, è il Polietilene (PE) nelle sue differenti varianti ad alta o bassa densità, usato per realizzare bottiglie, borse, tubi e molti altri oggetti di uso quotidiano. Segue, con circa il 19%, il Polipropilene (PP), sviluppato da Giulio Natta nel 1957 e usato per la produzione di contenitori, imballaggi e componenti rigide per i settori dell’automotive e dell’elettronica. Si attesta al 10% la produzione di Polivinilcloruro (PVC) il polimero più impiegato nel settore edile e tra il 6% e 7% quella dei polimeri della famiglia dei polistireni (PS), il Polietilentereftalato (PET) usato per la produzione delle bottiglie e dei poliuretani (PUR) impiegati nel settore edile e in quello automotive. Altre materie plastiche più recenti quali l’Acrilonitrile butadiene stirene (ABS), il Policarbonato (PC) e il Polimetilmetacrilato (PMMA) stanno lentamente acquisendo quote importanti di mercato con circa il 19% del totale della produzione europea.

60,3 mln t

18,0%

SUD

COMSUMI PER LA PRODUZIONE DI UNA BOTTIGLIA DA 1,5 L fonte: Paul Mc Rande, The green guide in State of the world 2004, Edizioni Ambiente, Milano 2004

C

o

li etro

p

46 L 0,11 L

25%

19,41%

O

IFIC

PAC

13,4 mln t

4,0%

6,46%

6%

39,9%

29%

fase di trasporto materie prime

ICO

ANT

ATL

55.600 t

18.500 t

a cura di Emilio Antoniol infografica di Stefania Mangini fonte: Plastic Europe, 2017

ssa me O 2e

D NOR

19,91 mln t

19,7% 9,83 mln t

8%

stampaggio bottiglia

30%

produzione delle resine plastiche

33%

lavaggio, riempimento e stoccaggio

ua

acq

0,69 L

PACKAGING

EMISSIONI DI CO2 PER LA PRODUZIONE DI UNA BOTTIGLIA IN PET fonte: Marie-Luise Blue, What Is the Carbon Footprint of a Plastic Bottle?, Sciencing, 2018.

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SETTORE COSTRUZIONI

INFONDO


51,6%

63,65 mln t

19,0% 19, 0%

EO

AN ERR

T

I MED

172,86 mln t 24%

20.500 t 7,16%

37%

O

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NOR

112.000 t 39,11%

O

IAN

IND

64.000 t

SUD

22,35%

CO

NTI

A ATL

23,45 mln t

15.800 t

7,0%

5,52%

1,34 mln t

0,4%

4% 4%

PRODUZIONE TOTALE DI PLASTICA NEL 2016 fonte: Plastic Europe, Plastics – the Facts 2017 www.plasticseurope.org

10% 4,99 mln t

AUTOMOTIVE

STIMA DELLE TONNELLATE DI PLASTICA PRESENTI IN MARE NEL 2014 fonte: Markus Eriksen et al.,Global Plastic Production Rises, Recycling Lags, Worldwatch Institute, 2014

CONSUMO TOTALE PERCENTUALE DI PLASTICA 2016 fonte: Executive Packaging, AMI, PCI Films Consulting

3,3%

6,2%

4,2%

3,09 mln t

2,10 mln t

1,65 mln t

8,33 mln t

OGGETTISTICA E SPORT

AGRICOLTURA

ARREDAMENTO E MEDICALE

ELETTRICO ED ELETTRONICO

16,7%

TRASFORMAZONE DI MATERIE PLASTICHE PER SETTORE PRODUTTIVO IN EUROPA, 2016 fonte: Plastic Europe, Plastics – the Facts 2017,www.plasticseurope.org

OFFICINA* N.22

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Letizia Goretti Fotografa, è dottoranda in composizione architettonica, tematica cultura visuale, presso l’Università Iuav di Venezia. letizia.goretti@yahoo.it

erveva il lavoro intorno alla fornace. In cima ai ferri da soffio il vetro fuso si gonfiava, serpeggiava, diventava argentino come una nuvoletta, splendeva come la luna, scoppiava, si divideva in mille frammenti sottilissimi, crepitanti, rutilanti, più esigui dei fili che si vedono al mattino nelle foreste tra ramo e ramo. Gli artefici foggiavano le coppe armoniose, ciascuno obbedendo nell’operare a un ritmo suo proprio generato dalla qualità della materia e della consuetudine delle movenze atte a dominarla. I garzoni ponevano una piccola pera di pasta ardente nei punti indicati dai maestri; e la pera s’allungava, si torceva, si mutava in un’ansa, in un labbro, in un becco, in uno stelo, in una base. Disperdevasi a poco a poco il rossore sotto gli ordegni; e il calice nascente era esposto di nuovo alla fiamma, infisso nell’asta; poi n’era tratto docile, duttile, sensibile ai più tenui tocchi che l’ornavano, che l’affinavano, che lo rendevano conforme al modello trasmesso dagli avi o all’invenzione libera del novo creatore. Straordinariamente agili e leggeri erano i gesti umani intorno a quelle eleganti creature del fuoco, dell’alito e del ferro, come i gesti d’una danza silenziosa” (Gabriele D’Annunzio, Il Fuoco, 1900). Questo progetto fotografico è nato con l’intento di raccontare questo magico mondo: non soltanto la magia del vetro come materiale, ma anche i suoi protagonisti. Un lavoro tramandato, sovente, da padre in figlio; un lavoro nel quale l’esperienza è la custode dei segreti che avvolgono il processo lavorativo. Un mestiere faticoso ma che riempie di gratificazioni l’esecutore; la materia dallo stato liquido prende forma e si trasforma, diventando non solo un oggetto, ma anche un’opera d’arte. Nella fornace Berengo Studio 1989 sono passati artisti da tutto il mondo; sono andati lì, portando con sé un progetto artistico che è stato realizzato insieme al maestro vetraio. La tecnica del ma-

estro e la creatività dell’artista fondendosi, come il vetro tra le fiamme, prendono vita per diventare un’opera d’arte unica. Nelle foto è possibile vedere tutto il processo di lavorazione, dalla fornace alla moleria, nonché gli strumenti che accompagnano, in questa danza silenziosa, il maestro vetraio. Dopo aver preparato la composizione, ovvero la miscela di sabbia silicea e dei minerali, viene fatta la fondita: la composizione viene sciolta ad alte temperature dentro la padella del forno o crogiolo. Inizia così il lavoro del maestro. Il servente, con la canna da soffio, preleva la massa di vetro dal crogiolo che piano piano, attraverso la maestria del maestro, viene foggiata e diviene oggetto. Il valore d’opera d’arte è altresì intrinseco, poiché quello del maestro è un gesto unico e irripetibile: hic et nunc.* This photographic project was born with the intent to illustrate the magical world of glassmakers: not only of glass as a material, but also of its protagonists. A work often handed down from father to son; a work in which experience is the guardian of the secrets that surround the process. A tiring job that fills the executor with gratifications; the liquid matter takes shape and is transformed, becoming not only an object, but also an art work. Artists from all over the world have passed through the Berengo Studio 1989 furnace; they went there with an artistic project that was created together with the glassmaker master. The master’s technique and the artist’s creativity melt, like glass in the flames, come to life as a unique art work. In the photos you can see the whole working process, from the furnace to the mill, as well as the tools that accompany, in this silent dance, the glassmaker master. After preparing the composition, a mixture of silica sand and minerals, the “fondita” is made: the composition is dissolved at high temperatures inside the melting pot. The work of the master began here. The user, with the blow pipe, picks up from the melting pot the glass mass that, through the master’s skill, is slowly shaped and becomes an object. The value of the object is also intrinsic, since the master’s gesture is unique and unrepeatable: hic et nunc.*

01. Nascita di un’opera… Letizia Goretti


Se fossi vetro‌ storia di un granello di sabbia


02. Tagianti. Letizia Goretti

in cima ai ferri da soffio il vetro fuso si gonfiava, serpeggiava, diventava argentino come una nuvoletta


03. La molatura. Letizia Goretti

04. Plasmare. Letizia Goretti

05. Casting. Letizia Goretti


quello del maestro è un gesto unico e irripetibile: hic et nunc

06. Silvano Signoretto. Letizia Goretti

07. Riposo. Letizia Goretti


08. Ferri del mestiere. Letizia Goretti


09. Cotisso. Letizia Goretti


10. ‌e prende forma. Letizia Goretti


Michele Tomasella Coordinatore tecnico di Opera.

Marco Redolfi Ingegnere, consulente tecnico dell’associazione Opera. m.redolfi@redolfiingegneria.it

Marco Rossato Ingegnere, consulente tecnico dell’associazione Opera. m.rossato@coprogetti.com

Bruno Zorzi Consulente tecnico dell’associazione Opera. info@dipae.it

Lo sfondellamento dei solai Un problema diffuso e insidioso dell’edilizia recente o sfondellamento dei solai in laterocemento è un problema che affligge l’edilizia recente, costruita a partire dagli inizi del 1900, che si sta manifestando sempre più frequentemente e per il quale è necessaria la corretta informazione e conoscenza del fenomeno. Viene definito sfondellamento perché interessa normalmente il distacco della parte inferiore del solaio, detta fondello e dell’intonaco a essa applicato. La caduta del materiale è normalmente improvvisa e può assumere pesi anche importanti, costituendo un rischio molto insidioso, rilevante e poco prevedibile. I casi più noti riguardano le strutture pubbliche, scuole, ospedali, uffici perché spesso vengono riportate dalla stampa, ma non è meno diffusa la casistica nelle strutture private. È in questo ambito che risulta maggiormente opportuno diffondere la conoscenza del fenomeno, agire per tempo con analisi e soluzioni per prevenire il manifestarsi del problema ed eliminare i rischi. Il rischio dello sfondellamento è particolarmente rilevante anche per la larga diffusione della tecnologia dei solai in laterocemento nell’edilizia esistente nel nostro paese, se si considera

che la maggior parte dell’attuale parco immobiliare italiano è stato costruito dopo il 1950. L’associazione Operaimprese per l’edilizia ha predisposto un servizio rivolto principalmente al settore privato, con professionisti esperti e altamente specializzati, per supportare i proprietari degli immobili nella valutazione e nella prevenzione del rischio da sfondellamento nei propri edifici. Vengono illustrate di seguito le cause che portano al distacco del fondello e le tecniche per rilevare con prove non invasive se il problema è presente nel solaio. L’illustrazione è necessariamente sintetica, essendo il tema molto vasto e complesso e per l’analisi del

anche un soffitto apparentemente sano potrebbe mascherare un solaio interessato da un fenomeno fessurativo interno

Associazione Opera - imprese per l’edilizia Via Meucci 28, 31029, Vittorio Veneto,TV e-mail: info@impreseinopera.it www.impreseinopera.it 01. Esempio di sfondellamento. Opera

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IN PRODUZIONE


quale occorrono specifiche e approfondite competenze tecniche. Ogni caso di sfondellamento va esaminato a sé per le molte concause che potrebbero contribuire a generare la rottura e il crollo. Senza addentrarci in tematiche quali gli effetti di variazioni termiche interne al fabbricato, di carichi appesi, ecc. il fenomeno può essere riconducibile a cause tra loro differenti. Ad esempio a pignatte, più che difettose, non adeguatamente valutate nel loro comportamento statico di esercizio. Negli anni ‘70, ad esempio, vi è stata un’evoluzione delle tipologie di sezioni tradizionali, nata nell’ambito della fabbricazione con la finalità di miglioramento del processo economico‐produttivo. Ciò ha però dato luogo, in certe tipologie di pignatte, a disegni dei setti in laterizio non ottimali in fase di esercizio, provocando concentrazioni di forze e rotture dei singoli setti, quindi sfondellamenti più frequenti. Una delle cause più rilevanti del fenomeno restano gli effetti statici generati da coazioni interne dovute alla differenza tra il comportamento reale dei solai rispetto agli schemi statici semplificati di calcolo che ancor oggi vengono spesso adottati. Fino all’introduzione dell’obbligo normativo negli ’80 di limitazione delle deformazioni verticali dei solai e di realizzazione di nervature trasversali di ripartizione strutturale, il calcolo dei solai non teneva conto di effetti secondari trasversali alle nervature legati al loro effettivo comportamento a piastra. Questo comportamento può indurre sugli elementi inferiori delle pignatte forze superiori alla resistenza del laterizio e dell’intonaco. Poiché entrambi i materiali sono caratterizzati da rottura fragile il danno si evidenzia immediatamente con il crollo, senza alcun preavviso. Anche un soffitto apparentemente sano potrebbe mascherare un solaio interessato da un fenomeno fessurativo interno che potrebbe aggravarsi nel tempo. Diventa quindi fondamentale un corretto esame dello stato effettivo delle strutture dei solai e l’interpretazione delle sue risultanze. Uno dei metodi esistenti più efficaci per la ricerca dello sfondellamento riguarda la tecnica termografica che

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02. Analisi FEM di solaio con flusso termico regolare.

03. Analisi FEM di solaio con flusso termico non regolare.

04. Immagine termica di un solaio.

05. Immagine termica di un solaio.

avviene sfruttando le caratteristiche fisiche dei materiali e in particolare la loro capacità termica. Riscaldando un ambiente mediante moti convettivi liminari è possibile far emergere, grazie alla sensibilità della macchina termografica di soli 3 mK, le piccole anomalie di continuità che sono frutto della creazione di una piccola cavità d’aria tra intonaco e solaio; detto piccolo distacco è un possibile precursore del ben più grave fenomeno dello sfondellamento; le cause che portano alla creazione di questo problema son molteplici, come abbiamo visto in precedenza, ma tra le più importanti possiamo annoverare le alternanze

la caduta del materiale è normalmente improvvisa e può assumere pesi importanti, costituendo un rischio insidioso e poco prevedibile 59

termiche dovute a cicli di accensione e spegnimento del riscaldamento (tipico nelle scuole) e ad assestamenti delle strutture a causa di vibrazioni indotte. La simulazione del distacco può avvenire mediante un calcolo a elementi finiti (FEM); nel solaio coeso, privo di problemi, il flusso termico è regolare (img. 02). Simulando la presenza di una piccola cavità d’aria sopra l’intonaco, la temperatura superficiale tenderà ad aumentare per effetto della maggiore resistenza termica (img. 03); questo è potenzialmente l’inizio del processo di sfondellamento. Numerose sono state le indagini condotte negli ultimi anni con questa tecnica che hanno consentito di prevenire il distacco della porzione di solaio. Nell’immagine termica 04 è possibile vedere la traccia termica del fondello staccato che risulta più calda: il travetto tende a scomparire e le temperature rilevate risultano più alte, chiaro segnale che l’intonaco non è più coeso ed è quindi a rischio di distacco. La medesima situazione è emersa nell’indagine riportata nell’immagine termografica (img. 05) dove è evidente che il travetto centrale scompare rispetto al travetto di destra a causa di un aumento di temperatura, sintomo di un intonaco anche qui non coeso e quindi a rischio distacco.*


Emilio Antoniol Dottore di ricerca in Tecnologia dell’Architettura presso l’Università Iuav di Venezia. antoniolemilio@gmail.com

Da rifiuto a nuova risorsa Raccolta e smaltimento di rifiuti speciali a Venezia asseggiando per Venezia in zona Castello, a pochi passi da San Marco e poco distante dalle sedi della Biennale, è possibile imbattersi nelle vetrine di Bragorà, un negozio che offre un’ampia gamma di prodotti di design, dall’arredo all’oggettistica fino all’abbigliamento, dando spazio soprattutto a realtà artigianali con un occhio di riguardo al tema del riciclo e dell’upcycling. Il negozio si caratterizza per il suo grande dinamismo: è un luogo attivo, aperto alla città, in cui convivono altre realtà artigianali e produttive tra cui la sede operativa a Venezia di Re.Te. Recuperi Tecnologici. Re.Te. è un’azienda con sede a Musile di Piave che offre servizi di raccolta e gestione dei rifiuti e di consulenza ambientale. Negli anni si è specializzata nel recupero di materiale elettronico, toner e batterie e nella gestione di rifiuti speciali e speciali pericolosi, provvedendo alla selezione e immissione degli stessi nella filiera del recupero. L’azienda è operativa nel nord est e nel 2017 ha effettuato la raccolta di circa 600.000 kg di rifiuti speciali di cui oltre il 63% costituito da RAEE (rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche), cartucce per stam-

Salizzada Sant’Antonin, Castello 3496, VE Via dell’Artigianato 21, Musile di Piave, VE www.reterecuperi.it - info@reterecuperi.it

panti, carta e altri rifiuti pericolosi come estintori, batterie al piombo e tubi al neon. In questo scenario la raccolta nel centro storico di Venezia costituisce un quota considerevole dell’attività di Re.Te. con un totale di 117.500 kg di rifiuti raccolti nel 2017 (circa il 20% del totale). Di questi oltre il 46% (54.027 kg) è costituito da rifiuti elettronici mentre l’11% (13.530 kg) da cartucce e toner esausti.

