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L’identità visiva della Regione Puglia propedeutica alla progettazione a cura di Nino Perrone
L’identità visiva della Regione Puglia Propedeutica alla progettazione a cura di Nino Perrone
torredinebbiaedizioni
L’identità visiva della Regione Puglia Propedeutica alla progettazione a cura di Nino Perrone
Pubblicazione realizzata nell’ambito del progetto per la realizzazione della nuova identità visiva della Regione Puglia coordinato e diretto da Nino Perrone. Gruppo di lavoro: Michele Colonna Daniela Gurrado Vincenzo Schiraldi Rita Colacicco Alessia Cimmarrusti Anna Lapacciana Annamaria Lattanti Gaetana Procino Claudia Scardino Alessia Vitella
Composizione tipografica in Fedra Sans e Fedra Serif by Typoteque 2001-2005 (www.typoteque.com)
Sommario
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Progettare un nuovo sistema di identità visiva per la Regione Puglia Identità visiva e identità tout court Il progetto Quali segni? Alcune considerazioni sull’attuale stemma della Regione Puglia
9 Il quadro delle conoscenze 9 Analisi degli studi e della bibliografia. 10 Interviste 10 Progetto collaborativo 11 Sintesi e parole chiave 12 Analisi di alcuni casi eccellenti 19 19 19 19
Il sistema d’identità visiva Il Manuale d’uso e le direttive per la corretta applicazione dell’identità visiva Come arrivare alla stesura del Manuale Contenuti del Manuale di immagine coordinata
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Casi di studio in Italia Regione Lombardia Regione Umbria Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia Il caso della Regione Sardegna
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Casi di studio internazionali
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Il caso Puglia Le ragioni del cambiamento Il simbolo attuale ...e alcune delle varianti quotidiane. Tante identità, un solo Ente.
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Repertori visivi
104 Quale identità per la Puglia? 107 Repertori e interviste 108 Bibliografia 114 Sintesi di alcuni testi consultati 1 143 Conversazioni e interviste 143 Conversazione con Dino Borri 153 Conversazione con Damiana Santoro 171 Conversazione con Raffaele Licinio 187 Una chiacchierata con il presidente Nichi Vendola
Progettare un nuovo sistema di identità visiva per la Regione Puglia Nino Perrone
Identità visiva e identità tout court Definire l’identità di una realtà complessa come quella di una Regione non è cosa semplice. Ancor più problematica risulta la ricerca di quei tratti caratteristici che concorrono a formare l’idea stessa di Regione e che nel contempo rappresentano la percezione condivisa della propria terra (genius loci) da parte dei suoi abitanti. Le Regioni italiane sono nate come realtà amministrative a metà degli anni settanta, rispondendo all’esigenza di un reale decentramento amministrativo, ma in alcuni casi la definizione dei loro confini territoriali non ha saputo tener conto delle diversità territoriali storicamente definite finendo per snaturare i tratti identitari di territori, anche vasti, e pregiudicando di fatto la capacità unificante delle nuove realtà regionali. Oggi, tranne qualche isolato caso di paventata seccessione municipalistica, le Regioni italiane sono una realtà consolidata e hanno dimostrato di aver bene assolto il loro compito di istituzioni unificanti, nonostante il senso identitario di molte realtà territoriali non si sia affievolito ma si sia trasformato in “valore”, costituendo quel patrimonio di diversità che, dove è stato sapientemente governato, rappresenta la richezza di molte realtà regionali. Da questo punto di vista la Puglia è un caso paradigmatico. I grandi viaggiatori dell’ottocento parlavano di “les Puilles” riferendosi alla Puglia come ad una pluralità di territori. Ancora oggi in molti preferiscono, forse più correttamente, il termine “le Puglie” al più semplicistico singolare. Non si tratta evidentemente di una semplice questione lessicale ma di qualcosa che ci rimanda all’idea di una regione storicamente tripartita: la Capitanata (Gargano, Tavoliere e Daunia), la Puglia centrale (“Terra di Bari”) e il Salento (l’antica “Terra d’Otranto” e per estensione il territorio di Brindisi e Taranto). L’istituzione delle provincie ha ulteriormente ripartito la composizione regionale portando a sei la distinzione degli ambiti territoriali i quali però appaiono più riferiti a questioni di natura amministrativa. E allora la domanda è: esiste una identità pugliese? È possibile individuare i tratti comuni che hanno segnato le vicende
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storiche di quella che oggi chiamiamo Puglia? Ovviamente le risposte, se ci sono, occorre cercarle con pazienza, nei volti della sua gente, nei suoi numerosi dialetti, nella pietra scolpita delle cattedrali romaniche e in quella del barocco leccese, nell’estetica costruttiva dei castelli federiciani, nei cocci di quei reperti antichi sapientemente costoditi nei tanti musei, nei segni sbiaditi che ci hanno lasciato le diverse civiltà rupestri sulle pareti delle tante grotte carsiche, nel paesaggio agrario della Puglia interna e in quello variegato della costa, nel paesaggio “da fiaba” dei trulli .... nella Puglia di oggi e in quella di ieri, nella capacità di riappropriarci della nostra memoria senza cedimenti nostalgici e senza indugiare nel folklore, nella riscoperta di una vocazione ad essere sempre più terra-ponte tra culture, terra di confine tra oriente e occidente, terra del Mediterraneo e, visti i tempi, terra di pace. Questo percorso di ricerca dovrà essere condotto utlizzando metodologie adeguate (colloqui con esperti e personalità in ambito culturale e politico, interviste brevi ad operatori economici e a semplici cittadini, raccolta di materiale documentario e iconografico, reportage fotografici, ecc.) e dovrà costituire la base di conoscenza condivisa per delineare il briefing che dovrà essere alla base del percorso progettuale. Progettare un sistema di identità visiva non è mai un lavoro semplice, non lo è per una azienda commerciale, non lo è ancor di più per una istituzione rappresentativa di una intera regione. Pur nella sintesi visiva necessaria occorre tener conto di una molteplicità di aspetti sia di contenuto che di carattere formale ed estetico. Un briefing chiaro e condiviso può aiutare il percorso progettuale e il gruppo di lavoro che dovrà svolgerlo. Tuttavia crediamo che tale percorso debba essere il più possibile realizzato insieme con i rappresentanti istituzionali che, pur nel loro ruolo di committenti, potranno dare un contributo utile e positivo al progetto. Il progetto Molte regioni in Italia, e in misura maggiore in Europa, hanno avviato moderne politiche di definizione della propria identità. In alcuni casi coniugando i tradizionali canoni della araldica e degli stemmi con un moderno programma di pianificazione dell’immagine istituzionale, in altri affidando a nuovi segni, opportunamente progettati, il compito di comunicare la ridefinizione delle diverse identità che sempre più gli enti regionali vanno assumendo in funzione dei nuovi ruoli e competenze sia nei confronti del governo centrale che, soprattutto, verso i cittadini. Al pari delle realtà aziendali, alcune di queste Regioni si sono dotate di un normativa di attuazione dei criteri identificativi e di una manualistica capace di regolamentare i principali casi di uso
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della propria immagine nelle diverse istanze comunicative. L’Ente Regione non è solo centro di elaborazione politica, legislativa e amministrativa, ma è costituito anche da un insieme di altri soggetti in molti casi enti erogatori di servizi essenziali (sanità, ambiente, trasporti, promozione turistica, ecc.). Diventa quindi necessario affrontare queste problematiche, elaborando un approccio sistemico e comportamentale al tema dell’immagine e alla relativa regia (corporate). Bisogna quindi impostare un piano complessivo in cui l’immagine dell’ente Regione venga progettata come parte di un sistema visivo più ampio, articolato e rispondente non solo ai canali comunicativi “tecnici”e orizzontali, ma anche a quelli “esperienziali” e uniderezionati che le nuove tecnologie consentono. Non solo quindi l’identità dell’Ente, intesa come centro e luogo normativo di una serie di artefatti comunicativi statici, ma una “pluralità di identità” fra loro coordinate e modulate attraverso la capacità di “regia” che il progetto di identità visiva dovrà saper affrontare. Quali segni? I marchi che definiscono l’identità visiva di un’istituzione pubblica possono essere ricondotti sostanzialmente a due tipologie: la prima è quella che solitamente si sviluppa intorno alla ridefinizione della “memoria” araldica dell’istituzione, e che dà luogo ad una impostazione progettuale di consuetudine. Questa tipologia di marchi risponde sovente ad ambiti di codificazione tipici dei dispositivi araldici, dove segni e colori sono normati e rispondono a precisi significati. Devono contemplare, nelle forme, uno statuto di esplicita ufficialità ed adempiere non solo alle necessità di identificazione e di comunicazione (in genere istanze secondarie), ma soprattutto a quelle che potremmo definire liturgiche (protocolli cerimoniali, rappresentanza). Si tratta nella maggior parte dei casi di veri e propri “redesign” di segni storicizzati e il progetto mira sostanzialmente ad adeguarli ai nuovi contesti comunicativi, consentendone un più efficace utilizzo (vedi caso Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia). Nella seconda tipologia i marchi rappresentano il dato visivo di un vero e proprio brand. Sono la forma visiva, la dote comunicativa, di un “prodotto” che non è solo l’ente nella sua forma amministrativa, e neppure solo in quella performativa del turismo o di altre strategie economiche, ma è molto di più. È l’insieme di tutte queste risorse, ma anche e soprattutto il loro essere valori spendibili per la distinzione, la riconoscibilità, la concorrenzialità. Il “nome” visivo si trasforma in un vero e proprio “prodotto”, l’istituzione diventa una marca, il centro di una strategia di marketing ad ampio spettro. Diventa anche “sigillo di qualità” per i comportamenti degli
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altri attori locali, per le molteplici azioni di promozione e per le infinite gamme di artefatti comunicativi che possono essere prodotti (vedi caso Regione Lombardia). La definizione del briefing indicherà in quale delle due tipologie il progetto dovrà articolarsi. Alcune considerazioni sull’attuale stemma della Regione Puglia L’attuale simbolo della Regione Puglia è stato elaborato venti anni fa dall’Ufficio Araldico presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri coordinato dal Prof. Paolo Touron, dirigente dello stesso ufficio. È stato adottato con la Legge Regionale n. 28 dell’8 settembre 1988 e non ha mai subito alcun aggiornamento. A vent’anni dalla sua adozione mostra tutta la sua età, sia per la mutata sensibilità estetica, quanto per gli aspetti legati alla sua riproducibilità. Oggi, con il proliferare dei media (internet, telefonia cellulare, monitor dei computer, dispositivi digitali di varia natura, ecc.) uno stemma dovrebbe mantenere uno standard minimo di leggibilità. Il disegno dell’ulivo al centro dello stemma mal si presta ad essere riprodotto alle dimensioni necessariamente ridotte dei nuovi media, con il risultato di restituire un segno confuso e illegibile. Anche dal punto di vista della sua rappresentatività dell’attuale realtà amministrativa regionale occorrerebbe qualche aggiustamento; i cinque piccoli cerchi verdi su sfondo giallo allineati orizzontalmente nella parte superiore dello stemma, quasi certamente un richiamo visivo alle cinque province pugliesi, dovrebbero diventare sei per includere anche la nascente sesta provincia. Persino la struttura araldica risulta incongruente in relazione alla presenza della corona. Infatti, secondo quanto prescritto dal codice araldico, le Regioni non ne possono disporre legalmente, essendo sorte dopo l’emanazione dei Regii Decreti n. 651 e 652 del 7 giugno 1943 che disciplinavano la concessione delle corone da apporre sugli stemmi. D’altra parte, come si evince dal raffronto con gli stemmi e i simboli delle altre regioni italiane, quello della Puglia è l’unico che riporta una corona sullo stemma. Altre considerazioni possono essere fatte sull’impiego dei colori, sulle metafore visive dell’ulivo e dell’ottagono (presumibile richiamo a Castel del Monte) e sulla loro capacità di rappresentare l’intera Puglia, ma per evitare di avventurarci in tesi opinabili ci limitiamo ad evidenziare quelle che hanno un indubbia oggettività. Tuttavia è auspicabile che a partire dall’analisi dell’attuale simbolo, d’intesa con i responsabili istituzionali dell’Ente, si individui un percorso progettuale che porti o a un redesign dell’attuale stemma o a una soluzione ex-novo attraverso la quale, veicolare nuovi valori, suggerire nuove tensioni ideali e in definitiva rappresentare meglio la Puglia di oggi.
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Il quadro delle conoscenze
In base alle linee guida enunciate nella Relazione progettuale il gruppo di progettazione si è attivato da subito in una serie di ricerche con l’obiettivo di poter disporre di un cospicuo nucleo di conoscenze e informazioni utili al progetto e per questo sono state avviate le seguenti attività: Analisi degli studi e della bibliografia. In primo luogo è stata delineata una bibliografia ragionata con particolare attenzione agli studi riguardanti la Puglia da diversi punti vista (letterario, storico, architettonico, antropologico, socio-politico, ecc.). Di particolare interesse sono risultati alcuni studi su specifici repertori iconografici, dei quali segnaliamo quelli che hanno costituito, all’interno del progetto, una sicura fonte di ispirazione: le pitture murali della Grotta dei Cervi di Porto Badisco; le decorazioni ceramiche peucete, daune, messapiche e japige di epoca neolitica; La produzione ceramica di età magno-greca e romana; la ricca iconografia dei castelli e delle architetture religiose di epoca normanno-sveva, angioina e aragonese (Castel del Monte, i castelli di Barletta e Bari, le cattedrali di Troia, Trani, Bari e Bitonto); La variante beneventana della scrittura usata negli Exultet conservati a Bari e Troia, sviluppatasi nell’XI secolo in Puglia e per questo denominata dai paleografi “Bari-type”; Il ricchissimo ciclo del mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto, vera e propria summa delle conoscenze medievali; La straordinaria tradizione del “barocco leccese”, manifestazione di una sapienza artigianale legata alla lavorazione della pietra locale; L’esclusivo paesaggio “da fiaba” della Valle d’Itria e dei trulli di Alberobello che con Castel del Monte condividono, in Puglia, il prestigioso riconoscimento dell’Unesco di Patrimonio dell’Umanità. La varietà tipologica delle architetture di pietra (le masserie) disseminate nelle aree interne della Puglia, dal Gargano al Salento, che testimonia la ricchezza di quella cultura agropastorale a cui la Puglia di oggi deve buona parte dei suoi tratti identitari.
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Dallo studio di tutte le fonti bibliografiche e documentarie sono stati estrapolati e selezionati tutti i contenuti in grado di fornire forti suggestioni visive. Questo ha reso possibile la creazione di un vero e proprio archivio iconografico. Parte di questo archivio è stato digitalizzato e reso fruibile ai componenti del gruppo di progettazione mediante un sito internet dedicato esclusivamente al progetto. Interviste Per completare il quadro di conoscenze, sono stati programmati degli incontri, sotto forma di interviste, con alcuni esperti e con personalità di rilievo del mondo politico e sociale. A tutti è stato chiesto di delineare, dal proprio punto di vista, una ipotetica mappa dell’identità pugliese. Sono stati intervistati: la dott.ssa Damiana Santoro, Archeologa; il prof. Raffaele Licinio, Ordinario di Storia medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari; il prof. Dino Borri, Direttore del Dipartimento di Architettura e Urbanistica-Politecnico di Bari; Nichi Vendola, Presidente della Regione Puglia; Pietro Pepe, Presidente del Consiglio regionale della Puglia1. Il quadro di conoscenze che ne è scaturito è risultato estremamente ricco di spunti progettuali e sostanzialmente convergente intorno al tema dell’insussistenza di una specifica identità pugliese e incline ad una visione più problematica, nella quale la convivenza di diverse identità rappresenta sia il tratto distintivo che la ricchezza di quella regione che i forestieri, più propriamente, chiamano “le Puglie”. Progetto collaborativo In linea con l’impostazione metodologica del progetto e nella convinzione dell’efficacia di un approccio multidisciplinare aperto, il gruppo di progettazione, oltre a promuovere gli incontri con gli esperti e le personalità politiche di cui si è già parlato, ha promosso anche utili sinergie con il mondo della ricerca (Università e Politecnico di Bari) coinvolgendo docenti e studenti dei corsi di laurea in Scienze delle comunicazioni dell’Università di Bari e di Disegno industriale del Politecnico di Bari. Agli studenti è stata data la possibilità di condividere l’intero percorso progettuale mettendoli in grado di offrire i loro validi contributi di ricerca, analisi ed elaborazione. 6 sono stati gli studenti del Corso di Laurea in Scienze delle
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Il testo dell’intervista non è stato possibile inserirlo nel presente documento perchè in fase di trascrizione.
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comunicazioni dell’Università di Bari2 che hanno svolto un tirocinio all’interno del quale hanno sviluppato una approfondita ricerca delle fonti bibliografiche riguardanti la Puglia fornendo delle sintesi di estremo interesse. Hanno anche svolto il prezioso lavoro di digitalizzazione delle interviste rendendole fruibili attraverso un attento lavoro di editing. Dal corso di Laurea in Disegno Industriale del Politecnico di Bari sono stati coinvolti 3 studenti, 2 dei quali3 hanno partecipato alla fase di elaborazione grafica delle sintesi visive, uno4 sta invece lavorando ad una tesi sperimentale in Progettazione Grafica riguardante lo studio dei repertori iconografici proponendo un approccio metodologico di analisi estremamente innovativo. Sintesi e parole chiave Il lungo lavoro di analisi di tutte le fonti di conoscenza (bibliografia, analisi dei repertori visivi, interviste, ecc.) ha consentito di individuare i concetti chiave che costituiscono le fondamenta del lavoro di sintesi visiva che porterà alla definizione dei segni costitutivi della nuova identità per la Regione Puglia. Tali concetti possono essere così riassunti: Identità storica della Puglia fondata su una ossatura geograficamente tripartita: Capitanata, Terra di Bari, Terra d’Otranto; Il laboratorio politico-amministrativo di due grandi protagonisti della storia pugliese: Federico II di Svevia e Alfonso d’Aragona; “le Puglie” piuttosto che la Puglia; La Puglia crocevia tra Oriente e Occidente; Una regione ponte tra culture; La Madonna del Porto, San Nicola simboli religiosi della multiculturalità; La molteplicità delle identità e la capacità di accoglienza e mescolanza; Propensione levantina dei pugliesi, ovvero creatività dei navigatori e dei commercianti; La Puglia approdo nel Mediterraneo per la sua condizione geografica (estremo Sud dell’Europa e nel contempo estremo nord del Mediterraneo); “Finibus terrae”: la regione più a est dell’Italia; 2
Alessia Cimmarrusti, Anna Lapacciana, Annamaria Lattanti, Gaetana Procino, Claudia Scardino, Alessia Vitella, tirocinanti del corso di laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Bari.
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Daniela Gurrado e Vincenzo Schiraldi, studenti neolaurati del Corso di Laurea in Disegno Industriale del Politecnico di Bari.
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Rita Colacicco laureanda del Corso di Laurea in Disegno Industriale del Politecnico di Bari.
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Puglia “arca di pace” piuttosto che “arco di guerra” (Don Tonino Bello); Identità come capacità di rileggere la tradizione e di inventare il futuro; La “sindrome dell’insularità” ovvero favorire i processi di apertura della Puglia verso nuove sfide. L’Ente Regione: il motore del rinnovamento attraverso la capacità di governare i processi; La democrazia e la partecipazione: gli ingredienti del cambiamento. Questi in sintesi i concetti chiave che guideranno il lavoro di definizione della nuova identità visiva dell’Ente. Analisi di alcuni casi eccellenti Non si può progettare un simbolo senza considerare gli aspetti sociali delle immagini, senza considerare come questo simbolo da progettare può essere visto, letto e interpretato dal pubblico, senza verificare quali elementi si possano estrarre dalla tradizione locale, senza compiere delle ricerche sugli elementi visivi basilari percepibili anche nella riduzione alla misura di cinque millimetri, senza considerare tutte le possibili applicazioni... Bruno Munari Per poter affrontare il lavoro di sintesi visiva è sembrato opportuno studiare dei casi emblematici nei quali sono state risolte le medesime problematiche che si incontrano oggi per la nuova identità visiva della Puglia. Fino agli anni Settanta, in realtà, non ci sono in Italia esempi rilevanti di grafica per la committenza pubblica (uno dei pochi è l’immagine della metropolitana milanese, progettata da Bob Noorda nel 1964, e del relativo sistema di segnaletica). Dal 1968 in poi c’è un proliferare, in tutto il territorio, di iniziative politiche sociali e culturali, per le quali le immagini assumono un’importanza sempre maggiore. Si sviluppano linguaggi nuovi, spesso esplicitamente contrapposti a quelli di matrice razionalista cha hanno reso importante la grafica milanese (legata all’industria del Nord e al prestigio crescente del product design), caratterizzati, più che da stili ben definiti, dall’eclettismo più libero. Significativa, in un simile contesto, è l’esperienza di Albe Steiner con gli studenti dell’Isia (l’Istituto Statale Industrie Artistiche): nel corso dell’anno accademico 1969’70, si progetta l’immagine coordinata per il comune di Urbino. Tra gli allievi partecipi di quella esperienza vi era Massimo Dolcini protagonista di quella che sarà poi definita
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come “grafica di pubblica utilità”. A partire dalla prima metà degli anni Settanta avrebbe collaborato attivamente con il Comune di Pesaro occupandosi, tra l’altro, del ridisegno dell’emblema comunale come di numerosissime campagne sociali e di pubblico interesse. Ma di quegli anni è anche l’inizio di un’altra importante esperienza, quella del Comune di Modena, che ha, in un qualche modo, anticipato quanto poi sarebbe stato definito in termini di legge. Quando infatti nel 1972 viene sancito il decentramento amministrativo molte istituzioni territoriali comprendono in effetti l’esigenza del comunicare ai cittadini e di renderli partecipi. Tra questi, come si diceva, il Comune di Modena, rappresenta un caso davvero particolare, avendo istituito in quegli anni un ufficio grafico interno all’amministrazione che nel tempo si sarebbe trasformato in un vero e proprio ufficio di comunicazione. In trent’anni di attività l’ufficio avrebbe promosso campagne di sensibilizzazione sui temi dell’attualità e una costante comunicazione istituzionale e sociale. Contemporaneo di questo progetto è quello per il marchio della Regione Lombardia, che conferma ancora una volta Milano come capitale italiana (e in quegli anni non solo italiana) del design di qualità. Quando nel giugno del 1970 viene costituita la Regione Lombardia come ente pubblico, si stabilisce al contempo di dotare l’istituzione di “un proprio gonfalone e uno stemma stabilito con legge regionale”. Il gruppo di lavoro coordinato tra gli altri da Bruno Munari, è costituito da tre dei designer più conosciuti ed apprezzati di allora, Bob Noorda, Roberto Sambonet e Pino Tovaglia. Il simbolo che verrà poi in effetti adottato prende spunto dalla rosa camuna riportata in alcuni graffiti rupestri della Val Camonica, riportata in un quadrato di colore verde, a richiamare alla memoria l’operosità contadina della regione. In breve tempo, il numero dei progettisti in grado di vantare progetti nell’ambito della pubblica utilità cresce sensibilmente un po’ su tutto il territorio nazionale. Tra questi si possono ricordare, per continuità come anche per il contributo disciplinare, Franco Balan ad Aosta; Gianfranco Torri e l’Extrastudio a Torino; Roberto Pieracini, Giovanni Anceschi e Gianni Sassi a Milano; il gmp 0 Invenzione Tapiro a Venezia (tra l’altro autore di molti progetti grafici per la Biennale e il Carnevale di Venezia); Andrea Rauch e Stefano Rovai (studio Graphiti) a Firenze; Giovanni Lussu a Roma; Mario Cresci a Matera; Segno Associati a Salerno. Va tuttavia precisato che molte di queste esperienze si sono concentrate più che su progetti di immagine coordinata (quindi di grafica sistematica) su una serie, anche continuativa, di campagne a sfondo sociale o per eventi culturali. Sporadiche sono le esperienze di progettazione sistematica di interesse pubblico e tra queste è opportuno ricordare, oltre quelle citate: il sistema di identità
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e segnaletica per l’Aziende dei Trasporti di Venezia di Giulio Cittato (1977), il sistema grafico di Giovanni Anceschi per i trasporti nella Provincia di Bolzano (1975), o altri casi di aziende municipalizzate o parchi naturalistici. L’identità dei luoghi inizia, con gli anni ‘90, a divenire problema progettuale; non è più identificabile solo con le architetture, le opere d’arte o un certo paesaggio, ma necessita di nuovi messaggi, nuove icone che meglio rappresentino l’evoluzione sociale, economica e culturale della città. In questo senso sono significativi alcuni casi recenti, che fanno tesoro delle esperienze precedenti che hanno, a loro volta, contribuito in modo fondamentale alla costruzione della letteratura della disciplina. Il caso del restyling dello stemma di Palermo, consente poi di introdurre un ulteriore elemento di analisi e di riflessione. Il risultato ha permesso anche di soddisfare l’esigenza, non di cambiare, ma di rinnovare l’immagine nel rispetto delle vera tradizione, rendendola coerente e unitaria. Gli errori che il progetto aveva messo in evidenza nel vecchio simbolo erano tutti legati all’araldica e alla sua storia, che è anche parte della storia del nostro paese e delle sue immagini, tanto che ancora oggi esiste un Ufficio araldico presso la Presidenza del Consiglio dei ministri cui è demandata l’approvazione dei nuovi stemmi istituzionali. Lo stesso simbolo attuale della Regione Puglia è stato disegnato da questo ufficio e adottato con apposita legge regionale nel 1988. Ma un buono stemma oggi, che i media si sono moltiplicati, deve necessariamente essere riprodotto fedelmente e coerentemente, gli deve essere sempre garantita la leggibilità. In questo senso il contributo del progetto di Palermo è importante: oltre alla definizione dei termini stilistici del nuovo stemma, è stato realizzato un piccolo manuale di applicazione che ne definisce oltre al disegno, i colori, i caratteri, le proporzioni. Con una logica simile è stato disegnato il nuovo stemma, che poi è il vero e proprio marchio, della Provincia di Milano. Nel 1992 l’istituzione della Provincia di Lodi, pone l’esigenza di una revisione dello stemma, in uso dal 1954. Le ricerche si sono concentrate sul simbolo del sole-luna ritrovato nell’Abbazia di Mirasole, antica sede dell’ordine degli Umiliati, assunto come metafora dell’operosità lombarda, sovrastato dalla croce rossa in campo bianco (simbolo della città di Milano) e circondato da un blu intenso, il colore delle istituzioni europee. Il tutto sormontato dalla coroncina di alloro e agrifoglio, tipica delle provincie (così come le corone con torri o merli appartengono, sempre secondo la tradizione araldica, a città o comuni). Il lavoro grafico, opera di Giancarlo Iliprandi, ha puntato su una stilizzazione tale da avvicinare il simbolo alla sensibilità moderna che ne garantisce anche la facile e corretta
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riproducibilità. Più ampi sono invece i casi dei progetti di identità visiva per i Comuni di Roma e Milano, seguiti entrambi da una delle grandi agenzie di comunicazione in Italia, Area Strategic Design, che si muove tra design della comunicazione e marketing. In particolare il progetto per Milano, che ha già avuto in questi anni una applicazione convincente, muove su tre direttrici: il recupero dello stemma della città, con un intervento mirato ad assicurare sempre la massima leggibiità; l’adozione di un logotipo “Milano”, con un carattere progettato ad hoc (il’ “Milano Città” disegnato da Antonio Pace); l’utilizzo della croce come elemento sul quale si costruisce tutto il sistema di identità visiva. Il disegno del blasone si è basato su una versione originale che risale all’undicesimo secolo ma modificato secondo criteri moderni, collegando così passato e presente. Le linee rosse della croce di San Giorgio possono essere usate sia come parte integrante del marchio, sia come divisori di sezione di una pagina, di un manifesto o di altri oggetti. Infine il carattere tipografico istituzionale, elemento di unificazione di tutta la comunicazione, è presentato in un apposito manuale con la descrizione completa del programma, con esempi di stampati per carta intestata, opuscoli, biglietti da visita. Ma lo studio complessivo dell’immagine ha compreso anche la segnaletica per le strade, i comunicati stampa, le pagine web, nonché i documenti delle istituzioni che fanno capo al Comune. Si tratta di un vero e proprio progetto di pubblica utilità, quindi, nel senso che facilita la comunicazione dell’istituzione, la rende sempre riconoscibile e, attraverso la coerenza visiva, restituisce ai cittadini l’immagine di una struttura moderna ed efficiente. Esperienze più recenti sono quelle della Regione Umbria dove la nuova identità è stata affidata a un simbolo che richiama la Festa dei Ceri di Gubbio, sottolineando il senso d’appartenenza alla storia collettiva e popolare di tutta la comunità umbra. Invece nel caso della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, la cui nuova identità è stata adottata nel 2006, è stato realizzato di un vero è proprio redesign del vecchio emblema dove il nuovo simbolo concorre con altri elementi visivi progettati ad hoc a costituire un vero e proprio sistema di immagine coordinata. Questi ultimi esempi recenti possono aiutare a comprendere la necessità per le istituzioni pubbliche di dotarsi di sistemi progettati che ne governino la comunicazione e la direzione che sarebbe opportuno prendere. Ma lasciano anche intuire, se confrontati con le situazioni di altri paesi europei (come la Francia o la Germania), quanto ancora la disciplina del design sia spesso estranea a chi ha potere decisionale. Basta dare uno sguardo d’insieme ai simboli delle 20 regioni italiane per rendersene conto.
