Giovanni Termini, Alberto Zanchetta: Quella cosa su cui inciampi (la c., vol. 36)

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Giovanni Termini, Alberto Zanchetta Quella cosa su cui inciampi

la c.


Questo libro è pubblicato da

la centrale edizioni un nome collettivo senza scopo di lucro, fondato in sud Europa nel 2018 no ISBN printed in Italy

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La collana

la c. è realizzata con il supporto della Fondazione Lac o Le Mon vol. 36, settembre 2020 stampato in 100 copie





Giovanni Termini, Ostacoli, 2019 Legno, ferro, alluminio, cemento, laterizio, gomma e vernice poliuretanica. Installazione site-specific, dimensioni variabili Wood, iron, aluminum, cement, brick, rubber and polyurethane paint. Site-specific installation, variable dimensions



Alberto Zanchetta

L’INCIAMPO


I

So per certo che mentre scrivo queste righe – e malgrado le ripetute revisioni che ne seguiranno – qualche errore di battitura si paleserà immediatamente dopo aver licenziato il testo con la formula Bon à Tirer. Benché la paura di sbagliare potrebbe ridurmi all’inazione, cercherò di districarmi tra intoppi, ostacoli, cadute e rovine. Pur evitando di mettere i piedi in fallo, accetto di buon grado di incappare in qualche refuso, ossia nell’inciampo della lettura, non diversamente dal lapsus, che è l’intralcio del pensiero tradotto in parole. Mi è di conforto Goethe, che nelle sue Carte postume scrive: «Penso sempre, quando vedo un errore di stampa, che qualcosa di nuovo è stato inventato»1.

1

J.W. Goethe, Massime e riflessioni, Theoria, Roma-Napoli 1990, p. 230.


II

L’impronta della mano suggella la presenza dell’uomo nella storia, retaggio primitivo che troviamo impresso nelle grotte del Paleolitico. Da allora la razza umana si è evoluta sempre più come specie palmigrada, serbando un vago ricordo della propria natura plantigrada. Memoria che talvolta riaffiora, come nel caso dello sbarco sulla Luna, quando Neil Armstrong celebrò l’allunaggio con la famosa frase: un piccolo passo per un uomo, un balzo da gigante per l’umanità. Con altrettanta nonchalance siamo soliti dimenticare che la facoltà di restare in piedi è innata, ma ciò implica (anche e innanzitutto) una dignità. Il camminare è molto più che un principio motore, è indicativo della rettitudine del nostro pensiero: l’Homo erectus porta sulle proprie spalle il peso/pensiero dell’Homo sapiens. Il motivo per cui cadiamo – soprattutto quando siamo sovrappensiero – è per farci ricordare il nostro retaggio. A questo proposito, Luciano Fabro ha saputo convertire le cadute in una disciplina e[ste]tica; nel video Il moto del reazionario [1972], l’artista suggerisce infatti di anticipare l’avanzare del piede sinistro calciandolo con il destro, affinché la piroetta corrisponda alla “danza dei valori eterni della specie”.


III

Siamo mammiferi evoluti che si ergono in direzione dello Zenit. Nel corso dei millenni abbiamo continuato a coltivare il “mito della specie”, ed è il motivo per cui siamo diventati arroganti. Anziché discendere dai quadrumani, l’uomo avrebbe fatto meglio a impantanarsi nella fanghiglia che ha dato vita all’Adam Kadmon. Esautorando il creazionismo a favore dell’evoluzionismo, l’Homo erectus è diventato oltremodo presuntuoso. Si rifiuta addirittura di abbassare lo sguardo, interpretandolo come un segno di debolezza. Ma tale insolenza viene confutata dall’inciampo: quando cadiamo, ci risolleviamo quasi subito per procedere oltre, dimenticando così la spiacevole fatalità in cui siamo incorsi; a volte, però, bisognerebbe non aver fretta di riprendere la postura eretta, varrebbe semmai la pena di indugiare sulla sensazione di umiliazione che si prova quando si finisce faccia a terra, con le ginocchia e i palmi delle mani scorticati. Ci sono stati inciampi e cadute fin dall’inizio della nostra specie, basti pensare al peccato originale e alla cacciata dal Paradiso, si convenga però che la biblica “caduta dell’Uomo” corrisponde in realtà alla “disfatta di Dio”. L’uomo non deve conformarsi all’incoerenza di Dio.