Il tema del corretto recupero dei materiali di scarto e degli oggetti a fine vita è un elemento di grande rilevanza all’interno della politiche Europee a sostegno all’economia circolare volte ad attivare azioni di “riparazione e rigenerazione, gestione dei rifiuti e reimmissione nell’economia delle materie prime secondarie” (COM 2015/614 final). Re.Te. si pone come realtà attività e operante pro-

01. La racolta dei rifiuti speciali nel centro storico di Venezia. Re.Te.

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IN PRODUZIONE


INPUT IN IMPIANTO

nel 2017 Re.Te. ha effettuato la raccolta di circa 600.000 kg di rifiuti speciali di cui oltre il 63% costituito da RAEE, cartucce per stampanti e altri rifiuti pericolosi

TRASFORMAZIONE

Apparecchiature elettroniche RAEE

264.500 kg

OUTPUT DA IMPIANTO Apparecchiature elettroniche Componenti elettriche

Altre apparecchiature ingombranti

Cartucce esauste per stampanti

Cartucce esauste

100.600 kg

Carta Metalli ferrosi

111.700 kg | 30,60% 356 kg | 0,10% 85.250 kg | 23,30% 3.584 kg | 1,00% 107.500 kg | 29,50%

Metalli non ferrosi e alluminio

25.610 kg | 7,70%

Plastica e gomma

16.240 kg | 4,40%

Batterie, estintori, tubi al neon

Legno

2.460 kg | 0,67%

Imballaggi in carta e misti

Altri materiali inviati a centri di recupero specializzati

Altre cartucce e toner

tot. 352.700 kg [2017] 243.700 kg | 40,80%

tot. 596.400 kg [2017]

02. Schema degli input e degli output dell’impianto di Musile di Piave, anno 2017. Elaborazione dell’autore

prio in questi ambiti, in un contesto come quello veneziano, caratterizzato da specificità topografiche e ambientali complesse e delicate. Tra i servizi offerti troviamo infatti quello di raccolta, trasporto, avviamento al recupero e gestione di rifiuti speciali nel territorio veneziano, convogliando i materiali raccolti al centro di stoccaggio e trasformazione di Musile o presso aziende specializzate nella trasformazione dei vari materiali a fine vita. Dei 600.000 kg di rifiuti raccolti nel 2017 da Re.Te. il 59,1%, pari a 352.700kg, è stato trasformato presso l’impianto di Musile sul Piave mentre il restante 38,8% è stato selezionato, suddiviso in categorie omogenee e inviato in appositi centri per la trasformazione o il recupero. Uno degli obiettivi primari di Re.Te. è quello di minimizzare gli spostamenti e le percorrenze dei rifiuti organizzando la suddivisione degli stessi in categorie omogenee e il loro invio in centri di trasformazione situati, quando possibile, in contesti locali al fine di ridurre gli impatti ambientali dovuti ai trasporti. Allo stesso modo, vengono promosse azioni di upcycling di vecchi arredi che vengono riutilizzati per gli allestimenti del negozio Bragorà, prolungandone così la vita e riducendo le quantità di materia inviata agli impianti di smaltimento.

Nuove economie dagli scarti Con la progressiva affermazione del concetto di economia circolare sta modificandosi, sia a livello teorico che normativo, il concetto di rifiuto. Se infatti fino a qualche decina di anni fa un prodotto a fine vita era considerato uno scarto da smaltire oggi, sempre più, esso è considerato una risorsa da valorizzare. Un primo importante concetto che sta emergendo con forza è quello di End Of Waste (EOW), ossia di cessazione della qualifica di rifiuto da assegnare a un prodotto che “è stato sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la preparazione per il riutilizzo, e che soddisfi i criteri specifici, da adottare

nel rispetto delle seguenti condizioni: a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi specifici; b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od oggetto; c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili ai prodotti; d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana”. I materiali derivati da questi processi di recupero o riciclo sono definiti Materie Prime Secondarie (MPS) cioè materie che vengono reinserite in cicli produttivi uguali o differenti da quello

03. Un carico di rifiuti spaciali RAEE pronto per l’invio in stabilitmento di trasformazione. Re.Te.

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un importante concetto è quello di End Of Waste (EOW), ossia di cessazione della qualifica di rifiuto da assegnare ad un prodotto che è stato sottoposto a un’operazione di recupero

04. La raccolta delle schede di PC dopo lo smontaggio. Re.Te.

in cui sono state originate e sono quindi escluse dal trattamento previsto per i rifiuti (Dlgs. 205/2010). Negli anni Re.Te. si è specializzata anche in alcuni di questi processi, in particolare nel recupero di toner e cartucce per la stampa e nel riciclo e trasformazione di RAEE (rifiuti da Apparecchiature Elettriche ed Elettroniche). Già dagli anni 2000, l’azienda aveva avviato un impianto di rigenerazione di cartucce e toner, provvedendo alla raccolta, bonifica e nuovo riempimento di prodotti dall’elevato costo di produzione. La modifica delle condizioni del mercato del sistemi per la stampa ha portato a una progressiva trasformazione del servizio che oggi si focalizza sulla raccolta e suddivisione dei rifiuti derivanti dai processi di stampa e loro invio in specifici centri di recupero o smaltimento in funzione della classificazione del rifiuto stesso. Differente è invece il caso dei rifiuti elettronici (RAEE) che tuttora sono raccolti e trasformati presso l’impianto operativo di Musile di Piave. Qui i materiali provenienti dalla raccolta vengono selezionati e suddivisi in cate-

gorie omogenee al fine di recuperarne quanti più possibile. Ad oggi esistono processi di recupero o riciclo di quasi tutti i prodotti RAEE ma non tutti presentano la stessa resa: batterie e tubi al neon sono recuperabili al 100% ma richiedono appositi stabilimenti e attrezzature per essere trattati; elettrodomestici quali frigoriferi e condizionatori sono recuperabili ma la resa finale è molto bassa in quanto composti da materiali “poveri” che però richiedono operazioni meccaniche (triturazione, tranciatura e successiva separazione) molto onerose in termini economici. Monitor a tubo catodico o altri prodotti pericolosi sono recuperabili con maggiore difficoltà e con lavorazioni manuali che richiedono operatori specializzati. In tutti questi casi Re.Te. convoglia i rifiuti classificati a impianti dedicati che li trasformano. Differente è il destino di PC e di altri piccoli dispositivi elettronici come stampanti e cellulari. Tali prodotti sono composti da tante parti e da tanti materiali differenti, alcuni preziosi. In questo caso le operazioni di recupero iniziano con lo smontaggio manuale dei compo-

05. Uno sgombero nel centro storico di Venezia. Re.Te.

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IN PRODUZIONE


06. Gli hard disk estratti dai PC nello stabilimento di Musile. Re.Te.

in ambiti come quello dei RAEE il concetto di reimmissione nella filiera produttiva delle risorse a fine vita è quindi una pratica già attuabile e concreta nenti separando le parti metalliche, le schede che contengono metalli preziosi, gli hard disk, i cablaggi e altre componenti secondarie. Ciascuna di queste tipologie di scarto viene poi inviata a uno specifico impianto di trasformazione dove mediante processi meccanici o termici vengono estratti i differenti materiali tra cui plastica, alluminio, rame, oro, platino e altri metalli rari. La resa economica di questo processo è molto variabile: se è vero che una scheda da PC di prima categoria può valere dai 2€ ai 5€ al kg, è altrettanto vero che i tempi e le operazioni necessarie per separare i differenti componenti rendono conveniente il processo solo lavorando grandi quantità di rifiuti. Al contrario il recupero di elettrodomestici o altri prodotti realizzati

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07. Rientro in sede dopo uno sgombero. Re.Te.

con materiali di bassa qualità o non riciclabili risulta essere solo un costo per lo smaltitore, un costo comunque necessario al fine di ridurre l’impatto ambientale della produzione umana e riutilizzare almeno in parte materie riciclabili. In questo scenario la necessità di progettare oggetti smontabili e più facilmente disassemblabili diviene quindi di fondamentale importanza per rispondere alle richieste provenienti dalle normative europee. Resta infine da dire che il Italia il tema del recupero dei rifiuti RAEE a fine vita, sebbene esistente, è ancora ai suoi albori: un comparto interessante si sta sviluppando nella zona toscana di Arezzo dove hanno sede alcune aziende che da anni smaltiscono prodotti elettronici recuperandone i metalli preziosi e rari ma il principale trasformatore di tali rifiuti resta la Germania dove ormai da decenni sono presenti impianti specifici capaci di recuperare risorse da grandi quantità di vecchi computer, stampanti e altri dispositivi elettrici. In ambiti come quello dei RAEE il concetto di reimmissione nella filiera produttiva delle risorse a fine vita è quindi già una pratica attuabile e concreta, volta da un lato a ridurre il consumo di materie prime vergini la cui produzione è più costosa e impattante in termini ambientali, ma dall’altro anche a generare profitti dalla vendita di queste nuove materie secondarie.

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Proprio in questo ambito la visione di Re.Te. va oltre, ipotizzando scenari futuribili che mirano a un coinvolgimento sempre più diretto del consumatore nel processo di recupero di questi “scarti preziosi”, ipotizzando un ribaltamento del mercato del rifiuto: in un prossimo futuro al consumatore non sarà più chiesto di pagare per smaltire il rifiuto ma al contrario gli potrà essere conferito un buono di acquisto proporzionale alla quantità di risorse recuperabili da un determinato prodotto. Se oggi, soprattutto per limiti normativi, questa visione è ancora lontana dal possibile essa si allinea perfettamente al concetto di economia circolare in cui ogni fase del ciclo di vita di un prodotto, dalla sua produzione alla dismissione, cessa di essere fonte di rifiuti e diviene invece generatrice di nuove economie a scala locale.* BIBLIOGRAFIA - COM(2015) 614 final, “L’anello mancante - Piano d’azione dell’Unione Europea per l’economia circolare”, 2015.



Il corpo progettuale La danza e il movimento nella pratica progettuale degli spazi urbani

Camilla Casadei Maldini Architetto camillacasadeimaldini@gmail.com

Ilaria Lusetti Architetto lusettiilaria@gmail.com

Freeway Park, Seattle, Washington. Progetto di Lawrence Halprin

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Osservando il paesaggio urbano, fuori dagli edifici in cui viviamo, vedremo strade, piazze, parchi, ma anche interstizi del costruito, vaste aree senza identità, rovine urbane e potremo notare che talvolta gli spazi progettati risultano più sterili e meno vissuti di alcuni spazi lasciati vuoti, riempiti in verità dalle urgenze di un’umanità lasciata ai margini, ignorata da una società che consuma terreno, produce edifici e spazi senza anima. L’architettura non riesce a tener conto delle continue trasformazioni e delle esigenze mutabili della contemporaneità. Le legislazioni e i regolamenti urbani continuano ad aumentare la lista dei divieti e diminuire le attività possibili negli spazi pubblici, condannandoli a un impoverimento di significato. C’è bisogno quindi di contrastare la tendenza a chiudersi in un mondo virtuale e ristabilire, come architetti e come persone, un legame con la città. L’unico modo per capire il paesaggio urbano è immergersi in esso, portare i corpi nello spazio e percorrerlo, abitarlo. Come ci insegnano l’opera di Richard Long A line made by walking e le attività del collettivo STALKER/ON e CasaDom-, ricerche in cui il camminare alla scoperta dei confini dell’urbanità diventa atto artistico e progettuale capace di trasformare e dare significato allo spazio attraversato. Come spesso accade l’arte si pone sempre un passo avanti all’architettura, offrendole la possibilità di cogliere gli interrogativi e le provocazioni che il processo artistico scatena affinché essa possa subentrare apportando soluzioni. Perché allora non affidarsi all’arte e in particolare alla danza per fare in modo che il movimento di un corpo nello spazio possa diventare una pratica progettuale, in quanto azione caratterizzata dalla simultanea facoltà di leggere e scrivere lo spazio, quindi creare e modificare luoghi. In passato danza e architettura hanno incontrato le loro sinergie, nutrendosi a vicenda. Ne è una testimonianza l’esperienza del paesaggista e della danzatrice Lawrence e Anna Halprin. Già a metà degli anni ’60 ad Halprin era chiaro che gli architetti progettano paesaggi statici perché non hanno gli strumenti per rilevare e rappresentare gli elementi dinamici, ciò fa sì che il movimento sia solo un effetto collaterale dell’architettura.

Franco LaCecla invece ci dice che “ciò che crea lo spazio urbano sono le tracce lasciate dalle persone con l’insistere dei loro movimenti”, è l’abitare gli spazi dunque che può modellarli; solo se gli spazi nascono dal gesto, dalle consuetudini potranno essere considerati familiari da chi li vive. Da qui la domanda: possono i comportamenti, i movimenti, le relazioni di chi danza in uno spazio urbano essere da ausilio a una nuova progettazione del paesaggio? Questa connessione corpo/movimento/spazio può suggerire risposte che accompagnano la fase progettuale? L’intervento della danza ha un potere tutt’altro che marginale in quanto modifica e determina lo spazio dando vita a nuove modalità di fruizione del luogo, non più legate alle logiche di utilità e funzionalità, in modo da scardinare le abitudini percettive e rompere la prevedibilità del conosciuto. Per questo cerchiamo un diverso modo di progettare il paesaggio urbano, nuovi linguaggi e metodi di valutazione in cui comprendere e comporre vanno di pari passo, in cui lo spazio si costruisce come coreografia dei comportamenti umani a partire dai corpi come dispositivi di rilevamento e immaginazione di forme che il disegno può tentare di catturare.*



Produrre identità Narrazione come metodologia nei sistemi identitari

Alice Cleva Laureanda in Design, Comunicazione ed Editoria all’ISIA di Urbino. alice.cleva90@gmail.com

[Entro]. Presentazione dei risultati del workshop alla comunità (Piazza Annonaria). Alice Cleva

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1. Aspirante Romagnolo. Storie Regalate, un lavoro di ricerca e progettazione dell’identità di un luogo, la riviera romagnola, elaborato a partire dal concetto di identità come terapia, realizzato all’ISIA di Urbino in collaborazione con Lo-

“Alla gente non viene in mente di “avere un’identità” fintanto che il suo destino rimane un destino di appartenenza”( Baumann, 2008). Siamo abituati a considerare i progetti sull’identità come sistemi organizzati, statici, prevedibili; il più delle volte il concetto di identità, infatti, viene associato a un prodotto o a un’azienda, ma esso può riguardare anche un luogo o una comunità. Sviluppare un sistema di identità complesso significa essere in grado di comunicare un luogo (reale o irreale) secondo i paradigmi della narrazione, mettendo in atto azioni progettuali di stampo antropologico ed etnografico. In questo caso la creazione dell’identità avviene attraverso un processo di coinvolgimento di una comunità, che diventa essa stessa parte attiva del progetto. Lavorare sulla percezione collettiva, sull’ascolto e sull’osservazione, sulla scoperta di segnali nascosti, inattesi, contraddittori, permette l’elaborazione di un linguaggio nuovo, quindi di un sistema visivo autentico frutto di un percorso che già nella sua fase d’indagine include i destinatari cui il progetto si rivolgerà. La città diventa un laboratorio a cielo aperto e un archivio vivente da cui si traggono gli elementi essenziali. Utilizzando le parole di Marco Tortoioli Ricci, docente di Metodologia del progetto all’ISIA di Urbino – “si evidenzia il valore di una diversa idea di pratica progettuale nei sistemi d’identità, che può essere assimilata a un processo terapico: identità come terapia […] Come succede in casi reali di terapia medica, anche in questo caso pratiche di monitoraggio periodico, continua analisi dei risultati, rielaborazione delle linee di cura sono elementi costitutivi della metodologia di lavoro oggetto di progettazione al pari dei più tradizionali strumenti di comunicazione. Ancora un parallelismo. Anche nel nostro caso l’anamnesi ovvero il ricordo, il racconto rappresentano un dato centrale, iniziale, per configurare la diagnosi conclusiva”. A questo proposito, vorrei citare due progetti significativi a cui ho preso parte:

BIBLIOGRAFIA - Baumann Z., “Intervista sull’identità”, Editori Laterza, Bari, 2008. - Benjamin W., “Il narratore”, Einaudi, Torino, 2011.