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Il sistema d’identità visiva5
Con le conoscenze acquisite si procederà alla fase di elaborazione vera e propria della nuova identità visiva e alla stesura del Manuale di immagine coordinata. L’identità visiva è determinata dall’articolazione di una serie elementi coordinati tra loro che costituiscono il “sistema”: Il Manuale d’uso e le direttive per la corretta applicazione dell’identità visiva Il manuale d’uso costituisce il riferimento normativo per la corretta applicazione dell’identità visiva. Esso sarà progettato per fornire indicazioni precise sulla maggior parte delle applicazioni nelle quali gli elementi dell’identità visiva saranno utilizzati. Sarà prodotto sia in versione stampata che in versione digitale che sarà possibile scaricare anche attraverso il sito della Regione. Laddove le applicazioni prevedono un numero di varianti elevate (ad esempio la modulistica, le carte intestate, le targhe dei singoli uffici, ecc), così come già evidenziato, si avrà cura di fornire dei layout e dei template gestibili all’interno dei più diffusi software (pacchetti Office) per permettere agli operatori di generare autonomamente il modello lasciandogli la prerogativa di intervenire liberamente sui contenuti ma non sull’impostazione grafica. Come arrivare alla stesura del Manuale Una volta raccolte le indicazioni dalle varie Direzioni si procederà con la progettazione grafica che verrà poi rappresentata nel volume. Ultimo step: approvazione con delibera del manuale. Contenuti del Manuale di immagine coordinata Marchio Il marchio è l’elemento più importante che definisce l’identità, può essere rafforzato, nella sua funzione generatrice di distinzione e riconoscibilità, anche da altri elementi non meno importanti, quali l’individuazione del colore istituzionale, o della gamma di colori, l’impostazione tipografica del logotipo e 5
Testo è ripreso dalla Relazione progettuale
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le sue relazioni spaziali con il marchio, eventuali fregi. Typeface istituzionale Se da un punto di vista grafico, lo stile di comunicazione di un istituzione è la combinazione di forme, colori e tipografia, l’adozione di un carattere tipografico personalizzato risulta fondamentale per animare e rafforzare lo stile. L’utilizzo in tutti gli artefatti comunicativi (bollettini, modulistica, brochure, pubblicità, segnaletica, ...) di una font specificatamente progettata potrebbe conferire a tutto il sistema un fortissimo grado di distinzione e personalizzazione. Come spunto progettuale per il disegno di una font personalizzata, si valuterà di approfondire lo studio di uno stile di scrittura sviluppatosi intorno all’XI secolo proprio in Puglia (Bari e Troia) che tra gli esperti di paleografia medioevale è conosciuto come variante Bari-type del più diffuso stile beneventano e di cui ci rimangono degli splendidi esempi negli Exultet conservati nei musei diocesani di Bari e Troia. Comunicazione istituzionale La comunicazione istituzionale stampata rappresenta un mezzo privilegiato attraverso cui l’Ente comunica. Che si tratti di bollettini ufficiali, di brochure informative, di manifesti per comunicare attività istituzionali, di pieghevoli promozionali, occorrerà definire delle linee guida omogenee per strutturare le informazioni, sia dal punto di vista dell’organizzazione dei contenuti che dal punto di vista della loro veste grafica. Vista la molteplicità dei materiali stampati si procederà alla progettazione dei layout di quelli che, per contenuti e caratteristiche, possano rappresentare dei modelli. Particolare cura sarà dedicata anche a quelle pubblicazioni dedicate alla diffusione di informazioni complesse (dati quantitativi analitici, pubblicazioni riguardanti i POR, dati statistici, ecc.) per le quali saranno predisposti dei modelli che facciano largo impiego di quadri sinottici, diagrammi di flusso e quadranti, in linea con i più attuali orientamenti in fatto di information design. Modulistica e strumenti di Office La modulistica prodotta quotidianamente dall’Ente rappresenta forse la forma di comunicazione preponderante, almeno dal punto di vista quantitativo. La Regione in molti casi entra in contatto con cittadini, operatori, aziende, enti ed istituzioni, esclusivamente attraverso la corrispondenza. Attraverso una lettera intestata ben progettata, un modulo ben strutturato, la cura del tono con cui sono redatti i testi, possono passare non solo i contenuti in modo più efficace, ma anche quei valori di chiarezza comunicativa, di efficenza organizzativa che possono consolidare una percezione positiva dell’Ente. A questo si deve
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aggiungere anche la ricaduta positiva sulle stesse strutture interne alla Regione che potrebbero, opportunamente coinvolte, sviluppare un livello di consapevolezza maggiore nei processi di comunicazione. Per accompagnare questo processo, piuttosto che dettare direttive rigide e prescrittive, si preferirà sviluppare un sistema, attraverso la programmazione di software opensource dedicati alla produzione di strumenti Office, che metta in grado il singolo operatore di generare autonomamente il modello lasciandogli la prerogativa di intervenire liberamente sui contenuti ma non sull’impostazione grafica. Questo processo consentirà di salvaguardare nel tempo l’uniformità visiva delle comunicazioni e di evitare, per quanto possibile, deformazioni e distorsioni. Design ambientale e segnaletica Anche gli spazi delle sedi istituzionali dovranno essere interessati da un sistema progettato di segnaletica per orientare ma anche per trasmettere quei valori di efficienza e organizzazione propri anche di altre applicazioni. L’ente Regione è sempre più impegnato, sia a livello nazionale che internazionale, in attività di promozione dei valori locali e di informazione sulle sue politiche di sviluppo, per cui occorrerà predisporre una serie di strumenti comunicativi riferiti a questo tipo di attività (fiere, convegni, seminari). In particolare si tratta di mettere a punto un sistema che consenta all’ente di presentarsi a questi appuntamenti con dei dispositivi di facile realizzazione che consentano di razionalizzare le risorse economiche, ma che siano in grado di restituire l’immagine complessiva ed unitaria dell’ente in tutte le sue articolazioni. Si tratta cioè di progettare modelli per la realizzazione di stand tridimensionali con un sufficiente grado di flessibilità e adattamento ai vari contesti, di predisporre soluzioni-tipo per le attività convegnistiche (manifesti, inviti, fondali, badget, cartelle stampa, pieghevoli, templates per le presentazioni multimediali, ecc.). Applicazione dell’identità visiva su edifici, mezzi di trasporto e altri supporti Per essere presenti bisogna essere visibili. L’identità visiva è come un faro all’interno di un’organizzazione come l’ente regionale. Di conseguenza anche l’applicazione del marchio su automezzi, pareti, gadget, targhe, bandiere, medaglie, oggettistica ecc. richiede un’attenzione particolare. Comunicare l’identità significa molto di più che attaccare un’adesivo. Bisogna considerare l’insieme dei mezzi disponibili e interpretare la comunicazione in funzione del supporto, non dimenticando mai di valutare l’opportunità dell’iniziativa in relazione ai costi necessari per realizzarla. Internet
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Come avviene per la produzione di stampati, anche su internet si assiste al proliferare di siti, tutti riconducibili all’istituzione regionale, ma con differenti impostazioni visive sia a livello di interfaccia che di struttura dei contenuti. Il risultato è quello di offuscare la visibilità dell’Ente in favore della struttura o settore emittente. L’applicazione dell’identità visiva unitaria in questo scenario può senz’altro favorire un riordino della presenza su internet riconducendo l’offerta informativa in rete in un quadro di maggiore organicità ed efficacia da parte dell’Ente. Questo non significa penalizzare in termini di visibilità le singole strutture ma anzi può rafforzare proprio il senso di appartenenza all’interno di un grande “gioco di squadra” con indubbie ricadute positive in termini di fruizione degli stessi contenuti da parte degli utenti esterni. Discorso a parte andrebbe fatto riguardo all’offerta di servizi reali in rete, laddove il flusso delle informazioni è unidirezionale e non sono abbastanza implementate quelle funzioni che consentono una reale offerta di servizi all’utenza (accesso a banche dati dell’amministrazione, possibilità di effettuare pagamenti on line, rilascio certificati, ecc). Ciò significa rendere il sito web interattivo, rendendo disponibili le conoscenze dell’organizzazione e facendo quindi interagire il sito con l’utenza. Per ottenere questa sinergia, è necessario integrare comunicazione, strategia e banche dati interne all’amministrazione. Non è un discorso solo di natura tecnologica, ma è qualcosa che presuppone un cambio radicale di prospettiva, dove il cittadino/utente non è più solo il destinatario del processo comunicativo ma assume un ruolo centrale e attivo nell’azione amministrativa.
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Regione Lombardia Progetto di identità visiva Gruppo di progettazione: Bruno Munari, Bob Noorda, Roberto Sambonet, Pino Tovaglia 1977 L’identità visiva della Regione Puglia
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DODICI CAPOVERSI PER IL SIMBOLO DELLA REGIONE DI FRANCO FORTINI. Testo di Franco Fortini a cui, nel 1977 il gruppo di progettazione del simbolo della Regione Lombardia (Bruno Munari, Bob Noorda, Roberto Sambonet, Pino Tovaglia), ha ritenuto di chiedere la presentazione del lavoro svolto. Tratto da “Ricerca e progettazione di un simbolo”, edizioni Zanichelli 1977
1. LA REGIONE È IDEA MODERNA. La Regione Lombardia, di cui si tiene qui discorso, è idea moderna. La Lombardia della storia è stata (e quanto!) realtà geografica, politica, culturale; ma non è quella che abbiamo intorno a noi e di cui discutiamo l’emblema. Per un motivo tanto semplice da passare facilmente inavvertito: che questa, la presente Lombardia, è regione che si è costituita in questi anni per entro una nazione italiana unitaria e non le si è addizionata. Le figurazioni e gli emblemi successivi alla Unità avevano potuto fare riferimento alle diverse realtà regionali del passato. Noi possiamo invece soltanto costatare che nel settimo decennio del nostro secolo dire Regione Lombardia è dire qualcosa che con le immagini del passato non è più commensurabile. 2. RINUNCIA AL MEDIOEVO. Eppure non è stato facile rinunciare alle figure del passato, dell’età del Comune, di quella del Ducato e del Risorgimento. Le immagini che si associano a quei secoli Ariberto e il Carroccio di Legnano, i Visconti e gli Sforza, Leonardo e Gaffurio, Stradivari e Volta, Dei delitti e delle pene e la Storia della colonna infame e le Notizie storiche sulla Lombardia sono certo, come si dice, indimenticabili; ma proprio per questo debbono essere, se non dimenticate, messe almeno fra parentesi. Come d’altronde hanno fatto i migliori intelletti lombardi degli scorsi cento anni, nei quali il momento delle novità ha sempre prevalso, nel successo come nell’insuccesso, su quello della conservazione. Una nostalgica pietà del passato aveva già avvolto quelle immagini. L’età romana e gotica dei longobardi, coi suoi Carrocci e Crociati e Biscioni, era già stata durevole repertorio di romanzi e romanze, da Berchet a Carducci; l’età rinascimentale, con la sigla di Leonardo, era stata già largamente restaurata dall’età umbertina e giolittiana. 3. DOVE MILANO È LA NOSTRA ERA. E poi se la Regione, almeno dopo il 1945, si riassume nella sua concentrazione industriale, commerciale e bancaria ma, soprattutto, nella proiezione espansiva verso e oltre l’Europa,
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in parallelo con questa pluralità di mete i lombardi meglio avvertono oggi la pluralità e l’ampliezza delle proprie fonti storiche e delle proprie componenti, ben al di là della cerchia di mura spagnole e di tangenziali milanesi: quanto segnate a lungo dalle armi gonzaghesche e venete eppure lombarde sono Mantova e Bergamo; lombarde sono le ceramiche preistoriche di Golasecca, le manifatture etrusco-galliche e quelle di Brescia romana, i baluardi longobardi di Castelseprio. La Lombardia avviata al terzo millenio può guardare ormai, alle proprie spalle, ben oltre il primo della nostra era. O, meno enfaticamente, la riflessione sull’emblema regionale ha condotto ad allargare i termini storici del discorso. Era necessario cercare e trovare qualcosa che partisse da un passato più remoto di quello a noi familiare se voleva avere la forza di mantenersi attivo nel futuro. 4. IL «NODO» DI LEONARDO. Qui ci ha servito la lezione di Leonardo. Egli procedè spesso per emblemi la ruota, l’onda, l’ala e bene si avverte il valore di astrazione concettuale, di nozione mentale, che egli conferisce a quelle sue ossessioni visive. La sua educazione lo lega ancora, come si può leggere nelle sue favole, all’universo dei simboli e delle allegorie; ma al di là di quelle egli decifra rapporti nitidamente intellettuali, contraddizioni dinamiche racchiuse nelle cose e nella loro intelligenza. Abbiamo considerato soprattutto il nesso leonardesco di «nodo» e di «snodo», di «inviluppo» e di «sviluppo». In quanti suoi disegni e progetti esso ritorna, tensione fra centro e fuga dal centro, fra perno e articolazione. Non il grafismo leonardesco abbiamo potuto considerare, perfetto ma datato: bensì la sua capacità di creare segni autosufficienti e di significati multipli, come quelli di nodo snodo. 5. PIÙ SEGNO CHE SIMBOLO. Anche per questo si è ritenuto che l’emblema della Regione dovesse di tanto esaltare il proprio carattere di segno di quanto, al contrario, fosse consigliabile deprimere o almeno ridurre quello di simbolo. Insomma, non si voleva qualcosa che «alludesse» alla Lombardia, che ne fosse la metafora o l’allegoria; si
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voleva un segno semplice e chiaro che significasse anzitutto se stesso e che venisse poi associato all’idea di Regione Lombardia. Come il segno «+» che significa «accrescimento» solo per convenzione; come il segno «ecc.» che solo per convenzione indica una classe non conclusa di oggetti. Si è cercato un segno che si avvicinasse quanto più è possibile alla astrattezza del linguaggio dei segnali stradali e delle bandiere di segnalazione. (D’altronde, gli stessi significati simbolici dell’araldica e delle bandiere nazionali si sono venuti perdendo coi tempi: un dato grafema sta per il nome di una data entità nazionale, ecco tutto. E non a caso uno dei più notevoli punti di forza della grafica contemporanea nel conferire una significazione additiva alla nuda forma grafica il «logotipo» di una parola. In conclusione, ci si è orientati verso un segno che (a) avesse un grado elevato di astrazione e di semplicità, fosse memorizzabile come un sigillo, e facile a essere riprodotto; e che (b) disponesse di un’area di connotazione, intrinseca alla propria forma, molto ricca, capace di molte valenze, di sequenze associative; fra le quali sarebbero state benvenute quelle che si fossero specificamente rapportate alla Regione Lombardia. 6. LA CROCE CAMUNA. I popoli che nell’Età del bronzo abitarono la Val Camonica hanno lasciato migliaia di figure incise su pareti di roccia e massi erratici. Vi è fra quelli un segno caratteristico e complesso, noto come «croce» o «rosa» dei Camuni, il popolo di stirpe celtica che ha dato nome alla valle. Fu forse un segno di orientamento che comunicava ai cacciatori la direzione del transito delle mandrie; o lo schema di uno strumento musicale, di un sistro. Nove segni circolari, in sequenza di tre, occupano in quelle figurazioni le anse dei quattro lobi o petali o bracci. 7. IL LUOGO DELL’IMPEGNO. Questo il segno che è stato scelto come punto di partenza per l’emblema della Regione. Si è rinunciato rapidamente alla vivacità rappresentata dai nove punti o piccoli circoli: l’effetto di varietà era gradevole ma si sarebbe presto usurato. L’emblema è destinato a
durare e, se non può essere legato al tempo che lo elegge, deve andare oltre quel tempo. Si è puntato, ridisegnando i quattro elementi sferici della croce o rosa, ad uno specifico punto di tensione e di equilibrio, fra i tanti possibili delle forze implicite nei volumi e nelle curve. Nel rapporto fra elementi divergenti e centro, questo non doveva prevalere su quelli. È il «nodo», di cui si era parlato a proposito di Leonardo: il luogo del dare e dell’avere, dell’offrire e del ricevere, del centro a cui si viene a da cui si va, dell’«impegno». 8. L’INCLINAZIONE E IL MOVIMENTO. La verticalità l’avrebbe immobilizzato. Ma il segno della Regione Lombardia, che chiameremo ormai la croce quadriloba, è inclinato verso nord est, come se i quattro lobi puntassero da Voghera a Bormio e da Ostiglia a Luino, agli estremi delle massime misure regionali. L’inclinazione sottrae l’emblema ad un equilibrio statico, gli imprime un moto in senso orario: e ruota e turbìna, è volano, manubrio, volante. Ma punta anche verso l’alto e vola, tanto forte è la proiezione che in qualsiasi croce vede uno schema corporeo, col capo in alto. 9. ATTUALITÁ. Per la sua antichità, per essere opera di un popolo che ad altri popoli scesi verso la linea delle risorgive o saliti dalla Tuscia a varcare il Po, si unì forse tremila anni fa a costruire il fondo etnico dei lombardi, il segno della pietra di Val Camonica ha dunque un suo severo significato. Gli uomini della cultura d’oggi lo si è già detto, sentono meno remoti i tempi che solo cinquant’anni fa erano detti indefinita preistoria.
troppo ovvie perché sia necessario chiarirle. Se una continuità atmosferica c’é, nella pittura regionale, dal Foppa al Morlotti, essa ha riflettuto proprio la densità e la ricchezza delle acque e delle erbe. Il momento georgico dei piani lombardi, durato da Virgilio al Parini e oltre, è esaltato ampiamente dagli indici della produzione latteo casearia, da quelli delle culture foraggere e degli allevamenti. E allora si intenderà perché la nettezza del segno proposto abbia anche voluto il gioco ottico dell’inversione, del negativo: i quattro lobi diventano verdi come quelli di un’erba di buon augurio. 12. LE APPLICAZIONI. Le applicazioni e le variazioni in misure, materiali e funzioni non possono essere qui considerate. Stendardi e manifesti, sigilli e intestazioni avranno la possibilità di svilupparsi a partire da un unico segno grafico, come si era voluto, immediato, semplice, esatto, inconfondibile. Chiunque in Italia, lo vedrà, dovrà dire «Lombardia» e sarà come se la mente eleggesse uno fra gli aggettivi che la convenzione, ma anche la verità, ha attribuiti al carattere della regione. Chiunque, in Italia e fuori, lo vedrà, saprà subito a quale ordine e livello della cultura contemporanea riferirlo e quali le intenzioni che lo hanno scelto.
10. ALTRE LETTURE. E l’emblema è anche la pianta d’un castello feudale. È il disegno di un rosone. È la sezione di un pilastro gotico. Ma la sua natura geometrica riga e compasso, gli scolari lombardi potranno costruirlo con facilità lo avvicina ai tempi della meccanica, del disegno tecnico e del design: è anche la sezione di un estruso o di un profilato. 11. IL COLORE. Il colore dell’emblema è il bianco su verde. Nell’area lombarda le connotazioni di quei due colori sono
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Regione Umbria Progetto di identitĂ visiva bcpt associati, Perugia art direction Marco Tortoioli Ricci
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A destra, i Ceri di Gubbio (S.Ubaldo, S.Giorgio, S.Antonio) sulla base dei quali è stato disegnato il simbolo distintivo della nostra regione.
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Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia Progetto di identità visiva Tassinari/Vetta L’identità visiva della Regione Puglia
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Il caso Puglia
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Le ragioni del cambiamento
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➊ L’attuale simbolo della Regione Puglia ha vent’anni. Adottato nel 1988 mostra tutta la sua età, sia per la mutata sensibilità estetica, ma sopratutto per gli aspetti legati alla sua riproducibilità. Molte Regioni italiane (Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Umbria, Emilia Romagna, Basilicata, Veneto, Campania...) hanno già provveduto da tempo ad adeguare i rispettivi simboli alle nuove esigenze comunicative. ➋ Leggibilità e riproducibilità. Oggi, con il proliferare dei media (internet, telefonia cellulare, monitor dei computer, dispositivi digitali di varia natura, ecc.) uno stemma dovrebbe mantenere uno standard minimo di leggibilità. Il disegno dell’ulivo al centro dello stemma mal si presta ad essere riprodotto alle dimensioni necessariamente ridotte dei nuovi media, con il risultato di restituire un segno confuso e illegibile. ➌ Rappresentatività. Dal punto di vista della sua capacità di rappresentare l’attuale realtà amministrativa regionale occorrerebbe qualche aggiustamento. I cinque piccoli cerchi verdi su sfondo giallo allineati orizzontalmente nella parte superiore dello stemma, quasi certamente un richiamo visivo alle cinque province pugliesi, dovrebbero diventare sei per includere anche la nascente sesta provincia. ➍ Incoerenza araldica. La struttura araldica risulta incongruente in relazione alla presenza della corona. Infatti, secondo quanto prescritto dal codice araldico, le Regioni non ne possono disporre legalmente, essendo sorte dopo l’emanazione dei Regii Decreti n. 651 e 652 del 7 giugno 1943 che disciplinavano la concessione delle corone da apporre sugli stemmi. D’altra parte, come si evince dal raffronto con gli stemmi e i simboli delle altre regioni italiane, quello della Puglia è l’unico che riporta una corona sullo stemma. ➎ Rappresentare i nuovi valori nel rispetto della tradizione. Altre considerazioni possono essere fatte sull’impiego dei colori, sulle metafore visive dell’ulivo e dell’ottagono (presumibile richiamo a Castel del Monte) e sulla loro capacità di rappresentare l’intera Puglia, senza avventurarsi in tesi opinabili, sono state evidenziate quelle che hanno un indubbia oggettività. Tuttavia è auspicabile che a partire dall’analisi dell’attuale simbolo, d’intesa con i responsabili istituzionali dell’Ente, si individui un percorso progettuale che porti o a un redesign dell’attuale stemma o a una soluzione ex-novo attraverso la quale, veicolare nuovi valori, suggerire nuove tensioni ideali e in definitiva rappresentare meglio la Puglia di oggi.
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Il simbolo attuale ...e alcune delle varianti quotidiane.
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Marchi e loghi di agenzie, progetti ed enti regionali. Tante identitĂ , un solo Ente.
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Le tre Puglie
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Daunia Capitanata Tavoliere-Gargano
Peucezia Terra di Bari Puglia centrale
Messapia Terra d’Otranto Salento
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Repertori visivi
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Pitture preistoriche Grotta dei Cervi, Porto Badisco
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Pitture preistoriche Grotta dei Cervi, Porto Badisco
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Pitture preistoriche Grotta dei Cervi, Porto Badisco
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Vasi dauni e peuceti (IV sec. a.C.)
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Repertorio di decorazioni geometriche su vasi dauni e peuceti (IV sec. a.C.)
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Vaso dauno con decorazione geometrica (IV sec. a.C.)
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L’ottagono di Castel del Monte
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Castel del Monte, particolare del pavimento
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Villa Martini, (1887) Lecce
Castello di Barletta
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Il romanico pugliese. Il rosone della cattedrale di Troia (FG)
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La variante beneventana della scrittura usata negli Exultet conservati a Bari e Troia, sviluppatasi nell’XI secolo in Puglia e per questo denominata dai paleografi “Bari-type”
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Il mosaico della cattedrale di Otranto
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Santa Croce a Lecce. Il barocco leccese 89
I trulli di Alberobello L’identità visiva della Regione Puglia
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I pugliesi: levantini, navigatori e commercianti
Il marchio della Fiera del Levante
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Ex voto
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Polignano a Mare
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Oltre 800 chilometri di costa. 95
Piana degli ulivi. Monopoli
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Gli ulivi secolari nelle campagne di Savelletri
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Alta Murgia
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I pugliesi
Quale identità
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per la Puglia?