IV

Mettere radici nel fango, dicevamo poc’anzi. Purtroppo è impossibile ritrovare e conservare l’innocenza bandita dai Giardini dell’Eden. Cadono gli uomini, e cadono i frutti proibiti dagli alberi. Tutta la nostra esistenza è una diretta conseguenza della ingenuità di Adamo e della vanità di Eva, patriarchi di una umanità che non ha mai smesso di incespicare nel corso dei secoli. Sant’Antonio, invece, non è mai caduto, né ha mai ceduto di fronte alle tentazioni del deserto; chissà se un ragionevole dubbio avrebbe potuto minare la sua incrollabile rettitudine. Ecco come si sarebbero potuti svolgere i fatti: Dio è un bugiardo, afferma il Diavolo. E perché dovrei crederti?, lo interroga Sant’Antonio. Perché io sono Dio, replica l’altro. Dio non è nessuno, ammette sconfortato l’Abate, perché nessuno può essere Dio.




V

Asmodeo, Belial, Belzebù, Berlicche, Demonio, Mefistofele, Satana. Più spesso lo invochiamo con il suo nome latino, Lucifer, e assai di rado con il suo corrispettivo greco, Phosphorus, appellativi che coincidono dal punto di vista etimologico, indicando colui che porta la luce. Ribellatosi alla volontà di Dio, il Principe dell’esilio è innanzitutto un Arcangelo prometeico, un semioforo che promette di dissipare l’obscurum per obscurius. Si dice che «fosse un figlio del mattino, un angelo radioso e potente; eppure cadde: cadde e cadde con lui una terza parte delle schiere celesti: cadde e venne precipitato nell’inferno, insieme coi suoi angeli ribelli. Quale fosse il suo peccato non sappiamo. I teologi pensano che fosse il peccato di orgoglio, il pensiero colpevole concepito per un attimo: non serviam: non servirò. Quest’attimo fu la sua rovina. Egli offese la maestà di Dio col pensiero colpevole di un attimo e Dio per sempre lo cacciò dal cielo nell’inferno»2. Quest’Angelus sepultus negli inferi è stato vittima di un ardente desiderio di libertà. Scegliere di agire significa accettare di poter fallire – Im Anfang war die Tat. Occorre tuttavia rammentarsi che si può inciampare sia nell’oscurità, sia in piena luce.

2

J. Joyce, Racconti e romanzi, Mondadori, Milano 1993, p. 360.


VI

L’umanità è afflitta da un sogno ricorrente: cadere nel vuoto. Chiunque abbia provato questa sensazione si sarà risvegliato di soprassalto, ma dopo il sussulto iniziale tenderà nuovamente a sprofondare nel subconscio, in quell’abisso di ansie e vertigini che abita dentro di noi. Abyssus abyssum invocat: nel profondo della psiche umana si può intravedere la pazzia del mondo. «Non c’è uno solo dei nostri movimenti, né una sola delle nostre azioni che non sia un abisso nel quale anche l’uomo più saggio possa perdere la ragione» 3. Affetto da una nevrosi traumatica, negli ultimi otto anni di vita Pascal temeva di essere inghiottito da una voragine che si schiudeva alla sua destra. Impietriti dalla paura, finiamo sempre per arrestarci sull’orlo del precipizio. Il suicida, invece, ci sopravanza di un passo, perché la sua disperazione non conosce battuta d’arresto.