2. [Entro] è un progetto di riattivazione di spazi urbani realizzato a Rovigo, a cura di Tumbo in collaborazione con Identity Atlas e Co.Mo.Do. Il workshop ha permesso di riscoprire Piazza Annonaria – sede dell’antico mercato annonario – e di costruire un’identità condivisa della piazza mettendo in relazione dati, percezioni reali, esigenze, aspettative e strategie narrative e progettuali. “Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve […]. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze. […] Il narratore prende ciò che narra dall’esperienza – dalla propria o da quella che gli è stata riferita – e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia” (Benjamin, 2011).*

renza Doria, Sara Guazzarini e Giulia Rattini e ospitato al Festival internazionale BFF 2016. La narrazione ha svolto un ruolo fondamentale nella ricerca e nella definizione dell’identità attraverso il racconto delle persone, le loro esperienze, le storie reali o immaginarie, la loro visione e percezione del territorio.



Tradizione e innovazione, un dialogo possibile? L’avventura di Glass Matters

Matteo Silverio Ricercatore specializzato in nuove tecnologie applicate al design e all’architettura. matteo@matteosilverio.com

Lume (Costantini Glassbeads + Kanz Architetti + Matteo Silverio). Matteo Silverio

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Le nuove tecnologie stanno lentamente trasformando il modo in cui si producono i beni di consumo. Queste trasformazioni, che coinvolgono principalmente le grandi produzioni di massa, hanno cominciato a infiltrare anche il tessuto artigianale, seppur più lentamente e con minore slancio. Le ragioni di questa inerzia trovano una giustificazione nella scarsa propensione al cambiamento dell’artigiano medio e, soprattutto, nella sua generale avversione alle nuove tecnologie, spesso demonizzate come la causa di tutti i mali (professionali). Dov’è possibile notare un cambiamento di mentalità? Soprattutto nelle nuove generazioni, in quel gruppo di giovani artigiani che ha ereditato un mestiere tradizionale, ma che al contempo è cresciuto nel pieno del boom tecnologico. Questi artigiani hanno un atteggiamento più curioso verso le nuove tecnologie, ne percepiscono il potenziale, ma sono bloccati dalla paura di “rovinare” l’eredità ricevuta. In questo limbo di indecisione, quello che a volte manca è una guida, una figura professionale in grado di aiutare l’artigiano a intraprendere un percorso di crescita personale e imprenditoriale volto al superamento dei limiti dettati dalla rigidità del mestiere. Ma è possibile instaurare un dialogo tra sapere manuale e nuove tecnologie senza snaturare l’anima artigiana di una professione? A questa domanda ha cercato di rispondere Glass Matters, un progetto ambizioso di educazione alle nuove tecnologie promosso nel 2017 dal DEL_FabLab (Università Ca’ Foscari di Venezia) e rivolto ai maestri muranesi del vetro, tipicamente diffidenti verso qualsiasi strumento considerato “moderno”. Grazie al Consorzio Promovetro di Murano, partner del progetto, sono stati selezionati sei maestri vetrai disposti a mettersi in gioco; tra loro c’era chi lavora a lume e chi con le murrine, chi produce vetro soffiato e chi vetrate artistiche. Ai maestri vetrai sono stati affiancati altrettanti designer e un tutor del DEL_FabLab con competenze in modellazione 3D e nell’utilizzo di strumenti di prototipazione rapida. Ogni team ha quindi intrapreso un percorso di sperimentazione volto a contaminare l’originale lavorazione del vetro con l’utilizzo degli strumenti della digital fabbrication (stampanti 3D, frese CNC, lasercutter, simulazioni digitali).

Le opere sviluppate durante i tre mesi di sperimentazione sono poi state esposte alla The Venice Glass Week, riscuotendo un enorme successo di pubblico e tra gli addetti ai lavori. Dopo la mostra sono arrivati anche dei riconoscimenti importanti: Lume (Costantini Glassbeads + Kanz Architetti + Matteo Silverio) ha vinto il premio Rolando Segarin per l’artigianato ed è stata esposta ad Operæ (Torino 2017) e al Fuorisalone (Milano 2018). Maga, del collettivo MAP, è stata selezionata tra migliaia di progetti per la Glass Review, la pubblicazione annuale del Corning Museum of Glass di New York che raggruppa i progetti in vetro più significativi di tutto il mondo. Glass Matters non voleva limitarsi alla semplice creazione di oggetti dal design innovativo, ma aveva l’ambizione di importare a Murano un nuovo modo di pensare, cercando di contribuire allo sviluppo di nuove tecniche di progettazione e di lavorazione del vetro. Senza snaturare la figura del maestro vetraio, né tantomeno minandone l’orgoglio, Glass Matters ha fatto breccia nel muro di diffidenza che contraddistingueva l’isola del vetro, innescando una trasformazione che, a distanza di un anno, continua a dare i propri frutti.*


Moreno Baccichet PhD, architetto e professore a contratto presso le università di Udine, Venezia e Ferrara. mbaccichet@iuav.it Andrea Bernava Architetto friulano, componente di LaboratoriodipaesaggiFVG e collaboratore dello Studio Pirzio-Biroli di architettura e progettazione del paesaggio rurale. andrea.bernavas@libero.it

n deposito di memorie dimenticate La stretta del Tagliamento ha sempre avuto un ruolo strategico per la viabilità storica. Il guado del fiume era garantito da un traghetto che univa le due sponde controllate fin dall’età altomedievale dal castello di Ragogna e da quello di Pinzano. Il traghetto interpretava il punto in cui la stretta del grande fiume alpino comprimeva il corso d’acqua rendendolo profondo e navigabile. In epoca più recente questa vocazione al collegamento tra le due rive fu confermata con la costruzione di un ponte che durante la Prima guerra mondiale divenne uno dei punti strategici della difesa italiana che cercò di frenare l’avanzata tedesca dopo Caporetto. Qui si sviluppò una storica battaglia vinta dall’esercito tedesco e, negli anni ‘30 del secolo scorso, il Volksbund Deutsche Kriegsgräberfürsorge, l’associazione che si prendeva cura delle sepolture dei soldati tedeschi, decise di costruire uno dei più grandi totenburg (fortezze dei morti) pro-

01. La corte d’onore, il campo di sepoltura e il sacrario dopo le prime opere di pulizia dalla vegetazione. Moreno Baccichet

Archeologia del contemporaneo Paesaggi produttivi per il sacrario germanico di Pinzano al Tagliamento

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gettati dal direttore del servizio: l’architetto del paesaggio Robert Tischler. Quest’opera, tra le più imponenti progettate dall’artista, non assunse mai notorietà perché a differenza degli altri sacrari progettati dal VDK in Italia (Tolmino, Pordoi, Quero e Feltre) il cantiere non fu mai completato. Il progetto del 1939 fu realizzato solo in parte e subì un radicale ampliamento con una variante nel 1942 che prevedeva di concentrare in questo sito non solo le salme dei soldati tedeschi, ma anche quelle degli austriaci e degli ungheresi morti in quella battaglia considerata un successo pangermanico per i popoli di nuovo uniti nell’impero hitleriano1. Questa variante ritardò il completamento dell’edificio e le vicende della guerra lasciarono sul campo un’architettura appena abbozzata, ma monumentale: la citazione di un tempio antico. Durante la fine della guerra il cantiere fu occupato da truppe di cosacchi che controllavano il ponte e per questo fu bombardato dall’aviazione alleata provocando un importante crollo in corrispondenza delle torri a nord. Dopo la guerra, invece, l’area fu demanializzata dall’esercito che qui costruì una importante opera di difesa utilizzata durante la guerra fredda. Una parte del sacrario fu riutilizzata costruendo un osservatorio militare, mentre il resto del Col Pion fu segnato dalla costruzione di un numero consi-

stente di bunker in cemento e di gallerie di collegamento per presidiare la terza linea di difesa opposta dai Battaglioni d’arresto a una presunta avanzata dell’Armata Rossa. Il colle fu inghiottito dal segreto della censura militare. Nessuno si poteva avvicinare alle aree che quasi tutti i giorni ricevevano i soldati per i consueti addestramenti all’uso di cannoni e mitragliatrici2. Lentamente e inesorabilmente il colle iniziò ad essere abbandonato e dimenticato. Solo con il decreto D.L. n.237/2001 sulle dismissioni militari il comune di Pinzano al Tagliamento si vide assegnare le superfici della collina ormai invase dalla vegetazione. Da quel momento l’amministrazione ha promosso una serie di iniziative per superare l’amnesia territoriale e per leggere in chiave patrimoniale uno spazio segnato da presenze archeologiche di un passato recente. La decisione di mettere mano a un progetto che permettesse di valorizzare l’architettura di Tischler e la testimonianza storica delle opere in cemento della guerra fredda è stata colta anche attraverso le attenzioni espresse dai cittadini in due diversi processi partecipativi: il primo interessato alla rigenerazione dello spazio pubblico era titolato La carovana nel tempo, mentre il secondo si innestava all’interno della sperimentazione parteci-

02. Riprese aeree con drone del Sacrario Germanico e del suo contesto ambientale durante le prime fasi del recupero, dalle quali emerge la potente relazione tra architettura-paesaggio. Andrea Bernava e Massimiliano Santin

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03. Il prospetto nord dopo i bombardamenti. Moreno Baccichet e Andrea Bernava

04. I bombardamenti del 1944-45 distrussero le torri nord lasciando libero il monumentale portico a triliti. Andrea Bernava

05. Nel secondo dopoguerra i resti del sacrario furono utilizzati dall’esercito per costruire una postazione militare. Andrea Bernava

l’opera di Tischler, non assunse mai notorietà perché a differenza degli altri sacrari progettati dal VDK in Italia il cantiere non fu mai completato


06. Schema assonometrico del Progetto di Restauro del Paesaggio sul Col Pion e delle aree del Sacrario Germanico. Andrea Bernava

quello di Pinzano è un progetto di sviluppo locale autosostenibile, in un periodo di crisi economica in cui c’è bisogno di ricostruire un’attenzione al territorio

pativa del Piano Paesaggistico Regionale, progettando con la popolazione la Carta del Paesaggio di Pinzano e Castelnovo. Più recentemente il progetto di recuperare questo colle e il vicino poligono militare dismesso è stato premiato come Progetto di Paesaggio dalla Regione Friuli Venezia Giulia che finanzierà in questo modo la progettazione e il recupero del sacrario e dei bunker. Il progetto nel suo complesso non solo permetterà di recuperare una forma paesaggistica storica, quella dei prati alti sul Tagliamento, ma anche le memorie archeologiche depositate dall’uomo in un secolo di guerre più o meno esplicite. Moreno Baccichet Il Restauro del Paesaggio attraverso un progetto di economia locale autosostenibile: il modello Pinzano Quello di Pinzano è un progetto di sviluppo locale autosostenibile, in un periodo di crisi economica in cui c’è bisogno di ricostruire un’attenzione al territorio. Occorre reinventarsi e cercare di capire cosa fare in una situazione di decrescita economica, finanziaria ma anche di ideali. La soluzione si può trovare in un’azione capillare

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sul territorio, fondata sull’equazione “paesaggio=economia”, con pratiche di attivazione di politiche territoriali dirette alle popolazioni. È necessario recuperare quella coscienza nel rapporto tra abitanti e risorse che garantisca la riproduzione delle stesse e una nuova consapevolezza e capacità delle comunità locali nel rigenerarle per le generazioni future. Il progetto nasce dal confronto dialettico tra la Scuola Territorialista di Alberto Magnaghi e le esperienze francesi delle Chartes Paysageres. Con la prima abbiamo condiviso il concetto che il territorio è un “organismo vivente ad alta complessità” e che il suo carattere è formato dalla biodiversità e dalla sociodiversità. Nel suo continuo rinnovamento la produzione sociale del territorio è guidata dall’autogoverno della comunità insediata in un modello “glocale”. Le seconde, invece, sono dispositivi operativi indirizzati alla pianificazione del territorio attraverso un progetto di paesaggio condiviso tra i principali attori della trasformazione del territorio stesso. La logica sottesa è quella di considerare il paesaggio come espressione di interesse per la qualità dell’ambiente di vita.

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09. Il sacrario e il Tagliamento visti dalla copertura. Andrea Bernava

07. La recuperata visuale panoramica sulla stretta di Pinzano grazie al lavoro del laboratorio partecipativo Officina di Microprogettazione Pinzanese. Andrea Bernava

08. Il laboratorio partecipativo Officina di Microprogettazione Pinzanese. Andrea Bernava

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Da qui scaturisce il metodo multidisciplinare e multiscalare del “modello Pinzano”, che intrecciando i saperi esperti con i saperi locali, sperimentando l’esperienza della microprogettazione extraurbana grazie al volontariato locale (img. 08), ha proposto una pratica di restauro del paesaggio su un’area di terre pubbliche di 15 ettari. Il progetto ha messo in valore un patrimonio territoriale sepolto dall’affermazione del bosco di neoformazione, conseguente agli abbandoni agricoli dal dopoguerra ad oggi. Il progetto (img. 06) definendo una politica d’azione locale, associa diversi strumenti di carattere programmatico/finanziario, come la LR n.10/2010 “Recupero dei terreni incolti” ed il PSR FVG 2014-2020, oltre a strumenti di matrice squisitamente operativa come l’elaborazione di un Piano di Gestione specifico per i terreni recuperati nel medio/lungo periodo. Il risultato è quello di restaurare il contesto paesaggistico di manufatti territoriali di interesse storico-culturale attraverso il disboscamento e il pascolamento ad opera di un’azienda zootecnica del luogo, a supporto del-

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la filiera alimentare locale (si produrrà formaggio di capra grazie al foraggio prodotto dai prati e pascoli recuperati), con un interessante sgravio finanziario per l’Amministrazione che potrà manutentare il territorio “a costo zero” rivitalizzando nel contempo lo slow tourism intercomunale (img. 07). I monumenti che ricordano le guerre del passato sono tornati alla luce all’interno di un ambiente coltivato che dialoga con il paesaggio del grande fiume alpino.* Andrea Bernava NOTE 1 – Per un inquadramento bibliografico si veda M. Mulazzani, “Il memoriale germanico a Pinzano al Tagliamento del VDK, 1938-1943”, in “Le pietre della memoria. Monumenti sul confine orientale”, a cura di P. Nicoloso, Udine, Gaspari, 2015, pp.175-200. 2 – Su questo argomento si veda “Fortezza FVG. Dalla guerra fredda alle aree militari dismesse”, a cura di M. Baccichet, Monfalcone, Edicom, 2014.