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Repertori e interviste
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Sintesi di alcuni testi consultati Antonio Motta, Cento Puglie: testimonianze per un ritratto: antologia di testi, Foggia, Grenzi Editore, 2002 “ (…) Da quel punto comincia l’Apulia a mostrarmi le note montagne riarse dallo scirocco (…). Di qui percorriamo di volata in vettura ventiquattro miglia, con l’intenzione di pernottare in una cittaduzza, il cui nome non può essere messo in versi, ma che è facile riconoscere da questi segni: l’acqua comunissima cosa, vi si vende, ma il pane vi si fa più bello che in ogni altro paese; tanto che il passeggero accorto se ne suol portare sulle spalle per il resto del viaggio: ché a Canosa, città fondata anticamente dall’eroico Diomede, il pane è duro come la pietra, e l’acqua è scarsa del pari. (…)” (p. 245, brano di Orazio tratto da Le Satire, 1, V, Torino, Utet, 1969) “ (…) La nascita di un’architettura significa il principio di una chiarezza spirituale e d’una volontà vittoriosa. Perché nell’era cristiana non dovrebbe essere stata per prima questa terra, questo ponte dei crociati, a immaginare saldamente, nella pietra murata e ornata, un’unità tra Occidente e Oriente? (…) Perché questa regione pietrosa non dovrebbe essere una madre d’architettura? È venuta su dal tormento della pietra: dalla pietra, vittoria della forma sopra un immemorabile caos. Prolifica d’ogni sorta di pietre; dura, macerata, terra della sete (…)” (p. 253, brano di Giuseppe Ungaretti tratto da Il deserto e dopo 1931-1946, Milano, Mondatori, 1961). *** M. Loconsole, La Puglia e l’Oriente – Storia di una relazione inclusiva Bari, Levante editori, 2006 (pp. 8 a 12) Prefazione di Franco Cardini: E ora, nelle pagine di Loconsole, ritrovo — perfettamente spiegate — le ragioni essenziali che presiedettero, allora, a quell’intuizione e a quell’iniziativa. Ci rileggo, con intimo consenso, il perché la Puglia sta esattamente al centro d’un cammino che viene da lontano, magari dalla Danimarca dalla quale uscirono gli antenati vichinghi di quelle simpatiche e
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temibili canaglie normanne che ne divennero poi i signori; e che va lontano, verso Bisanzio e Gerusalemme. Una terra antichissima, profondamente e misteriosamente legata alla Grecia dei miti omerici che del resto è paesisticamente e geologicamente ad essa tanto vicina. Una terra, per esser italica, poco “romana”, questo va detto: ma in cambio greca, e bizantina, e perfino microasiatica (con la sua “Cappadocia”...), e tanto illirico-balcanica, con una spruzzatina di slavo in più adesso che i russi hanno finalmente ritrovato, dopo i lunghi anni della tirannia, la strada per il “loro” patrono Nicola; e una terra con tanto d’ebraico e qualcosa di musulmano (quanto meno d’arabo e di nordafricano: ché i turchi, per contro, ci ricordano un po’ troppo da vicino ancora Otranto e i tempi delle scorrerie...). Questo libro non è una “storia” di Puglia, né una guida a un viaggio in Puglia: ma potrebb’essere entrambe queste cose. In me, della “mia” Puglia, quella che amo di più, leggendo questo libro sono riemersi anzitutto e soprattutto i colori. Il bianco delle case – o quello della calce e o della “pietra di Puglia”, così simile alla “pietra di Giudea” in cui è completamente costruita Gerusalemme —, il rosso dei pomodori a seccare, il verde-oro dell’olio d’oliva che ha la stessa tonalità della splendida corazza della sacra, nobilissima cetonia, il “moscon d’oro” come lo chiamiamo in Toscana, il misterioso scarabeo egizio. Mi piacerebbe fermarmi qui, in questa frescura da masseria d’estate, con quell’odore di terra bagnata che il sole assale immediatamente per asciugare facendone sprigionare i profumi. Mura scialbate, una larga fetta di pane d’Altamura morbido e croccante, un filo sottile d’olio, un boccale di Grottaglie pieno di quel Primitivo che lascia una striscia viola nei bicchieri, un piatto d’uva e di fichi. Luce abbagliante fuori, ombra fresca e silenzio dentro. Rumori lontani, lo sciacquar delle onde, lo stormir degli olivi. Omero e la Bibbia. Tutto quello che serve per lodare e ringraziare Iddio. La natura certo: ma anche il lavoro dell’uomo, i suoi segni. Inquietanti e allarmanti, talvolta: le fabbriche, la sovrapproduzione, la speculazione edilizia, l’inquinamento La natura che sembrava fino a ieri talvolta nemica e matrigna perché era dura e non si lasciava assoggettare, oggi langue e noi la stiamo soffocando. C’è anche questo, qui dentro. Regione di margine, di confine, di cerniera. Péiano di scorrimento. Le Murge sentono fortemente la vicinanza del Molise e della Campania, la forte e dolcissima Campania dell’interio con i suoi bei ricordi italici e longobardi. Nel Tavoliere, dovete staccarvi dal mare — il mare pugliese è un universo a parte: ma la bellezza delle coste garganiche e salentine, lo splendore delle Tremiti sono cose troppo note ... - e affrontare l’interno per trovare colori, i sapori e gli aromi
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d’un’ampia area dove Puglia e Basilicata s’incontrano e si fondono. Qui, la memoria dei luoghi dove “Cristo si è fermato a Eboli” vi assale e vi conquista già da molto prima della pietrosa Matera. Andar per cattedrali, da Trani a Ruvo a Troia, significa passar di meraviglia in meraviglia, di mistero in mistero. Un’ascesa al Monte Gargano è un’esperienza spirituale, un iter mentis in Deum. Salire verso Castel del Monte significa incontrare un luogo dove mito e storia davvero si fondono. E un’avventura nel Salento (ancora una volta, a parte i vini), fino a Santa Maria di Leuca, è davvero un tuffo nel Mediterraneo arcaico, quello dei greci e dei saraceni. Ma ora che le pagine di Michele mi ci hanno fatto pensare, mi sorprendo a domandarmi quale sia davvero, nel modo più profondo, la “mia” Puglia. Non saprei rispondere. Spesso le prime impressioni restano le più intense. M’imbattei anni fa in una Barletta imbandierata per la “Disfida”, ma ero venuto per vedere il “Colosso”: e la grande statua imperiale è una di quelle cose che ripagano di un viaggio. Ho ben netta la sensazione che in me - già fin da giovane assiduo viaggiatore nel Levante greco, turco e arabo - suscitò la visita del vecchio centro di Molfetta: mi sorpresi a riflettere che, se con un colpo di bacchetta magica lo si fosse potuto trasportare alle Cicladi o sulla riva siriana, si sarebbe trovato del tutto a suo agio. E infine, mi ricordo una Bari lunare di alcuni inverni fa, semiaddormentata sotto una coltre eccezionalmente spessa di neve, che rendeva ancor più insidiosa la pietra di Puglia – bellissima: ma ci si scivola – dei marciapiedi voluti da Araldo di Crollalanza. E ancora, Ruvo con la sua cattedra episcopale in pietra; Otranto, con il mosaico e la memoria dei “Martiri”; Cerignola con il ricordo del “Cristo Rosso”, che mi rimanda immediatamente al grande Di Vittorio e al mio vecchio indimenticabile amico Pinuccio Tatarella. La Puglia delle scene di massa e delle sommosse, dei tarantolati di Galatina e delle rivolte contadine, delle processioni della Settimana Santa e dei grandi scioperi del dopoguerra. La Puglia bianco-rossa e rosso-nera, degli scontri e delle contraddizioni, dei santuari e delle fabbriche: dove non è certo un caso se la “sinistra”del Di Vittorio e la “destra” dei Di Marzio e dei Tatarella hanno talvolta rischiato d’incontrarsi in una sorta di peronismo contadino che non ha tuttavia mai avuto nulla, nelle sue tradizioni pur violente e solari ma proprio per questo canore e generose, della cupa ferocia che pure, negli “anni di piombo”, ha sfiorato anche questa terra e l’ha insanguinata. La retorica dell’Italia unta non mi ha mai entusiasmato; il secessionismo bécero che va di moda ora mi urta. Tuttavia, spero molto nel fatto che una nuova Italia, che resti una ma che trovi in istituzioni federalistiche un respiro più arioso, consenta alla Puglia di recuperare appieno il suo carattere “levantino” e “mediterraneo”. Si pensa troppo ad essa come la
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regione sia pur di punta di un’Europa meridionale per troppi versi arretrata, una “Lombardia del quasi terzomondo”.Ci si dovrebbe pensare forse, invece, come all’apice nordoccidentale di un plesso est-mediterraneo ricco di prospettive e di avvenire. In fondo, così ci hanno visto e ci vedono dalla tormentata Albania: un osservatorio dal quale la Puglia appare ricca di avvenire e speranza, di modernità e di sicurezza. In quest’ottica, che può apparir singolare, si cela magari la vera promessa del futuro . (p. 19) La Puglia, è noto, è stata più volte definita dagli storici “Porta d’oriente”. Riconosciutasi per secoli come terra di passaggio per popoli provenienti da oriente, lo è stata altrettanto per le genti europee, divenendo nel contempo anche “Porta d’occidente”. Ancora oggi, il complesso fenomeno dei flussi migratori, che sta interessando da alcuni decenni anche il Mezzogiorno d’Italia e la Puglia in modo particolare, non è altro che un’ulteriore conferma e una viva attestazione del ruolo che la regione più orientale d’Italia ha svolto nel corso dei secoli: quello di essere per molti popoli “cerniera e ponte” tra le genti afroasiatiche e il continente europeo. (p. 20) Non sempre, però, gli incontri tra i popoli si sono rivelati pacifici, tutt’altro. Basti pensare all’articolato e complesso fenomeno delle Crociate, più propriamente pensate e vissute dai protagonisti come un pellegrinaggio armato, che ha visto cristiani di tutta Europa salpare, anche dai porti delle città marittime di Puglia, per andare a difendere dall’occupazione musulmana i Luoghi santi del cristianesimo palestinese. O, di contro, alle numerose incursioni saracene e turche, a scapito delle comunità cristiane del Mediterraneo, che contribuiranno alla costituzione di non pochi emirati nella Terra degli infedeli, come i musulmani chiamano il territorio cristiano ancora da conquistare, ancorché alle costruzioni dei rabbàt, per lo più torri militari usate dai musulmani come avamposti bellici per depositare e custodire cibo e armi. E questo solo per citare i casi più noti. (pp. 23 - 24) Fino a pochi decenni fa la regione era indicata sulle carte geografiche col nome di “Le Puglie”, proprio a volere sottolineare l’eterogeneità e la complessità della sua identità e vocazione, della sua storia e cultura, delle tradizioni e delle lingue locali. Senza l’oriente non ci sarebbe stata la Puglia, almeno così come noi oggi la conosciamo. La Puglia è pertanto “d’oriente” non solo perché è volta ad oriente, ma anche perché è fatta d’oriente: è cioè ad un tempo orientata e orientale. Infatti, non poche fonti riferiscono che quando greci, ebrei o musulmani approdavano sulle sue coste, subito affermavano “l’oriente è qui”: e per farsene una ragione basti guardare la sua vegetazione, il clima, il paesaggio e i piccoli centri costieri o collinari. In ebraico, solo per fare un esempio, la locuzione It-al-yà, nella nostra lingua “Isola
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della rugiada”, faceva portare alla memoria dei giudei venuti a vario titolo in Puglia, tra medioevo ed età moderna, il “Luogo” indicato dal profeta Isaia dove l’era messianica avrebbe avuto finalmente inizio dopo un lungo periodo di sofferenza. Infatti, i loro correligionari del XX secolo, sopravvissuti all’olocausto nazista, meglio Shoàh, arrivati in Puglia per raggiungere ciò che sarebbe diventato ‘Eretz Israèl, lo Stato d’Israele, interpretavano l’agognata attesa nei porti pugliesi come l’avvento della “Nuova era messianica”, inaugurata dalla ritrovata libertà e dal ritorno all’amata Terra Promessa dopo quasi duemila anni di diaspora. (p. 34) San Pietro è stato il primo evangelizzatore della Apuglia et Calabria. (pp. 42 a 44) Un tipo particolare di peregrinazioni lo si deve alle ripetute sventure del popolo ebraico che fin dal VI secolo a.C. ha conosciuto numerose diaspore o dispersioni, anche se non sempre forzate. (pp. 45 - 46) A Brindisi tra il I e II sec. d.C. fu segnalata la presenza di seguaci di uno dei maggiori protagonisti della seconda guerra d’indipendenza giudaica, tale Rabbì ‘ Achibà, braccio destro del più noto Bar Kochbà. La presenza giudaica in Puglia in epoca antica è documentata, inoltre, da un’importante fonte ebraica del’ XI secolo d.C. , il cui autore è il colto cronista ‘Achimaaz. Secondo il poeta, la città di Oria avrebbe accolto i primi ebrei che Tito aveva deportato in Occidente, all’indomani della distruzione del Tempio di Gerusalemme. (p. 56) È nota la competenza medica dei giudei che nel Mezzogiorno d’Italia avevano creato una delle più importanti scuole di medicina del Medioevo europeo. (p.58) Puglia centro di stampa ebraica nel 1442 con gli aragonesi. (p. 64) Frase famosa relativa alla Puglia: “Essa è una Bisanzio dopo Bisanzio”. Fino a tutto il XVIII sec.,la Puglia con l’intero Meridione era indicata nelle cartine geografiche di molti paesi europei, come “terra d’Africa”. Anche se parte del Vecchio continente, gli studiosi nordeuropei associavano il sud d’Italia all’oriente, per affinità culturali, antropologiche e urbanistico-architettoniche. (p. 73) Risulta rilevante l’agreste e misterioso mondo degli insediamenti rupestri. Essi sono centri di propagazione della cultura religiosa monastica, irradiazioni d’arte popolare e contadina, di culto e tradizioni orientali che hanno fatto della Puglia una riproduzione della Cappadocia anatolica. (p. 74) I monaci bizantini si rifugiarono in Puglia per sfuggire, nell’ VIII sec. d.C., alla politica dell’impero Costantinopolitano che aveva messo al bando il culto delle icone e delle reliquie. La Puglia diventò, così, la terra del loro primo e naturale rifugio oltre mare. I monaci greci qui trovarono, con sorpresa, le stesse caratteristiche morfologiche di cui erano fatti i loro insediamenti eremitico-monastici: note sono le grotte e le spelonche
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pugliesi, il più delle volte ubicate nelle vicinanze di gravine e di torrenti, oggi nella maggioranza dei casi prosciugati. La loro presenza diede vita a culti orientali e a tradizioni popolari tra cui le devozioni dei grandi Santi d’oriente, la memoria di ritrovamenti di icone bizantine, recuperi marittimi di sacre reliquie orientali, rinvenimenti nei pozzi di immagini mariane costantinopolitane, antichi dipinti agiografici in grotte. (pp. 75 - 76) I pellegrini-studiosi, percorrendo la Puglia di ritorno dalla Terra Santa e dal Vicino oriente, verificarono le analogie tra gli ipogei pugliesi e quelli della penisola anatolica, al punto da scrivere che la regione si presentava come una “ Cappadocia di Puglia”. Quegli antichi insediamenti monastici si presentavano, non di rado, come veri e propri villaggi con annesse farmacie, scuole, ricoveri per i pellegrini e sale da pranzo per gli ospiti-viandanti di quei luoghi che le cronache medievali di Costantinopoli indicavano con molta nostalgia, ma con altrettanto realismo, come il “ Paradiso perduto di Bisanzio”. La “ Terra lunga” è il nome che i saraceni diedero alla Puglia per i suoi quasi 800 km di costa. Gli arabi chiamavano la Puglia: Ankubarda in quanto abitata dai longobardi. (p. 83) Nella Basilica di S. Nicola vi è la presenza musulmana: il mosaico che adorna il pavimento absidale al cui centro è posta la cattedra dell’ Abate Elia, la sedia di pietra sorretta da due prigionieri musulmani e un pellegrino. Il disco musivo in questione contiene una serie di riquadri recanti il monogramma arabo “Allah” in caratteri cufici, per secoli scambiato per un ornamento floreale o geometrico, tipico dell’arte mussulmana . (p. 88) Ci sono le scesciole, piccoli quartieri abitati anticamente solo da arabi e saraceni. (pp. 92 - 93) La Puglia è detta anche “regione e delle masserie”. (pp. 104 – 105) In Puglia, come in molte altre regioni italiane, si possono rinvenire importanti tracce di questi “sacri trasferimenti” di Terra Santa, che hanno contribuito a consolidare nell’occidente europeo l’affascinante fenomeno del la translatio Hierosolymae. Mi limiterò a descrivere soltanto due casi, entrambi volti a riprodurre il Santo Sepolcro di Gerusalemme. Il primo è il mausoleo di Marco Raimondo d’Altavilla, detto Boemondo: la tomba del principe di Antiochia e di Taranto, ubicata nel cortile della cattedrale di Canosa, copia fedelissima dell’ormai scomparsa edicola esterna d’epoca crociata posta al centro della rotonda del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Il mausoleo di Canosa che si presenta come un enigmatico scrigno marmoreo, testimonianza delle prime committenze celebrative del mecenatismo normanno, è in pratica la tomba di Boemondo, presumibilmente morto nella cittadina pugliese nel 1111. Il bianco tempietto di Canosa presenta non pochi elementi
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artistici ed architettonici “orientaleggianti”, che lo caratterizzano non solo come un’opera che parla dell’oriente in Puglia, ma che è stata costruita e decorata con evidenti influssi orientali. Uno di questi è proprio il disegno che ha ispirato il magister, probabilmente antiocheno, che potrebbe essersi rifatto ai turbeh musulmani, i sepolcri individuali islamici. Infatti, la cupola che si vede ancora oggi all’esterno del mausoleo in origine poteva essere nascosta da un tetto a forma piramidale. Del resto anche le due campate del portico attiguo al sacello avevano coperture a forma di piramide, almeno fino agli inizi del XIX secolo, come dimostrano alcune stampe del Desprez. Un altro indizio dell’influenza artistica orientale, inoltre, potrebbe essere rinvenuto nella famosa porta bronzea bivalve che chiude, a sud, il mausoleo canosino. Sull’anta destra, due formelle centrali, un tempo ageminate, raffigurano Boemondo e suo fratello Ruggero Borsa che pregano in ginocchio la Madonna, e una scena di pace tra i loro successori, Tancredi, Boemondo II e Guglielmo. È molto probabile che per la realizzazione del tempietto siano confluite diverse esperienze artistiche, da quella romana, alla bizantina, dall’islamica, alla protoromanica, dalla toscopisana alla pugliese: sui dischi bronzei con teste leonine centrali, preziosi ornamenti per la duplice porta, sono chiaramente incisi sui bordi iscrizioni arabe in caratteri cufici, segno che artisti musulmani hanno certamente contribuito alla realizzazione del monumento pugliese. (pp. 106 – 107) Il secondo, anch’esso una “copia” locale del Santo Sepolcro gerosolimitano, questa volta del suo vano interno sicuramente meno nota del sacello canosino -, si trova a Molfetta in una chiesa posta poco a nord della città, dedicata a santa Maria dei Martiri…………………… ………….Come a Gerusalemme così a Molfetta, il fedele per entrare nel luogo più santo del mondo, o come in questo caso che lo ricorda — dove la Vita ha vinto la morte — deve chinare il capo: la porticina d’ingresso, poco più di un metro d’altezza, preceduta da tre piccoli scalini che scendono verso il vano sepolcrale, simboleggia l’umiltà a cui il fedele deve votarsi per potere entrare nel “Luogo dei luoghi” e fare memoria della risurrezione di Gesù Cristo, l’evento che ha cambiato profondamente e definitivamente il mondo e la storia dell’uomo. Oltrepassare la porticina a capo reclinato ed entrare nel piccolo vano funerario, illuminato soltanto dallo sfavillio di una candela o di un lume che rischiara appena i lineamenti della statua di Cristo esanime, è un’esperienza spirituale tra le più suggestive: segno tangibile che la copia bassomedievale del Santo Sepolcro molfettese raggiunge lo scopo per cui è stata voluta. ***
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Angela Cecere Viaggiatori inglesi in Puglia nell’Ottocento Fasano, Schena editore, 1993. “Il resto della strada per Barletta la percorremmo tra campi di grano e terreni ben coltivati; la campagna era ancora uniforme, ma assumeva un aspetto del tutto diverso da quella che circonda Foggia” (p. 99, viaggio di Richard Keppel Craven). “La cittadina di Barletta è ben costruita, il suo stile architettonico è più semplice che ornato, e l’effetto complessivo è di solidità e grandezza” (p. 101, ib.). [rif. a Barletta] “Gli abitanti, secondo il comandante del distretto, si distinguono per la pacifica docilità del carattere” (p. 103, ib.). “Quasi tutto ciò che attira l’attenzione e il diletto della vista è dovuto all’uomo e noi spesso confondiamo ciò che soddisfa la ragione con ciò che colpisce i sensi; non è sorprendente se così fiorenti coltivazioni, bianche case di campagna, paesi ben costruiti e vista sul mare sono apprezzati alla pari di quelle scene stupende che la natura selvaggia ha creato. È impossibile oltrepassare questo territorio senza provare sensazioni di allegria e soddisfazione, come anche sentimenti di buona disposizione verso i suoi abitanti (…)” (p. 104, ib.). “Gli alberi d’ulivo abbondano, e i campi sono divisi da muretti irregolari di pietra che cingono anche le strade e spesso le riparano dal mare” (ib.). “(…) le torri di Andria appaiono come i minareti di una moschea turca (…)”. (ib.) [parlando di Bari] “L’attivo commercio che la collega a Trieste e ai porti della Dalmazia, consiste in esportazioni d’olio, cotone e grano, in cambio di lino ed altri articoli, e le dà un aspetto di animazione, benessere ed opulenza” (p. 112, ib.). [parlando di Polignano] “L’Abate Romanelli, ripetendo un’ipotesi avanzata per la prima volta da Martorelli, che lì fossero esistite due antiche città dal nome Neapolis, si sforza di provare attraverso argomenti ingegnosi e ben fondati, che Polignano rappresenta una di esse, e che l’Arx Neapolitana, menzionata da Polibio durante l’occupazione di Annibale, deve essere cercata su queste rive. Egli aggiunge che la varietà di iscrizioni presentate dalle antiche monete di Napoli, in dialetto Dorico e Attico, può essere una prova sufficiente se si ammette la presenza di una
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seconda colonia con lo stesso nome, fondata dai Dorici. Egli rafforza le sue supposizioni citando la scoperta di diverse di queste medaglie che mettono in relazione la leggenda dorica con «Polignano», così come la probabile derivazione della parola Polignano è da Polis Nea, inversione di Nea Polis” (pp. 127-128, ib.). “Sembra che Monopoli, nonostante il suo nome classico non sia di antica fondazione; probabilmente deve le sue origini ad alcuni pastori durante il Tardo Impero Greco” (p. 129, ib.). “Secondo Plinio tutta questa regione era anticamente chiamata «Peucetia»: una parte si chiamava «Paediculi», ed includeva la città di Bari, Rhudiae ed Egnatia. Allo stesso tempo era nota la singolare origine dell’ultima denominazione, che si ascrive a nove giovani ed altrettante vergini, che emigrarono da Illyricum su queste rive, donde ebbe origine il primo ceppo e la prima generazione. Si può osservare che le attuali divisioni di questa penisola, sebbene abbiano perso la loro antica denominazione e in alcuni casi l’abbiano cambiata in maniera inspiegabile, hanno conservato circa gli stesi confini di territorio. Ritroviamo la Peucetia, oggi Terra di Bari, divisa dalla Daunia, l’attuale Capitanata, dall’Aufidus, o Ofanto lo stesso fiume che segnava i suoi antichi confini, mentre a sud esso raggiunge ad Egnatia la Messapia, l’antica Calabria, ora Terra d’Otranto. Gli antichi geografi fanno risalire i nomi di queste province a quelli degli eroi reali o immaginari ai quali la tradizione ha attribuito la prima colonizzazione; ma Mazzocchi, non tenendo presente l’identificazione che Strabone, Plinio ed altri hanno sempre fatto tra Calabria e Peucetia, pensano che quest’ultima sia la traduzione del primo nome greco e lo fanno risalire alla Chaldean Calab che significa «pece» o «resina». La stessa etimologia è stata data alla Brezia, ma con più verosimiglianza in quanto quella terra è ricca di un tipo di alberi che secernono resina; mentre nulla del genere si trova sull’intero promontorio della Iapigia” (pp.129-130, ib.). “Si suppone che Lecce sia situata sui resti dell’antica Lycia, Lycium o Lycum, i cui nomi furono corrotti o piuttosto tradotti in Lupiae dai Romani, Pausania aggiunge che in principio la città fu chiamata Sybaris. Mazzocchi, al solito, dà a tutto questo una derivazione orientale affermando che «Zeb» lupo, e «Bar» boschetto, in ebreo erano spesso uniti; ed afferma che i greci aggiunsero solo la sillaba finale, coniando Sybaris da cui la traduzione greca Lycium o latina Lupiae, si deduce normalmente” (p. 140, ib.).
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“La facilità con cui è lavorata la pietra è stata di grande aiuto agli abbellimenti architettonici di Lecce” (p.141, ib.). “Ciò che la rende degna di nota sono le antiche mura e una sorgente o fonte, menzionata da Plinio” (p.168, ib.). [avvicinandosi al golfo di Taranto] “Orazio, molto a proposito, descrive i caratteri peculiari di questo paesaggio quando dice: «Ille terrarum mihi praeter omnes, angulus ridet»6 (…)” (p.174, ib.). [parlando dell’origine della Magna Grecia] “Romanelli ha dato vita ad un’altra ipotesi secondo cui la parte orientale del dominio napoletano, ora chiamata Apulia, che un tempo era principalmente abitata dai Greci, aveva il nome opposto di «Piccola Grecia» o «Grecia Minore», e cita Plauto, che in una delle sue commedie fa dire ad un soldato: «Hem mea voluptas, attuli eccam pallulam ex parva Grecia tibi»7 (…)” (p.176, ib.). “Viaggiammo a lungo senza incontrare nulla di interessante. In generale il territorio verso Barletta è piatto, o si eleva dolcemente in estese colline erbose. L’agricoltura è differente da quella del resto d’Italia. Si trovano fattorie grandi e costruite accuratamente; campi di grano (…) ed ampie zone da pascolo. Le città sono aperte e ben costruite (…)” (p. 223, viaggio di William Hugh Williams). “La zona nei dintorni di Barletta, e tutto il percorso fino a Bari, assume un nuovo carattere. Il substrato del suolo è di pietra calcarea ed è coperto di terra rossa finemente polverizzata (…). Viti, ulivi, grano, lupini e alberi da frutto, specialmente fichi, sono coltivati con grande cura. I campi sono recintati da muri a secco, e le case (…) hanno un’apparenza molto vivace per il loro estremo biancore che spicca sullo sfondo verde dei campi e dei frutteti” (ibidem). [parlando di Taranto] “La prima impressione della città nella quale ero appena entrato fu molto pittoresca (…). Le rive sorridenti di questo specchio d’acqua sembravano in lontananza coperte di piante di fico e di vigne e si deve convenire con Orazio (Od. II, 16. 20) quando esclama: Ille terrarum mihi praeter omnes Angelus ridet, ubi non Hymetto Mella decedunt, viridique certat 6
“Quell’angolo di terra sorride a me tra tutti”.
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“Ecco mio amore, ecco ti ho portato un mantello dalla piccola Grecia”.
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Bacca Venafro: Ver ubi longum tepidasque praebet Jupiter brumus et amicus Aulon Fertili Baccho minimum Falernis Invidet uvis. Quell’angolo del mondo a me fra tutti ride, ove il miele vince quel d’Imetto ed ove come quella di Venafro verde è l’oliva. Là miti inverni e lunghe primavere Giove largisce, ed al fecondo Bacco caro è l’Aulone e invidiar non deve l’uve falerne. (Orazio, Odi, Ad Septimium. II 16. 20) (Guido Vitali)” (p. 245, ib.) [parlando di Taranto] “Si sa che la tradizione vuole che l’Apostolo Pietro sia giunto a Roma in età avanzata e vi abbia patito il martirio durante le persecuzioni scatenate da Nerone contro i Cristiani. La gente del posto sostiene che fu proprio l’apostolo Pietro a far loro conoscere il cristianesimo e che egli approdò in una località più di trenta chilometri a sud di Taranto, sulle rive del Golfo. Si trova qui ancora una cappella eretta in suo onore” (p. 246, ib.). [parlando di Taranto] “Quando il mare è calmo sono ancora visibili i resti di un ponte attraverso lo stretto del Mar Piccolo. Qui secondo la tradizione sarebbe sbarcato Platone, ricevuto da una folta schiera di filosofi tarantini” (pp. 247-248, ib.). [parlando di Taranto] “Non potevo ripartire da Taranto senza aver visitato le rive del celebre Galeso del quale Orazio (Od. 116, Ad Septimium) scrive: Unde si Parcae prohibunt iniquae dulce pellitis ovibus Galaesi flumen et regnata petam laconi rura Phalantho. Se ciò le Parche vietino, sul fiume Galeso andrò, sì caro all’ammantate pecore, ed al suol che il lacedemonio Falanto resse. (Guido Vitali)” (p. 249, ib.) [dopo aver parlato della pizzica] “Ho scoperto che questa gente mette un grande impegno, non a procurarsi ricchezze, ma a vivere felice e senza preoccupazioni.