3

H. de Balzac, Teoria del camminare, SugarCo, Varese 1993, pp. 29-30.


VII

Quando cadiamo siamo soliti protendere le mani in avanti, non tanto per attutire l’urto ma perché vogliamo proteggerci il volto. Senza accorgercene, siamo indotti a chiudere le palpebre o a celare il nostro sguardo dietro le mani. Nel tentativo di salvaguardare gli occhi ci priviamo della facoltà di vedere e di sapere dove si percuoterà la nostra testa. La verità è che non sappiamo cadere. Ne abbiamo fatto esperienza più e più volte, malgrado ciò non ci siamo mai abituati, né potremo mai allenarci a sufficienza per prevenire questa eventualità. Ogni volta è come la prima volta, un’esperienza che si perpetua/perpetra con la stessa flagranza. Ma cadere all’indietro è più pericoloso del cadere in avanti. Il socratico “sapere di non sapere” non ci è di alcun conforto o rassicurazione quando cadiamo all’indietro.


VIII

«Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno entrambi in una buca?» [Luca 6, 39]. L’escatologica Parabola dei ciechi di Pieter Bruegel il Vecchio, oggi conservata nel Museo di Capodimonte, culmina in una grottesca reazione a catena. Osservando il movimento scomposto di quei corpi che ruzzolano nel fossato è probabile che lo spettatore tenterà di soffocare la propria risata, l’empatia gli impedirà di rimanere insensibile alle orbite vitree e vuote dei ciechi di Bruegel. Di fronte a una caduta non è facile scegliere di gioire o soffrire. Per esempio, se vediamo cadere un bambino non dobbiamo corrugare la fronte né contrarre la bocca; dissimulando la nostra apprensione con un sorriso, il bambino farà altrettanto. Viceversa, un volto spaventato lo istigherà alle lacrime. Affrontiamo dunque le cadute con la consapevolezza che esse ci offrono una possibilità di ripresa e di sfogo.


IX

La parola “imbattersi” presuppone una reciprocità: l’uno verso l’altro. Tale incontro/ scontro può trasformarsi in un inderogabile appuntamento con il destino. È il caso di Diana e Atteone. Come ci spiega Ovidio, Atteone vagabonda con passi incerti nel bosco, e involontariamente si imbatte nella dea ignuda. Suo malgrado, l’ignaro Atteone si ritrova a vestire i panni del voyeur proprio quando una dea dell’Olimpo dismette i propri. «Fu colpa della sorte e non delitto; quale delitto poteva esserci in un errore?» 4. Ma ormai l’intimità di Diana è stata violata, e il misfatto non può restare impunito. Mentre si deterge nella “fonte lucente” che sgorga nella valle di Gargafia, la dea getta un fiotto d’acqua in direzione di Atteone, trasformando il cacciatore in una preda. Diana non lascia scampo a Atteone, lo condanna ad affrontare un cammino tortuoso, attraverso sassi, dirupi e rocce impervie. Ciò che era erotico diventa erratico, ciò che era casto si trasforma in un castigo, ciò che era sacro esige un sacrificio. Dolce è la vendetta, soleva dire Albert Einstein, specialmente per le donne.

4 Ovidio, Le metamorfosi, Mondadori, Milano 2007, p. 109.


X

Robert Smitshson era convinto che la vista e il camminare si condizionassero a vicenda, a tal punto che solo i piedi potessero vedere. Tuttavia, viene da chiedersi se siamo ancora in grado di vedere e vivere il paesaggio. Per osservare una cosa è necessario dedicarle tempo e attenzione. Il problema è che abbiamo smesso di essere dei viaggiatori e ci siamo trasformati in passeggeri. Assuefatti ai mezzi di trasporto, non riusciamo più a visitare i luoghi, siamo succubi del consequenziale: un luogo dopo l’altro. Anziché scrutare il paesaggio, ci accontentiamo di scorrerlo dai finestrini. Guardiamo il paesaggio in lontananza, di sfuggita, lo attraversiamo con noncuranza e ci riduciamo a interpretarlo. Senza rendercene conto, siamo rimasti intrappolati in una percezione transduttiva, che traduce-trapassa la realtà per impedirci di viverla appieno.