Elisa Zatta Dottoranda in Tecnologia dell’Architettura, Dipartimento di Culture del Progetto, Università Iuav di Venezia. ezatta@iuav.it

pazi inaspettati, che accolgono funzioni diverse, adeguati alla flessibilità richiesta da un’utenza multiforme, si stanno diffondendo in tutta Europa. Vissuti, progressivamente modificati, piegati alle esigenze. Il progetto di architettura non si conclude con la costruzione: l’edificio inizia a vivere da quando il primo utente ne attraversa la soglia e vi apporta, consapevole o meno, una modifica. Queste le ragioni alla base del tema scelto per il Padiglione Francese alla 16° Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, Infinite Places. Building or making spaces?, curato da Encore Hereux (Piccardo, 2018). Così, l’imprevisto si propaga anche al di fuori delle tradizionali sedi della Biennale, fino a coinvolgere, grazie a un accordo fra Biennale Urbana e Agenzia del Demanio, l’ex-caserma Pepe al Lido di Venezia, i cui spazi sono stati scenario dell’azione di collettivi e associazioni che hanno contribuito per fasi a costruire nuove funzioni per il sito1. Generando luoghi inattesi, liberi da destinazioni d’uso vincolanti, flessibili e per questo aperti all’appropriazione personale da parte dei fruitori.

Movimento lento Tema non estraneo a Camposaz, associazione culturale no-profit attiva nell’ambito dell’autocostruzione in legno in scala 1:1 e coinvolta nel progetto Esperienza Pepe2 per la realizzazione dei dormitori. Nata nel 2013 in Trentino Alto Adige, l’organizzazione promuove dei workshop, destinati ad architetti e carpentieri under 35, durante i quali le fasi di design e di costruzione sono strettamente legate e procedono in parallelo. Questo processo progettuale viene applicato per realizzare delle installazioni che mirano a valorizzare la natura e il paesaggio, solitamente

operando in spazi aperti, in alcuni casi disegnando nuove figure nella trama di piccoli centri storici. L’attenzione all’inserimento della costruzione nel luogo è fondamentale, operando nel rispetto di quello che Luca Garofalo, introducendo le opere di Sami Rintala, definisce un “movimento lento” attraverso il quale “è sempre possibile percepire il dialogo che esiste tra natura ed artificio”. La realizzazione di ogni progetto dell’architetto finlandese, prosegue Garofalo, produce “una piccola modifica nel contesto, un lieve cambiamento della quotidianità che permette a chi osserva, e a chi usa gli spazi, di percepire un luogo sem-

01. La vita nell’area di progetto all’ex-caserma Pepe, Lido di Venezia. Mariella Gentile

Dinamiche progettuali e costruttive

Camposaz β: due installazioni in legno all’ex-caserma Pepe di Venezia

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il rapporto delle installazioni con i luoghi genera un dialogo fra natura e artificio, osservatore e oggetto

02. Days #1 to #3: brainstorming phase. Paul Schrijen

pre in maniera diversa attraverso uno sguardo nuovo sulla realtà circostante” (Garofalo, 2009). Anche le installazioni site-specific di Camposaz mirano a generare in questo modo un nuovo dialogo fra architettura e natura, osservatore e oggetto nel paesaggio. In-finite alternative: il processo progettuale Se per gli architetti del collettivo la scelta di questa direzione è de facto condivisa dal principio, non è invece noto all’inizio del processo progettuale quale ne sarà il risultato: la progettazione e la realizzazione sono completamente condivise, con la supervisione di alcuni tutor. Durante tutta la durata

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del workshop si vive in stretto contatto nell’area di progetto (img. 01). Lo scambio di conoscenze e il confronto continuo costituiscono il fulcro del processo creativo, generando forse un embrione dell’“utopia realistica” sognata da De Carlo, che vede tutti i partecipanti ugualmente e direttamente coinvolti nel processo decisionale (De Carlo, 2013). Proprio per questa ragione “ogni momento dell’operazione diventa una fase del progetto; […] i diversi momenti sfumano l’uno nell’altro e l’operazione cessa di essere lineare, a senso unico e autosufficiente” (De Carlo, id.). Ed è così che iniziare a trasporre il progetto in costruzione diventa necessario per verificare le prime ipo-

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tesi e orientare la direzione progettuale verso la soluzione più adeguata. Questo approccio operativo si avvicina a quello del Design Thinking3: le fasi si susseguono in modo non lineare, ogni esperienza compiuta contribuisce a indirizzare le decisioni che saranno prese in seguito, nella ricerca dell’alternativa più adatta allo scopo (Rowe, 1987) fra le infinite che si propongono (img. 02). La costruzione di un primo prototipo conferma – o tradisce – le aspettative e decide del percorso che sarà intrapreso. Procedere costruendo nuovi spazi Nel caso della Caserma Pepe l’obbiettivo era la realizzazione di dormi-


03. Dal prototipo alla progressiva crescita del villaggio. Giovanni Wegher

tori per un totale di 30 posti letto, in due ambienti collocati al pianterreno dell’edificio. Alla base delle decisioni progettuali la consapevolezza di materiali in quantità limitata (travetti in legno di abete di sezioni 6x12 cm e 6x6 cm e tavole 3x18 cm, tessuti colorati in loco con pigmenti naturali) e delle possibilità costruttive ed espressive da essi offerte. Uno stesso metodo, impiegato con finalità formali e concettuali diverse, ha permesso di dare vita a installazioni completamente diverse. Nel caso di the Village sono stati realizzati sei elementi mobili, volumi di tessuto dipinto che avvolgono la struttura lignea, oggetti che creano un insediamento configurabile di modulicasa sempre diverso nei rapporti che costituisce con l’ambiente (img. 05). Piccole variazioni geometriche applicate al prototipo generano una composizione eterogenea di elementi (img. 03). The Forest è invece una realizzazione antitetica alla prima, fissa e in rapporto stretto con l’ambiente in cui si colloca, una struttura volta a caratterizzare fortemente lo spazio. Composta di piattaforme poste a vari livelli, collegate fra di loro e con la quota del pavimento da risalite di legno e passerelle, dialoga in altezza con lo spazio

il processo di design e quello costruttivo procedono in parallelo durante la realizzazione

04. La struttura di the Forest completata con i primi elementi in tessuto. Elisa Zatta

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05. The Village. Veronica Sereda

voltato che la sovrasta, generando micro-spazi e prospettive sempre diversi, caratterizzata dalla ripetizione del medesimo nodo costruttivo per tutte le strutture (img. 04). In entrambi i casi l’impiego del tessuto garantisce la privacy necessaria all’utente, che può decidere in un caso come orientare le aperture del modulo e nell’altro, per mezzo di un sistema scorrevole, quanto tenerle aperte. Camposaz β Un team di 17 progettisti si è confrontato per due settimane con l’interpretazione degli spazi, con il rapporto mutevole tra il contesto e quanto si andava progressivamente realizzando.

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Con l’economia dei materiali e con le loro caratteristiche di impiego, con le incertezze del flusso progettuale condiviso, con le modifiche in corso d’opera, con le implacabili zanzare tigre – padrone incontrastate del sito. Con tutti gli aspetti propri di un lavoro ideato e realizzato sul campo, per il quale la costruzione diventa sede di revisione della fase progettuale e sua costante implementazione: non per caso si dice che nei dettagli si trovi sì la bellezza, ma anche il diavolo.*

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NOTE 1 – Nel corso del mese precedente l’apertura, progettazione e realizzazione condivise sono stati gli strumenti adottati per fornire all’ex-caserma i servizi necessari per le aree in cui alloggiano, lavorano e mangiano gli ospiti del Padiglione. 2 – Durante il periodo della Biennale di Architettura 2018 gli spazi della Caserma sono destinati a un’esperienza di workshop residency. 3 – Impiegato oggi per il problem-solving nell’ambito del business, è un processo, i cui primi studi risalgono agli anni ‘50, relativo alla struttura decisionale e procedurale che si nasconde dietro alla definizione di un progetto. BIBLIOGRAFIA - Garofalo L. (a cura di), “Sami Rintala”, Libria, Melfi, 2009, p.7. - Marini S. (a cura di), “Giancarlo De Carlo. L’architettura della partecipazione”, Quodlibet, Macerata, 2013, pp. 61-63. - Piccardo E., “French Pavillion at Venice Biennale 2018: Infinite Spaces”, in “Il Giornale dell’Architettura”, 2018, www.ilgiornaledellarchitettura.com/web/2018/04/15/ french-pavilion-at-venice-biennale-2018-infinite-spaces, ultima presa visione il: 27.06.2018. - Rowe P.G., “Design thinking”, the MIT Press, Cambridge, 1987, pp. 34-37.


Diletta Baiguera, Riccardo Daniel, Tiziana Mazzolini Collective Pegs è un gruppo internazionale di architetti e artisti che discute su temi di attualità rispondendo con parole, immagini, foto e disegni. Lo scopo del collettivo è riportare l’architettura in una discussione attiva e critica, attraverso contenuti di impatto internazionale. info@collectivepegs.com

el 2050 le previsioni ONU proiettano una crescita che porterà la terra ad ospitare 10 miliardi di persone (ONU, 2017). Lo scenario che prevede un aumento della popolazione ed emergenze come immigrazione e calamità naturali incideranno sul modus operandi del fare architettura. Il mondo con il quale l’architetto si trova e si troverà a fare i conti è un mondo veloce, in continuo cambiamento e sempre pronto a inseguire nuove frontiere. Per il progettista sarà indispensabile stare al suo passo ed elaborare strumenti che possano rispondere in maniera rapida al mutarsi delle situazioni. L’auto-costruzione non si porrà solo come alternativa alle costruzioni tradizionali per rispondere alle calamità ed emergenze, ma si ritaglierà un ruolo fondamentale nella crescita di una comunità. La pratica della costruzione faida-te è in uso e regolamentata, nella maggior parte dei paesi dell’America Latina, ma anche le grandi economie come Stati Uniti e Europa si ritrovano a integrare questo modo di fare architettura. Paesi come Francia, Irlanda,

Danimarca hanno tutti visto in questa soluzione un rimedio a problemi di ghettizzazione e di sovraffollamento periferico, addirittura in Germania l’autocostruzione ricopre circa il 25% dell’edilizia abitativa. In Italia, già negli anni ‘50 si lavorava in questo campo, per poi rallentare la sua evoluzione negli anni ‘70 con l’avvento delle grandi imprese e la costruzione seriale delle periferie. Possiamo riconoscere come primo promotore dell’autocostruzione l’architetto Giuseppe Cusatelli. Il suo primo lavoro a Varese negli ‘80 ha trovato la partecipazione di 14 famiglie tutte unite dal sogno di una casa di pro-

prietà. Sogno che si può raggiungere in quanto, come sostiene l’architetto, le case costano dal 50 al 70% in meno rispetto ai prezzi di mercato. Successivamente a partire dal 2000 in molte regioni nella nostra penisola, tra le quali Campania, Emilia Romagna, Marche, Umbria, Toscana e Puglia, prese il via un progetto sperimentale molto ambizioso denominato Un Tetto per Tutti. L’intervento di autocostruzione che venne coordinato da organizzazioni non governative come Alisei ONG avrebbe dovuto realizzare centinaia di alloggi a basso costo insieme ai propri inquilini. L’intento era risolvere il disagio abitativo di molte

01. Una casa X2 a Vigevano, uno dei progetti di autocostruzione più famosi dell’arch. Giuseppe Cusatelli. Giuseppe Cusatelli

Un mattone sopra l’altro L’autocostruzione come risposta all’involuzione

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famiglie abbattendo i costi in quanto la manodopera è costituita dai futuri proprietari. Un progetto iniziato con nobili intenti ma che nel 2010 non riportò nessun risultato utile in termini di costruzioni e abitabilità; si decise di abbandonare l’iniziativa, portando alcune delle società incaricate del lavoro al fallimento e lasciando l’onere economico dell’investimento alle sole Regioni. Più recentemente sempre in Italia nasce un progetto di auto-costruzione che vede interessata la regione Puglia, nello specifico il comune di Barletta che a partire dal 2012 sta lavorando su un progetto di costruzione assistita e di recupero della stessa regione. Un iter seguito da un team di professionisti e consulenti che porterà alla realizzazione di un complesso residenziale che conta 20 unità abitative che guardano a sostenibilità ambientale ed energetica. Questi progetti hanno alle spalle esempi di grande portata, uno tra tutti il successo della Quinta Monroy dello studio cileno Elemental. Il progetto dell’architetto Alejandro Aravena ha interessato 93 famiglie della città di Iquique e si è posto come soluzione per contenere la prolificazione delle favelas sudamericane, generando uno spazio collettivo caratterizzato da materiali economici e di facile manutenzione. L’impianto del progetto è stato la base di partenza di una trasformazione lasciata in mano agli abitanti che hanno elaborato ampliamenti e caratterizzato la propria casa. Non tutti i paesi possono però permettersi un progettista come nel caso cileno: in Perù ad esempio lo stato ha creato una guida a fumetti che porta l’abitante passo a passo a realizzare la propria residenza. L’auto-costruzione permette di appropriarsi del territorio e migliorarlo, la figura dell’architetto diventa un supporto a un progetto il cui concept non è rigido ma permette di evolversi e cambiare con il proprio fruitore. Del resto è peculiarità della persona caratterizzare un luogo e cucirsi addosso gli spazi in base alle sue necessità e al suo comfort. “Lasciare un po’ di spa-

zio”, sarà la maniera di operare dell’architetto affinché il committente abbia possibilità di crescere e identificare quel luogo come suo e suo soltanto. Come sostiene l’architetto Yona Friedman, “Anche quando vi sia un grande autore, un’architettura senza fruitore è senza significato: è una ‘rovina’. […] Una costruzione non è un oggetto ma un processo. Un buon edificio è un patchwork” (Friedman, 2009). Fare architettura progressiva “significa partecipare attivamente e condividere una modalità di produzione dell’alloggio, nella quale i futuri abitanti sono direttamente e materialmente impegnati. “Gli auto-costruttori sono una comunità organizzata, autogestita, e assistita nelle procedure e nei lavori da personale tecnico professionale esperto e accreditato” (Colombo et ali, 2010). Coloro che si impegnano in progetti di questo tipo sono persone pronte a sporcarsi le mani e a dedicare il loro tempo per rendere concreto il sogno di avere un tetto sotto cui abitare. L’auto-costruzione unita al mondo del fai-da-te, dei tutorial su YouTube e dei blog online, è la direzione che la società sta prendendo. La domanda che nasce spontanea è: dove si colloca la figura professionale dell’architetto? Il compito del progettista è quello interpretare il luogo e il tempo, ma guardandoci intorno percepiamo come la professione si imponga su questi due

02. La guida a fumetti peruviana spiega come costruire una fondazione e di quanto materiale necessita l’opera. Unión Andina de Cementos S.A.A & ing. Rodolfo Castillo Castillo

termini, creando il distacco tra la società e l’architettura. Questa separazione ha reso l’architetto cieco di fronte al cambiamento frenetico e incontrastato del modo di abitare, e cieco davanti alla possibilità di iniziare a lavorare su l’architettura spontanea. Favelas e slam cities dominano in percentuale il territorio. È indispensabile pensare una progettazione di supporto che fornisca strumenti in grado di adattarsi all’evoluzione e alla personalizzazione da parte della società senza perdere la qualità dello spazio in cui viviamo.* BIBLIOGRAFIA - Colombo M., Martellotta M., Solimano N., “L’autocostruzione: una opportunità̀ per il social housing”, Fondazione Giovanni Michelucci Onlus, 2010. - Friedman Y., “Un’architettura della sopravvivenza. Una filosofia della povertà”, Bollati Boringhieri, Milano, 2009. - United Nations Department of Economic and Social Affairs/Population Division, “World Population Prospects: The 2017 Revision, Key Findings and Advance Tables”, 2017.