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Tuttavia, nonostante questa loro perpetua ricerca di godimento, sento di essere giunto in una parte d’Italia dove gli abitanti sono più attivi e operosi. Vi è infatti un discreto commercio da queste parti; commercio di vari generi, ma specialmente d’olio” (p. 255, ib.). [verso Santa Maria di Leuca] “Sono passato accanto ad un ponticello di forma conica (…). Per quanto potevo giudicare questo monticello sarà stato alto poco più di novanta metri. Mi dicono che ve ne sono parecchi in questa zona: li chiamano specule o torri di avvistamento, qualche volta sono di terra (…), altre volte sono invece fatti con le pietre. (…) Sicuramente sono stati eretti da popoli appartenenti a razze diverse, ed è curioso notare che si narra che i giganti si siano rifugiati qui per scampare all’ira di Giove. Forse queste specule potrebbero essere l’opera di qualche razza preistorica” (p. 262, ib.). “Brindisi ha per me un grosso interesse: è una città molto antica nota ad Erodoto, padre della storia che visse nel 450 a. C. L’ottimo porto situato in posizione molto vantaggiosa per controllare l’Adriatico, deve, fin dall’antichità, aver attirato l’attenzione delle nazioni marinare. La città divenne il più importante centro navale dei Romani lungo la costa (…). Brindisi raccoglie ricordi di avvenimenti noti in tutto il mondo (…)” (p. 282, ib.). [parlando del fiume Ofanto] “Orazio parla con insistenza della corrente impetuosa di questo fiume. (Od. IV, 14, 25). Sic tauriformis volvitur Aufidus Qui regna Dauni praefluit Appuri, Cum saevit, horrendamque cultis Diluviem meditatur agris. Come prorompe tauriforme l’Aufido Per l’agro che regnò l’apulo Dauno, Se gonfio minaccia un’orrenda Alluvione ai coltivati campi. (G. Vitali)” (p. 294, ib.) [verso Foggia] “Queste pianure settentrionali della Puglia, chiamate “Puglia Piana” sono separate da quelle meridionali chiamate “Puglia petrosa” da una catena di colline rocciose (…). La zona settentrionale è descritta da Strabone (VI. p. 284) come molto fertile (…)” (p. 322, ib.). [visita del Gargano] “Prima di ripartire la mattina seguente per recarmi a visitare il Gargano, cavalcai fino ad una località (…),
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chiamata Arpi (…). Virgilio dice (Eneid. XI 243) che fu fondata da Diomede: Vidimus, o cives, Diomedem Argivaque castra; Atque iter emensi canus superavimus omnes; Contigimusque manum, qua concidit Ilia tellus. Ille urbem Argyripam, patriae cognomine gentis, Victor Gargani condebat Iapygis Arvis. Nella Puglia arrivammo; e Diomede Vedemmo alfine; e quell’invitta destra Toccammo, ond’è ‘l grand’Ilio arso e distrutto. In Iapigia il trovammo alle radici Del gran monte Gargano, ove fondava, Già vincitore, Argiripa, una terra Che al patrio Argirippo la nominava. (trad. Annibal Caro)” (p. 325, ib.) “La Basilicata, Bari, e la parte meridionale, la provincia chiamata Apulia, sono note nel Regno di Napoli per la loro civilizzazione e cordialità (…)” (p. 345, viaggio di Edward Lear). “La ferrovia adesso entra in Apulia o Puglia, il cui territorio è composto dalla Capitanata (da Capitano o governatore sotto il dominio degli imperatori greci), dalla Terra di Bari e dalla Terra d’Otranto. L’intera zona a nord della Puglia, dal Biferno (Tifernus) all’Ofanto (Aufidus), è costituita da una grande pianura, interrotta solo dalle città di Foggia e Lucera, chiamata “Puglia piana” per contraddistinguerla dalla parte meridionale della provincia, nota come “Puglia petrosa” per via della catena di colline rocciose che la attraversano ed anche perché è scarsamente popolata. Le pianure settentrionali della Puglia sono ancora rinomate, come ai tempi di Strabone e di Plinio, per l’allevamento delle pecore (…)” (p. 355, viaggio di Augustus John Cuthbert Hare). “La gente comune, in particolare a nord di Taranto, è meravigliosamente orientale nell’aspetto e nei modi; la figura alta e flessuosa, il volto luminoso, i denti brillanti e la peculiare sfumatura bluastra del bianco degli occhi, tutto fa pensare all’origine saracena” (p. 447, viaggio di Janet Ann Ross). “Il tallone d’Italia, almeno nelle sue città, sembra essere il netto contrario di una regione in decadenza, o addirittura di una regione in condizioni di immobilità” (p. 474, viaggio di Edward Augustus Freeman).
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“La chiesa metropolitana di Trani è certamente uno degli esempi più nobili di quella singolare mescolanza di forme normanne e più strettamente italiane –non senza un tocco sia di forme greche che saracene –che è lo stile caratteristico di questa regione, il risvolto naturale della sua storia politica” (p. 475, ib.). “All’esterno il gusto italiano la spunta nelle ricche arcate aperte dei parapetti, e nelle finestre di varie forme, alcune arricchite da quella sorta di decori traforati che non sono né italiani, né normanni, ma particolarmente orientali, che sembrano essere giunti –come è possibile che siano giunti –da una moschea. In complesso, c’è qualcosa di straordinariamente interessante in questa mescolanza di stili –più precisamente questa mescolanza di due varianti dello stesso stile, poiché il romanico italiano e quello normanno sono dopotutto parte di un’unica grande famiglia artistica” (p.478, ib.). “L’interesse storico di Bari si concentra interamente nelle sue relazioni con le zone dall’altra parte dell’Adriatico” (p. 479, ib.). “Bari, uno dei luoghi principali per la partenza delle crociate, deve essere stata per lungo tempo una città assolutamente cosmopolita. Abbiamo la sensazione che le estremità della terra si siano date convegno a Bari, quando scopriamo che il posto d’onore nella chiesa di San Nicola in Bari era occupato da una principessa di Bari, che divenne regina del più grande regno slavo” (p. 483, ib.). *** Teodoro Scamardi Viaggiatori tedeschi in Puglia nel Settecento Fasano, Schena editore, 1988 “È così che gli abitanti della moderna Taranto sono dediti, eccessivamente ai piaceri. Essi sono ben fatti, e le donne sono molto belle, ed hanno tutte le fattezze greche” (p. 95, viaggio di Riedesel). “Mi è sembrato di scorgere, in questi costumi tanto dolci, in quei nasi schiacciati, nelle grosse labbra; nelle folte sopracciglia e nella barba, i tratti caratteristici degli Arabi, con i quali hanno in comune la fedeltà, che è un vanto di quella nazione” (p. 103, ib.). “I villaggi tra Otranto e Lecce sono i più belli di tutta l’Italia; le chiese e le case sono costruite, con una pietra bianca, che rassomiglia alla pietra di Malta; (…)” (p. 106, ib.).
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“Brindisi, questo Brundusium, tanto celebre, a tempo dell’antica Roma, dove si equipaggiavano le flotte, le più formidabili, in cui si preparavano le intraprese le più importanti, dove esisteva uno dei migliori porti dell’Italia, che congiungeva, per mezzo della navigazione, questa contrada, con la Grecia e tutto l’Oriente” (p. 109, ib.). “Le capanne di pietre, a cono, che abbondano su questa costa (…), hanno diritto all’attenzione del viaggiatore, perché rivelano l’intelligenza industriosa di queste popolazioni (…)” (pp.159-160, viaggio di Carl Ulysses von Salis-Marschlins). “Verso sud-ovest si erge il monte Volto, il Vulture degli antichi, del quale Orazio in una poesia racconta che da ragazzo vi si sarebbe addormentato mentre le colombe lo avrebbero ricoperto di alloro e di mirto: (…) Prodigiose colombe; e fu mirabile per quanti han nido su l’alta Acerènza, nei boschi Bantìni, nel pingue territorio dell’umil Forento, ch’io sicuro da orsi e negre vipere dormissi là, premuto da gran cumulo di lauro e di mirto; e lor parvi animoso fanciullo e caro ai Numi (Orazio III, Ode IV, 9-20)” (p. 284, viaggio di Stolberg) “Bari si trova su una penisola formata da una roccia. Orazio la chiama Bari pescosa (…). Sebbene sia Orazio il primo che menzioni questa città, i suoi abitanti sostengono che essa sia più antica di Roma” (p. 294, ib.). “A Taranto la scuola pitagorica ebbe un periodo di fioritura e vi si formò Archita, uno dei più grandi uomini dell’antichità (…)” (p. 299, ib.). “I Greci avevano chiamato tutta la Puglia Japigia dal nome di Japige, che secondo alcuni sarebbe figlio di Dedalo, secondo altri fratello di Daunio e Peucezio, figlio di Licaone. La penisola, invece, (…) si chiamava nell’antichità Messapia da Messalo ritenuto figlio di Nettuno: Messapus equum domitor Neptunia proles (Virgilio) La parte orientale della penisola era chiamata dagli antichi Calabria, mentre la parte occidentale era detta Salento” (p.297,
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ib.). “Oria è una delle più antiche colonie greche. Erodoto (libro VII) attribuisce la fondazione della città ai Cretesi (…)” (p. 323, ib.). “Prima di lasciare questa provincia sento il bisogno di attestare che i suoi abitanti, e i pugliesi in generale, sono brava gente che offre di buon animo ospitalità al forestiero con cordialità disinteressata” (p. 335, ib.). [parlando di Taranto] “Una posizione a mezza strada fra il Mediterraneo e l’Adriatico (…)” (p. 351, viaggio di Jacobi). *** La scoperta della Basilicata negli appunti di viaggio di Edward Lear (1812- 1888) di Paolo Abate A partire dagli ultimi anni del Settecento la moda del Grand Tour divenne sempre meno élitaria ed iniziò ad interessare per la primissima volta persino le aree più appartate del Vecchio Continente. Il viaggiatore, figlio del nuovo secolo, tendeva a spostarsi da solo, o al massimo in compagnia di un amico di lunga data, ed amava percorrere lunghi tratti del proprio cammino a piedi. Lasciato alle spalle lo squallido Nord europa, industrializzato ed imbruttito dalle conseguenze negative del progresso, il viaggiatore partiva alla volta dell’Italia alla ricerca della vera civiltà e, come per incanto, quel mondo che si credeva perduto per sempre, veniva timidamente alla luce subito dopo avere varcato le Alpi. Edward Lear (1812- 1888), dunque, si innamorò subito dell’Italia la quale, come gia detto, era tappa obbligatoria per un artista. La visitò per la prima volta nel 1831 in compagnia dell’ornitologo John Gould e nel 1837 vi intraprese un nuovo viaggio, da solo. Anche se privilegiò i consueti itinerari percorsi dai viaggiatori colti alla ricerca del mondo antico (Roma, Firenze, Venezia, Genova), Lear si avventurò ugualmente in regioni meno conosciute, ma di certo più garanti dei vantaggi di una natura selvaggia ed incontaminata, come Abruzzo, Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata. Dell’Italia Lear amava la luce delle ore mattutine, le sue cittadine semi-abbandonate, le sue vaste pianure silenziose, le sue “dry burning white stones, i suoi interminabili olive woods, high, grey, filmy, feathery, con i twisted, mossy trunks”. Inoltre, fermamente prodigo di parole di elogio, Lear non mancava mai di evidenziare l’accogliente ospitalità degli italiani, soprattutto di quelli del Sud.
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In verità, Lear giunse in Italia anche per ragioni legate al suo orientamento sessuale: Lear era infatti omosessuale1. Il critico Vivien Noakes ha scritto: «Lear non era alla ricerca dell’amore fisico, ma di qualcuno in grado di accettarlo per com’era visto che i suoi genitori lo avevano rifiutato da bambino. Grazie alla sua sensibilità e al suo carisma (Lear) era alquanto affabile con il prossimo ed amava stare con i bambini perché lo trovavano gradevole e lo dimostravano. Ma ciò che Lear voleva, e la cosa mai si realizzò, era un’autentica relazione spirituale con un’altra persona».2. Anche se Lear non dichiarò mai apertamente la propria omosessualità, condannata dalla società vittoriana con la pena di morte, essa emerse gradualmente soprattutto nel suo Book of Nonsense, ove sembrava voler gridare ai lettori: «Esisto. Sono un artista. Sono un essere lussurioso. Sono un uomo che ama gli uomini. Sono frustrato. Ecco cosa succede quando il bisogno d’amore di una persona non è appagato»3. Benchè fosse giunto in Italia dieci anni prima, Edward Lear si spinse in Lucania solo nel 1847. In realtà, era intenzione di Lear e del suo amico John Proby visitare tutto il Regno delle Due Sicilie, ma, a causa dello scoppio dei primi moti insurrezionali del Risorgimento, a Reggio e Messina, che poi avrebbero portato alla promulgazione della Costituzione, i due ritennero più prudente lasciare da parte la Calabria e la Sicilia e decisero di visitare la Puglia e la Basilicata, non ancora interessate dal marasma che imperversava nelle confinanti regioni. Giunti a Napoli via mare, non esistendo una rete stradale continua e sicura tra i vari centri della Calabria e il resto d’Italia, Lear e Proby raggiunsero in treno Nocera Inferiore e di lì proseguirono per Avellino e Monte Vergine, in Irpinia. Dopo un viaggio difficoltoso e monotono, tra luoghi privi di interesse, Lear giunse nelle vicinanze del Monte Vùlture e lo spettacolo che esso offriva lo lasciò senza fiato. Con una popolazione di 431.789 abitanti, la Basilicata, nel 1847, era la più vasta provincia del regno d’Italia4. L’agricoltura lucana, che produceva per lo più olio, orzo, mèliga e liquirizia, era condotta con mezzi assai arcaici; le industrie5 mancavano; i commerci, sia interni che esterni,
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erano scarsissimi dato che le strade transitabili, ad eccezione dell’Appia e della Popilia che attraversavano rispettivamente la parte settentrionale ed occidentale della regione, erano quasi inesistenti. Le grandi proprietà terriere erano nelle mani di pochi signori, quasi tutti nobili. Com’è facile intuire, il popolo minuto viveva in condizioni di estrema miseria ed ignoranza ed aveva costumi6 e pregiudizi «ancora dÈ secoli trascorsi». All’avvicinarsi del Natale ogni famiglia contadina uccideva un maiale per il proprio consumo e, secondo il numero dei suoi componenti, ne salava una buona metà, e la conservava per nutrirsene nei giorni di festa7. A questa si riduceva la quantità di carne che essi mangiavano in un anno, a parte quella guasta di qualche bestia morta per malattia, che veniva venduta a basso costo nelle sporche e misere botteghe dei villaggi. Per giunta, il clima freddo e rigido di una regione così elevata come la Lucania 8 rendeva questa miseria ancora più penosa. Dunque Lear giunse in Basilicata per la strada che da Avellino conduce a Melfi col desiderio di vedere (e dipingere) i castelli normanni e le memorie di Orazio. Effettivamente li vede e li dipinge, e la bella edizione recente del suo diario di viaggio, pubblicata a Londra nel 1964 col titolo originale Diario di un pittore di paesaggi, riporta quattro pregevoli litografie tratte dai suoi acquerelli, che rappresentano Melfi e Castel Del Monte, Venosa e S. Michele del Vulture9. Del suo viaggio in Basilicata Lear racconta: “Abbiamo camminato, prima, lungo la riva di un ruscello serpeggiante, per salire, poi, a Monteverde, l’ultima città della provincia, dove siamo arrivati poco prima del crepuscolo. Dalla posizione elevata di questa città, lo scenario del Vùlture, con il territorio di Monticchio adiacente all’isolata altura vulcanica, ricoperta di boschi, è una vista incantevole. L’improvviso contrasto tra gli scialbi paesaggi attraversati in tre giorni di viaggio, e questo nuovo, splendido panorama, è stato per noi piacevolmente tonificante, nonostante che per riposare abbiamo da fare ancora molta strada. Il Vùlture è il Soratte di questa parte del Regno di Napoli. Sorgendo solitario, e bello nella forma (somiglia molto al Vesuvio), esso spicca, sebbene di non notevole altezza, tra
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le grevi ondulazioni circostanti, anche per le sue delicate sfumature di colori. Sul versante orientale e meridionale si trovano le città di Melfi, Rapolla, Barile, Rionero ed Atella; a nord è ricoperto da folte foreste, riserva del Re poco conosciuta dagli stranieri. La cima concava di questa singolare collina, una volta suo cratere, contiene l’appartato lago e convento di S. Michele, che siamo sicuri di potere visitare prima di lasciare la Basilicata”10. Anche la cittadina di Melfi fu molto apprezzata, e dopo avere enumerato gli edifici pittoreschi della città, la valle col suo ruscello limpido, i grandi noci, le numerose fontane, le grotte nelle rocce, i conventi, le case, i campanili ed il castello «perfettamente degno di Poussin», Lear affermò che «trovare tante cose belle in uno spazio così ristretto, è cosa rara perfino in Italia»11. Dal racconto di Lear si coglie ancora una volta una descrizione piacevole ed esauriente sulle varie località lucane: “Prima roccaforte normanna in terra di Puglia, Melfi è un delizioso posto di soggiorno. Esiste ancora una delle torri di Ruggero d’Altavilla, ma la grande sala, dove Papi e Normanni tenevano i consigli nei tempi che furono, è ora un teatro. L’attuale edificio risale al sedicesimo secolo, ma gli uffici e le altre aggiunte sono ancora più recenti. Il castello domina la vista su tutta la città, ma non su una grande estensione di territorio, perché una parte dell’orizzonte è completamente occupata dal vicino Vùlture, e, la restante, da una serie di basse colline; così che il luogo della città sembra essere stato scelto per ragioni di sicurezza strategica. Un’escursione mattutina mi ha fatto conoscere le bellezze del luogo che è una perfetta oasi di pace, tra tanti scialbi paesaggi. I pittoreschi edifici della città (che sembra occupare la sezione di una più antica area); la valle sottostante, con il limpido ruscello ed i maestosi castagni; le numerose sorgenti; le innumerevoli cave nelle rocce circostanti, ora adibite a stalle per le capre che si raggruppano
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in masse scure su rupi sovrapposte, i conventi e le chiese disseminate qui e là nei sobborghi; le case affollate e le solenni guglie del centro abitato; il castello degno dei migliori quadri di Poussin, con la bella torre laterale che domina l’intera scena: non è facile trovare tanti elementi suggestivi in uno spazio così limitato, nemmeno in Italia”12. A Melfi Lear fu ospite per quattro giorni dell’agente del principe nel castello del principe Doria, e qui descrisse con ammirazione la cortesia e la generosità dei suoi ospiti, che gli procurarono anche una guida e tre cavalli per andare a Venosa. La guida era un uomo grasso ma molto “pittoresco” che Lear definì con grande umorismo «somigliantissimo al Dottor Samuel Johnson visto con una lente d’ingrandimento». Lear ricordava che tale guida, in ragione della sua corpulenza, non capiva come mai gli inglesi, e proprio in salita, volessero andare a piedi. Era persuaso che per qualche inspiegabile motivo essi non fossero contenti dei cavalli, tanto che fu necessario insistere per fargli capire, senza offenderlo, che «gli inglesi di quando in quando amavano camminare», anche se dentro di sé il sosia del Dottor Johnson restava convinto che Lear e il suo amico fossero matti. Dalla cittadina di Venosa Lear fu completamente conquistato. Definì il paesaggio della città, con lo sfondo del Vùlture, «uno dei più belli di tutto il Regno». Rimase incantato dalla raffinatezza e dalla buona educazione dei suoi ospiti, la famiglia di Don Peppino Rapolla, gente istruita con la quale poté parlare di Shakespeare e di Milton, e perfino, come gli disse uno di loro, e com’egli riportò fedelmente in italiano nel suo Diario, di quell’Autore adorabile, Walter Scott. Tuttavia il colmo delle sue lodi andò alla chiesa della Trinità 13, la cui grande mole incompiuta ma suggestiva gli sembrò il culmine del pittoresco, che tuttavia non ritrasse. Realizzò, e con gusto, un acquerello bellissimo qualche giorno dopo, al convento di San Michele del Vùlture, e nei boschi che tuttora lo circondano, in riva al lago in cui si specchia. Questo lago gli piacque moltissimo e, con fedele e paziente cura, l’artista riprodusse il delizioso effetto del riflesso degli alberi, delle rupi e del convento, nelle acque tranquille. Osservando l’acquerello, si può notare un numero considerevole di figure umane in riva al lago: una folla in contrasto con la solitudine per cui il luogo era, ed è tuttora, famoso. Lear lo trovò eccezionalmente affollato perché egli arrivò al convento di San Michele proprio il giorno di San Michele, il 29 settembre. Egli ebbe modo di osservare che:
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“Nel giorno di S. Michele, la cui grande festa si celebra domani, tutta la popolazione delle aree limitrofe ha la consuetudine di dirigersi in massa al monastero; se fossimo abbastanza fortunati di avere bel tempo, tutti ci assicurano che vedremo uno degli spettacoli più suggestivi in Italia meridionale. Siamo partiti di buon’ora con un guardiano ed un uomo a piedi. In un primo momento la strada, serpeggiante su per la montagna, non era affatto piacevole. Ma raggiunto il versante occidentale della collina, ci siamo addentrati in bellissimi boschi di faggio, la cui foltezza e dimensioni aumentavano man mano che avanzavamo. Dopo avere attraversato queste foreste ombreggiate, il sentiero piega verso l’interno di una profonda valletta, o depressione, anticamente cratere principale del vulcano. Di lì a poco, tra i rami degli alberi, si poteva scorgere il luccichio del lago di Monticchio, nelle cui acque si specchia il monastero di S. Michele. Modello più perfetto di solitudine monastica è inimmaginabile. Addossato a grandi masse di roccia che incombono sull’edificio fin quasi a minacciarlo, il convento di per sé già bello a vedersi, sorge sull’orlo di un ripido pendio che, nella sua discesa al lago, si adorna di gruppi di altissimi noci. Alta sulle rocce addossate al convento, la cima del Vulture si solleva verso il cielo, completamente ammantata di fitti boschi; e fitti boschi ricoprono anche i pendii della collina, che si dispiegano a mo’ di ali su ciascuna sponda dei laghi. Lo specchio d’acqua più grande fa pensare al lago di Nemi14 in scala ridotta; solo che l’assenza di ogni edificio, eccezion fatta per il solitario convento, e la completa esclusione di ogni prospettiva lontana, rendono perfetta l’incantevole quiete di S. Michele e del suo lago. Arrivavano, intanto, grandi folle di contadini che si accampavano sotto gli alti noci, a mo’ di fiera, com’è consuetudine degli Italiani nelle feste patronali. I costumi presi singolarmente non erano molto pittoreschi, ma l’effetto
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generale della scena, ogni elemento della quale veniva riflesso chiaramente nell’acqua, era così bello che io non ne ricordo di uguali. Abbiamo visitato la cappella e la buia grotta del santo patrono e, a mezzogiorno, dopo avere disegnato fino all’arrivo della pioggia, ci siamo ritirati nelle due linde celle fatteci preparare dalla sollecitudine di Don Pasqualuccio, il quale ha anche provveduto a farci mandare, bell’e pronto, un ricco pranzo da Rionero. Ahimè! È piovuto a dirotto per tutto il pomeriggio, e l’acqua ha portato lo scompiglio negli accampamenti, e nella fiera: tutti quelli, ed erano moltissimi, che non hanno potuto trovare riparo nelle mura del convento, se ne sono tornati a casa prima del tramonto. E poiché non c’erano altri a rimpiazzarli, alla scena è venuto a mancare il principale elemento coreografico della folla di pellegrini. Del resto anche noi non abbiamo potuto fare altro che disegnare in fretta e furia tra gli scrosci di pioggia. Tuttavia ci siamo aggirati nei dintorni di questo luogo incantevole, ammirandone la varietà di aspetti. I contadini, ai quali i monaci del convento hanno offerto il riparo dalla pioggia, hanno occupato tutto il lungo corridoio adiacente alla nostra cella. Per una buona parte della notte, al fragore dei loro festeggiamenti gioviali, hanno fatto eco gli asini e i muli che, in prossimità della nostra porta, hanno superato con i loro ragli frequenti il clamore di un “improvvisatore”, e di quattro o cinque “zampognari” in pieno esercizio, nonché il frastuono di grandi comitive che, in coro, cantavano in modo molto terreno le canzoni spirituali sui miracoli di S. Michele” 15. Comunque, a parte alcune località come Melfi, Venosa e i Laghi di Monticchio, Lear scrisse assai poco circa gli altri centri della regione da lui visitati: è il caso di Avigliano o della stessa capitale della provincia, Potenza: “Ad Avigliano abbiamo lasciato il signor Manassei, ed abbiamo ripreso il viaggio per
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3 Potenza, attuale capoluogo della provincia, ma città così brutta per forma, dettagli e posizione, che si è quasi tentati di evitarla. Qui abbiamo noleggiato una caratella in grado di portarci, al prezzo di sette ducati, fino ad Eboli; e fermatici giusto il tempo per pranzare, abbiamo continuato, poi, fino a Vietri di Basilicata, dove siamo arrivati tardi, e ci siamo fermati per la notte”16. Colui che in piemontese era appellato Monsú Lir, un’inglese che aveva l’estrosa abitudine di indossare spesso sul soprabito un impermeabile bianco, conchiuse soddisfatto il giro in una terra, la Basilicata appunto, che lo aveva conquistato semplicemente con la bellezza dei suoi paesaggi naturali e la spontaneità dei suoi abitanti. Lear riuscì ad adattarsi bene alle abitudini di vita dei lucani del tempo, che, come è facile immaginare, erano in forte antitesi con quelle decisamente più civili della sua Inghilterra. Non mancarono situazioni di forte disagio e in più occasioni Lear fu costretto a dormire con animali domestici in stanze la cui mobilia era costituita da sacchi di grano o lunghe file di cipolle, se non da giacigli di foglie di granoturco. Altre volte fu costretto a contendersi, con porci affamati, il diritto di pranzare con un cocomero del padrone. Era sfinito a causa dell’abitudine provinciale di protrarre di molto l’ora dei pasti ed oppresso dalla prospettiva di interminabili ed ormai consuete domande sull’Inghilterra o sui progetti di lavoro. Dovette, in altri casi, escogitare mille espedienti pur di essere lasciato solo, mentre disegnava nelle prime ore del mattino, circondato da intrusi che, con ripetute domande, mostravano grande interesse alla sua occupazione. Tuttavia, con uno spirito di adattamento ed una compostezza tipicamente anglosassone, pago della vista di un paesino suggestivo o di una scena selvaggia, Lear era capace di superare l’affanno e la noia del viaggio e dimenticare gli stenti condivisi con le popolazioni locali, avendo il cuore gonfio dalla gioia di disegnare squisite bellezze e dalla convinzione che i sorprendenti scenari avessero ben meritato lunghi e difficili viaggi per ammirarli. Non meno interessante è lo stile di scrittura che caratterizza Viaggio in Basilicata. Ad un lessico semplice e di stampo familiare, seguono descrizioni lunghissime e tortuose, da dove emerge un linguaggio ricco di termini aulici. Molto spesso egli mette insieme impressioni di viaggio, brevi notizie e commenti, per poi concludere con osservazioni assai sbrigative e sommarie, dettate quasi di malavoglia, e a volte egli
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niente dice dei paesi e delle città che visita. Quando parla dei suoi ospiti, invece, adotta uno stile decisamente differente: centra il proprio interesse sulle fisionomie individuali, istintive e somatiche delle persone, creando così una galleria di piccoli ed indimenticabili ritratti. Gli eventi storici del 1848, e non solo quelli, sono da lui del tutto trascurati, dal momento che egli intende “to confine these journals strictly to the consideration of landscape”, un paesaggio che lo colpì per quell’infinita bellezza che irradiava intorno a sé. 1
A partire dal ‘700, numerosi letterati ed artisti del Nord Europa vennero in Italia per coltivare i piaceri del corpo. Le capitali italiane del libero amore erano Venezia, famosa in tutta Europa per le sue cortigiane, Napoli, Capri, la Sicilia, queste ultime mete molto care soprattutto agli artisti britannici omosessuali, in fuga dalle rigide leggi antipederastia che vigevano appunto in Gran Bretagna; nella sensuale Italia essi riuscivano ad appagare (dietro pagamento) i propri desideri sessuali grazie alla buona disponibilità dei giovani maschi del posto. 2 C. SNIDER, Victorian Trickster: A Jungian consideration of Edward Lear’s Nonsense Verse, in Psychological Perspectives (Journal for The C.G. Jung Institute of Los Angeles) No. 24 (Spring-Summer 1991), Long Beach, English Department California State University, 2001, p. 4. 3 Ivi, p. 16. 4 Nel 1847 la Basilicata era una provincia divisa in quattro distretti: Potenza (la città capoluogo), Matera, Melfi e Lagonegro. 5 In tutta la Basilicata esistevano una diecina di frantoi e mulini ad acqua e nelle abitazioni di alcuni privati cittadini venivano prodotti gli indumenti ed alcuni rudimentali arnesi di cui quotidianamente si serviva il contadino lucano. 6 La giacca, il panciotto e i calzoni al ginocchio, insieme con il grande mantello, talvolta sostituito con una pelle di capra, erano l’abito del contadino della Basilicata. Confezionati con grossa stoffa di lana di fabbricazione locale, questi abiti erano indossati finché non cadevano a brandelli, e perciò il contadino li portava per gran parte della sua vita. 7 Si tratta di una consuetudine ancora oggi largamente diffusa nelle campagne lucane. 8 Secondo la conformazione geologica la superficie della Basilicata è costituita per il 47% da montagne, per il 45% da colline e solo per l’8% da pianure. 9 Cfr. G. FIERRO, Il mito della Lucania sconosciuta: antologia di viaggiatori stranieri tra Settecento e Novecento, Venosa, ed. Osanna, 1994, p. 22. 10 E. LEAR, Viaggio in Basilicata (1847), Reggio Calabria, ed. Parallelo 38, 1974, pp. 17-18. 11 Ivi, p. 20. 12 LEAR, Op. cit., pp. 19-20. 13 Si tratta piuttosto di una Abbazia, la cui costruzione, per mano dei benedettini, si fa risalire a prima del Mille. Vi sono sepolti molti principi e condottieri normanni, fra cui Roberto il Guiscardo. 14 Il lago di Nemi si trova a 316 metri s. l. m. ed occupa il fondo di un cratere vulcanico dei Colli Albani, gruppo montuoso a sud-est di Roma, che comprende anche il lago Albano. Ha una superficie di 1,67 Kmq circa ed una profondità massima di 33 metri. 15 LEAR, op. cit., pp. 39-41. 16 Ivi, pp. 43-44.