XI

Nel 1912 Giacomo Balla dipinge due quadri straordinari: Dinamismo di un cane al guinzaglio e Bambina che corre sul balcone. Quest’ultimo, appartenuto al collezionista Car­ lo Grassi, scompone la luce in taches di colore (e non per caso, Luce è il nome della figlia di Balla ritratta in questo dipinto; il balcone citato nel titolo corrisponde invece a quello della casa dell’artista, che si affacciava sul parco di Villa Borghese). L’opera, dipinta su tavola, presenta un recto e un verso, proprio come accadeva ai ritratti quattrocenteschi. La raffigurazione sul retro – che è antecedente, e quindi dovremmo considerarla come il vero recto dell’opera – mostra una scena bucolica. Vien voglia di credere che la bambina si affretti a nascondersi nell’altro lato del quadro: corre per sfuggire alla civiltà, nella speranza di potersi rifugiare nella natura. Ebbene, «che vado a fare nella foresta», si chiedeva Henry David Thoreau, «se sto pensando a qualcosa che è fuori dalla foresta?» 5. A differenza di Thoreau, la figlia di Balla sembra lasciarsi alle spalle le preoccupazioni che derivano dalla vita in società, non v’è dubbio che l’unico suo cruccio sia di non incespicare sui propri passi.

5

H.D. Thoreau, Camminare, Edizioni La Vita Felice, Milano 2009, p. 29.


XII

Nella grande storia degli oggetti, le sedia non è altro che una forma di sostegno per l’organismo umano. Se ci pensiamo, il nostro corpo potrebbe ricondursi sostanzialmente a tre posizioni ricorrenti: in piedi, sdraiato, seduto. Ma se l’orizzontalità e la verticalità ci sembrano naturali, la posizione en repos dell’ultima ci risulta artefatta. Chiunque si sieda, scriveva Joseph Rykwert, è costretto a cambiare posizione con una certa frequenza al fine di rimanere a proprio agio. Oltre a variare la postura anatomica, ogni tanto varrebbe la pena modificare anche le posizioni culturali, che alla lunga diventano ben più scomode.


XIII

Trascrivo, a beneficio del lettore, due straordinari apologhi di Leon Battista Alberti. Il primo: «Il lombrico insisteva col millepiedi perché gli regalasse due zampe. “E tu dammi in cambio una delle tue due teste” fece l’altro» 6. Il secondo: «Uno zoppo arrivò a farsi tagliare il piede dal lato più lungo per potere andare dritto. Realizzata l’operazione, piangeva carponi di essere stato fatto completamente incapace di camminare»7. Se mettessimo in relazione questi apologhi – alla maniera di Charles Lutwidge Dodgson – potremmo ricavare un sillogismo su Oscar Pistorius, il campione paralimpico soprannominato l’uomo più veloce senza gambe. Nel primo decennio degli anni Duemila era balzato agli onori della cronaca per le sue Cheetahs, delle protesi biomeccaniche in fibra di carbonio e dalla forma uncinata, con cui l’atleta compensava i propri arti fantasma. Dopo aver arricchito il suo medagliere con l’oro, l’argento e il bronzo, anche Pistorius è caduto, come qualsiasi altro uomo. Non già sulla pista di atletica, bensì in tribunale, condannato per l’assassinio della fidanzata Reeva Steenkamp. (Sarà poi vero che ogni qualvolta ci sentiamo vinti ci rialziamo più forti di prima?).

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L.B. Alberti, Apologhi, Rizzoli, Milano 1989, p. 75. Ibidem, p. 79.


XIV

È alquanto improbabile che Humpty Dumpty possa cadere dal muro su cui è seduto. Se anche fosse, Humpty Dumpty ha estorto al Re la promessa di rimetterlo in sesto. Humpty Dumpty sat on a wall; Humpty Dumpty had a great fall. All the King’s horses and all the King’s men couldn’t put Humpty Dumpty in his place again. La filastrocca irride al crollo/ cedimento del corpo tarchiato e gibboso del personaggio. Volendo essere più precisi, Humpty Dumpty non cade, egli precipita: praecaput, espone cioè la testa in avanti. (L’incombenza del precipitare ha in sé qualcosa di repentino, è qualcosa che il personaggio di Carroll deve subire, all’istante). Come ci suggerisce il nome di Humpty Dumpty, questo funesto “capi-tombolo” andrebbe considerato in antitesi alla caduta anodina di Alice Liddell. Infilatasi nella tana del Bianconiglio, Alice sprofonda in un pozzo buio: «Giù, giù, sempre più giù. Sarebbe mai finita quella caduta?». Poi, d’improvviso, la caduta si arresta, senza alcuna conseguenza o sofferenza. Qualora perdessimo il nostro centro di gravità finiremmo risucchiati fuori dall’orbita terrestre, sospesi nel tempo e nello spazio, proprio come accadde a Alice; la nostra caduta, tuttavia, si svilupperà verso l’altro anziché verso il basso. Or dunque, saremmo disposti a provare un simile [t]errore?