03. Vista dello stato attuale del progetto di Alejandro Aravena nell’area di Quinta Monroy Iquique, Chile. Planta Audiovisual

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Cristiana Mattioli PhD in Governo e Progettazione del Territorio, Assegnista di ricerca e Professore a contratto in Urbanistica, DAStU – Politecnico di Milano. cristiana.mattioli@polimi.it Giulia Setti PhD in Progettazione Architettonica e Urbana, Assegnista di ricerca e Professore a contratto in Progettazione Architettonica, DAStU – Politecnico di Milano. giulia.setti@polimi.it

rasformare territori produttivi Se il riuso di aree industriali dismesse è un tema molto praticato dalla disciplina urbanistica e architettonica (Gregotti, 1990; Russo, 1998), oggi ci troviamo di fronte ad alcune importanti novità, che sollecitano una riflessione rinnovata e aggiornata (Secchi, 2005). Da un lato, il numero degli spazi dismessi è in costante aumento e assume forme diversificate, per epoca, uso e consistenza (Lanzani, 2015). Dall’altro, le modalità tradizionali della rigenerazione – per demolizione e sostituzione attraverso progetti urbani unitari – necessitano di essere riviste alla luce delle presenti condizioni di incertezza che ridimensionano o interrompono le trasformazioni (Bondonio et al., 2005). Ecco perché, nel corso degli ultimi anni, il tema del “riuso” produttivo ha dato vita a una nuova stagione di studio, volta a riconoscere processi, attori e metodologie adeguate al carattere dei luoghi interessati (Fabian, Munarin, 2017).

All’interno di questo quadro d’insieme, solo sinteticamente tratteggiato, il caso delle ex Officine Meccaniche Reggiane è paradigmatico da diversi punti di vista. Si tratta di un’operazione di rigenerazione che è, innanzitutto, produttiva perché preserva, e contemporaneamente innova, la destinazione d’uso originaria dell’area e il carattere industriale del luogo; urbana perché consente di riqualificare una grande area industriale dismessa, aprendone il recinto e ricollegandola alla città; sociale perché riattiva il quartiere limitrofo alle

ex Reggiane, segnato da pesanti processi di marginalizzazione, attraverso l’animazione del territorio da parte di realtà associative e del terzo settore. L’intervento sulle ex Reggiane si caratterizza per l’interessante e ricca compresenza di gradazioni diverse di riuso, consolidamento e valorizzazione del patrimonio esistente, non sempre ascrivibile alla categoria di “archeologia industriale”. L’operazione non prevede, infatti, la demolizione completa del sito, ma salvaguarda il capitale fisso sociale esistente che, attraverso un approccio

01. Street Art Jam 2016 alle ex Reggiane. Comune di Reggio Emilia

Reggio Emilia Approach La rigenerazione urbana, produttiva e sociale delle ex Officine Meccaniche Reggiane

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il Parco Innovazione, Conoscenza e Creatività intreccia sviluppo economico e rigenerazione urbana 02. Masterplan per l’area delle ex Officine Meccaniche Reggiane. Comune di Reggio Emilia

flessibile di riuso adattivo, permette di ospitare attività eterogenee. Infine, per la forza con cui attori e obiettivi diversi si sono condensati in un progetto coerente, scandito da fasi di sviluppo successive – alcune delle quali non ancora definite per adattarsi a evoluzioni oggi non prevedibili –, si può affermare che si tratti di un caso unico in Italia, paragonabile ad alcune esperienze in corso nel nord Europa, come il recupero urbano della Strijp-S Philips a Eindhoven, nei Paesi Bassi. Dalla dismissione all’innovazione produttiva Le Officine Meccaniche Reggiane nascono nel 1904 nel quartiere Santa Croce, a nord della stazione ferroviaria di Reggio Emilia, e rappresentano

per oltre un secolo la maggiore realtà produttiva della città (Bellelli, 2016). Nel 2007 cessano la loro attività, lasciando una superficie di 250.000 m2 completamente dismessa. Dopo alcuni anni di abbandono, durante i quali diventa riparo per senzatetto e polo creativo per migliaia di street artist (img. 01), l’area torna al centro del dibattito cittadino nel 2010, in occasione degli Stati Generali per l’Area Nord indetti dall’allora sindaco Graziano Delrio allo scopo di rilanciare il tessuto industriale e individuare in modo condiviso e partecipato una possibile reazione alla crisi economica. Sviluppo socio-economico e rigenerazione urbana si incontrano in una strategia di scala vasta che potenzia e riqualifica il quartiere industriale di Mancasale, adiacente alla stazione

03. Riqualificazione di Piazzale Europa e Tecnopolo. Comune di Reggio Emilia

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TAV Mediopadana, individua nuovi spazi per l’economia creativa nel centro storico e trasforma le ex Reggiane nel Parco Innovazione, Conoscenza e Creatività (img. 02), elemento di forte attrattività per l’intero territorio. Qui il progetto consente di rigenerare un pezzo di città – più esteso della sola area industriale – favorendo al contempo il passaggio dalla manifattura tradizionale all’industria innovativa. Entro una riflessione più ampia sul ritorno della produzione in città (Rappaport, 2015; Pasqui, 2015), l’esperienza reggiana mostra un’interessante ibridazione tra “parco tecnologico” e forme leggere di “manifattura urbana”, che si realizza all’interno di spazi produttivi dall’elevato valore identitario e testimoniale. In un panorama competitivo globale, questi spazi rappresentano al contempo elementi di distinzione per le imprese e asset strategici per aumentare l’attrattività della città. La strategia sperimentata a Reggio Emilia si radica fortemente all’assetto socio-economico esistente e alle sue filiere più innovative; non importa o replica best practices, né si uniforma all’immagine metropolitana del coworking. La produzione alla quale si rivolge mantiene quote di manifattura – seppur prevalentemente in forme di prototipazione – ibridandole con R&S e forme della knowledge e sharing economy (Mattioli, Lanzani, 2016), che possono facilmente accostarsi e interagire con funzioni educative e culturali.


04. I lavori di recupero del Capannone 18. Cristiana Mattioli e Giulia Setti

Un intervento di riciclo a forte regia pubblica Il progetto di riqualificazione delle ex Reggiane si caratterizza per l’approccio orientato all’adaptive reuse (Robiglio, 2017) e per il forte ruolo di regia assunto dall’amministrazione comunale, che non si limita a guidare il processo di governance, ma dà concretamente avvio all’operazione, stimolando successivi investimenti privati. Il primo nucleo del Parco è, infatti, costituito da due centri di ricerca pubblici: il Centro Internazionale Loris Malaguzzi per l’educazione, inaugurato nel 2011, e il Tecnopolo della Rete Alta Tecnologia della Regione Emilia Romagna, attivo dal 2013. In entrambi i casi si tratta di interventi di riciclo e risignificazione di architetture ex-industriali di pregio che si affacciano su Piazzale Europa, spazio pubblico-parcheggio in corso di riqualificazione (img. 03). L’attenzione al patrimonio esistente e al suo riuso è uno degli elementi cardine dell’operazione. Dal punto di vista architettonico, il processo di trasformazione mette in luce la possibilità di conservare – con gradi di intensità diversi – le strutture produttive, agendo su di esse in modo incrementale e con interven-

ti puntuali di innesto (Setti, 2014). Se i vincoli di tutela hanno finora orientato le scelte progettuali verso la conservazione dei manufatti e delle tracce della memoria industriale, gli interventi in corso - recupero dei capannoni 15, 17 e 18 (img. 04) - pongono con maggior forza il tema della sperimentazione e dell’innovazione, coerentemente con la natura del manufatto e delle funzioni produttive che vi si insedieranno. L’elevata qualità della progettazione – affidata allo studio cittarchitettura di Andrea Oliva – è stata riconosciuta dagli investitori privati che hanno acquistato la quasi totalità degli spazi prima del loro completamento. Il ruolo dell’amministrazione comunale ha riguardato anche l’individuazione delle fonti di finanziamento. La partecipazione a diversi bandi ha consentito di destinare 32 milioni di euro di risorse pubbliche al progetto di rigenerazione urbana. L’apporto economico pubblico è stato fondamentale per attuare l’intervento – e, in particolare, bonificare l’area –, ma ha richiesto una forte concentrazione delle risorse (così come delle nuove funzioni e progettualità), a spese di altri luoghi della città bisognosi di riqualificazione.

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Ciononostante, il progetto si è recentemente ampliato, inglobando spazi industriali di minori dimensioni sparsi nel vicino quartiere Santa Croce (Comune RE, 2017). Sospese in uno stato di attesa a causa della recente crisi economica e immobiliare, le aree hanno accolto interventi di riuso temporaneo (Inti et al., 2014). In questo caso, l’amministrazione ha avviato un dialogo con proprietari privati, realtà del terzo settore, professionisti locali ed enti preposti alla sicurezza, assumendo un ruolo di mediazione cruciale per la realizzazione di interventi low cost di micro-qualificazione a bassa densità (manutenzione, messa in sicurezza, minimo adeguamento funzionale, per circa 100€/m2) e di riattivazione del contesto urbano. Un lungo percorso di riavvicinamento Gli interventi di riuso temporaneo consentiranno ad associazioni, cooperative sociali e realtà del terzo settore di usufruire di spazi ristrutturati a basso costo, promuovendo l’innovazione sociale e rigenerando contemporaneamente un quartiere che versa oggi in uno stato di profondo degrado e isolamento. Per questo, l’intervento fisico-urbani-

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il quartiere di Santa Croce sarà riattivato da realtà del terzo settore, ospitate in spazi recuperati

05. Santa Croce open day (maggio 2017). Comune di Reggio Emilia

stico si accompagna a un processo di riattivazione socio-culturale, iniziato ancor prima dei lavori di trasformazione. Un processo fatto di iniziative, eventi e manifestazioni volte a comunicare la nuova visione per il futuro del quartiere, facendo al contempo riavvicinare i cittadini alla memoria delle ex Reggiane e a questo brano di città. Rispetto al primo punto, poco dopo la dismissione è cominciato il lavoro di recupero e catalogazione dell’archivio aziendale, i cui documenti sono stati resi pubblici in occasione di due mostre (AA.VV., 2016), accompagnate da attività di approfondimento e workshop dedicati alle scuole superiori e a giovani professionisti locali. Rispetto al secondo punto, invece, i cittadini hanno avuto la possibilità di seguire i lavori ed entrare all’interno degli spazi grazie agli open day promossi dalla STU Reggiane SpA e a eventi temporanei organizzati nei vuoti urbani del quartiere (img. 05). In queste occasioni, la narrazione delle ex Reggiane e del quartiere Santa Croce è cambiata radicalmente; un tempo operosa e vitale, poi dimenticata e degradata, oggi l’area è animata da un nuovo fermento, ma anche da contraddizioni e conflitti, ancora da sciogliere:

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come arginare possibili effetti di gentrification? Come fare coesistere rigenerazione urbana e inclusione sociale (Vicari Haddock, Moulaert, 2009)? Come e con quali mezzi trattare il tema dell’occupazione degli spazi dismessi? Una “trasformazione consapevole” Il processo di rigenerazione delle ex Reggiane e del quartiere Santa Croce è ancora in corso ed è destinato a durare svariati anni, senza la certezza di un completo recupero dell’area industriale. Non è dunque possibile valutarne gli esiti, né appare utile proporre l’esperienza come “modello” replicabile altrove. Ciò che, invece, merita di essere evidenziato è l’attenzione posta alle risorse disponibili – in primis al patrimonio industriale dismesso e al tessuto urbano limitrofo – e al contesto socio-economico locale. È in questo senso che l’esperienza assume il carattere di una “trasformazione consapevole”. Combinando strategie di intervento multiscalari e multiattoriali, il recupero produttivo delle ex Reggiane riconsegna ai cittadini uno spazio dal forte valore memoriale, identitario e simbolico, e al contempo innovativo e attraente, ancora capace di produrre valore economico per l’intera città e il territorio.*

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BIBLIOGRAFIA - AA.VV., “Reggiane. Archivio Storico Capitolo I”, Catalogo della Mostra, Reggio Emilia, 2016. - Bellelli M., “Reggiane. Cronache di una grande fabbrica italiana”, Aliberti compagni editoriale, Correggio, 2016. - Bondonio A. et al., “Stop & go: il riuso delle aree industriali dismesse in Italia. Trenta casi di studio”, Alinea, Firenze, 2005. - Comune di Reggio Emilia, “Relazione illustrativa, Programma di riqualificazione urbana PRU_IP ‐ Bando Periferie Reggiane/Santa Croce”, 2017. Disponibile al link: www. rigenerazione-strumenti.comune.re.it/strumenti-di-attuazione-3/prupoc/pru_ip-bando-periferie-reggianesantacroce - Fabian L., Munarin S., (a cura di), “Re-cycle Italy: atlante”, LetteraVentidue, Siracusa, 2017. - Gregotti V., “Aree dismesse: un primo bilancio critico”, Casabella, n° 564, 1990, p. 2. - Lanzani A., “Città territorio urbanistica tra crisi e contrazione”, Franco Angeli, Milano, 2015. - Inti I., Cantaluppi G., Persichino M., “Temporiuso. Manuale per il riuso temporaneo di spazi in abbandono in Italia”, Altra Economia, Milano, 2014. - Mattioli C., Lanzani A., “Dal distretto alla città”, in Lanzani A., Merlini C., Zanfi F. (a cura di), “Riciclare distretti industriali. Insediamenti, infrastrutture e paesaggio a Sassuolo”, Aracne, Roma, 2016, pp. 37-63. - Pasqui G. (a cura di), “Hub e spazi urbani”, Imprese & Città n. 8, 2015, pp. 51-95. - Rappaport N., “Urban Vertical Factory”, Actar, New York, 2015. - Robiglio M., “RE-USA: 20 American Stories Of Adaptive Reuse. A Toolkit For Post-Industrial Cities”, Jovis, Berlino, 2017. - Russo M., “Aree dismesse. Forma e risorsa della “città esistente”, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli, 1998. - Secchi B., “La città del ventesimo secolo”, Laterza, RomaBari, 2005. - Setti G., “Oltre la dismissione. Strategie di intervento architettonico per la modificazione e il consolidamento di trame, tessuti e manufatti industriali”, Tesi di Dottorato in Progettazione Architettonica e Urbana, Politecnico di Milano, 2014. - Vicari Haddock S., Moulaert F. (a cura di), “Rigenerare la città. Pratiche di innovazione sociale nelle città europee”, Il Mulino, Bologna, 2009.


Ianira Vassallo Architetto, Ph.D. in Pianificazione territoriale e Politiche pubbliche del Territorio (Iuav, Venezia). Borsista di ricerca presso il Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio (Politecnico di Torino). ianira.vassallo@polito.it

el secolo scorso il rapporto tra città e produzione è stato una delle cifre della costruzione e della trasformazione del Paese: la struttura di questa relazione era visibile spazialmente come nei giochi di forza economici e politici e, ancora, nella definizione dei tessuti sociali. Negli anni ‘80, però, si intravide l’inizio di un epocale cambiamento: un lento processo di decentramento produttivo e i primi frammentati ma crescenti fenomeni di dismissione, prima di manufatti architettonici, poi di intere infrastrutture, ne costituirono evidenti segnali. A partire dal decennio successivo, in molte città d’Europa, il fenomeno della dismissione diventò un vero e proprio fatto sociale e se all’inizio si definì come occasione per immaginare nuove parti di città, con il tempo emerse la struttura reale del processo, di cui l’aspetto spaziale rappresentò solo una delle facce, seppur questo rimanga ancora quello maggiormente trattato1. Oggi ritroviamo un rinnovato interesse sia a livello locale che europeo per questo rapporto, come occasione per lo sviluppo delle città, tangibile a diverse scale: nelle politiche europee

01. Timeline che evidenzia le diverse stagioni di sviluppo urbanistico della città (dall’espansione fordista in poi) e le parti di territorio maggiormente interessate. Ianira Vassallo

Città & Produzione

Un rapporto in cerca di una nuova definizione: il caso di Torino

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nel secolo scorso il rapporto tra città e produzione è stato una delle cifre della costruzione e della trasformazione del Paese (For a European Industrial Renaissance, 2014) come in quelle locali (Manifattura Milano, 2017) e ancora nella ricerca (IABR, 2016) come nel progetto (Concorso Europan 2017/18 Productive Cities)2. La lezione di Torino Occuparsi di Torino riferendosi al rapporto tra città e produzione risulta scontato visto il suo passato di città industriale, simbolo del modello fordista in Italia. Negli ultimi trent’anni, però, questa città ha compiuto un’ importante operazione politica, culturale ma soprattutto di urban branding della propria immagine per trasformarsi in una città dalla vocazione turistico-culturale (Vanolo, 2015). Dal punto di vista urbanistico ha messo in gioco consistenti parti del proprio tessuto urbano: le vecchie piastre fordiste (di cui Spina 3 rappresenta il caso più significativo) sono diventate ben presto i luoghi più rappresentativi della metamorfosi, “occasioni” di trasformazione. Qui, in maniera evidente e con diverse modalità, si è disegnata una nuova città, che ha tentato di spogliarsi della propria rigidità, ripensando interamente il suo supporto infrastrutturale3 e voltando le spalle al passato industriale intorno al quale aveva costruito la sua espansione. Oggi, a seguito di quella che è stata definita una fase post-fordista4, caratterizzata dalla delocalizzazione dell’industria e da un definitivo sgretolamento della Grande Impresa (FIAT)

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02. La mappa principale rappresenta la sovrapposizione delle tre fasi principali, secondo l’autore del testo, di trasformazione della città: Addizione (fase di sviluppo fordista tra gli anni ‘40 a ‘70 de secolo scorso), Sottrazione (fase di dismissione dovuta principalmente alla crisi del settore industriale tra gli anni ‘80 e i primi anni del nuovo secolo) Polarizzazione (processo iniziato con l’approvazione del PRGC del 1995 ad opera di Gregotti e Cagnardi e portato a compimento nel 2011 circa). In basso le tre fasi scorporate. Questa immagine evidenzia come nel corso dell’ultimo secolo la città, per ricostruire la propria immagine abbia insistito sempre sulle stesse parti di territorio.