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(Testo di Aldo Moro per la presentazione del libro “Puglia” a cura di Franco Biancoforte, Giovanni Bronzini, Giovanni Masi, Adriano Prandi, Mario Sansone; Electa, Milano, 1967)
Realtà della Puglia Nel presentare questo volume sulla Puglia il mio pensiero va in primo luogo alla realtà sociale di una regione del nostro Mezzogiorno, che negli ultimi vent’anni ha acquistato una fisionomia nuova, a testimonianza dello sforzo che l’Italia ha compiuto per darsi un assetto più equo affrontando con coraggio quel secolare problema che è la questione meridionale Dicevo che a questo va subito il mio pensiero, poiché i problemi del Mezzogiorno hanno costituito da vent’anni il viatico quotidiano di quanti si occupano dei problemi politici del nostro Paese. Ma il ricordo della terra dove sono nato, la suggestione che essa ha lasciato nella mia coscienza è più complessa dei dati e dei problemi ai quali mi riferivo. Anche per chi la conosca una volta soltanto e per breve tempo, la realtà umana e naturale della terra pugliese è un incontro unico, inconfondibile. La bellezza della natura è data dal trapasso di una campagna ferace, popolata di viti e di olivi, in un mare dalle tonalità intense, i cui colori e le cui brezze caratterizzano in modo straordinario questo punto del Mediterraneo. L’arte, legata allo sviluppo plurisecolare della storia di questa Regione, si esprime in una singolare ricchezza di monumenti, tra i quali spiccano le splendide cattedrali romaniche ed i castelli imponenti. L’uomo qui si sente invitato a meditare pensieri di pace, a riflettere sul valore religioso della fatica, a considerare la natura come un grembo materno. Come sempre innanzi all’occhio dell’uomo le cose diventano simboli: ma simboli di gioia misurata e serena, di fatica che riceve il suo premio, di incontri e di intese tra gli uomini.. Simbolo dei simboli è quell’albero dell’olivo, al quale Sofocle sciolse uno degli inni più belli dell’antica poesia. L’albero che sembrava a Sofocle nato dal nulla, poiché le terre confinanti con i litorali mediterranei ne erano prive, qui signoreggia e pone innumerevoli volte davanti all’uomo il suo aspetto nervoso e contorto, che è, però, lo schermo di linfe fertilissime mercò delle quali i tronchi nodosi si coronano poi di foglie e di frutti dal colore intenso. Intorno agli oliveti ed in mezzo ad essi si è esplicata nei secoli, dal promontorio del Gargano alla Penisola Salentina, la vita operosa di una gente sobria e pacifica, cortese e ospitale se mai altra, profondamente religiosa, capace di lavorare con pazienza all’avvento del proprio riscatto, anche quando questo sembrava lontano. E il suo simbolo, il simbolo di questa umanità che sa
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lavorare e sperare è proprio l’albero dell’olivo, tormentato nel tronco, ma coronato di foglie e ricco di frutti. Vita di lavoro, quella delle genti pugliesi, che è vita di speranza e di conciliazione. Anche la conciliazione la necessità, per meglio dire, della conciliazione di entità diverse e contrarie ad opera dell’uomo, ha un proprio simbolo, geografico, nell’agile penisola che si protende sul Mediterraneo tra Oriente ed Occidente. La Puglia è stata ed è, infatti, il naturale ponte della Penisola italiana verso tutto quanto l’arco del Mediterraneo meridionale e verso le terre retrostanti ad esso. Conciliazione geografica di Oriente ed Occidente, che si accompagna a un’altra, più sottile, conciliazione umana, di Nord e di Sud. Questo singolare gradiente, che va dal Settentrione al Mezzogiorno, e che in tanti Paesi denota il trapasso da certe qualità umane a certe altre, nella gente pugliese ha qua e là ceduto ad un’armonia singolarissima, prodottasi per l’apporto delle genti normanne e sveve al patrimonio fisico. dell’uomo meridionale; e ne è nata una figura, singolare e simpatica, di uomo, che congiunge il calore e la cortesia del carattere meridionale all’intraprendenza e alla tenacia di* quella settentrionale. Non ho saputo sottrarmi al piacere di manifestare alcuni aspetti del ricordo, che ho in m’e della terra e degli uomini della Puglia. Ma l’essermi soffermato su circostanze che sembrano remote dal presente mi conduce, invece, al presente, e mi consente di coglierne il significato essenziale. Durante il processo che, negli ultimi vent’anni, ha conferito alla realtà sociale della Puglia un aspetto nuovo, sono tornati a manifestarsi la capacità di lavoro, la tenacia, la speranza inflessibile, lo spirito di conciliazione, di cui abbiamo prima parlato. La Puglia è diventata una regione industriale. In vaste zone si è avuto un rigoglioso sviluppo delle attività commerciali, nonchè delle industrie chimica e siderurgica. L’intervento pubblico, attraverso la Cassa per il Mezzogiorno e le industrie a partecipazione statale, gli investimenti della grande industria italiana e del capitale straniero sono stati un atto di fiducia nella capacità di lavoro delle popolazioni pugliesi e nel futuro delle terre sulle quali essi vivono. Il Sud, come si dice, è in cammino, e la Puglia possiede nella sua vasta zona di sviluppo industriale uno dei fattori decisivi di tale progresso. Ma non possiamo dimenticare che nel corso della rivoluzione industriale che si è svolta in essa, la Puglia ha difeso la propria agricoltura, e tutte le positive caratteristiche ambientali e sociali, che ineriscono all’esistenza di una agricoltura sana, dotata di mezzi adeguati, fondata su una razionale ripartizione della proprietà e su un’equa distribuzione di redditi. Quel che l’intervento pubblico e l’iniziativa privata hanno fatto
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in questo campo non sarebbe stato possibile, tuttavia, senza la disponibilità di attitudini umane che sono tali da produrre il reciproco integrarsi delle opere dell’uomo nel contesto delle comunità cittadine e provinciali e di quella regionale. Questo non è stato e non è senza sforzo, senza tenacia, senza la fede di un equilibrio tra i valori tradizionali e quelli posti in essere dalla rivoluzione contemporanea dell’industria. Ma è per questo, credo, che la Puglia deve lottare. La comunità nazionale attende dalla Puglia questa prova di maturità, che è poi una prova di coscienza: vivere nell’oggi, credere all’oggi senza ripudiare nulla di ciò che è vitale nella tradizione. In questo senso auguro al presente volume, pubblicato per benemerita iniziativa della Banca Nazionale del Lavoro, di trovare lettori attenti a cogliere nel passato e nel presente di una regione d’Italia, un insegnamento di operosità, di equilibrio e di fede valido per tutti. Aldo Moro
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Estratto da: Vita di Carmelo Bene a cura di Giancarlo Dotto, Bompiani editore […] II cognome Bene. Da dove arriva? Stranissimo cognome. Viene dalle parti marine della terra d’Otranto, mentre Campi Salentina è all’interno, tra Brindisi e Lecce. C’erano poi dei podestà fiorentini nel Duecento che si chiamavano Bene. Cognome molto diffuso in Ungheria. Ministri, atleti famosi. Che sia anche questo un attestato di nomadismo? Possibile ci sia all’origine qualche gitano. Non ti è mai andata troppo a genio la definizione di “artista pugliese”. Diciamo pure che la detesti. Non scherziamo. Non esiste la Puglia, ci sono le Puglie. Nasco in terra d’Otranto, nel sud del sud dei santi. Mettere insieme Bari e Otranto sarebbe come dire che Milano e Roma siano la stessa cosa. Tutta la terra d’Otranto è fuor di sé. Se ne è andata chissà dove. E un rosso stupendo la terra d’Otranto. Più bello del rosso di Siena o di altre terre consimili. Lo usano molti pittori per la tempera. E una terra nomade, gira su se stessa. A vuoto. Otranto è anche terra di emigranti e disoccupati. Una volta hai sputato in faccia a uno che ti chiedeva lavoro. 2 ottobre ‘95, municipio di Campi Salentina. Il sindaco consegna le chiavi della città a Carmelo Bene, gilet nero Versace e bottoni smerigliati. Decine di disoccupati ululano giù in strada e lanciano pomodori putridi. Il Maestro si defila da una porta secondaria. Un disoccupato gli strepita addosso: «Stronzo, dammi lavoro!”. Carmelo lo centra in un occhio con uno sputo che è una bellezza balistica. Che tristo spettacolo, questi giovani istigati da Libertinotti che già a vent’anni invocano i lavori forzati. Sogno cortei di ragazzi che gridano: “Basta con il lavoro!”. La verità è che se non nasci miliardario sei spacciato per sempre. Se nascere è funesto, nascere poveri è infame… Era la peggior offesa che si potesse fare a questa gente: proporgli di lavorare. Negli ultimi trent’anni sono stati degradati dai media, precipitati nella tirannia delle plebi. Ma se qualcosa sopravvivesse dell’antica indolenza, dovrebbero essere loro a sputare in faccia a chi gli offre lavoro. “Come ti permetti, signoria, non ti vergogni?”, avrebbero detto un tempo. “Non siamo mica dei somari, lavorate voi! Ormai omologati nel “diritto al lavoro”, hanno dimenticato quella dignità. Non s’offendono più. Anzi. Sono loro a chiedere lavoro. S’iscrivono alle liste di collocamento, i depravati. Segni di edilizia selvaggia ovunque. Qualcuno che lavora c’è.
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Lavorano, ma fanno danni. Quando restaurano, le case crollano. Le devono rifare almeno dieci volte. E rimasta in loro una sana incompetenza che fa da argine alla volontà. C’è addirittura un palazzo da quelle parti a picco sul mare, Palazzo Tamborino si chiama, impastato con acqua di mare per far prima. Risultato: dichiarato catastrofe inagibile. Non ci sono proprio portati al lavoro.
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Interviste a cura di Nino Perrone. Trascrizioni a cura di Alessia Cimmarrusti, Anna Lapacciana, Annamaria Lattanzi, Gaetana Procino, Claudia Scardigno, Alessia Vilella (Tirocinanti del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione - Università di Bari)
Conversazione con Dino Borri 8 Borri Pubblicai nell’83 uno studio, che credo fosse il primo, sulle masserie di Puglia. Venne fuori come un quaderno di una scuola di perfezionamento che avevamo fondato nel ’77, che aveva contributi allo studio del paesaggio urbano e rurale in Puglia: le masserie in Puglia. Qualcuno, per esempio Angelo Ambrosi, intellettuale “raffinato”, facendo un’analisi storica, mi chiese: “Perché hai scritto Paesaggio urbano e rurale: le masserie? Le masserie non fanno parte solo del paesaggio rurale?” Ed io cercai di spiegargli che,per esempio, il grande paesaggio delle masserie tra la Terra di Bari e la Terra di Brindisi, o anche le grandi masserie salentine, sono di fatto pezzi di città trapiantati in campagna. Sono architetture fondamentalmente urbane. Perrone Hanno un loro sistema? B Si. Oltre ad un’organizzazione autosufficiente che mira in qualche modo a ricreare il villaggio, hanno anche un’organizzazione sociale, in qualche modo ambiziosa, che nutre di autosufficienza, di urbanità la campagna. È una sorta di villaggio in miniatura autonomo. Nella masseria tu non vai, come succedeva nel maso Trentino, a chiedere aiuto, se ti succede qualcosa, al vicino dell’altro maso, non ne hai bisogno perché nella masseria c’è una piccola comunità autonoma, ci sono tante persone. Per certi versi ricorda un po’ la fattoria toscana. Le masserie sono, quindi, nuclei di urbanità, socialmente ed economicamente, nel paesaggio rurale. Io però mi riferivo all’architettura quando parlavo di “pezzi di città trapiantati in campagna” perché sono veri e proprio pezzi di architettura urbana; sembrano palazzi presi dal Corso di Fasano, dal Corso di Monopoli e trapiantati in campagna. Le splendide masserie dell’agro di Fasano, le più belle di Puglia, ripropongono 8
Dino Borri, direttore del Dipartimento di Architettura e Urbanistica del Politecnico di Bari.
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l’architettura dei palazzetti che si trovano nel centro di Fasano lungo Corso Vittorio Emanuele perché probabilmente sono state progettate e costruite proprio dallo stesso costruttore o architetto. C’è questo dialogo tra la campagna e la città ed è peculiare. La campagna è urbanizzata: è città, e la città, in Puglia, risente della campagna. Quindi, questo rapporto, che io definirei “molto urbano”, è una cosa che accomuna la Puglia da nord a sud con alcune varianti: il modello più leggero è la Capitanata; il modello più denso è la Terra di Bari dove prevalentemente ci sono città con le Cattedrali; il Salento è una sorta di caso intermedio, ma tutta la Puglia è una “terra di città”. Questa è una cosa che non c’è in altre parti d’Italia. P Se noi pensiamo, per esempio, al territorio Padano dove a volte non hai la percezione di dove inizi e dove finisca una città perché è quasi un continuum, come succede peraltro nel Salento, e poi pensiamo a certe aree, come la Terra di Bari dove ,invece,si susseguono agglomerati urbani distinti, questo non contraddice un po’ quello che hai detto? B No, perché la “dimensione urbana” dei pugliesi è una dimensione culturale complessiva che prescinde dalle cose. Io credo che questa sia fondamentalmente un terra di città. Anche il villaggio feudale del Salento è una sorta di “messa in scena, in piccolo, della vita feudale”. Se tu vai in un villaggio toscano, trovi la casa del feudatario, ma non hai la feudalità, non hai una scena che ti possa far immaginare in toto la vita feudale come invece accade nel Salento, perché non c’è il potere feudale. Il potere feudale disegna questo piccolo villaggio, come accade in una delle cento città salentine, a dimensione di città: c’è la piazza, la chiesa; è una città in miniatura. Io vedo questa come una specificità della Puglia. In Toscana tu trovi il palazzetto centrale attorniato dalle casette delle persone “comuni”, ma non c’è la piazza, non c’è l’allestimento: è un villaggio normale, attraversato da una strada come tanti altri. P Invece il rapporto, pure rilevante, tra la costa e l’interno (visto che la Puglia è una delle regioni, insieme alla Calabria, con più costa in assoluto) è un rapporto che si ripercuote sulle tipologie edilizie, dal punto di vista sociale? Questa dimensione marinara di tutta la costa ha dato una connotazione forte all’architettura, ha contribuito a determinare l’identità di questa regione? B Ha dato sicuramente un contributo lungo tutta la striscia costiera, ma credo che spostandoci verso l’interno ci sia una marcata differenza territoriale. Gli insediamenti della costa, soprattutto in Terra di Bari, sono tutte città-porto perché hanno i fondali profondi (adatti alla creazione di porti); mentre i bassi
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fondali che caratterizzano sia le città nell’arco del Golfo di Manfredonia (nell’Adriatico in provincia di Foggia), che quelle a sud di Monopoli fino ad oltre Brindisi, hanno rarefatto le cittàporto. Le città si trovano fondamentalmente nella zona dei porti, nei 100 Km tra Barletta e Monopoli; queste città con la loro etnia multiculturale dovuta agli innumerevoli scambi tipici delle città-porto, hanno certamente dato molti elementi alla Puglia, però penso che non siano riuscite a piegare totalmente i caratteri duri del pugliese dell’interno. L’urbanità delle campagne è un carattere fondamentale della Puglia perché caratterizza sia le città contadine sia le città portuali sia le cittadine feudali del Salento, che sono embrioni di piccole città, sia le masserie che sono copie di architetture urbane; non penso, cioè, che le città-porto della costa come Trani, Barletta, Molfetta abbiano segnato la cultura delle città della Puglia, abbiano influenzato tutta la cultura della Puglia. La multiculturalità è rimasta una peculiarità della Terra di Bari, delle città-porto, che caratterizza solo i 100 Km di costa che vanno da Barletta a Monopoli. La Puglia dell’interno ha i suoi caratteri che non sono assimilabili a quelli delle città-porto: se si guarda Altamura da lontano, ci si rende conto di come Altamura sia l’emblema delle città interne: ha tutti gli elementi della drammatizzazione della città, ricorda Toledo, le grandi città della Spagna arroccate sui colli con i simboli come la Cattedrale, simboli un po’ drammatici. Il Greco focalizza la sua pittura proprio su questo aspetto drammatico delle città pugliesi. P Visto che hai questa familiarità con la zona di Fasano, ritorno un po’ sulla questione dei Trulli, diventati ormai una specie di souvenirs, ma che non posso non vedere come una forma di architettura spontanea… B Ambrosi organizzò un convegno nell’86/’87 sull’architettura di pietra nel Mediterraneo, convegno di cui sono rimasti un bel po’ di atti molto interessanti. Lui radunò una serie di studiosi di area mediterranea, spagnoli, greci, italiani, e forse anche qualcuno non appartenente all’area mediterranea, per cercare un filo rosso che collegasse le diverse architetture prodotte con la pietra pugliese fino ad arrivare alle forme, per certi versi più curiose, del trullo. Comunque, in genere, è un’architettura, quella della pietra, che ha molte varianti. I risultati di quel convegno, della durata di un paio di giorni, furono molto interessanti; infatti ne emerse che esiste una cultura della pietra che investe molti paesi del Mediterraneo. Noi pensiamo di essere abbastanza originali, ma ci sono delle forme pressoché identiche, nei vari paesi del Mediterraneo, come l’architettura dei muretti che trovi, per esempio, in Albania, fino ad arrivare a questa cosa curiosissima
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che sono i trulli, quasi sicuramente inventata nell’area di Fasano in età moderna, tra Seicento e Settecento. I trulli più antichi che si conoscono appartengono al primo Settecento, ad Alberobello alcuni risalgono anche al Seicento, ma la stagione principe della costruzione del trullo, nella zona di Fasano e Locorotondo, è l’Ottocento. Quindi sono di costruzione relativamente recente. Per esempio la Selva di Fasano è uno di questi villaggi ameni che si sviluppano a fine Settecento per la borghesia della costa che, arricchitasi con i commerci e con tutte le possibili attività costiere, durante i mesi estivi di luglio e agosto, non sta più bene al caldo delle cittadine come Fasano, Ostuni o Monopoli e si trasferisce in campagna laddove è più fresco. Questo “esodo estivo”, dalle città alle campagne, è un fenomeno che si manifesta ovunque, in Italia e all’estero, a partire dal Settecento. È un periodo caratteristico perché non sono solo i ricchi signori a trasferirsi nelle zone più fresche, ma è un fenomeno che coinvolge anche la nuova borghesia che ora può permettersi anche la seconda casa. Quindi, per esempio, nella zona di Monopoli caratterizzata dalle città costiere pianeggianti, assolate e calde, la borghesia inizia a trasferirsi, in estate, sulle colline boscose, alte circa 400 metri, che sorgono nella zona interna a quasi 5 chilometri dalla costa e che risulta essere una zona sicuramente più fresca. Si creano così, dei veri e propri “villaggi turistici” di borghesi, luoghi in cui la gente si ritrova d’estate. Lì, nel Settecento, sorgono i primi trulli, la cui costruzione si basa su una modalità architettonica, probabilmente inventata a partire da archetipi più antichi, presenti in tutto il Mediterraneo. È un’architettura inventata, è una sorta di paesaggio d’invenzione costruito a partire da archetipi più antichi, ma non così leggiadri come si pensa. Per certi versi questa è un’architettura del divertimento; è una sorta di “Disneyland” settecentesco! Si gioca con gli archetipi severi dell’architettura di pietra, con le coperture a “thòlos”, per fare una sorta di architettura “della festa” e allora viene inventato questa strana copertura perfettamente conica mettendoci sopra questa specie di “pizzo”che è un merletto (non è un caso che in quelle città si faccia diffusamente il merletto; per esempio a Fasano, fino alla fine dell’Ottocento, c’è una produzione del merletto in tutte le famiglie: tutte le donne vivono facendo i merletti bianchi). L’architettura del trullo è l’equivalente culturale, tra i muratori, della donna che fa il pizzo, il ghirigoro, il merletto. È un’architettura del gioco, del divertimento, della vacanza, innestata su archetipi più duri. Il thòlos, per esempio, si trova a Ceglie Messapica, nelle “specchie”, e risale al 1500 a.C. . La “specchia di Faccia squanta”, (Faccia bruciata), che è la più grande “specchia” del territorio di Ceglie Messapica (ha un diametro di 50 metri alla base ed è alta 20 metri) si trova nel bosco verso Villa Castelli ed è una “specchia” megalitica con
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blocchi, alla base, di 3 metri x 1 metro o di 3 metri x 2 metri (tanto che ci si chiede chi mai li abbia portati nel bosco visto che pesano tonnellate) che forma una specie di trullo megalitico che ha però 3500 anni! Quindi l’architettura della pietra è una cosa che caratterizza la Puglia centro meridionale dall’Ofanto a Santa Maria di Leuca e il nord del Gargano (che come dicono i geologi è un’appendice del cordone Balcanico, delle Alpi Dinariche, appartenente a quel massiccio che poi fu sommerso dalle acque. Il Gargano pare che geologicamente appartenga al massiccio calcareo dei Balcani); a nord dell’Ofanto, per tutta la provincia di Foggia (la grande pianura di Foggia di 500.000 ettari) compresi gli Appennini, invece, ci sono le argille. È difficile caratterizzare la Puglia perché ci sono tanti aspetti differenti. P
Per questo motivo non si parla di Puglia, ma delle Puglie.
B Dal punto di vista sociale forse abbiamo addirittura tre Puglie. C’è la storica tripartizione della Capitanata, della Terra di Bari e della Terra d’Otranto. Era un tripartizione etnica perché la Capitanata, al di là del nome che è bizantino (da Catapano), era abitata dai Dauni, discendenti dei Sanniti, una popolazione fondamentalmente interna della Puglia che risiedeva sui monti dell’Appennino Dauno. Era una popolazione autoctona che non si era mai “mischiata” a nessun’altro popolo; era una popolazione abbastanza misteriosa, infatti ci è voluto molto tempo per decifrare il loro linguaggio. I romani, così come fecero tre Guerre Sannitiche per riuscire ad assoggettare i Sanniti di Campobasso e Benevento, montanari molto duri, dovettero, allo stesso modo, fare molta fatica per piegare il popolo Dauno. La Terra di Bari era una Terra di popolamento Illirico, cioè tutti coloro che appartenevano alla Puglia centrale provenivano dall’Illiria romana, quindi dall’Albania, dalla Macedonia ed è per questo che, in questa zona della Puglia, si ha una cultura prevalentemente balcanica. La Terra d’Otranto, invece, da Fasano fino a quella che chiamiamo Penisola Salentina, era di un popolamento greco, infatti ci sono ancora 30 comuni circa che parlano come dialetto il greco antico. Taranto, la più grande città pugliese greca, fu fondata dagli Spartani all’inizio del IX secolo ed era la più importante fondazione spartana fuori dalla Grecia. Quindi possiamo affermare che tutto il Salento era greco. In conclusione, se ci basiamo sul carattere etnico della Puglia, troviamo 3 Puglie: una Puglia interna di Italici doc, i Dauni; una Puglia, quella centrale, dal background culturale balcanico; e una Puglia del miscuglio culturale greco, il Salento.