8 L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie, Mondadori, Milano 2002, p. 20.


XV

Penso al minimo accenno delle gambe che sono state modellate da Rodin ne L’âge d´airain [1877]. Tra gli innumerevoli esemplari di questa scultura, la versione che preferisco è quella esposta alla Neue Pinakothek di Monaco. Di primo acchito si ha l’impressione di guardare un’opera incompiuta, ma a un esame più approfondito ci si avvede che è stata mutilata nel giugno del 1931, durante l’incendio divampato all’interno del Glasplast cittadino. Ebbene, ciò che noi vediamo è un torso acefalo e focomelico, vale a dire “un sopravvissuto”. Affinando il nostro sguardo, notiamo che la figura è stata presa alla sprovvista, come se non avesse avuto il tempo di destarsi dal proprio torpore. Incapace di comprendere la minaccia che incalzava, le gambe della scultura hanno esitato troppo a lungo, ed è per questo motivo che gli arti inferiori non ambiscono a slanciarsi in avanti, portandosi al riparo dalle fiamme che infuriavano nella serra di vetro. La perizia dei pompieri convalidò l’ipotesi che si trattava di un “inferno doloso”.


XVI

Penso nuovamente a Rodin. Il movimento vitalistico del Saint Jean-Baptiste [1878-1880] è in contrasto con il suo apparato motorio. L’andatura è innaturale, troppo lineare. Entrambi i piedi poggiano a terra, conficcandosi saldamente al suolo. Affascinato da questa solenne falcata, Rilke ha paragonato il Battista a «un manico di legno che nasconde in sé l’ampia falcata del passo. Egli cammina. Cammina come avesse in sé tutte le vastità del mondo e le distribuisse con il suo passo. Cammina. Le sue braccia parlano di questo andare e le dita si allargano e sembrano disegnare nell’aria l’atto dell’incedere» 9. L’enfatico movimento delle mani non era però stato previsto da Rodin, che infatti innesta gli arti superiori solo in un secondo momento. In origine la scultura aveva la fisionomia di un corpo disseccato, decapitato e senza braccia. Questo studio preliminare – intitolato L’Homme qui marche [1877-1878] – non ha nulla a che vedere con il Battista; non è neppure un uomo, bensì un corpo che (ancora) cammina. Prendendo in prestito il titolo di Rodin, nel 1960 Alberto Giacometti ha realizzato un bronzo omonimo con cui ha portato a compimento la sineddoche de La jambe [1958]. Da circa un decennio, l’artista era ossessionato all’idea di «avere di fronte a un’altezza precisa un piede di una dimensione precisa, il ginocchio a quell’altezza e la parte alta della coscia in quel punto preciso sopra di me, e ciò che contava altrettanto era l’angolo, la direzione del piede, della gamba, della coscia, con il ginocchio, in un certo senso, come punto fisso»10. Cedendo all’orpello del corpo umano, Rodin e Giacometti hanno trasformato le loro prime, audaci e sublimi intenzioni in una banale flânerie.

9 10

R.M. Rilke, Rodin, Studio Editoriale, Milano 1985, p. 31. A. Giacometti, Scritti, Abscondita, Milano 2001, p. 118.