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03. L’area a Nord-est di Torino oggi. Immagine elaborata all’interno dell’atelier di Urban Design 2015/16 del Politecnico di Torino a cura di Cristiana Cacciapaglia, Federica Caramia, Sofia Casaioli, Elva Dede, Cecilia Fario

e del suo indotto, si sta definendo una nuova attenzione verso il tessuto produttivo della città, sulla scia della nuova retorica legata all’Industria 4.0 (Magone, Mazali, 2016). Al contempo recenti studi e nuovi dati5 sostengono in realtà che la produzione manifatturiera non abbia mai abbandonato l’area metropolitana, che si sia solo riarticolata al suo interno. Quali sono quindi, oggi, i luoghi della produzione? Dove possiamo osservare le tracce di questo cambiamento? Osservatori Sicuramente quello che si definisce oggi è un quadro ampio e plurale, fatto di compresenze e ampie sovrapposizioni, che mette in luce strategie localizzative e insediative differenti. Una delle azioni possibili è quella di tornare nei luoghi emblematici della produzione del passato, dove la riconversione del tessuto urbano è stata impedita

dall’arrivo prepotente della crisi, per capire cosa rimane di quella storia. Ad esempio nello spazio della “trasformazione sospesa” della Variante 200, area a Nord-est di Torino, appare evidente come nel tempo la produzione non se ne sia mai davvero andata, come si sia ricostruita definendo un luogo al contempo denso e frammentato. Questa parte della città, un tempo scandita dal ritmo dello scalo ferroviario, dalle fabbriche e dal quartiere residenziale, oggi mostra un rimescolamento differente dei suoi materiali. Qui lo spazio della produzione ha saputo accogliere molteplici e micro trasformazioni, che esprimono caratteri di esibizione e al contempo di introversione. Sono spazi che sorprendono e si trasformano facilmente. Spazi legati alla cultura, ad azioni artistiche e sportive, alla vita notturna come a pratiche abusive. Il carattere introverso dei recinti di fabbrica è diventata occasione

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di sperimentazione della convivenza tra attività e popolazioni molto diverse, che condividono lo spazio creando reti collaborative. La vera malleabilità di questi luoghi sta nella loro disponibilità e nel loro valore (di mercato, d’uso e simbolico). L’esempio più eclatante di questa nuova forma di abitare è il progetto Variante Bunker6, un progetto culturale nato nel 2012 dalla collaborazione fra l’Associazione Culturale URBE – Rigenerazione Urbana e la Torino Quittengo Srl, proprietaria dell’area, finalizzato a dare una risposta provocatoria all’immobilismo delle aree in attesa di trasformazione e soprattutto a prefigurare delle possibili attività innovative in grado di caratterizzare l’area urbana in cui il progetto è situato. Al contempo, invece, le attività produttive sono deflagrate al di fuori della piastra industriale mescolandosi nel tempo agli spazi dell’abitare, del com-

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occuparsi di Torino riferendosi al rapporto tra città e produzione appare fin scontato visto il suo passato di company town. Quali sono però oggi i luoghi della produzione?

04. La piastra industriale dello Scalo Vanchiglia oggi. Immagine elaborata all’interno dell’atelier di Urban Design 2015/16 del Politecnico di Torino a cura di Cristiana Cacciapaglia, Federica Caramia, Sofia Casaioli, Elva Dede, Cecilia Fario

mercio, del loisir. La produzione si è spostata in spazi diversi da quelli immaginati durante la stagione fordista: nei bassi fabbricati degli interni cortile come nei piani terra degli edifici complessificandone il disegno. A volte, invece, ha ridefinito se stessa nelle fabbriche esistenti, costruendo nuove reti di attori, riplasmando gli spazi, e aprendo i confini per creare uno spazio di opportunità, ospitale e inclusivo7. Si tratta quindi di una nuova stagione per il rapporto tra produzione e città? Appare necessario uscire dalle fascinazioni indotte dalle facili retoriche e tornare ad osservare i territori dall’interno per provare a capire quali processi di risignificazione li attraversano e quali accezioni assumono i termini stessi (produzione, industrializzazione, innovazione...) in modo da costruire una descrizione articolata e veritiera del loro stare nella città.*

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NOTE 1 – Si pensi per esempio alle recenti ricerche sul Recycle e sull’Adaptive re-use (Secchi, Boeri, 1990; Russo, 1998; Berger, 2006; Ciorra, Marini, 2012, Robiglio 2017). 2 – Quelli citati sono solo alcuni esempi che testimoniano di un ampio interesse su vari livelli di azione a scala italiana ed europea rispetto al tema. 3 – ll PRG di Torino è stato costruito intorno a due assi di sviluppo: 1. l’interramento del piano del ferro e l’utilizzo della superficie coperta del passante ferroviario; 2. il “riciclo” delle aree industriali dismesse. Il Piano del 1995, dello studio Gregotti Associati (diretto in particolare da Augusto Cagnardi) già avviato nel 1987, ha segnato un cambiamento di paradigma nel panorama urbanistico e il passaggio da piani di espansione urbana a piani di riuso, “riciclo” e rifunzionalizzazione di parti edificate della città di cui l’operazione di Spina 3 rimane la più emblematica. 4 – La letteratura su questo tema è molto ricca, per citarne alcuni: Pichierri, 1989; Bagnasco, 1990; Dansero, 1993; Spaziante, 1996; Dansero, Giaimo, Spaziante, 2000; Consiglio Italiano per le scienze sociali, 2007; Davico, Staricco et, 2009; Armano, 2010; Cominu e Musso, 2010; Belligni e Ravazzi, 2012; Cappellin, Ferlaino, Rizzi, 2012; Crivello, 2012; Bondonio, Guala, 2012; Dondona, Barella et al, 2012; Semi, 2015; Vanolo, 2015. 5 – Tra cui i dati ISTAT 2016, il Rapporto Rota annuale 2017, il rapporto della Camera di Commercio sull’impresa innovativa e gli studi dell’Unione Industriale di Torino sullo stato dell’impresa locale 2016 ne sono degli esempi. 6 – Per maggiori informazioni si rimanda al sito del progetto: www.variantebunker.com 7 – Si veda per esempio il recente intervento nello stabilimento Ex Filatura di Tollegno, attualmente è utilizzato

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da 120 diverse aziende di vari settori attraverso un progetto di apertura e parcellizzazione degli spazi. BIBLIOGRAFIA - Bagnasco A., Olmo C., “Torino 011: Biografia di una città”, Milano, Electa, 2008. - Berta G., “Produzione intelligente. Un viaggio nelle nuove fabbriche”, Milano, Feltrinelli, 2014. - Bianchetti C., Cerruti But M., “Territory matters. Production and space in Europe”, in City, Territory and Architecture, 4, 2016. - Bonomi A., “Il capitalismo in-finito. Indagine sui territori della crisi”, Torino, Einaudi, 2013. - Cerruti But M., Mattioli C., Sega R., Vassallo I. (a cura di), “Territori nella reindustrializzazione” in “Territorio”, n. 81, pp 65-122, 2017. - Magone A., Mazali T. (a cura di), “Industria 4.0, uomini e macchine nella fabbrica digitale”, Guerini Editore, Milano, 2016. - Vanolo A., “The image of the creative city, eight years later: Turin, urban branding and the economic crisis taboo in Cities”, Pergamon, n. 46, pp.1-7, 2015.


Alessia Franzese Dottoranda in Urbanistica presso l’Università Iuav di Venezia. afranzese@iuav.it

a legge sugli standard urbanistici1 ha infrastrutturato il territorio di luoghi atti a garantire il miglioramento della qualità della vita individuale e collettiva. Ma ha anche depositato un patrimonio disarticolato di spazi e attrezzature privo di qualità urbana, la cui mancanza di progettualità – in fase di realizzazione e gestione – permette di delinearle come “terre di nessuno” (De Matteis, 2015). Nel caso specifico delle aree produttive – la cui dotazione minima è pari al 10% delle superfici pavimentate – essi si traducono spesso in spazi vuoti e abbandonati, male attrezzati e di dubbia utilità, che danno luogo a degrado e usi impropri con conseguenti problemi di sicurezza urbana. Gli spazi a standard possono rappresentare una risorsa nella possibilità di rilanciare e ricucire il sistema produttivo a supporto dei nuovi modelli di workplace, da un lato, e intessere una trama di luoghi pubblici collettivi, diventando occasione per ripensare ai rapporti tra spazio e società che lo abita, dall’altro (Di Biagi, 2013). Da standard a dotazioni territoriali Gli standard urbanistici ad oggi non rispondono più alle reali necessità dell’effettiva domanda contestuale

(Gabellini, 2001). Essi si configurano come una matrice (Secchi, 1986), una griglia di regole universalmente valide, che uniforma configurazioni di usi predeterminati eludendo qualsiasi visione per sistemi di spazi aperti, quasi sempre pensati come aree, che non riflettono più i molti e articolati modi di vivere (Magnani, 2013). La semplificazione legislativa della riduzione quantitativa di questo strumento mostra quindi i limiti di un metodo numerico (basato sulla capacità insediativa teorica) e, di conseguenza, la necessità di superare le logiche pianificatorie dello zoning attraverso mixitè di servizi che “effettivamente

conseguano le finalità per cui sono stati realizzati”2, attraverso la ridefinizione di bisogni non più teorici ma reali e di standard di tipo prestazionale, in grado di assecondare la fluidità delle interrelazioni umane. È necessario modificare gli orizzonti di senso dello strumento urbanistico e inquadrarlo in un’ottica differente da quella quantitativa, correlarlo ai profondi cambiamenti che investono la società e che disegnano nuove geografie di esigenze, flussi e target, legate a temporalità sempre più brevi e variabili. Lo standard deve quindi essere strettamente collegato alle condizioni contestuali, essere flessibile e site-specific, in

01. Vista del comparto di Vega Park. Gabriele Al Jarrah Al Kahal

Spazi che producono valore Il potenziale degli standard urbanistici nelle aree industriali dismesse e il caso del Vega Park di Venezia

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02. La città industriale diffusa veneta. Maria Chiara Tosi

grado di accogliere pratiche diversificate e acquisire nuovi valori d’uso. Il patrimonio di dotazioni collettive può essere reinterpretato come nuova opportunità, strumento e volano di rigenerazione, soprattutto per la riconversione di settori urbani in crisi, quale quello produttivo. Tra dismissione industriale e nuovi scenari lavorativi La crisi economica dell’ultimo decennio ha corredato il territorio di un atlante di involucri industriali il cui stato di dismissione ha innescato processi di riciclo. In particolare, in Veneto il fenomeno dell’isotropa dispersione insediativa del “capannone su lotto”3 ha anche dotato in maniera pervasiva il territorio

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di un deposito di spazi aperti (Munarin, 2015) che stentano a essere investiti dal paradigma di nuovi cicli di vita. La dotazione di spazi aperti e collettivi può svolgere un ruolo di attrattore per accogliere nuove forme di smart working come di tessuto connettivo che aumenti l’appeal complessivo, che crei integrazione e maggiore complessità, sottraendo le aree industriali alla banalità e monofunzionalità che le contraddistingue. Le nuove forme di produzione di lavoro hanno modificato anche i luoghi di lavoro. Spazi ibridi, flessibili, collaborativi, per la contaminazione di idee e networking (Laing, 2011). L’ufficio non è più uno spazio fisico dai confini determinati e qualunque luogo può trasformarsi in temporary office. In questo mu-

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tato contesto la dotazione di standard può svolgere il ruolo di supporto fisico in grado di ampliare i luoghi delle relazioni e stimolare la creatività aziendale, qualificando ed articolando gli spazi tra gli edifici. Temporary Vega La riflessione muove dal caso di Vega Park, parco scientifico-tecnologico di Venezia, sorto negli anni ‘90 come processo ante litteram di rigenerazione urbana della prima fascia industriale di Porto Marghera. Il valore posizionale – strategico rispetto ai principali hub della mobilità ad ampio raggio, a ridosso della Venezia lagunare, ma anche confinato dalle barriere infrastrutturali su ferro e gomma nei


gli standard urbanistici ad oggi non rispondono più alle reali necessità dell’effettiva domanda

03. Vega Park. Gabriele Al Jarrah Al Kahal

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attraverso la sperimentazione di usi temporanei e site-specific, dispositivi low-cost e reversibili, si possono suggerire vocazioni inedite e prototipare nuovi modi di “abitare” gli spazi della produzione

04. L’asset degli spazi a vocazione pubblica in Vega Park. Alessia Franzese

confronti del contesto urbano - è tale da renderlo contemporaneamente una zona urbana ed extraurbana, e la forte caratterizzazione monofunzionale del comparto a terziario avanzato ne hanno limitato drasticamente l’evoluzione, delineandolo come un “quartiere lavoratorio”4 utilizzato dai suoi silenti “abitanti” in fasce temporali ben definite, indifferente alle crescenti richieste di flessibilità, adattamento e innovazione. A circa venti anni dalla sua nascita, Vega tradisce l’obiettivo iniziale di ricucire l’enclave industriale al resto della città e di evitare la dispersione del capitale sociale e professionale di Porto Marghera. In risposta alla crisi che lo ha investito sono state poste in atto strategie di rilancio5 o di cessione che non hanno riscosso successo, mostrando la necessità di un processo rigenerativo di secondo livello. La grande disponibilità di spazi aperti e collettivi non hanno saputo divenire “spazio abitabile, concreti luoghi di prossimità e di relazione, ma sono spesso rimasti pura distanza, non solo 06. Vega Park. Gabriele Al Jarrah Al Kahal

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05. La dotazione di standard urbanistici come deposito di occasioni sprecate in Vega Park. Alessia Franzese

tra gli edifici, ma anche tra le persone” (Di Biagi, 2008). Gli spazi sottoutilizzati, ad alta prevalenza di parcheggi (che gli sono valsi l’appellativo di “Vega Parking”), rappresentano l’asset degli spazi a vocazione pubblica, disponibile ma in attesa, in cui la condizione di marginalità e la mancanza di identità diventano un canale preferenziale ad accogliere trasformazioni (LaboratorioCittàPubblica, 2009; Marcon, 2013). Attraverso la sperimentazione di usi temporanei e site-specific, dispositivi low-cost e reversibili, si possono suggerire vocazioni inedite e prototipare nuovi modi di “abitare” gli spazi della produzione. Le pratiche temporanee sono processi generativi di valore strategico in periodo di crisi del mercato urbano (Pasqui, 2014), che consentirebbero, da un lato, di supportare nuove forme di produttività, dall’altro, di allargarne la fruizione a nuovi pubblici e flussi, attraverso usi combinati e servizi adeguati alle nuove domande, per la costruzione di micro-sistemi di welfare.