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P L’autore dell’attuale stemma araldico della Regione Puglia, è Zanon: un esperto di araldica dell’Ufficio della Presidenza del Consiglio degli anni ’70. Questi avrà avuto sicuramente qualche indicazione di suggestione baricentrica che ha poi figurato nello stemma, che, però, non accomuna l’intera Regione. Anche tu, mi sembra di capire, ci confermi questo carattere multiculturale come unico dato certo che accomuna tutta la Puglia… B Nelle strutture profonde, che poi non sono le forme architettoniche, ma sono le culture, le etnie, le radici, le ideologie, il clima, c’è una sostanziale pluralità. Poi magari le forme che si sono innestate su questa sostanziale pluralità, che Marx avrebbe definito come sovrastrutture, io le ho identificate nell’urbanità; in una tendenza ad essere urbani anche quando ci si trova in campagna. L’urbanità è un elemento che io trovo unificante, ma la vedrei come una sovrastruttura. I grandi geografi di fine Ottocento, primo Novecento, dell’Università di Bari come Colamonico e Toschi erano venuti ad insegnare alla Facoltà di Economia, quando si aprì, verso la fine dell’Ottocento l’Università di Bari, infatti, anche se ufficialmente si aprì nel 1924 come Università “Benito Mussolini”, in realtà nasceva a partire da una Facoltà già esistente che era l’Istituto Superiore di Studi Economici, nato intorno al 1880 a Bari e che era una vera e propria Facoltà universitaria nella quale hanno insegnato economisti importanti come Matteo Pantaleoni e credo che per un breve periodo ci sia passato anche Vilfredo Pareto. Allora questi grandi geografi quali Colamonico e Toschi avevano colto bene questa diversità strutturale della Puglia. Per fare un passo successivo, cioè per avere un’interpretazione della Puglia più vicina a noi, si può consultare un libro edito da Laterza “Evoluzioni del paesaggio italiano”, del 1996, dedicato alle regioni italiane; ho coordinato io lo studio per quel che riguarda la Puglia e, nella prima parte del lavoro, parto da questi studi classici di interpretazione delle Puglie, della pluralità, quindi parlo di Colamonico, Toschi eccetera, e cerco di dire come uno studioso di oggi può, grosso modo, da un lato confermare quello che ancora regge di queste visioni e aggiungere anche qualcosa che poi oggi vediamo magari in termini un po’ diversi. La dimensione ambientale, per esempio, ci ha portato a vedere la struttura pugliese in una maniera un po’ diversa: Colamonico e Toschi erano guidati dalla geografia e dalla geologia, noi adesso siamo guidati dagli animali, dalle vegetazioni e quindi la nostra visione delle strutture si è un po’ modificata e restituisce un’immagine della Puglia, forse ancora più frammentata di questo grande quadro tripartito che loro costruirono. Però, alcune cose reggono. Se si sfogliano le pagine, del libro sopracitato, inerenti la Puglia, si trovano questi ragionamenti
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e così come noi ci siamo sforzati settanta anni dopo, a metà degli anni ’90, di dare un contributo per avere una visione un po’ più contemporanea, oggi si può tentare di trarne nuove suggestioni…. P
Anche per tentare di dare un’omogeneità …
B Anche per capire se c’è un’identità … Per quanto riguarda il libro succitato, i coordinatori dello studio nazionale, commissionato dal Ministero dei Lavori Pubblici, dalla direzione generale per il coordinamento territoriale che commissionava a 3 studiosi italiani una ricognizione di tutte le trasformazioni del paesaggio italiano, furono Piercarlo Palermo del Politecnico di Milano e Clementi dell’Università di Roma. P Mi sembra che il quadro sia chiaro. È interessante vedere come una prospettiva come la tua, territoriale/paesaggistica, coincida con una visione più storica come quella del prof. Licinio, ma probabilmente se andassimo avanti di questo passo e interrogassimo i biologi piuttosto che altri specialisti, troveremmo conferma di questa sostanziale pluralità della Puglia. B Se vogliamo parlare nello specifico di ossatura possiamo anche dividere la Puglia in tre. Però se io dovessi suggerirvi qualcosa, vi direi che oggi siamo in grado di guardare in modo più raffinato, più articolato a questa ossatura fondamentale, magari tripartita nell’antico come etnie; per esempio se le etnie erano quelle e davano quella tripartizione chiara, cioè i Dauni, i Peuceti ed i Messapi, oggi, dopo 2000 anni, sono avvenute cose che hanno contribuito ad incrinare quella stessa ossatura. Quindi oggi dobbiamo tenere presente quell’ossatura, però dobbiamo essere capaci al tempo stesso di dare uno sguardo più approfondito, che poi è il compito che ci ponevamo noi nel ’96. Rispetto a queste visioni forti e che per certi versi durano ancora, come possiamo fare noi il nostro compito di studiosi del Duemila, cioè come possiamo fare a restituire uno sguardo il più possibile adeguato ai nostri tempi? Alla fine quello che abbiamo pensato è che era giusto restituire uno sguardo ancora più articolato. P Però ne parlavamo anche con il prof. Licinio, questo tratto di Terra di scambio, per certi versi di Terra di confine per i rapporti con l’Oriente, è una costante che ritorna continuamente. Ti rendi conto che, comunque, per questo rapporto che la Puglia ha con l’Oriente per gli scambi commerciali, i paradigmi non cambiano col tempo, ma si ripropongono. La sostanza, la vocazione intima di questa regione è sempre quella. Dal nostro punto di vista, se dovessimo fare una sintesi, piuttosto che andare alla ricerca dell’identità autoctona,
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definita, dovremmo semmai enfatizzare l’aspetto di scambio, di ponte. B D’altronde di qui si partiva per andare a fare le Crociate, si partiva per andare a fare una missione nella Grecia antica, si partiva per andare a comandare una spedizione in Asia Minore, per andare a guidare una guerra contro i Persiani. E avvicinandoci ai nostri tempi, durante il fascismo, Mussolini tentò, in un modo un po’ sprovveduto, di fare della Puglia, in una proiezione imperialistica di conquista verso l’Oriente, un ponte verso est, ed infatti questo è ben visibile nel Lungomare di Bari lungo il quale furono costruite caserme che stanno a simboleggiare un attacco imminente. Il Lungomare di Bari, infatti, è drammatico, simboleggia un fronte di guerra è, quasi, una dichiarazione di guerra. Gli edifici possono anche essere accettabili da un punto di vista estetico, ma è il messaggio che veicolano che è inaccettabile. P A proposito di questa visione della Puglia mi vengono in mente le Torri Aragonesi che si trovano a partire da Vasto per tutta la costa fino proprio a Taranto… B Ma quelle torri non sono tutte aragonesi, anzi quasi nessuna credo sia aragonese. Non escludo che qualcuna possa esserlo, ma quelle sono torri costruite a partire dal grande progetto di difesa del Regno di Carlo V di Borbone. Carlo V è mezzo Borbone di Spagna e per metà tedesco perché ha origine dagli Asburgo. La costruzione del sistema di torri costiere nel Regno di Napoli, avviene proprio a partire dall’anno in cui Carlo V , imperatore, s’impadronisce, nel 1532, del Regno di Napoli. Da quell’anno fino alla fine del Cinquecento, Carlo V con la disposizione al suo Viceré (perché lui non starà mai a Napoli, infatti, nominerà un primo viceré che è Don Pedro Da Toledo e poi i suoi figli, per tutto l’arco del XVI secolo, nomineranno via via dei Viceré e questi ultimi, come sappiamo, sono rimasti a Napoli fino al 1735 quando, dopo 2 secoli esatti, arriva il Re Carlo III, che è sempre un Borbone) fece costruire le torri di difesa per 70 anni. Non escludo che esistesse qualche torre aragonese Quattrocentesca, perché il periodo aragonese è il Quattrocento, ma sono pochissime forse 10, 20 in tutto il Regno di Napoli. Quello che vediamo è un sistema di torri borboniche, non sono torri aragonesi. Le torri si trovavano a distanza di sparo perché nelle intenzioni di Carlo V il torriere, sparando con una carabina, doveva poter essere sentito dalla torre successiva dando in questo modo l’allarme. Quindi sono ad intervalli di circa quindici minuti l’una dall’altra. L’arma da fuoco si diffonde nella seconda metà del Quattrocento; i fucili, invece, si diffondono nei primi anni del Cinquecento. Questo sistema di torri è come una collana
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di perle distanziate abbastanza uniformemente e spesso le torri si trovano là dove c’è una piccola cala perché così ci si poteva arrivare anche in barca e si poteva scappare: Torre Guaceto ne è un esempio. Comunque, quello di Alfonso D’Aragona è un esperimento completamente diverso, perché ricalca nella grande pianura di Foggia, di proprietà della corona, il regime della Meseta spagnola, della pastorizia itinerante, quindi porta in “Terra di Foggia” un modello culturale spagnolo che durerà fino al 1806, anno in cui arrivano i francesi e cominciano a sostenere che questo regime latifondista è improduttivo e che bisogna vendere per coltivare. I francesi sono influenzati dalla cultura dell’economia politica di fine Settecento; per gli economisti moderni,infatti, tutto ciò che è in comune è improduttivo. L’economia moderna, quella fondata dai classici, da Smith, diceva che, perché l’economia si sviluppasse, era necessario l’interesse di un privato che,in un terreno, cerca profitto. Quindi, il modello delle terre comuni che erano le terre dei Re, dei conventi, dei Priori, che fondamentalmente non avevano un interesse forte a trarre il massimo profitto, era un modello feudale. C’era questo regime a bassissima produttività che, per certi versi, conveniva a tutti. Comunque i francesi sostenevano che per rendere produttiva una terra era necessario l’intervento di un privato, quindi, presero le terre di Alfonso di Aragona, la grande pianura della pastorizia itinerante, la lottizzarono, crearono dei grandi lotti e cominciarono a metterli all’asta. Questa operazione di vendita all’asta del Tavoliere riuscirà in minima parte. Tornati nel 1815 i Borbone, dopo la Restaurazione di Vienna, viene interrotta la vendita all’asta. I Savoia, arrivati nel 1860, con il Regno d’Italia, la riprendono e la portano a compimento. Il Tavoliere che noi vediamo oggi è il frutto di queste vendite. P Secondo te è rimasto qualcosa risalente all’epoca romana oltre agli assi viari che sono fondamentali. B Non è che la rete stradale fosse poi così ben strutturata, comunque si poteva andare verso Brindisi, qualcosa c’era, non moltissimo. Nella pianura di Foggia pare che alcuni signori romani avessero delle grandi proprietà di circa 10.000/20.000 ettari. Per esempio c’è la Villa di San Giusto, in Agro di Lucera, chiamata così perché pare fosse la villa di un ricco romano che apparteneva alla famiglia di Cicerone e che adesso è stata inondata dalla diga di Piano dei Limiti che fu creata per espandere la capacità di irrigazione della diga di Occhito ( poiché quest’ultima non bastava per irrigare il Piano di Foggia, il consorzio di bonifica della Capitanata, 10 anni fa, ha creato uno sbarramento su un affluente del Portore, in agro di Lucera,
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e ha creato la diga del Piano dei Limiti aggiungendo altri 30.000.000 di metri cubi ai 110.000.000 della diga di Occhito e questo ulteriore sbarramento ha sepolto sotto 30 metri d’acqua la Villa di San Giusto con grandi proteste dei lucerini oltre che degli archeologi). Pare che la Villa di san Giusto, che adesso sta sott’acqua, fosse una grande fattoria romana. I romani si mantenevano nella piana, dove potevano difendersi, perché sui monti si trovavano i Dauni e loro temevano questo popolo sconosciuto che viveva sulle montagne. I Dauni non accettarono mai fino in fondo il dominio dei romani, quindi se c’era qualche masseria romana nella piana di Foggia, quindi prima della Meseta di Alfonso D’Aragona, probabilmente si trattava di casi sporadici sorti nelle zone più infrastrutturate e da cui i romani potevano fuggire più facilmente o potevano più agevolmente inviare un messaggero per chiedere rinforzi nel caso in cui fossero stati attaccati. P Noi nella ricostruzione della vicenda murgiana abbiamo sempre attribuito molta importanza alla strutturazione della viabilità romana che in qualche modo ha spostato, ad un certo punto, l’asse privilegiato della Via Appia dell’interno, verso la Via Traiana più sulla costa; quindi noi l’abbiamo letto come un decadimento dell’importanza dei centri interni.
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Conversazione con Damiana Santoro 9 Perrone Vogliamo capire se nei segni c’è qualcosa che ci può interessare. Insomma aspetti che creino un contorno, una cornice a queste cose che ci suggestionano molto (come, ad esempio, la ceramica geometrica), cercando di collocarli in una sequenza storica che metta le cose un po’ in ordine; perché ,altrimenti, per noi si tratta di concetti abbastanza vaghi. La realtà pre-romana in realtà cos’ è? L’idea che mi sono fatto, e non so se me la confermi, è che questa logica della contaminazione c’è sempre stata. Oggi parliamo di globalizzazione come di un fenomeno nuovo, ma in realtà le contaminazioni ci sono sempre state, e per la Puglia in particolare andare alla ricerca dell’elemento autoctono è quasi una velleità Santoro Sì, perché, in effetti, noi partiamo da un pregiudizio: più andiamo indietro nel tempo e più siamo pronti a pensare a comunità umane statiche, chiuse nei loro insediamenti. In realtà, invece, ci sono stati sempre contatti e scambi culturali. Non dobbiamo neanche riferirci così superficialmente a questi movimenti che ci sono stati e che poi sono anche antropologicamente all’origine del nostro progresso. Cioè, proprio questa propensione al movimento, anche fisico, allo spostamento, ci ha condotto al punto in cui oggi siamo. Non vorrei risalire indietro nel tempo inutilmente, però, pensate all’evoluzione dell’uomo, agli spostamenti delle popolazioni, al momento in cui è cominciata l’evoluzione dell’uomo e a tutta la nostra storia di genere umano che ci rimanda agli spostamenti, ai movimenti e quindi agli scambi culturali. Chiaramente, per quanto riguarda gli scambi culturali, è da un certo punto in poi che possiamo parlare di evoluzione del genere umano; eppure anche nella preistoria più antica, nel Paleolitico, si possono ravvisare delle somiglianze culturali tra popolazioni o meglio tra insediamenti distanti fra loro. Questo ci fa capire che, anche a distanza di centinaia di chilometri, i gruppi umani potevano, per esempio, lavorare la pietra in un certo modo, ricavare degli strumenti lavorandoli in un certo modo e dando loro delle forme standardizzate. Questo significava che, evidentemente, si trattava di popolazioni che conoscevano un certo modo di procedere e che poi, spostandosi, l’hanno diffuso. P ... le categorie: età del ferro, del bronzo, della pietra, sono legate alle tecnologie adottate per modificare l’ambiente. S Sì. Questo è un approccio di tipo materiale, che assume il punto di vista della storia materiale. Partendo dagli oggetti, se 9
Damina Santoro, Archeologa
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andassimo indietro nel tempo, avremmo minime testimonianze che permetterebbero di capire come l’uomo abbia inciso sull’ambiente, e come lo abbia modificato per sopravvivere e non solo. Anche questo è un pregiudizio: siamo portati a vedere il passato come fatto di stenti, di sopravvivenza sempre al limite. Io, invece, ho una visione un po’ più positiva. Non dico di pensare alla preistoria e, in particolare, all’età paleolitica (che è l’età della caccia e della raccolta, per semplificare) come all’età dell’oro, come qualche studioso del passato ha definito questo periodo della preistoria; però dovremmo pensare anche ad un rapporto degli uomini con l’ambiente sempre un po’ sospetto, ma anche un po’ più empatico, più vicino, appunto, a quelle che potevano essere le peculiarità di ogni ambiente e più capace di coglierne, il più possibile, le risorse e le opportunità. Il cambiamento più importante, per quanto riguarda il rapporto dell’uomo con l’ambiente, è quello che si verifica nel Neolitico; perché è il momento in cui l’uomo comincia a modificare con più forza e in maniera più decisa l’ambiente circostante. Nel momento in cui nasce l’agricoltura si verificano, per esempio, i primi disboscamenti per ricavare i terreni atti alla coltivazione. Questo è un fenomeno che si verifica un po’ dappertutto nel mondo quando viene introdotta l’agricoltura e, chiaramente, è qualcosa che riguarda la Puglia. Se adesso contestualizziamo la nostra regione, certamente il Neolitico rappresenta un momento della preistoria in cui le comunità umane diventano più numerose... P
Allora il Neolitico dal punto di vista cronologico...
S La cronologia varia abbastanza: se parliamo di oriente, essa è diversa rispetto alle cronologie che riguardano la penisola italiana e nella stessa penisola italiana troviamo, poi, anche differenze tra Italia Meridionale e Italia Settentrionale. Qui c’è tutto il discorso sull’origine dell’agricoltura: se è di origine autoctona o se, invece, è un’innovazione che proviene dall’Oriente. Comunque la Puglia, in questo senso, è sempre stata vista come un ponte verso l’Oriente e quindi, quando si è pensato all’introduzione dell’agricoltura nella penisola italiana, si è pensato alla Puglia. Essa è considerata la zona in cui è arrivata per prima l’agricoltura; proprio perché è protesa verso l’Oriente e facilmente raggiungibile con le navigazioni. Effettivamente ci sono insediamenti che risalgono, almeno, al VI millennio a.C. L’inserimento cronologico da tener presente è il VI millennio a.C., che indica l’inizio del Neolitico in Puglia. Ci sono, poi, datazioni che risalgono un po’ indietro e che sono state riviste in quanto, ultimamente, sono state rilevate datazioni al radiocarbonio con la calibrazione. Alcune date sono state portate
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un po’ più indietro. Però, come riferimento, per noi va bene il VI millennio a.C. P
Cosa significa letteralmente Paleolitico?
S Paleolitico letteralmente significa età della pietra antica, cioè la lavorazione della pietra era effettuata in un certo modo: prima su un nucleo (quindi sul blocco di roccia dal quale si ricavava lo strumento) e poi ricavando da un blocco tanti strumenti (quindi la lavorazione su scheggia con forme standardizzate). Per esempio nel Paleolitico medio si vive il musteriano, che è un particolare modo di lavorare le schegge per ricavare strumenti con delle forme proprio standardizzate. Un musteriano molto interessante è stato rinvenuto, negli ultimi anni, a Ginosa P
Ci fai vedere qualche esempio?
S
No, non ce ne sono.
P
Questi, invece?
S Questi sono del Paleolitico antico e sono bifacciali; i classici bifacciali o amigdale. Quelli che sui libri di scuola elementare chiamavano amigdale. P
E sono utensili per la caccia...
S Sono blocchi di roccia lavorati, generalmente, sulle due facce per ricavare dei margini taglienti. Sono utilizzati o tenendoli in mano, oppure immanicandoli su delle aste di legno che, chiaramente, non sono state rinvenute. Quindi, in Puglia è presente il Paleolitico antico ed il Paleolitico medio. Per la preistoria italiana più antica, la Puglia rappresenta veramente un punto di riferimento per tutti i ritrovamenti dal Paleolitico antico, al medio, fino al Paleolitico superiore con delle cose molto importanti che sono i rinvenimenti di Grotta Paglicci (nel Gargano), con sepolture di età del Paleolitico superiore. Più o meno siamo intorno a 25.000 anni fa P
Li abbiamo qua?
S Dovrebbe esserci almeno una delle sepolture che dà testimonianza dell’arte paleolitica presente nel Gargano. P
E Grotta Stagnoli, nel Gargano?
S
Sì, ci sono vari insediamenti. Il più famoso è Grotta
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Paglicci , proprio per il tipo di rinvenimenti. Una di queste sepolture è riprodotta nel Museo Archeologico di Altamura; quindi sarebbe il caso di andarci! Lì è riprodotta la copia fisica di una donna di 24.000 anni fa, sepolta nella posizione supina con il suo diadema di denti di cervo e l’ocra che ricopre la sepoltura; una tipica deposizione... ... Comunque c’è più di una sepoltura, anche quella di un ragazzo di 12-14 anni. E qui ci sono i dipinti di Grotta Paglicci: questo cavallo, gli ossi incisi. Queste incisioni, poi, ricorrono anche sui ciottoli romanelliani rinvenuti nella Grotta Romanelli (nel Salento), dove ci sono ciottoli dipinti e incisi che, poi, sono anche i ciottoli di Altamura che hanno incisioni geometriche dai significati ignoti. Trattandosi di trattini incisi, per comparazione etnografica, si potrebbero riferire certamente ad una enumerazione o comunque alla volontà di numerare qualcosa, come ad esempio contare gli individui di un branco di animali che si sta seguendo. In alcune popolazioni cosiddette primitive che sono state studiate dagli antropologi nel ‘900, ciottoli e incisioni simili sono stati riferiti, invece, all’osservazione delle fasi lunari; cioè c’è chi dice che quelle fossero una specie di calendario. L’ipotesi del semplice motivo ornamentale, sinceramente, la escluderei, perché sicuramente avevano una funzione; cioè si tratta dei segni incisi sui ciottoli. Non so se qui ci sono.. No! Li hai sulla guida dell’Alta Murgia. Sono interessantissimi perché rappresentano le capacità dell’ homo sapiens sapiens, che è l’uomo della nostra specie nel Paleolitico superiore; sino al medio parliamo di specie diverse: nel Paleolitico medio si colloca Neanderthal, nel Paleolitico inferiore c’è l’homo erectus insieme ad alcune specie di homo sapiens arcaicus (ovvero le forme precedenti a quella del sapiens sapiens). Quelle incisioni sono proprio la manifestazione del fatto che l’homo sapiens sapiens sapeva trasmettere qualcosa con dei segni convenzionali. P Qui non si vede molto bene. C’è da qualche altra parte, però sono sostanzialmente dei tratti, questi sono sicuramente forgiati così, non sono pietre... S No, no, la forma è naturale, sono stati creati con una forma particolare anche perché questo era un materiale che abbondava, per cui potevano scegliere ciò che piaceva loro di più, ciò che era loro più utile. P
Sostanzialmente questi sono segni molto arcaici?
S Sì, questi sono tutti trattini su tele ordinate, parallele e sono ben studiati. Non sono casuali ed hanno evidentemente un
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significato. Quella della numerazione è, forse, l’interpretazione più facile; però lì siamo nel Paleolitico, mentre dal VI millennio a.C. fino alla prima metà del III millennio a.C. siamo nel Neolitico (letteralmente significa età della pietra nuova ed è caratterizzata da una nuova tecnologia di lavorazione della pietra levigata). Gli strumenti tipici che ci fanno pensare al Neolitico sono: le accette levigate, le lame, le asce. Voce In cosa consisteva questa nuova tecnologia? S Nella levigatura della pietra. Ci sono sicuramente degli strumenti del Neolitico qui! C’è qualche esempio di accetta. Mentre quelle del Neolitico erano scheggiate, queste, invece, erano levigate in modo da ottenere superfici lucenti e il tagliente della lama dell’ascia, che poi veniva montato su questo manico. P Sembrerebbe il primo passo verso il product design; cioè ci si cominciava a porre il problema della forma e della funzione. S Sì! Certamente c’è anche una ricerca della forma che non sia quella più bella, ma quella con delle caratteristiche ben determinate. Questi sono materiali che si trovano abbondantemente in tutti i siti del Neolitico; cioè se si fa una passeggiata in campagna, laddove si sa che ci sono stati insediamenti neolitici, se ne possono trovare in superficie anche di integri. Alle volte se ne può trovare solo una parte, magari la parte terminale della lama del tagliente. Se ne trovano di molto consumate, usurate e se l’oggetto lo consentiva, il taglio veniva ravvivato e quindi riutilizzato. Non è semplice ricavare uno strumento di questo tipo: a parte le ore di lavoro richieste per la levigatura, c’è a monte di questo lavoro, che già di per sé rappresenta la parte finale di tutto il processo di produzione,una grande capacità nella scelta dei ciottoli e della pietra giusta. Bisogna avere una certa esperienza per trovare il materiale giusto tra tutto quello presente sulla Murgia. ... La selce è un materiale che abbonda nel Gargano. Lì c’era, addirittura, la Miniera della Defensola dove sono stati rinvenuti i resti dell’estrazione e della lavorazione della selce, i resti delle fiaccole, dei vasi e del pasto consumato. Essa è stata utilizzata per millenni come miniera per estrarre la selce che veniva commercializzata in tutta la Puglia. La selce che troviamo nelle nostre zone viene, con molta probabilità, dal Gargano. Nel materano si trovano delle vene di selce nelle stratificazioni rocciose che, però, non fornivano certamente materiale sufficiente e in abbondanza. Nel Neolitico abbiamo la testimonianza di una rete commerciale con popolazioni
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anche lontane (addirittura provenienti da oltremare), perché abbiamo l’ossidiana. Essa è la prova evidente del fatto che questi villaggi della Puglia neolitica fossero in contatto con popolazioni lontane. Certamente non si tratta di un contatto diretto; cioè non dobbiamo pensare che gli antenati dei nostri villaggi neolitici si recassero sull’isola di Lipari una volta all’anno per approvvigionarsi di ossidiana, ma per effettuare scambi immediati, di popolazioni in popolazione. P
L’ossidiana si trova solo a Lipari?
S Nel Mediterraneo la si trova anche a Monte Arci,( in Sardegna) e a Palmarola. Ci sono diversi affioramenti di ossidiana utilizzabile. All’epoca, nel Neolitico, erano più o meno questi, ma quella che troviamo in Puglia viene, generalmente, da Lipari. In base agli elementi chimici ed ai minerali presenti, sono stati individuati i punti di estrazione ed è stato notato che la nostra ossidiana proviene prevalentemente dall’isola di Lipari. In particolare, in occasione della mia tesi di specializzazione, ho rinvenuto dell’ossidiana nei siti neolitici individuati nel territorio di Altamura; in seguito l’ho raccolta e fatta analizzare con una tecnica particolare che consentiva di non distruggere il campione. In effetti i riferimenti hanno confermato, anche per le ossidiane ritrovate sull’Alta Murgia, una provenienza dall’isola di Lipari. Questo a testimonianza degli scambi mediati e non diretti; cioè questi materiali viaggiavano di villaggio in villaggio. Con essi viaggiava, però, anche quella che chiamiamo genericamente cultura ossia, ad esempio, modi di fabbricare i vasi e di dare delle forme e delle decorazioni particolari alla ceramica. Una ceramica che ritroviamo nei villaggi della Puglia, del materano e nelle isole Eolie, è la cosiddetta ceramica in stile Serra d’Alto; chiamata così perché per la prima volta rinvenuta a Matera sulla collina di Serra d’Alto dove c’era un villaggio Neolitico molto importante. Questa ceramica la ritroviamo in tutti i nostri villaggi. Quando ci riferiamo alla ceramica di Serra d’Alto, parliamo di Neolitico medio quindi siamo nel V millennio a.C. La ceramica Serra d’Alto è direttamente connessa con le pitture di Porto Badisco, perché molti elementi decorativi come i motivi spiraliformi, i tratti sinuosi e ad uncino, il motivo solare, si ritrovano tutti sulle ceramiche di Serra d’Alto. Questa è un’altra prova del fatto che la somiglianza non è casuale; cioè, evidentemente, se le sono viste e se le sono copiate. P Non c’è un’ipotesi secondo la quale questa tipologia di segni siano congeniti a quell’attitudine dell’uomo a tracciarli e che questa sia la forma più primigenia? Cioè nel momento in cui chiedi a chiunque, anche ad una scimmia, di tracciare un segno, ci potrebbe
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essere una tipologia ricorrente per cui, come dire, l’evoluzione è, poi, un passo successivo dettato dal gusto di arricchire questo set di segni ricorrenti che, però, appartengono quasi ad una forma essenziale ed innata? Non c’è questa ipotesi? Voce Cioè di linguaggio del posto? P No di linguaggio del posto! È possibile che, per esempio, il primo uomo ad aver tracciato il primo segno a fini comunicativi, abbia tracciato lo stesso segno qui come in Australia; cioè che sia quello il primo segno che viene spontaneo tracciare? S Sì, sì! Le ultime teorie sono propense a pensare ad un’origine policentrica; cioè che in molti punti della terra abitata dall’uomo si siano create quelle condizioni tali da indurre a fare determinate scoperte, invenzioni, a muoversi in un determinato modo e quindi ad imprimere quelle spinte alla rivoluzione culturale. Intendendo però, in questo caso, l’evoluzione in maniera molto ampia e cercando di avere la mente libera da etnocentrismi. Quando parliamo di evoluzione pensiamo sempre ed esclusivamente all’evoluzione della nostra civiltà occidentale. Generalmente che cosa ci appassiona di più ? Quando pensiamo ai monumenti del passato, pensiamo quasi sempre a quello che ci hanno lasciato gli antichi greci, la Magna Grecia e i romani. Spesso, a parte l’attrazione per l’esotismo della civiltà egizia, assira o babilonese, consideriamo la Cina o l’India marginali rispetto al punto in cui riteniamo che si debba concentrare la nostra ricostruzione della civiltà. Quindi, una volta liberi da questo pregiudizio, è molto probabile che si debbano considerare delle evoluzioni parallele che non necessariamente convergono tutte nello stesso punto. Cioè, chi ci dice che l’apice della civiltà sia quello che stiamo vivendo? Non è necessariamente così! Magari l’apice della civiltà, guardando da prospettive diverse, potrebbe essere quello raggiunto dagli antichi aztechi e noi, invece, siamo indietro rispetto a loro (questo se dobbiamo utilizzare dei parametri diversi). Quindi il problema che ti poni tu è un problema di questo tipo; cioè anche sull’evoluzione cerebrale dell’uomo. Molti studiosi, adesso, si concentrano proprio sull’evoluzione delle varie aree del nostro cervello; sulle differenze che si possono apprezzare tra quello che poteva essere il cervello di Neanderthal è quello del sapiens sapiens. In che cosa si sono differenziati? Perché ad un certo punto si è fermato il sapiens sapiens e perché, poi, ad un altro punto ha iniziato a percorrere un certo tipo di strada per arrivare a quello a cui si è poi arrivati? P
Cosa stavi dicendo di questi segni di Porto Badisco?