XVII

Medardo Rosso esecrava la scultura del passato, equiparandola a un “soprammobile” (viene da pensare a un fermacarte, tutt’al più a un fermaporte). Marcel Duchamp ha aggravato la fragile identità della scultura, e la sua labile appartenenza allo scibile artistico, nel momento in cui ha scelto di esporre oggetti banali ma nient’affatto insignificanti. Benché si fosse ripromesso di fissare un appendiabiti al muro, l’artista ha procrastinato di continuo il suo proposito, lasciandolo appoggiato a terra, ma poiché finiva sempre per sbattere o inciampare sull’appendiabiti, alla fine ha deciso di inchiodarlo al pavimento anziché al muro. Da allora, il Trébuchet [1917] di Duchamp non è più un semplice servo muto, pretende anzi un sonoro urto/urlo di dolore da parte nostra. Non v’è dubbio che sia il primo inciampo (dichiarato) dell’arte, ma come ci ricorda Valéry: soltanto il retrogrado e il precursore si litigano il posto da cui si cade.


XVIII

Si inciampa in una prominenza così come in una cavità. Rodin, guarda caso, equiparava la scultura antica a un fatto di sporgenze e rientranze, mentre Newman ha definito la scultura come quella cosa su cui inciampi quando indietreggi per guardare bene un quadro. Sorge il sospetto che persino Ingres potesse alludere a questa circostanza quando invitava le persone a inginocchiarsi per studiare il Bello. Comunque sia, non si può deambulare impunemente all’interno di un museo. «Gli individui che vanno nei musei commettono sempre l’errore di voler fare troppe cose, di voler vedere tutto, così camminano e camminano, guardano e guardano e poi, all’improvviso, crollano, semplicemente perché hanno fatto indigestione di opere d’arte»11. In un museo è impossibile passeggiare per il semplice gusto di passeggiare. Si è sempre costretti ad arrestare la propria camminata, attratti da qualche capolavoro che ci impone una sosta forzata, o perché intimiditi dallo sguardo severo dei custodi. Un museo è un ambiente nel quale ci muoviamo nella speranza di non perdere l’equilibrio o il nostro spirito d’osservazione.

11

T. Bernhard, Antichi Maestri, Adelphi, Milano 1992, p. 124.


XIX

Nel 1992 Kevin Young ha stabilito il record nella corsa a ostacoli, primato che ancora oggi detiene. Giovanni Termini è indifferente alla destrezza e alla velocità delle andature caracollanti, è però affascinato dalla possibilità di sostituire i convenzionali attrezzi ginnici con una serie di aggregati scultorei. Nel 2019 si è quindi deciso a inanellare una putrella d’acciaio, un dosso stradale, una barriera di contenimento, un dissuasore cordonato, un raccordo di tubi innocenti e due coppie di treppiedi su cui poggiano un’asta e un laterizio. A differenza delle sculture tradizionali, questi Ostacoli non si limitano a occupare uno spazio, pretendono semmai di farsi spazio tutt’attorno. In quanto “impedimento”, l’installazione di Termini intende precludere o dirottare il senso di marcia delle persone, affinché prestino maggiore attenzione a dove camminano. Com’è ovvio, l’installazione impone agli spettatori la propria inerzia, ragion per cui possiamo convenire con Salvador Dalí nell’affermare che «il minimo che si possa chiedere a una scultura è di non muoversi»12.

12 S. Dalí, I cornuti della vecchia arte moderna, Abscondita, Milano 2008, p. 58.



XX

Un giorno di primavera, Giovanni Termini mi ha confidato che «al mattino, quando apro la porta del mio studio, il desiderio è sempre quello di non ritrovarlo mai come l’ho lasciato. Non sono interessato a uno spazio equilibrato, non seguo un progetto preciso: voglio pormi di fronte a uno spazio instabile che può apparire inquietante e confortevole allo stesso tempo». Quel giorno sono rimasto in silenzio, sprofondato nel mio mutismo. Non avevo bisogno di aggiungere nient’altro.



Quella cosa su cui inciampi di Giovanni Termini e Alberto Zanchetta Immagini e parole si svolgono in parallelo e in equilibrio, tra inciampi, deviazioni, cadute e riprese. Pubblicazione stampata in occasione della mostra a riss(e), Varese, settembre 2020. Fotografie di Michele Alberto Sereni


vol. 36, 2020


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