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Usi temporanei come innesco di processi complessi di co-partecipazione integrata tra pubblico, privato e terzo settore, di responsabilizzazione e costruzione di senso di appartenenza, per assicurare una gestione e cura degli spazi di più ampia durata in grado di generare valore sociale ed economico. Il progetto urbano svolge un ruolo cruciale nella definizione della qualità spaziale: questioni di dimensione, localizzazione e accessibilità rendono la dotazione di spazi collettivi facilmente utilizzabile e maggiormente frequentata, diventando garanzia di sicurezza urbana.*


07. Vega Park. Gabriele Al Jarrah Al Kahal

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NOTE 1 – Il DM 1444/68, al cinquantenario della sua redazione, è legato ad una visione di città moderna in espansione; in tale occasione, l’interesse della comunità scientifica e accademica mira a una revisione legislativa dello strumento per una sua attualizzazione. 2 – Tratto dall’atto di indirizzo alla Legge Regionale 11/2004 del Veneto “Il dimensionamento dei piani e degli standard di aree per servizi”. 3 – Parafrasi della “casa su lotto”, forma tipica della città diffusa veneta. 4 – Così come i quartieri dormitorio vengono utilizzati solo per una funzione (dormire), il Vega è utilizzato per la sua unica funzione di “luogo di lavoro”. 5 – Lo studio LAND srl nel 2014 firma la “Green Tree Strategy”: l’unico tentativo di rigenerazione urbana dell’area industriale parte dagli spazi aperti di Vega con il progetto “Primo Ramo” (2015). BIBLIOGRAFIA - De Matteis M., “Rigenerare le periferie venete. Sguardi, mappe e strategie operative per abitare lo spazio aperto negli insediamenti pubblici”, Lettera Ventidue Edizioni, Siracusa, 2015. - Di Biagi P., “La città pubblica. Edilizia sociale e riqualificazione urbana a Torino”, Allemandi, Torino, 2008. - Di Biagi P., “Riqualificare i quartieri della città pubblica: spazi, progetti, strategie”, in De Matteis M., Marin A. (a cura di), “Nuove qualità del vivere in periferia. Percorsi di rigenerazione nei quartieri resideniali pubblici”, Edicom Edizioni, Monfalcone, 2013. - Gabellini P., “Tecniche Urbanistiche”, Carocci editore, Roma, 2001. - LaboratorioCittàPubbliche, “Città Pubbliche. Linee guida per la riqualificazione urbana”, Bruno Mondadori, Milano, 2009. - Laing A., “What will the future workplace look like?”, in http://fortune.com/2011/01/19/what-will-the-futureworkplace-look-like/, 2011. - Magnani C., “Stratificare, rigenerare, innovare”, in De Matteis M., Marin A. (a cura di), “Nuove qualità del vivere in periferia. Percorsi di rigenerazione nei quartieri resideniali pubblici”, Edicom Edizioni, Monfalcone, 2013. - Munarin S., “Isole di welfare nell’arcipelago padano”, in De Matteis, “Rigenerare le periferie venete, Sguardi, mappe e strategie operative per abitare lo spazio aperto negli insediamenti pubblici”, Lettera Ventidue Edizioni, Siracusa, 2015. - Pasqui G., “Prefazione”, in Inti I., Cantaluppi G., Persichino M., “TEMPORIUSO. Manuale per il riuso temporaneo di spazi in abbandono in Italia”, Altreconomia Edizioni, Milano, 2015. - Secchi B., “Progetto di suolo”, in Casabella, n. 520, 1986, pp. 19-23. FOTO Il reportage fotografico è stato realizzato da Gabriele Al Jarrah Al Kahal.

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Luca Iuorio Laureato in Architettura, dottorando in Urbanistica presso l’Università Iuav di Venezia. liuorio@iuav.it

a diga ha incarnato il Prometeo (Kaika, 2006) del progresso civile ed economico e ha svolto un ruolo centrale nello sviluppo agricolo e industriale di intere nazioni. Nel mondo sono state costruite centinaia di migliaia di dighe negli ultimi due secoli (World Commission on Dams, 2000), e l’immaginario collettivo di diverse generazioni, che in maniera spontanea si collega alle grandi opere di ingegneria civile, rimanda inevitabilmente ad un tempo storico (e psicologico) piuttosto chiaro: la Modernità, e in questo processo di rappresentazione popolare lo spazio geografico degli Stati Uniti ne simboleggia l’effige. In territorio nordamericano, sono state costruite oltre settantacinque mila dighe, da un breve calcolo risulta più di una diga al giorno per gli ultimi duecento anni (Babbitt, 1998). Durante la Grande Depressione le dighe rappresentavano la soluzione a una crisi storica da lasciarsi alle spalle. L’invenzione della turbina Francis e la capacità tecnica che gli ingegneri avevano acquisito nella trasformazione di suoli e geologie guidavano lo sfruttamento dell’acqua – risorsa rinnovabile – per l’approvvigionamento idrico ed energetico. Il pensiero di alcuni

Trascendentalisti, tra cui Ralph Waldo Emerson, giustificava il controllo sulla natura rivelando un rapporto di dipendenza estetica e funzionale tra uomo e ambiente. La modificazione della scala geografica che ritrovava una corrispondenza nella quotidianità eleggeva le dighe a speranza condivisa. Secondo Colin Rowe (1994) il lungo processo di accettazione della modernità in Nord America avviene proprio con quelle grandi infrastrutture che entrano nella vita delle persone trasformandone in maniera radicale abitudini e stili. Guardare alla dualità scalare è un modo per leggere criticamente i manufatti e coglierne il valore in un certo contesto storico: la grande trasformazione a carattere territoriale, e mi riferisco alla pura realizzazione artificiale di un lago che nobilita “turbulent, dangerous river[s]” dimostra tutta la forza tecnologica del genio umano, a sua volta la distribuzione capillare di acqua ed energia, che miracolosamente rende la propria casa pulita, intima, accogliente e personale (Kaika, Swyngedouw, 2000) è la prova della giustezza di quello sforzo. Da questo “scarto” scalare – colmato nella realtà fisica dalle reti di distribuzione (quasi sempre invisibili) – emerge una relazione di trascendenza tra individuo e infrastruttura e così il pellegrinaggio verso le grandi opere

Dighe inattuali

Ascesa e declino del modello (novecentesco) d’ingegnerizzazione dell’acqua in territorio nordamericano

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di ingegneria civile assume la valenza di un rito tra il turistico e l’economico. Dopo la seconda Grande guerra (e l’uso delle armi che ne venne fatto) il credo nell’eroico obiettivo della tecnologia era entrato evidentemente in crisi, rappresentava, però, ancora l’unico modello conosciuto per accrescersi da una parte e per ricostruirsi dall’altra (del pianeta). Continua, così,

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la vertiginosa corsa alla costruzione di dighe il cui trend si arresta soltanto negli anni Settanta, in cui la mappa del paese emerge puntinata in ogni suo angolo. Lo spazio geografico e il limite dello sfruttamento delle risorse che ne deriva, il tempo che passa e il deteriorarsi delle strutture fisiche sotto il suo agire, misti ad una “rinnovata” sensibilità ecologica (e alle pressioni degl’im-

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01. Ascesa e declino della diga. Idrografia in azzurro; dighe in rosso; centrali idroelettriche in blu (la dimensione dei punti indica la capacità di produzione elettrica); demolizioni per stato federale in ocra (il colore più scuro indica un numero maggiore di dighe demolite). Il grafico indica il trend: dighe costruite (curva superiore), dighe demolite (curva inferiore). Immagine elaborata dall’autore (2018). Fonti: US Energy Information Administration, US Geological Survey, US Department of the Interior, American Rivers.


peranti movimenti ambientalisti) pongono le fondamenta per una crisi che esploderà qualche anno più tardi. Più di novecento sbarramenti sono stati rimossi negli Stati Uniti in questi ultimi quarant’anni (img. 01); nel 2017 sono state demolite ottantasei dighe in ventuno stati federali con interventi di ripristino ambientale su quasi mille chilometri di corsi d’acqua. Le dighe forniscono acqua ed energia, proteggono da alluvioni, siccità, incendi, ma hanno alterato schemi ecologici millenari (accumulando limo e sedimenti), bloccano la migrazione dei salmoni e la loro costruzione ha obbligato

all’esodo migliaia di Nativi. Inoltre è stato stimato che entro il 2020, l’85% delle dighe americane raggiungerà la fine della propria vita utile progettata (Graf, 2002). Sembrerebbe che il modello (novecentesco) d’ingegnerizzazione del paesaggio sia entrato in crisi e che le dighe siano di fronte alla conclusione del loro ciclo di vita. Rileggendo Thomas Kuhn (2009) ci si potrebbe identificare in una fase che si pone a cavallo tra “nascita delle anomalie” e “crisi del paradigma” con l’aspettativa che la demolizione di quei manufatti sia la “rivoluzione scientifica”. La “scienza

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normale” (ingegneria), in crisi stringente, viene messa in dubbio dall’ecologia – materia pluri-disciplinare che da scienza di nicchia dell’Ottocento diventa comunemente condivisa dal movimento ambientalista nella seconda metà del Ventesimo secolo – e dalla anti-economicità di interventi di adeguamento indirizzati proprio dalla nuova consapevolezza ambientale: “Il retrofitting è sempre una possibilità ma il costo di cambiamenti strutturali può essere astronomico” (Collier et al., 1996). La demolizione-rivoluzione scientifica, però, entra in crisi a sua volta a causa dell’incertezza che essa

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la diga ha incarnato il Prometeo del progresso civile ed economico

02. Il territorio-macchina: interdipendenze energetiche. Impianti di produzione energetica (la dimensione dei punti indica la capacità di produzione termo-elettrica): da fonte fossile in rosso, da fonte rinnovabile (escluso idroelettrico) in ocra; quantità d’acqua utilizzata per il raffrescamento degli impianti termoelettrici per stato federale al 2010 (l’immagine di sfondo desaturata indica una minor quantità d’acqua utilizzata per il raffrescamento per gli impianti); i contorni in rosso di alcuni stati federali indicano la dipendenza energetica dall’idroelettrico (il colore più scuro indica una maggiore dipendenza); in blu sono evidenziati i canali navigabili utilizzati per il trasporto di fonti energetiche fossili, i testi indicano i maggiori porti commerciali. Immagine elaborata dall’autore (2018). Fonti: US Energy Information Administration, US Geological Survey, US Agency of Water, Navigant Consulting Inc.

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stessa implica (Aspen Institute, 2002) – spiegata dal fatto che le discipline interrogate non abbiano accumulato abbastanza esperienze per definirne teorie, metodi e pratiche – e nel momento in cui a una scala più ampia emerge il ruolo fondamentale che le dighe hanno avuto, e che eseguono tutt’ora, nella costruzione e sopravvivenza della Città. Da una parte, un recente articolo (Maavara et al., 2017) pubblicato sulla rivista Nature ridisegna con chiarezza una delle evidenze scientifiche con cui il cambiamento climatico è inevitabilmente legato anche alla costruzione delle dighe: i sedimenti bloccati dagli sbarramenti hanno un impatto sul ciclo del carbonio all’interno dell’atmosfera terrestre. Dall’altra, il report annuale (ASCE, 2017) pubblicato dall’American Society of Civil Engineers che indaga lo stato di salute delle maggiori infrastrutture americane, riportando numeri manifesti, afferma il valore collettivo del sistema d’approvvigionamento idrico ed energetico per l’intera nazione (img. 02), il quale, di fronte a un chiaro stato di cattiva manutenzione, necessita circa quarantacinque miliardi di dollari per adeguamenti strutturali. Da questi dati – con cui si stabilisce parte del dibattito tra i limiti e le inevitabilità delle dighe la cui problematizzazione è la sostanza della mia (ancora in corso) ricerca di dottorato – emerge che la demolizione, sostenuta da pressioni ambientali e da evidenze economiche, si scontra con la conservazione, legittimata da un processo in cui si riconosce che la struttura dei territori e delle società contemporanei sono

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prodotto della Modernità che-costruisce-nuove-tecnologie. Il modello da l’impressione di essere insostituibile; il collasso degli ecosistemi, il rischio di siccità e alluvioni, la crisi energetica, l’obsolescenza fisica e tecnologica dei manufatti, l’assenza di finanziamenti, il fugace interesse delle agende politiche, l’impegno federale da laissez faire, fanno supporre conseguenze complesse i cui scenari sono ancora tutti da indagare.* BIBLIOGRAFIA - ASCE, “Infrastructure Report Card a comprehensive assessment of America’s infrastructure”, American Society of Civil Engineers, New York, 2017. - (The) Aspen Institute, “Dam Removal a new option for a new century”, The Aspen Institute, Washington, 2002. - Babbitt B., “Dams are not forever, Ecological Society of America Annual Meeting, Remarks of Interior Secretary”, US Department of the Interior, Baltimore, 1998. - Collier M., Schmidt J.C., Webb R.H., “Dams and rivers. Primer on the downstream effects of dams”, US Geological Survey Circular 1126, US Department of Interior, Denver, 1996. - Graf W.L. (editor), “Dam Removal Research Status and Prospect”, Proceedings of The Dam Removal Research Workshop, The Heinz Center, Washington, 2002. - Kaika M., “Dams as symbols of modernization: The urbanization of nature between geographical imagination and materiality”, Annals of the Association of American Geographers Volume 96 Issue 2, Taylor and Francis, Abingdon, 2006. - Kaika M., Swyngedouw E., “Fetishizing the modern city: the phantasmagoria of urban technological networks”, International Journal of Urban and Regional Research, Joint Editors and Blackwell Publishers, Malden, 2000. - Kuhn T.S., “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, Einaudi, Milano, 2009. trad. “The structure of scientific revolutions”, University of Chicago Press, Chicago, 1962. - Maavara T., Lauerwald R., Regnier P., Van Cappellen P., “Global perturbation of organic carbon cycling by river damming”, Nature Communications 8, Macmillan Publishers, Basingstoke, 2017. - Rowe C., “The architecture of good intentions. Towards a possible retrospect”, Academy Editions, London, 1994. - World Commission on Dams, “Dams and development a new framework for decision-making”, Earthscan Publications Ltd, London, 2000.


Stefano Mudu stefano.mudu@gmail.com

el 2012 inaugura a Sant’Antioco, isola nell’isola sarda, un nuovo spazio per l’arte contemporanea. Prima di essere galleria, Mangiabarche è una località costiera a forte vocazione militare, controllata dall’omonimo faro e posizionata a pochi chilometri dal comune tabarchino di Calasetta. Il nome e la funzione dell’infrastruttura scongiurano il triste pericolo dell’incagliamento navale che metaforicamente (e presto) coinvolge la galleria, abbandonata a pochi anni dalla sua inaugurazione. Ma si proceda con ordine. Nel 2010 quel che rimane di una ex batteria antinave e antiaerea – comprensiva di un sistema di trincee, di una torretta di avvistamento e dei vecchi alloggi del comando e del personale – è trasferito sotto la tutela della Conservatoria delle coste, allora strumento fondamentale della Regione Sardegna per l’applicazione e valorizzazione del piano paesaggistico. Inizialmente con strategie piuttosto ampie, si prevede il recupero dell’ex batteria da un punto di vista storico e naturalistico e si impostano i necessari dialoghi con il comune di Calasetta, con il quale tutte le decisioni sarebbero dovute nascere in concertazione.