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S Questi segni sono interessanti per tanti motivi. Uno è il fatto che su queste ceramiche si ritrovano dei segni che sono tracciati nella grotta. Voce Ma i segni della grotta sono contemporanei di quelli delle ceramiche? S Sì e lì nella grotta sono state rinvenute anche le ceramiche. Le ceramiche della Scaloria sono più o meno coeve. Esse si trovano in un sito del Gargano ed hanno motivi a meandro e ad uncino. P Che non hanno nulla a che fare con le ceramiche geometriche degli Iapigi? S No, anche perché ci sono migliaia di anni di distanza. Qui siamo nel V millennio a.C. S Queste sono ceramiche in stile Serra d’Alto. Tra questo tipo di ceramiche troviamo: tazze, coppe e scodelle dalle forme molto raffinate. Sono ceramiche generalmente molto sottili. Le argille sono state depurate, decantate. Sono molto evolute e richiedono una competenza molto specializzata; infatti alla loro realizzazione si dedicano esclusivamente alcuni individui del gruppo. Sono tipiche anche queste grandi anse (manici che possono essere decorati). Qui, ad esempio, c’è una cosiddetta protome. Vediamo se individuo l’animale...no, dice solo: “ diversi tipi di ansa con protome zoomorfa schematica”. Queste anse sono, molte volte, sormontate da rappresentazioni schematizzate di animali e alcune volte è anche possibile trovare rappresentazioni antropomorfe che sono alcune delle rappresentazioni più antiche della figura umana. P
E quelle figure femminili che abbiamo visto prima?
S Quelle statuette sono le Veneri e risalgono al periodo del Paleolitico. Esse vengono da Parabita, nel Salento, e sono rappresentazioni molto antiche della figura umana. Sono presenti un po’ in tutta Europa. Questa è la tipica rappresentazione della fertilità, espressa attraverso l’immagine di una donna florida, corpulenta. Siamo nel Paleolitico superiore e queste sono una delle manifestazioni della cosiddetta arte mobiliare (cioè abbiamo l’arte parietale, ovvero i dipinti, e l’arte mobiliare, ovvero gli oggetti, i mobili). Certamente qui non c’è una funzione pratica, ecco perché parliamo di arte del Paleolitico; per quanto una funzione pratica potrebbe anche essere quella di essere un oggetto legato alla sfera religiosa.
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P Raccontaci tutto quello che sai di questa storia di Porto Badisco che per noi è piena di elementi molto affascinanti. S Sì, Porto Badisco è molto affascinante prima di tutto come luogo: grotta sul mare. Le grotte del Neolitico non erano generalmente abitate, ma utilizzate per il culto funerario e in Puglia si trovano diverse grotte in cui sono state rinvenute sepolture. Anche questo fa parte del pregiudizio che abbiamo della preistoria che, per noi, è abitare in grotta. Noi ricostruiamo il passato in base agli elementi che abbiamo e in base ad essi, quando parliamo di abitazioni del Neolitico, dobbiamo pensare alle capanne (abitazioni costruite con materiali come: pietre, fango, legno, rami intrecciati, paglia e tutto quello che era disponibile per costruire le capanne). Esse potevano essere: circolari, quadrangolari, rettangolari, e di forma più o meno allungata. P Quindi le civiltà che si sono sviluppate intorno a corsi d’acqua come fiumi, gravine, sono, con i loro insediamenti rupestri, di molto successive e invece in questo periodo la forma abitativa era la capanna? S Sì! È chiaro, poi, che se c’erano delle grotte naturali, venivano utilizzate ad esempio come rifugi temporanei. Pensate ad un territorio abbastanza ampio: potevano scegliere l’altura per stabilire il villaggio con capanne e silos atti alla conservazione delle derrate alimentari o alla raccolta dell’acqua; fossati per la difesa del villaggio (ammesso che questi fossati avessero una funzione difensiva, dato che anche in questo caso c’è tutta una discussione); le grotte del territorio, invece, potevano fungere, ad esempio, da accampamenti temporanei durante le battute di caccia, dato che anche se nel Neolitico praticavano l’agricoltura e l’allevamento, continuavano ad usufruire delle risorse naturali della caccia e raccolta offerte dal territorio circostante. Non possiamo affermare in assoluto che le grotte non fossero frequentate per scopi abitativi, ma i ritrovamenti testimoniano che il più delle volte avessero quest’uso funerario e cultuale. Questo lo si è visto nel Gargano, nella Grotta della Scaloria. A Manfredonia, in particolare, è attestato il culto delle acque perché sono state rinvenute delle forme vascolari definite di stile Scaloria alta, collocati sotto lo stillicidio delle grotte; quindi il contesto del rinvenimento fa pensare ad una situazione di tipo culturale; il culto delle acque è, del resto, l’interpretazione più scontata e verosimile. Le grotte funerarie più vicine a noi sono: Cala Colombo e Cala Scizzo che sono grotte naturali della costa barese, e Porto Badisco, nel Salento, dove ci sono molte grotte frequentate dall’uomo dal Paleolitico in poi. Quest’ultima è interessante per le migliaia di
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motivi decorativi. P Ma questi motivi fanno parte di un apparato iconografico che aveva una funzione legata ai culti funerari, oppure… S Sì, si tratta certamente anche di un insediamento di tipo cultuale. A Porto Badisco credo che non siano state rinvenute sepolture, però questi segni… P Mi sembra che questa grotta sia attualmente inaccessibile e che sia a diretto contatto col mare. S Sì. Sicuramente è stata scelta per questo: per l’accesso dal mare e, certamente, ci deve essere stato anche un motivo particolare che ha portato a scegliere questa grotta per tracciare questi disegni di tanti tipi. Ci sono figure umane, animali, il motivo solare e segni che non sono stai interpretati (Graziosi ha fatto uno studio sistematico su tutti i segni di Porto Badisco). Poi ci sono le famose manine: le impronte di mani che sembrano di bambini e che fanno pensare al risultato di un azione di tipo rituale sulle pareti della grotta. I colori usati sono, generalmente, il rosso e il nero. Graziosi ne ha fatto una casistica. P Certo che lì in Lombardia: la Croce Comune, e le varie storie… Per questo ti chiedevo se questi segni, in realtà, poi, sono sempre gli stessi, anche quando non c’è stato scambio culturale… S Sì, può essere, ma dipende anche dalle sollecitazione che il gruppo umano riceve. Il condizionamento principale era l’ambiente. Voce Forse il mare doveva avere un’influenza su questi segni e per questo risultavano diversi da quelli Lombardi, proprio perché il mare lì non c’era. L’idea che la grotta di Porto Badisco dia proprio sul mare, è una cosa che mi fa pensare a questa vocazione ad andare verso Levante. S Per esempio, tra le figure umane ce ne sono di diversi tipi: alcune molto schematiche, altre invece molto più elaborate. Più sono schematiche e più risultano interessanti, perché prende forma un processo di astrazione, erroneamente le definiamo semplici. Questi segni, invece, sono il frutto di un’elaborazione. Qualcuno, come ad esempio quelli malati di esoterismo, ha interpretato questi segni come degli ufo. Si sono sbizzarriti. Graziosi, per alcuni, ammette di non sapere cosa fossero. P
Secondo te è ipotizzabile una continuità tra questo tipo di
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rappresentazioni, quelle dei trulli e le ceramiche geometriche? Cioè è possibile ipotizzare una sorta di continuità stilistica o sono... S Allora, continuità nel senso di trasmissione, di tradizione culturale, no! Sono troppo lontane. Non la vedo come trasmissione diretta, ma piuttosto come un’innata propensione ad interpretare alcuni elementi della realtà, del paesaggio e dell’ambiente in un determinato modo. Cioè una convergenza evolutiva, in momenti storici diversi, verso una rappresentazione con segni simili che, però, sono il punto di approdo di un approccio culturale diverso, perché parliamo di momenti storici troppo lontani tra di loro. Quindi non ci vedrei una tradizione, perché c’è troppa differenza e ci sono anche tante cesure verificate. C’è comunque una continuità. La riflessione che facevi tu prima e cioè che guardando un segno di questo tipo, lo troviamo simile ad un segno che sta qui, e se questa sia una risposta innata, allora sì. Voce Una specie di arte popolare, le cui origini sono sempre le stesse e che, comunque, partono sempre dalle prime necessità dell’uomo. Se ci si chiede quanto c’è di Puglia in queste cose, cioè se c’è una specificità, se c’è qualcosa che possiamo dire che sia proprio nostro….. S L’ambiente è quello che ci ha sempre condizionati; poi la differenza tra chi è vissuto 10.000 anni fa o 100.000 anni fa... Adesso abbiamo degli strumenti che ci consentono di dominare l’ambiente e di non esserne condizionati; se poi l’equilibrio si spezza, sarà l’esatto contrario. P Se proprio vogliamo essere testardi in questa ricerca di “pugliesità”, dove possiamo individuare dei tratti che siano veramente specifici? Dato che l’altro giorno, parlandone, si accennava agli Iapigi, mi chiedevo se fosse possibile individuarla in quel contesto. S Sì, certamente! Perché quando parliamo di Iapigia ci riferiamo ad un territorio storicamente definito (perché ce ne parlano gli storici) e dalle caratteristiche culturali ben definite. Non a caso voi avete puntato l’attenzione sulla ceramica geometrica Iapigia, che è proprio l’elemento culturale che rende riconoscibile questa etnia rispetto alle popolazioni coeve. Quando parliamo di Iapigi, ci riferiamo al XII secolo a.C. Voce Quindi subito dopo? Sempre Neolitico? S No! Non è subito dopo, perché poniamo la fine del Neolitico attorno alla prima metà del III millennio a.C. (30003500 a.C., per parlare in termini di anni). Poi consideriamo,
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semplificando molto, che ci sono 500-600 anni di Eneolitico (età del rame). A questo periodo appartengono le tombe di Laterza. Poi dal 2000 fino al XII secolo a.C. parliamo di età del bronzo, cui appartengono gli ipogei di Trinitapoli che sicuramente avrete visto in alcuni servizi televisivi. Voce Quell’elmo e quegli oggetti di Ruvo, vengono dopo? S
Sì, ad Altamura ci sono le tombe a grotticella, a globuli.
Voce Mi hanno chiesto quando, in sostanza, sia iniziata la Puglia. S La Puglia, quando parliamo di Iapigia, inizia nel XII secolo a.C. Tra il Neolitico e il XII secolo a.C. c’è stato l’Eneolitico (l’età del rame) e l’età del bronzo che è divisa in antico medio e recente. Voce L’Eneolitico? S Prima il Neolitico, poi l’Eneolitico e l’età del bronzo. Chiaramente per le proprietà dei metalli e la lavorazione del bronzo, questa fase della preistoria viene riconosciuta come momento in cui si conosceva la lavorazione dei metalli. C’è tutta una serie di oggetti che venivano prodotti: tipologie con iscrizioni particolari realizzate in aree particolari ben individuabili e culturalmente ben definibili, un tipo di insediamento particolare; tombe che possono essere a grotticella artificiale (quindi scavate nella roccia) o possono essere le specchie che troviamo sia nel Salento che nella Puglia centrale. Sono tombe ciste litiche scavate nella roccia, coperte da un cumulo di pietre che poteva avere un diametro di 10-15 metri e che diventava il monumento, il segno della presenza del monumento funerario sul territorio. Ci sono anche tombe ad incinerazione; è anche attestato il rito dell’incinerazione nell’età del bronzo recente. Così arriviamo fino al XII secolo, età del bronzo finale, quando si cominciano ad individuare segni di discontinuità; ad esempio, negli insediamenti si sono potute riconoscere tracce di incendi o comunque tracce di abbandono. Gli strati più recenti, rispetto a questi episodi di abbandono e distruzione, restituiscono elementi di ceramica geometrica e quindi vi è l’affermarsi di una cultura diversa rispetto a quella dominante nell’età del bronzo recente. Questo tipo di insediamento culturale, caratteristico della ceramica decorata con motivi geometrici, viene correlato alla popolazione degli Iapigi. Si tratta di una popolazione di cui ci parlano gli storici greci; ritroviamo gli Iapigi anche in Erodoto (V secolo a.C.). Poi c’è Tucidide che parla per la prima volta di archeologia; nel
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senso che risale indietro nel tempo interpretando i resti delle civiltà precedenti e dandoci un’idea di quello che doveva essere il passato remoto delle popolazioni storiche nel momento in cui scrive. Quindi nel XII secolo si insediano gli Iapigi. Per quanto riguarda la loro provenienza, gli studiosi pensano che provenissero dai Balcani, perchè è nei Balcani che si ritrova un tipo di ceramica confrontabile e molto simile alla ceramica geometrica, sia per quel che riguarda le tecnologie e sia per i motivi decorativi. Questa, per esempio è ceramica geometrica. Questi sono vasi dell’età del bronzo... Questa ceramica scura e queste forme sono tipiche: coppe, scodelle, anse a forme di ascia. I Dolmen, come quelli di Bisceglie, sono dell’età del bronzo. Qui siamo nel XIII secolo a.C. Negli insediamenti dell’età del bronzo pugliese sono molto frequenti oggetti di questo tipo, queste sono ceramiche micenee; testimonianza della presenza di mercanti micenei che utilizzavano le nostre coste come approdo per smerciare i loro prodotti. Questi materiali micenei del XIVXIII secolo a.C., li ritroviamo in abbondanza. Santa Sabina, in provincia di Brindisi, è un insediamento molto importante per la costa adriatica. Voce Abbiamo fatto un bel salto: dai disegni sinuosi a queste forme abbastanza complesse! S Non so se queste cose le avete già viste su Intema. È uno studioso che si è occupato della ceramica geometrica in Iapigia. Ha schematizzato tutte le forme dividendole per periodi ed ambiti geografici. Queste sono ceramiche geometriche, però, siamo già nel VII secolo a.C. Si tratta di ceramiche in argilla chiara, abbastanza depurate dagli intrusi, e abbastanza decantate. Sono ceramiche fatte dapprima a mano e, successivamente, al cosiddetto tornio lento (tra l’VIII e il VII secolo a.C.), in seguito ai contatti con le colonie greche. I motivi decorativi inizialmente sono solo in bruno, poi compaiono i due colori, la bicromia, il rosso. Sono motivi geometrici che poi, man mano che ci avviciniamo nel tempo, per contaminazioni con le ceramiche di fabbricazione greca, cominciano a caratterizzarsi di elementi zoomorfi quando, addirittura, non antropomorfi. Sono, chiaramente, elementi molto schematici che non hanno la ricchezza del disegno e della raffigurazione che è propria della ceramica italiota (quella dei vasi a figure rosse). In quel caso si tratta non di una scelta, ma proprio di una minore competenza nella padronanza del disegno; cioè quando hanno voluto raffigurare la figura umana, l’hanno schematizzata nelle classiche losanghe o triangoli. In questo caso siamo, però, già nel VI-V secolo a.C. quando, invece, con la ceramica coeva, che loro importano come
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indigeni da Taranto e da Metaponto, ci sono rappresentazioni di scene. Evidentemente, c’è proprio una differenza di capacità tecnologica, in questo caso. Le forme sono di vario tipo. Ci sono forme che sono tipicamente funerarie e che non hanno un utilizzo pratico e ci sono anche vasi, brocche e scodelle che, invece, possono avere una funzione pratica. I motivi decorativi sono: linee, motivi a scaletta, losanghe, triangoli con tratteggi interni e col reticolo, e il cosiddetto motivo a tenda. Questi sono, però, meno frequenti nella Iapigia, nella Peucezia e nella Messapia, perchè questi li troviamo piuttosto nella Daunia e nella Puglia settentrionale che gravita più verso la Campania. Voce Quindi parliamo anche di popolazioni diverse: Peuceti, Dauni... S Parliamo di Iapigi che nell’VIII secolo a.C. si differenziano tra loro; cioè la ceramica comincia ad assumere degli elementi caratteristici in ognuno di questi tre cantoni, di questi distretti della regione popolata dagli Iapigi. Quindi parliamo di Daunia riferendoci all’attuale provincia di Foggia e di Peucezia per l’attuale provincia di Bari (questo a grandi linee), la cui linea di demarcazione è fino ad Egnazia perché di lì in giù parliamo di Messapia. Anche i nomi degli abitanti di questi cantoni, di questi distretti, ci sono riportati dagli storici greci, che li differenziano, individuano culturalmente e parlano di tre popolazioni con caratteristiche diverse. Siamo nell’VIII secolo a.C. Però, in realtà, sono più che altro da ricordare le differenze che si riscontrano nella ceramica, quindi i motivi decorativi distinti. La Daunia, in particolare, rispetto alla Messapia e alla Peucezia diventa quasi marginale come territorio periferico, per cui conserva degli elementi di ascendenza illirica. Anche le forme vascolari della ceramica della Daunia sono decisamente diverse da quelle della Messapia e della Peucezia. Ecco, per esempio, questo vaso qui presenta: queste terminazioni, queste applicazioni decorative, questi orli molto ampi ed estesi, che sono proprio particolari della ceramica della Daunia. Voce Quindi la peculiarità di queste popolazioni, il fatto che siano proprio pugliesi, è nell’artigianato? S Allora, non che sono pugliesi. La popolazione italica è quella che troveranno i romani quando affermeranno il loro dominio e che poi conquisteranno; cioè quando i romani arrivano nel III-IV secolo in Puglia, conoscono i dauni, conoscono i peuceti e i messapi. Come sono organizzati questi dauni, peuceti e messapi? In realtà non se ne sa molto, perchè, chiaramente, non abbiamo fonti scritte e quelle che abbiamo sono solo quelle archeologiche e poi ci sono i cenni che ci
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vengono fatti dagli storici greci, ma che non ci danno notizie. per esempio, riguardo alla loro organizzazione politica. Sono probabilmente delle città autonome che, però, all’occorrenza sanno collegarsi e formare delle leghe. Di questo abbiamo una notizia negli storici, i quali ricordano la lega che si formò tra le città della Messapia e quelle della Peucezia contro Taranto. Nel V secolo a.C. ci furono degli scontri fortissimi tra le popolazioni indigene e la città magnogreca di Taranto, che era chiaramente importantissima e aveva un potere economico e militare enorme, ma questi indigeni con la loro struttura politica e militare seppero unirsi in lega; cioè seppero fare gruppo per sconfiggere Taranto. Gli storici parlano, addirittura, di due sconfitte inferte dagli indigeni della Iapigia alla potentissima Taranto. Non sono collocate precisamente... P
Era già stata colonizzata dei greci?
S Allora, Taranto fu fondata nell’VIII secolo a.C., più o meno intorno al 750 a.C., ed era una colonia spartana. Nel V secolo a.C. è una potenza come lo erano Atene, Sparta, Siracusa. È una città importantissima che, fino a quel momento, aveva esercitato, verso l’interno della Puglia, una pressione limitata ad interessi puramente economici e di scambio commerciale, e aveva fatto passare all’interno delle popolazioni indigene, non solo i suoi prodotti materiali, ma anche culturali. Il fatto che nelle tombe troviamo vasi di fattura greca, non significa solo che loro compravano dei prodotti, ma anche che ne erano in qualche modo colpiti; cioè subivano il fascino e l’influenza culturale di una cultura più evoluta. Questo, però, sempre cercando di non maltrattare i nostri indigeni, che avevano per conto loro una propria cultura e una propria organizzazione politica e militare. Vi dicevo che nel V secolo a.C. Taranto le prese dalla lega dei messapi e peuceti; però gli storici greci, naturalmente, non riportano precisamente i riferimenti a queste due sconfitte, perchè la storia scritta dai greci ha inteso nascondere un po’ questi eventi, ma, in base ad altre notizie reperite, siamo certi di queste due sconfitte. Comunque nel 473 a.C., Taranto saccheggiò la città di Karpina, che è una città della Messapia, e non conquistò i territori indigeni. Taranto ad un certo punto dovette stare al suo posto e continuare a mantenere rapporti commerciali ed economici, ma non poté dominare sulle città della Messapia e della Peucezia. Non sappiamo nulla per quanto riguarda il loro Pantheon; cioè quale fosse la loro religione. Abbiamo soltanto degli elementi della loro cultura materiale, di cui la ceramica rappresenta il materiale più abbondante; per questo li differenziamo in base al tipo di ceramica. P
Qui siamo, praticamente, 1000 anni prima di Cristo.
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S XII-XI secolo a.C.. Iapigi. Quindi ceramica protogeometrica iapigia. Nell’VIII secolo a.C. ci sono dauni, peuceti e messapi, però si tratta sempre di Iapigi; cioè loro si riconoscono comunque e sempre come un’etnia. P
Ma non c’è nessuna fonte epigrafica?
S Ci sono delle iscrizioni nella Messapia ed è, chiaramente, un alfabeto di derivazione greca. P
Quindi avevano già subito l’influenza greca.
S Siamo nel VI secolo a.C., Taranto è stata fondata nell’VIII secolo a.C…. quindi… Le prime testimonianze epigrafiche di scrittura greca sono dell’VIII secolo a.C.. Non bisogna andare tanto indietro. P Ma com’è possibile che di questa civiltà non ci sia pervenuta alcuna fonte da cui poter ricostruire la religione? Cioè non sappiamo praticamente nulla di questi Iapigi? Scrivevano o era una civiltà un po’ arcaica? S Le testimonianze di scrittura greca sono dell’ottavo secolo a.C., quindi parliamo già di un periodo recente. Nella Messapia abbiamo delle iscrizioni del VI secolo a.C., ma si tratta di iscrizioni sporadiche; cioè non abbiamo un’epigrafe con un testo giuridico, o di letteratura o di poesia che ci possa dare degli elementi per farci un’idea della loro cultura, della loro religione e della loro concezione politica. Il fatto che fossero organizzati in questo modo, lo abbiamo desunto dagli elementi archeologici e poi, indirettamente, da queste altre notizie frammentarie che provengono dagli storici greci. Da ciò si è capito che se in quel momento si erano uniti in lega per fronteggiare l’emergenza tarantina, voleva dire che ognuno aveva il suo principe, il suo guerriero, il quale aveva una preminenza rispetto al resto della comunità e che, in qualche modo, questi gestiva il potere politico. Certamente avevano un’organizzazione forte con una gerarchia ben riconoscibile e quando costruivano le loro città le mura di cinta, come nel caso di Altamura, Monte Sannace e Manduria, avevano un perimetro di chilometri. Le mura di Altamura furono le più facili da costruire perchè sono fatte con blocchi di roccia non bloccati, sistemati a secco e riempiti con pietrame e terreno sciolto. Invece le mura di Manduria sono di una fattura che presumeva la conoscenza della tecnica di costruzione delle mura difensive tipiche della Grecia: la poliorcetica. C’è una particolare branca delle tecniche costruttive dell’architettura greca che si occupava di dare indicazioni su
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come costruire le mura difensive. Loro conoscevano queste tecniche e se avevano la capacità di organizzare il lavoro di costruzione delle mura necessarie a difendere le città, significa che c’era qualcuno che disponeva, che organizzava, e che diceva si fa questo, in quest’arco di tempo, con questo programma di lavoro; voi vi dedicate a questo e voi a quest’altro. Queste persone dovevano mangiare per sopravvivere; il che vuol dire che il loro lavoro era remunerato e che c’era un’amministrazione economica abbastanza articolata; cioè non erano dei semplici pastorelli sperduti sulla Murgia. P Quindi questo, forse, è il periodo in cui è più giusto cercare una “pugliesità” S Sì! Potrebbe essere un periodo storico ben determinato in cui ricercarla. Questa ceramica, invece, è del V secolo a.C. Il modello iconografico è certamente greco, perché è una ceramica a figure rosse. Nel V secolo a.C., in Magna Grecia, vi erano già le produzioni di ceramica a figure rosse, oltre alle importazioni che si possono riconoscere già nel VI secolo a.C. con le ceramiche a figure nere. Nel V secolo a.C. abbiamo proprio la ceramica italiota; in particolare quella a figure rosse. P
Quali tratti distintivi ha?