Alle ottime pratiche seguono idee brillanti e, insieme alla bonifica dell’area per anni in balia del disinteresse istituzionale e gravemente inaccessibile alla collettività, si trova il partner fondamentale: l’architetto Stefano Rabolli Pansera, Leone d’oro alla sua seconda partecipazione alla Biennale di Architettura di Venezia come B/E-BeyondEntropy, viene invitato a riflettere sulla vocazione dell’area e sui possibili sviluppi. L’operazione non è banale non solo per l’azzardo nella posizione o per l’esercizio di rare politiche sinergiche, ma per l’inedita e immediata scelta di arruolare l’arte contemporanea nella valorizzazione del territorio sardo.

una galleria d’arte contemporanea open air supportata da un programma di residenze d’artista

01. Galleria Mangiabarche, 2016. Antonio Pintus

Isole

Mangiabarche e la parabola della riconversione per la produzione

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Pansera – nominato anche direttore della Fondazione Museo Arte Contemporanea Calasetta (MACC) – lavora con la Conservatoria delle coste per l’implementazione di un progetto pilota che, tra tutti i beni militari, coinvolge subito gli alloggi del comandante. Da un punto di vista architettonico, l’intervento sullo stato di fatto è puramente conservativo e prevede la sola rimozione del tetto in amianto oltre all’ovvia messa in sicurezza dei perimetri. Più complessa e ambiziosa è la linea curatoriale a cui conduce la nuova configurazione dell’edificio: una galleria a cielo aperto con un programma di residenze internazionali in grado di attivare “un epicentro di produzione artistica e culturale”1. Tutti gridano alla kunsthalle a prescindere dal mare: anzi grazie al mare Calasetta si appresta a diventare essenziale per le esperienze artistiche dei centri di produzione sulle coste del Mediterraneo; Mangiabarche comincia a suggerire una nuova direzione espositiva, oltre il white cube di cui recupera il candore; e il ciclo di residenze si propone come un continuum in cui ogni artista invitato si inserisce lavorando su ciò che il maestrale ha lasciato dell’opera del collega precedente. L’inaugurazione è letteralmente la miccia per il nuovo assetto. Nel mese di novembre 2012, a dimostrazione che certi progetti non conoscono bassa stagione, la galleria apre i suoi spazi con Lunghezza Variabile, una performance sonora di Enzo Favata e un gioco pirotecnico studiato da BeyondEntropy per “misurare” le pareti dello spazio. E il ciclo può partire: si susseguono artisti sardi, nazionali e internazionali in un regime di collaborazione che rende merito a un sistema ben equilibrato e certamente piuttosto economico. La cronaca invece è semplice e semplicista: pochi anni dopo l’agenzia viene commissariata per scelta politica2, Rabolli Pansera smette di essere direttore artistico di quella kunsthalle e i suoi siti – la galleria tra tutti – cadono in completo degrado. Allora i risultati del progetto delineano uno scenario grave, non solo per le sorti del piano strategico o per quelle delle parti in causa – Conservatoria fra tutte – ma perché crollano le basi di una

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metodologia: quella che aveva arruolato la cultura come strumento di riqualificazione di un’area periferica e si era dimostrata, tra l’altro, in grado di generare nuovo patrimonio identitario pur conservando l’esistente. Infatti, al di là del fallimento inatteso, Mangiabarche rappresenta, non solo per la Sardegna, la parabola della riqualificazione per la produzione. Non solo. Racconta anche la rischiosa – e sempre più comune – strumentalizzazione del settore creativo: usato come contenuto per la trasformazione degli spazi, spesso senza esserne capace. Nessuna colpa all’arte! E spesso neppure ai suoi attori principali, come in questo caso adeguati alla mission e coinvolti in dinamiche – da principio – estremamente favorevoli. Ma si faccia attenzione alla facilità con cui i processi artistici possono essere tanto incentivati quanto soffocati; troppo spesso suscettibili di sfiducia politica e prima spesa da tagliare. I bilanci, se di quelli si tratta, si pareggiano senza perdere le occasioni. Invece poco è importato che Mangiabarche chiudesse un attimo prima della programmata residenza di Giorgio Andreotta Calò (artista selezionato per il Padiglione Italia della Biennale Arte di Venezia 2017). II suo progetto In girum imus nocte – girato a Calasetta nel 2013 – è stato comunque curato da B/E godendo della collaborazione dei minatori della Carbosulcis e dei pescatori della Cooperativa di Sant’Antioco, ma non è mai stato degnamente presentato in quei territori, orfani dell’istituzione che lo avrebbe potuto promuovere. Anzi, mentre a Calasetta si parlava di una personale dell’artista a Milano (galleria Zero, 2016), Mangiabarche tornava ad essere un rudere tra oscillazioni politiche. Di una qualche variabile infatti, quella inaugurale, doveva pur essere profetica.* NOTE 1 – S. Rabolli Pansera in Domus n.967, Milano, 2013. 2 – La manovra viene avviata nel 2014 per accentrare le responsabilità dell’agenzia nell’assessorato regionale e ridurne i costi. Il conseguente blocco dei fondi europei abbinato al pagamento della liquidazione al personale, sovvertono il vantaggio economico stimato portando a un generale immobilismo.

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02. Galleria Mangiabarche, 2016. Antonio Pintus

03. La galleria nel suo stato di degrado, 2016. Antonio Pintus

04. I vani della struttura a cielo aperto, 2016. Antonio Pintus


Progetto Quid

Dove il valore sociale sposa quello ambientale e crea capitale umano Arianna Mion Laurea Magistrale in “World Politics and International Relations” presso l’Università degli Studi di Pavia. arianna.mion01@universitadipavia.it

Il numero 22 di OFFICINA* è dedicato al tema della produzione umana e per questo abbiamo pensato di rivolgere la nostra intervista alla Cooperativa Sociale Quid. In un paese caratterizzato da realtà sempre più precarie e instabili1, ci è sembrato opportuno dare spazio a un progetto a basso impatto ambientale e a forte risvolto sociale. Abbiamo quindi voluto parlare di una realtà innovativa e diversa, positivamente in forte contrasto con la cruda situazione lavorativa italiana. Persone in svantaggio sociale, e in particolare donne troppo spesso discriminate per la loro provenienza, per le loro disabilità o per il loro difficile vissuto hanno potuto trovare in Quid un’opportunità di lavoro all’interno di un contesto che si contraddistingue per sostenibilità ed eticità, ma anche per empatia e capitale umano. Il simbolo di Quid è proprio una molletta, rappresentante l’unione tra l’aspetto sociale/etico e di mercato. Com’è nato Quid e quali sono i valori su cui si fonda? Quid è nato ad aprile 2013 ed è stato creato da un gruppo di giovani laureati, tra i quali vi sono anche Anna Fiscale e Ludovico Mantoan, attualmente la presidente e il vicepresidente della cooperativa sociale. Entrambi possiedono una formazione economica e negli anni hanno approfondito la loro conoscenza nel campo della moda. L’obiettivo che si sono prefissati è quello di creare inclusione sociale in una realtà lavorativa, partendo dall’idea di sviluppare un legame anche con il mondo della moda. I valori fondanti su cui si basa la cooperativa riguardano infatti l’ambito sociale ed ambientale, ma anche di mercato, in quanto la realtà di Quid si configura come un’azienda produttiva a tutti gli effetti.

Progetto Quid www.progettoquid.it info@progettoquid.it

Cos’è per Quid la sostenibilità e come riesce a trasmetterla ai suoi clienti e ai suoi partners? La sostenibilità viene interpretata da Quid prevalentemente sul piano sociale. Ai nostri clienti viene trasmesso il messaggio di equità e sostenibilità attraverso il rapporto di dialogo che sussiste tra prodotto e progetto, in una relazione di perfetto equilibrio; allo stesso tempo, nei nostri negozi monomarca e multibrand la sostenibilità e il valore dei capi vengono comunicati vis à vis. Inoltre, a livello comunicativo l’uso dei social networks, come il nostro canale Youtube e le nostre pagine Facebook e Instagram, ci permette di integrare il progetto sociale con la visione commerciale dell’azienda, ottenendo contatti e nuovi sbocchi di mercato per i nostri prodotti. Trattiamo il tema

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AL MICROFONO


l’obiettivo di Progetto Quid è quello di creare inclusione sociale, per noi l’empatia è il fulcro di questo processo, non l’attività marginale 01. Il laboratorio di Progetto Quid. Cooperativa sociale Quid

della sostenibilità anche con i fornitori con i quali siamo in costante contatto parlando di traguardi e obiettivi futuri. Ci interfacciamo anche con altre aziende attraverso prodotti di co-branding distribuiti su ampia scala, riconoscibili dalla presenza delle due etichette, una delle quali del nostro brand di moda etica Progetto Quid appunto. Tra i nostri principali partners, ad esempio, vi sono Naturasì, Altromercato, Calzedonia, Intimissimi e Tezenis. In che forma e in che misura sono presenti creatività e innovazione2 nel processo di produzione in Quid? La creatività è presente attraverso la ricerca che caratterizza il momento creativo stesso, sviluppato da designer e modelliste, e che porta alla fine a un risultato collaborativo, ma passa anche attraverso il metodo di reperimento e di utilizzo dei materiali. Per i capi marchiati Progetto Quid vengono scelte le eccedenze e le rimanenze di lavorazioni di stoffe e tessuti, e non gli scarti post-utilizzo che invece noi non usiamo. Per fare un esempio, se una grande azienda di abbigliamento decide di produrre 2.000 magliette, e si ritrova ad avere 100 o 200 metri di prodotto come eccedenza di produzione, invece di incorrere nel rischio che quest’ultime vengano devalorizzate per merito o per qualità, o spedite dall’altra parte del mondo per diventare degli stracci o ancora che vengano macerate, noi le utilizziamo, dando loro un nuovo valore. In Quid l’utilizzo delle materie prime avviene senza la produzione delle stesse che sono invece recuperate da altri processi: prima c’è un sopralluogo da parte delle responsabili creative e delle designer per visionare il materiale a disposizione; a ciò segue la fase di progetto in cui si pensa a come utilizzare tale materiale. Il processo di produzione è quindi all’inverso: si progetta sulla base del materiale che si ha a disposizione e ciò rappresenta l’elemento innovativo che contribuisce a rendere unici i nostri capi. 02. Fasi di produzione in laboratorio. Cooperativa sociale Quid

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03. Fasi di produzione in laboratorio. Cooperativa sociale Quid

il processo di produzione è all’inverso: si progetta sulla base del materiale che si ha a disposizione e ciò rappresenta l’elemento innovativo che contribuisce a rendere unici i nostri capi

04. Alcuni dei modelli del marchio Progetto Quid. Cooperativa sociale Quid

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Quali sono i fattori che più influiscono sulla produttività3 dei capi Progetto Quid? I fattori che più influiscono sulla produttività di Progetto Quid sono la metratura limitata dei tessuti, dovuta alla scelta di utilizzare eccedenze di produzione, e i ritmi produttivi dilatati che vengono dettati dalle esigenze dei dipendenti, tra i quali vi sono anche dei portatori di handicap, per cui la produttività stessa può essere ridotta. Di conseguenza le dinamiche sociali influiscono sul costo del prodotto, che si assesta su prezzi leggermente superiori a quelli di mercato. D’altra parte, è necessario dire che le materie prime hanno prezzi contenuti o provengono da aziende di abbigliamento che donano alla cooperativa rimanenze di tessuti presenti in magazzino.

05. Fasi di produzione in laboratorio. Cooperativa sociale Quid

Quid è riuscito a creare la perfetta interazione tra profit e no profit. Cosa pensate che una tale riuscita possa comportare per il futuro, tanto in ambito sociale quanto in ambito economico a livello di impresa? Pensiamo che Quid sia la dimostrazione che si possa, in maniera fruttuosa, creare una contaminazione tra i due mondi. Siamo la prova di come si può dar vita a un prodotto che può essere competitivo sul mercato, ma che allo stesso tempo abbia anche un valore sociale importante ottenendo così buoni risultati in entrambi gli ambiti. Considerata l’importanza dell’empatia nella concezione del modello Quid, non pensate che lo stesso si ponga controcorrente rispetto ad un mondo del lavoro sempre più contraddistinto da gig economy? Sicuramente, ma non siamo gli unici a farlo! Per fortuna ci sono correnti di pensiero che mirano a ridurre gli aspetti negativi del mercato del lavoro attuali, facendo dell’inclusività sociale e della sostenibilità i principi cardine del processo produttivo; per noi l’empatia è il fulcro di questo processo, non un’attività marginale. Ritenete che se il modello Quid venisse esportato in realtà marginali e svantaggiate, ciò potrebbe rappresentare un punto di svolta per la società e per la politica? Noi ci auguriamo che il modello Quid possa essere replicato in altri ambiti e contesti soprattutto in termini di modalità di impiego e per l’attenzione posta al lavoratore. Tra i progetti futuri c’è infatti la possibilità di esportare il metodo Quid all’estero, per dimostrare che esso può funzionare anche in altre realtà. Considerando che la nostra cooperativa in 5 anni è riuscita a raggiungere i 90 impiegati, speriamo di poter essere un esempio virtuoso e un modello da seguire!* 1 – Fonte d’ispirazione per l’ideazione di quest’intervista, è stato l’ultimo libro dell’economista Marta Fana “Non è lavoro, è sfruttamento”, che denuncia l’odierna difficile e diffusa condizione lavorativa italiana. Citando dallo stesso: “Non siamo di fronte a un momento d’eccezione, di crisi, bensì nel pieno di un progetto politico che con la crisi è stato esacerbato per riaffermare e consolidare il potere di una parte della società su un’altra. Lavoro povero e sfruttamento sono la regola, non l’eccezione”, pp. 151-152. 2 – Fana M., “Non è lavoro, è sfruttamento”, pp. 140-143, Editori Laterza, 2017. 3 – Ivi, pp. 139-142.

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Artificio: un antidoto contro la solitudine

a cura di

Città sola Olivia Laing Il Saggiatore 2018

nizialmente erano le immagini in sé ad attirarmi, ma via via che mi addentravo, conoscevo sempre di più le persone che vi stavano dietro e che si erano confrontate, nella vita e nel lavoro, con la solitudine. Tra i tanti narratori della città sola che mi hanno istruito o commosso[...]: Alfred Hitchcock, Valerie Solanas, Nan Goldin, Klaus Nomi, Peter Hujar, Billie Holiday, Zoe Leonard e Jean-Michel Basquiat –, mi sono avvicinata soprattutto a quattro artisti: Edward Hopper, Andy Warhol, Henry Darger e David Wojnarowicz. Non tutti sono stati inquilini fissi della solitudine, il che offre una diversità di posizioni e prospettive, ma tutti sono stati particolarmente sensibili nei

confronti delle barriere tra le persone, della sensazione di essere isolati nella folla. Nel caso di Andy Warhol, noto per la sua incessante socialità, si direbbe improbabile. Non si separava quasi mai dal suo luccicante entourage, eppure le sue opere risultano sorprendentemente eloquenti riguardo ai temi dell’isolamento e dei disturbi dell’attaccamento, problemi con i quali ha dovuto lottare tutta la vita. L’arte di Warhol esplora lo spazio tra le persone, la sua è un’indagine filosofica sulla vicinanza e la distanza, l’intimità e l’estraneità. Come molti individui soli, Warhol era un accumulatore inveterato, creava e si circondava di oggetti, barriere contro le

esigenze dell’intimità. Terrorizzato dal contatto fisico, raramente usciva di casa senza un’armatura di videocamere e registratori che usava per mediare e ammortizzare le interazioni: un comportamento che potrebbe gettare nuova luce sull’uso della tecnologia in questo nostro secolo che si presuppone iperconnesso. [...] Edward Hopper, erratico, taciturno, esprimeva, checché ne dicesse lui, la solitudine urbana in termini visivi, traducendola in pittura. Quasi un secolo dopo, le sue sagome di uomini e donne solitari dietro i vetri di bar, uffici e deserte hall di alberghi rimangono immagini simbolo dell’isolamento nella città.* Dalle pagine di Città sola, di Olivia Laing

Incompiuto. La nascita di uno stile Alterazioni Video / Fosbury Architecture Humboldt Bokks, 2018 design julia.studio

Questa non è una pietra M. Sasek Quodlibet, 2018

sullo scaffale

Turbine Juli Zeh Fazi, 2018 design Francesco Sanesi

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CELLULOSA


Polythene Bag “Well, you should see her in drag dressed in a polythene bag. Yes you should see Polythene Pam” The Beatles, Polythene Pam, Abbey Road, 1969 Immagine di Emilio Antoniol

(S)COMPOSIZIONE



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