S Ha delle forme particolari: motivi decorativi riempitivi. Per esempio, uno stile peculiare è quello di Gnathia con i motivi delle palmette, delle rosette… La ceramica apula è molto brillante rispetto a quella campana e lucana. I colori sono dati da minerali di ferro, magnetite. P Qual’è invece la datazione del famoso vaso di Talos, dove si trova? S Credo a cavallo tra V e IV secolo a.C. ed è un vaso di fabbricazione magno greca. Famoso per il tipo di raffigurazione che presenta (rappresenta una specie di robot); per il mito che è rappresentato; e per come è resa la corporatura metallica del Kalos. È particolare anche la scelta dei colori necessaria a rendere la differenza rispetto alla figura umana. P E queste decorazioni di Monte Sannace che fanno pensare a dei segni meso-americane, precolombiane? S Sono decorazioni architettoniche. Erano elementi decorativi dei frontoni degli edifici. Generalmente erano sistemati alle terminazioni delle travi per dissimulare la
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presenza della trave. Potevano essere motivi..... geometrici o rappresentare delle gorgoni (figure mostruose che avevano un significato apotropaico e servivano a scacciare il malocchio). Queste caratteristiche architettoniche, comunque, si trovano anche in edifici civili. P Mi pare di capire che le cose più interessanti dal nostro punto di vista, sono in questi due filoni: quello di porto Badisco e quello delle decorazioni geometriche legate alla cultura della Iapigia, della Peucezia e della Messapia. S La Puglia viene completamente conquistata da Roma nel III secolo a.C.. Quindi comincia un processo di impoverimento delle aree interne, di cambiamento degli assi viari che fanno sì che, invece, acquisiscano importanza alcuni insediamenti costieri. Dopo la romanizzazione ci sono, in mezzo, tanti secoli caratterizzati da incursioni di altri dominatori; da altre presenze culturali. Pertanto, se quelli si riconoscono nei Camuni, è possibile , per noi, riconoscerci negli Iapigi? Siamo il risultato di tutti questi movimenti. In fondo i longobardi ci avranno pure lasciato una traccia. Addirittura, parlando di Altamura, si dice che il nostro toponimo sia legato alla presenza longobarda e che sia da riferire a un toponimo di origine germanica. E tutta la parentesi araba, ci ha lasciato qualcosa? P
Alla fine questa ricerca dell’identità…
S La ricerca dell’identità è importante per definirsi, ma è anche importante non chiudersi. Voce Il nostro problema non è tanto quello di trovare una peculiarità ma di trovare un’immagine con cui identificarsi, di rileggere queste cose, riproporre questi segni magari creando un alfabeto oppure trovando un codice con cui si possano costruire delle storie, oppure in chiave decorativa. Bisognerebbe trovare il modo di creare un repertorio condivisibile di tutti i segni delle grotte, cercando di trovare anche una connessione. Credo che metabolizzando bene questo lavoro, la sintesi del logo venga fuori in maniera naturale
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Conversazione con Raffaele Licinio 10 Licinio Nel Mezzogiorno abbiamo sperimentato la semplice monarchia con la fondazione del Regno da parte dei Normanni e questa ha retto, compreso i Borboni, fino all’Unità d’Italia. Nel frattempo in altre zone d’Europa, come in Francia, in Inghilterra e in Spagna si è affermato un altro tipo di Stato: la monarchia nazionale. Altrove, invece, si sono affermate altre istituzioni di governo territoriale di tipo autonomistico, come i Comuni e le Signorie. Alcune di quelle esperienze sono sopravvissute fino a noi perché si sono dimostrate utili ed una di queste è il Comune. Il Comune di oggi è esattamente come il Comune medievale: non è un ente che vuole indipendenza dallo Stato; è come era nel Medioevo, quando, nessuno dei Comuni, anche quelli che lottavano contro Federico I Barbarossa e contro il nipote Federico II, ha mai teso all’indipendenza dall’Impero. Anzi ci sono documenti che dicono che i Comuni riconoscevano l’autorità superiore dell’Imperatore, e che ciò che chiedevano era la possibilità di amministrarsi da soli. Laddove non c’è stato il Comune, nella versione toscana, ci sono state le Universitates: Altamura, per un certo periodo, è stata una Universitas. Perrone Quale era il carattere istituzionale di queste Universitates, cioè come si collocavano nella comunità? L Oggi il Comune è definito per legge, mentre, in un certo periodo del Medioevo, il Comune nasce dalle condizioni più opportune (condizioni sociali, politiche ed economiche); si creavano delle istituzioni che erano all’altezza della situazione. In genere si vede che ci sono due grandi gruppi sociali che si combattono all’interno di queste istituzioni. Uno è quello vecchio, quello dell’aristocrazia, sempre presente nella storia, e l’altro è quello del ceto della borghesia dei grandi mercanti, e poi dei banchieri. Ognuno di loro tendeva a darsi delle istituzioni specifiche. La sintesi è il Comune medievale o l’Universitas medievale. Tutto questo, però, non consente di stendere una mappa dell’Europa e di fare una timeline in cui si possa trovare puntualmente una certa cosa in vari punti contemporaneamente. É un mosaico in continua elaborazione, molte istituzioni abortiscono perché non sono all’altezza delle domande dell’organizzazione sociale. La Signoria, per esempio, non esiste più. Però ci sono dei residui. Non sto parlando della Signoria feudale, ma proprio della Signoria dei signori di Firenze. Anche 10
Ordinario di Storia medievale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari
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questo Stato territoriale non ha retto dopo un certo numero di decenni e ha dovuto necessariamente trovare uno sbocco per riorganizzarsi su di un’altra base. Alcuni resti oggi permangono in quelli che sono gli istituti della Provincia e della Regione che, però, chiaramente, sono tutt’altra cosa. Però il rapporto di autonomia che c’è rispetto allo Stato centrale è un terreno che è stato arato nel Medioevo. Detto questo, è necessario aprire una parentesi sulla concezione eurocentrica. Nei vecchi manuali, ma anche in tanti manuali che usiamo ancora oggi, come viene presentato, per esempio il rapporto con l’Islam? In un manuale impostato, nel 99% dei casi, in maniera eurocentrica l’Arabia e gli arabi, prima di Maometto, non esistono. Compaiono all’improvviso nella storia, perché c’è stato Maometto. I mongoli esistono? Cioè mentre si sta studiando il periodo romano, che ne è di questi arabi? Che ne è di questi mongoli? Non esistono, come non esistono gli amerindi e non esistono gli altri continenti. Eppure l’Asia e l’Africa esistono nel nostro Medioevo, solo che quelle popolazioni non hanno voce, perché la concezione che abbiamo sviluppato nel corso della storia è rigidamente eurocentrica. L’altro esiste solo in funzione della mia costruzione di identità. Ecco io voglio arrivare a questo punto: che quello sull’identità è un discorso estremamente pericoloso. Primo perché è sbagliato al singolare: hai mai visto una pianta che ha solo una radice? Non esiste al mondo nessun essere che abbia una radice, una identità. Noi abbiamo delle identità, ma se non considero che le identità non sono mai un fatto statico, immobilizzato e risolto una volta per tutte; cioè se mi viene meno l’idea della storia come costruzione continua, allora la identità o le identità (nel migliore dei casi), diventano un vero problema politico. P Allora una domanda: quale può essere una specificità della Puglia? L Nella Puglia il Medioevo non esiste, e se esiste è un calderone in cui l’acqua sta ribollendo da tutte le parti e le bolle che ne escono fuori non sei tu a decidere che fine debbano fare. La stampa c’era comunque nel Medioevo, insieme agli amanuensi. E in genere, proprio per questo, è l’immondizia della storia. Tutto il peggio che si può dire di un’età storica: dalle streghe al Graal, allo jus prime noctis (mai esistito), si trova in questa grande “discarica” che è il Medioevo. Quando una cosa è incomprensibile la si colloca nel Medioevo che è davvero l’immondizia della storia. Il Medioevo ha le spalle robuste, sopporta qualunque falsificazione.
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C Perché per molti anni la scuola ci ha fornito questa visione del Medioevo? Qualcuno ne ha scritto probabilmente. L Esiste una concezione che muta continuamente e quindi, i docenti che hanno fatto lezione a te, come quelli che l’hanno fatta a me a scuola, avevano del Medioevo la concezione che si aveva nell’800. Basta riflettere sul fatto che il Medioevo cinematografico è il Medioevo dell’Ottocento. È quello rivissuto dal romanticismo. È quello di Walter Scott, di Ivanhoe, o è quello del Castello di Otranto di Walpole. Cioè è il Medioevo rappresentato dal cinema, ma non solo quello di Hollywood, proprio del cinema come industria culturale. È la concezione che avevano del Medioevo nell’800. Vent’anni fa si continuava ancora a parlare del Medioevo in termini tradizionali, ma il cinema non c’è ancora arrivato all’età contemporanea. Basta vedere il film più recente di successo, quello di Ridley Scott: Le crociate. Quello è un classico film che rappresenta la concezione, politicamente corretta, che si aveva del Medioevo nell’800. Ora il problema vostro è quello di definire le identità pugliesi e non l’identità, perché nel Medioevo non esisteva la Puglia. Nel Medioevo e fino a quando non è nata la regione Puglia non è mai esistita la Puglia. Questo bisogna dirlo e voi non potete non tenerne conto, perché i vostri compiti diventano ancora più gravosi in quanto non c’è una tradizione. Esistevano le Puglie. Ancora oggi se vai all’estero, nessuno dice la Puglia, ma Les Pouilles – Le Puglie-, perché c’è un insieme di tre identità che sono completamente opposte, persino sul piano dell’agricoltura. Perché c’è l’identità della Capitanata, ci sono le identità della Capitanata, e la stessa cosa è per il Salento; anche se le selve degli ulivi che vedono tutti i viaggiatori nel Medioevo in Terra di Bari, le vedono in Capitanata, e le vedono in parte nella Terra d’Otranto (quella che confina con la Terra di Bari). Insomma tu hai avuto nella storia tre grandi circoscrizioni: Capitanata, Terra di Bari, Terra d’Otranto; diverse l’una dall’altra per lingua, per clima, per etnie, per religione, per economia, per società e per rapporto con gli altri,. Su tutti i piani hai avuto tre regioni diverse. P Paradossalmente, anzi a conferma di ciò che dici, siamo arrivati alla stessa conclusione. Affrontando un periodo storico di molto precedente, addirittura pre-romano, quello che si riferisce agli Iapigi, ai Peuceti, ai Dauni, ai Messapi, ci siamo resi conto che forse in quell’epoca è un po’ più facile individuare una specificità pugliese, perché questi Iapigi, almeno dal punto di vista geografico, coprivano l’attuale regione della Puglia così come la conosciamo oggi; il fatto è che abbiamo pochissime fonti, ma quelle che abbiamo, già prefigurano varie identità. Nel caso specifico, per esempio, abbiamo
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affrontato lo studio dell’aspetto legato alle ceramiche geometriche risalenti a quel periodo è lì, effettivamente, si intravedono delle specificità. L Allora, facciamo proprio un esempio sul piano produttivo. Oggi abbiamo la Puglia. Però tu hai una Capitanata che ha prodotto, storicamente, cereali e prodotti dell’allevamento ovino ( la Dogana della Mena ), la cui forma di organizzazione del lavoro è stata la masseria. Ed hai avuto non rigidamente la Capitanata, ma la Capitanata estesa fino alla zona murgiana. Come insediamenti hai avuto grossi nuclei rispetto a quelli che potevano essere nel Medioevo gli insediamenti, e a distanze notevoli gli uni dagli altri ((Foggia, Lucera, Manfredonia, Cerignola). Prendi il Salento, hai decine e decine di insediamenti e questo nasce, intanto, dal fatto che lì hai avuto un’economia feudale autonoma più forte. Hai, come ha scritto Croce, che il Principato di Taranto, quello che si compone di tanti altri sub feudi, è “un regno nel regno”; talmente grande, diceva lui, che tu puoi andare da Taranto a Napoli sempre rimanendo nel Principato di Taranto. Voglio dire che tu hai avuto forme di organizzazione sociale diverse, forme di organizzazione insediativa diverse e ogni cosa era completamente diversa a seconda della zona. Se si prende il grano o la pecora come emblema della Capitanata , si dovrà prendere, per la Terra di Bari, l’ulivo; si dovrà prendere, per il Salento,(alcuni dicono il vigneto ma non è così), il giardino mediterraneo perché in questa terra si producono gli agrumi e la frutta in generale. C’è un famoso itinerario alla fine del Medioevo, tra Quattro e Cinquecento, percorso durante un matrimonio di un personaggio femminile importante dell’epoca, che attraversava le principali vie della Terra d’Otranto. Descrivendo questo itinerario, quello che l’autore mette in luce è la presenza del giardino mediterraneo, inteso alla maniera di Emilio Severi cioè una specie di orto in cui si coltiva un’ampia varietà di frutta. Nel Salento si ha la policoltura, nella Capitanata si ha la monocoltura e in Terra di Bari si trova una forma ibrida. Detto ciò come si fa a trovare un tratto identificativo? Prendiamo la lingua. Come si fa a trovare un tratto comune se si sente la netta differenza già tra un foggiano e un leccese? A Lecce si ha un’influenza del greco bizantino che a Foggia non c’è stata, anche se la Capitanata prende il nome proprio da un ufficiale bizantino “Catapano”. Quello che voglio dire è che è impossibile trovare “ex-post” una giustificazione a una scelta che è stata tutta politica: quella di creare la Regione Puglia come la conosciamo noi oggi. Sarà bene ricordare che, quando stava per nascere la Regione Puglia e c’era Moro, che alla fine ha voluto questa regione, la Capitanata
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voleva annettersi al Molise. È questo il punto; dobbiamo anche ricordarci com’è nata questa presunta identità pugliese. È nata con delle spinte centrifughe che poi la politica ha governato, sino ad avere la Regione Puglia. Nella storia non è mai esistita una Regione Puglia, sono esistite 3 Puglie diverse e c’è l’equivoco da risolvere definitivamente: la APULIA nel medioevo non è la Puglia; non è nessuna di quelle 3 “circoscrizioni”, ma è molto di più. È tutta la parte continentale del Regno compresa la Calabria Settentrionale, l’attuale Puglia, la Basilicata, parte del Molise e parte della Campania: questa è la Apulia dei documenti. Quindi come si può trovare un’identità all’Apulia? Il Federico II “Puer Apuliae”, checché ne dica Bianca Tragni, non è il “figlio della Puglia”, ma è il “figlio del Mezzogiorno”. L’epiteto “Puer Apuliae” gli viene affibbiato da cronisti tedeschi che parteggiano per l’oppositore di Federico II, quindi ha un valore dispregiativo, vuol dire “terrone”. Gli intellettuali che si oppongono a Federico II, quando è ancora Re di Germania e lotta contro Ottone di Brunswick, hanno usato loro per primi questo epiteto “Puer Apuliae”, in termini di disprezzo. Io, infatti, ho sempre sfidato chiunque a trovare un solo documento meridionale in cui apparisse “Puer Apuliae”. Non esiste. Forse c’è n’è solo uno ed è un documento di risposta di Federico II ad alcuni bottegai di Brindisi, nel 1239. Questi bottegai gli chiedevano, in un documento che si è perso, di avere delle riduzioni fiscali, noi possediamo la risposta di Federico che dice che loro non possono permettersi di chiamarlo “Puer Apuliae”, perché colui che si definisce il “sole che muove l’universo”, “stupor mundi” da quando è nato, non può accettare di essere chiamato “Puer Apuliae”. Come e dove si può trovare un segno, un simbolo capace di unificare tutta la Puglia? Lo stesso problema se lo sono posto a metà degli anni ’30, nel momento in cui l’Italia si accordò col grande Reich e gli studiosi locali furono invitati a trovare, attraverso le società di storia patria dell’epoca, un simbolo che caratterizzasse tutta la Puglia. Hanno guardata a Federico II perché era l’anello di congiunzione, tra il Mezzogiorno (secondo loro la Apulia) e la grande Germania. Da quel momento Federico II è diventato il mito della Puglia, ecco perché io l’ho sempre definito come un mito- motore; non è semplicemente un mito, ma è un mito che ha fondato una identità, quando invece le nostre Puglie hanno molte identità e vanno tutte salvaguardate e rappresentate. Perché non pensare ad una scomposizione, perché fare una scelta che può escludere una parte della storia della Puglia? P Ma secondo te è possibile intravedere storicamente una propensione della Puglia proiettata verso l’Oriente?
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L Si può accettare, ma bisogna accettare anche il contrario. Cioè che anche il cosiddetto Oriente aveva avuto una propensione verso la Puglia; la cosa funziona nei due sensi, altrimenti io non mi spiego nulla della storia di questo “ponte verso l’Oriente”. Usciamo dal generico perché questo trampolino verso l’Oriente è stato il trampolino anche delle Crociate, mica solo degli scambi commerciali intellettuali pacifici. P Ma questa è una naturale conseguenza. Se c’è una propensione allo scambio commerciale con l’Oriente, va da sé che anche questo fenomeno delle Crociate, che ha storicamente un’origine eurocentrica, doveva necessariamente passare da qui. L Questo è precedente alle Crociate perché queste sono state guidate dai Normanni che si trovavano già nel Mezzogiorno. Una decina di anni prima della cosiddetta Prima Crociata, il più famoso dei Normanni, Roberto D’Altavilla detto il Guiscardo dalla storiografia buona, l‘astuto, il delinquente, è partito dalla Puglia per andare a conquistare altri pezzi dell’Impero bizantino; è andato in Albania con il vessillo del Papa e ha fatto una serie di conquiste. Ha cominciato a erodere l’Impero bizantino dopo avergli tolto gran parte del Mezzogiorno. La Puglia, quindi, non è solo un ponte di scambi, ma è un ponte per qualsiasi cosa e funziona nei due sensi. Anche in questo caso bisogna evitare la mitizzazione del rapporto con l’Oriente in cui noi abbiamo portato qualcosa. P Questo carattere “levantino” è accentuato dal fatto che la Puglia è al centro dei fenomeni migratori che coinvolgono il Mediterraneo? L Levantini lo puoi dire solo ai baresi. Gli abitanti della Capitanata quando mai sono stati levantini? Mai. I Salentini, invece, hanno avuto rapporti più commerciali con l’Oriente, mentre la Terra di Bari ha avuto più rapporti militari, e più di furto: non è un caso che ora abbiamo finito di festeggiare S. Nicola! Come si fa ad usare l’ossimoro “sacro furto”? P
Ma chi disse che era l’atto fondativo di Bari?
L È l’atto fondativo di Bari. Io tenderei a capire, quindi, qual è la Puglia protesa a Oriente. È la Puglia costiera. Perché alla fine, per esempio, Altamura non ha mai avuto una propensione verso l’Oriente. P Allora come si spiega, per esempio dal punto di vista urbanistico, che ancora oggi città come Altamura, come Andria, come gli altri grandi paesi, non sono ancora riuscite a trovarsi un centro
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alternativo a quello fondativo di Bari? Altamura, tuttora si espande come “un’ameba” attorno al centro per così dire medievale, dove tra l’altro c’è un tessuto urbanistico fatto di claustri; non ci sono altri centri, neanche il centro commerciale riesce ad intaccare questa cittadina… L Ma questa non è una specificità soltanto della Puglia, è una specificità di un po’ tutti gli insediamenti. Il dato da tener presente è uno solo: casi diversi da quelli che hai illustrato, sono eccezionali. Noi abbiamo avuto una continuità e un’innovazione nella continuità per cui i centri antichi si sono espansi, o si sono poi ristretti, sempre ruotando intorno a un centro. Dal punto di vista storico bisogna introdurre un altro concetto che non è molto conosciuto: il concetto di agrotown introdotto da Gino Salvemini. Noi abbiamo avuto molte località dell’interno che sono state a lungo città nate, cresciute, morte, sviluppatesi o no, in funzione del rapporto con l’agricoltura, anche in età contemporanea. La maggiore agrotown che posso citare è Foggia che, sicuramente si è allargata da quando è diventata capoluogo di Provincia, ma è rimasta, come ha scritto Moravia, la più brutta città d’ Italia, però è anche una delle più giovani. E questo ci fa capire che fondamentalmente l’assenza di un rapporto con un’economia industriale ha determinato alcune conseguenze. Laddove, invece, si è creato questo rapporto, si è rotta la tradizione secolare del rapporto città/campagna. (Da quando si sono impiantate a Manfredonia l’Eni, a Taranto l’Italisider, a Bari la Zona Industriale, si è semplicemente rotto il rapporto che è esistito per secoli tra queste località e il loro territorio soprattutto rurale). Se si considera anche l’assenza di una riforma agraria che abbia avuto degli esiti positivi, si comprende la situazione attuale. Tornando al problema dell’identità, che è un problema veramente difficile, ci si può inventare un’identità pugliese? Non c’è la Puglia, non c’è il Medioevo, non esiste alcuna identità a meno che non ne contenga altre, allora la soluzione può essere questa: qual è l’insieme delle identità che definisce Le Puglie? Ma è comunque una molteplicità di cose. P Volevo chiarire questo punto. Quando noi parliamo impropriamente di identità visiva, è una semplificazione che fra noi grafici rimanda ad un’accezione che va un po’ al di là della singola immagine. Ti faccio l’esempio del caso della Regione Lombardia che è un caso abbastanza esemplare; ha un logo fatto da quattro grandi maestri della grafica italiana. Loro hanno fatto una considerazione di questo tipo (il logo della Lombardia è la rosa camuna): lungi dal voler andare alla ricerca del segno che simbolicamente racchiudesse un’identità lombarda, perché poi sono tante, in quanto c’è Leonardo Da Vinci nel medioevo ,ci sono le Signorie, gli Sforza..., hanno fatto un’operazione
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puramente visiva, nel senso che hanno preso un segno più o meno appartenente alla loro tradizione e hanno fatto in modo che il segno di per sé da un punto di vista percettivo, visivo, estetico, avesse una sua forza e poi sarebbe stata la Regione che in qualche modo, avrebbe plasmato un’identità su quel logo. Oggi la Regione Lombardia viene percepita attraverso quel segno molto forte, molto sintetico, molto moderno, ma molte delle persone che lo vedono non fanno un discorso sull’identità. L Allora che senso ha fare una ricerca storica se tu stai costruendo il futuro? Una ricerca storica ti porta in un’altra direzione. P Noi vogliamo in qualche modo essere consapevoli di non commettere l’errore di cascare in questa trappola. Vogliamo avere tutti gli elementi di conoscenza a nostra disposizione, per non cascare, per esempio, nel trabocchetto del mosaico di Otranto che non centra nulla con la Capitanata. Per noi la suggestione di questa chiacchierata è molto forte, però alla luce di quello che ci dici, non possiamo avere la velleità di individuare un mix di questi segni che abbiano storicamente o no come riferimento la Puglia. Noi abbiamo voluto queste chiacchierate come quella che stiamo facendo con te, proprio perché vogliamo arrivare consapevolmente alla conclusione che è giusto escludere una prospettiva storica. L Vuoi una suggestione? Se c’è un punto di contatto che ha coinvolto tutta la Puglia, che è stato sempre presente nei secoli, anche se in maniera diversa, è proprio l’Oriente. L’Oriente definito, da un nostro punto di vista, come la terra del mistero. Quando la religione nel XV secolo diventa religione cristiana di massa (prima non esisteva la cristianizzazione delle campagne), l’Oriente è tutto ciò che non si conosce, è tutto ciò in cui si colloca il mistero, l’ignoto. Le colonne d’Ercole, dal nostro punto di vista, sono l’Oriente, non Scilla e Cariddi. Quando Scanderbeg, insieme ad altre famiglie albanesi, nel Quattrocento, venne in Puglia, non sbarcò come profugo o come extracomunitario, sbarcò, invece, come signore feudale e diventò signore feudale di Monte Sant’Angelo e di alcuni feudi nel leccese. Rappresenta, quindi, l’Oriente in Puglia. Dall’Oriente sono sempre venuti in tanti; sono venuti gli Slavi, ci sono stati i Saraceni. È importante ricordare che in Puglia non ci sono stati gli arabi, ma i Saraceni che avevano la pelle scura. Perché i pupi siciliani sono neri? Il teatro popolare siciliano rappresenta il saraceno come un nero perché si sapeva e si sa che il saraceno non era arabo, era un musulmano che proveniva dall’Africa Settentrionale. In Puglia, invece, l’Oriente è proprio inteso come Oriente bizantino; comprendeva la Penisola Balcanica, la Grecia, l’Anatolia (l’attuale Turchia), il Medio Oriente, l’Egitto, la Libia; solo successivamente l’avanzata musulmana, l’Islam, ha
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sottratto all’Oriente una serie di province come il Medio Oriente, l’Egitto, l’Africa Settentrionale che furono “islamizzate”. Prima queste province erano Bizantine, cioè Romane. Quando diciamo Impero Bizantino nel medioevo intendiamo ancora Impero Romano. Gli stessi Bizantini si definivano Romei (Romani) e, fino al 1453, esiste ancora l’Impero Romano. Tutta la Puglia ha continuato ad avere rapporti con questa realtà: per noi pugliesi l’Oriente non era soltanto la Palestina, ma era anche l’Oriente già bizantino. Mira, in Anatolia, ne è una dimostrazione; le prime rappresentazioni di S. Nicola, infatti, lo raffigurano come un uomo dalla pelle scura. P
Che storia intricata, però, questa di S. Nicola...
L In una conferenza stampa, posi questa domanda: perché Bari ha, nel suo stemma, i colori bianco e rosso? E nessuno seppe rispondermi. Allora chiesi: quali sono i colori di Babbo Natale? Quali sono i colori della Coca-Cola? E Babbo Natale chi è? Attraverso una serie di mediazioni snaturate, è S. Nicola, anche se io non sono tra quelli che sostengono che Babbo Natale sia direttamente S. Nicola perché in realtà è il S. Nicola dei protestanti, non degli ortodossi o dei cattolici. Comunque la radici partono da questo concetto. È strano, però, che questa città abbia un percorso di Natale/ S. Nicola, legato alla Coca-Cola. Tornando a noi: è l’Oriente che si deve rappresentare, è il senso del mistero. Quell’Oriente che fa venire qui questa gente, non per loro iniziativa, ma perché siamo noi che andiamo a rubargli tutte le possibili reliquie che poi diventano le identità delle località costiere. Nell’ XI e nel XII secolo si moltiplicano i Santi patroni che o sono orientali, o sono venuti dall’Oriente a morire qua (il S. Nicola pellegrino di Trani è anche lui orientale, non è il nostro San Nicola barese, ma viene lo stesso dall’Oriente a morire in Puglia. Lo stesso S. Cataldo a Taranto, la Madonna della Madia, e tanti altri santi rappresentati secondo lo stile bizantino diventano le identità fondanti di molte località). Se noi siamo una Regione (se così possiamo definirla oggi), lo siamo esclusivamente per questo rapporto con l’Oriente. Sono rapporti diversi nei secoli, diversi nella forma, però il rapporto con l’Oriente c’è sempre stato in ogni periodo di questa Regione; è un dato costante. Non ha mai fondato l’identità regionale questo Oriente, ha fondato alcune identità specifiche locali, però si riconosce questo DNA: la settimana scorsa scoprono a Castro, nel leccese, il punto in cui sarebbe sbarcato, secondo Virgilio, Enea. Io non so se Enea sia sbarcato lì, però so che la descrizione che dà Virgilio del punto di approdo di Enea, corrisponde esattamente a Castro; adesso gli archeologi hanno trovato i segni dell’approdo. Questo non vuol dire che effettivamente Enea sia sbarcato lì, vuol dire che Virgilio ha rappresentato una
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tradizione. Viene descritto il tempio di Minerva e poi, quello che, secondo Virgilio, vede Enea: una rupe con una fortezza sopra. E, in effetti, hanno trovato, sotto la fortezza aragonese i muri del tempio fortificato che dovrebbe aver visto Enea. In realtà Virgilio voleva dire che in questi luoghi c’erano continui sbarchi di gente proveniente dall’Oriente, e non sono sbarchi di gente che cerca nel Mezzogiorno un rifugio, ma sono sbarchi anche di gente che veniva in queste terre per conquistarle. P Per spostarci su un piano più pratico, in tutto questo “armamentario” di cattedrali e di castelli dove conviene fare una ricerca che abbia un senso in questa direzione verso le ricerca di un’identità? L Se fossi in voi non mi baserei sulla Cattedrale di Troia, perché farei lo stesso errore dell’Eurocentrismo. Quella cattedrale è il segno di una presenza religiosa multipla. Noi, in Puglia, abbiamo avuto una compresenza di religioni diverse molto più che in qualunque altra regione, ad eccezione della Sicilia, perché abbiamo avuto gli ebrei forti e numerosi, i cristiani di rito romano (Troia), i cristiani di rito orientale, i musulmani (a Bari si costruì una moschea che poi Mussolini distrusse). Abbiamo avuto delle compresenze religiose, quindi prendere in esame una sola chiesa, secondo me, sarebbe un atto di violenza contro tutto ciò che non è rientrato nella storia di questa regione tripartita. P Ma, per esempio, lo scalpellino della Cattedrale di Troia era così asservito al committente o aveva in sé una sorta di DNA in cui era presente anche uno stile orientale? L No. Io ho parlato di compresenza, non di convivenza, perché queste fedi diverse non hanno sempre convissuto pacificamente. Quindi quello scalpellino a cui ti riferisci credo che si sia formato in cantieri e secondo l’ideologia cristiana della Santa Romana Chiesa. P
... quel rosone, mi sembra per certi versi un arabesco.
L E gli ebrei, e il rito cristiano orientale? Bisogna fare attenzione. Se si prende un punto di riferimento di tipo religioso si può andare fuori strada. Così come con i castelli. Anche in questo caso togliamoci dalla mente il castello come bene culturale. Cosa abbiamo di fronte quando parliamo di castelli? Il segno del potere militare, politico, regio, feudale, baronale, cittadino (pochissime volte). Quando mai una comunità della Puglia tripartita si è riconosciuta nel suo castello? I baresi non si sono mai riconosciuti nel loro castello; si sono riconosciuti nelle mura. Le comunità, in passato, soprattutto nel Mezzogiorno,
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si riconoscevano nelle mura e nelle torri, mentre il castello è sempre stato il segno di un potere alto. Senza contare che tra 400 anni sarà un bene culturale anche la caserma! In fondo se il castello non ha dentro il signore è una struttura che ospita una guarnigione di armati al servizio di qualcuno e quindi non siamo molto lontani dalla caserma. E poi il castello è anche la prigione: a Bari come a Castel del Monte come a Barletta. P
Quindi è solo il tempo che dà valore all’architettura.
L Certo! L’Oriente, invece, rimane costante nel tempo. Io vedo la cattedrale come il segno di una Puglia specifica perché non è mai il segno di una sintesi tra fedi diverse. P
Anzi sottolinea le diversità.
L Così escluderei pure il castello. La gente che è vissuta prima di noi si poneva questo tipo di problema, cioè ci sono stati tempi in cui i simboli sono stati fondamentali. I secoli del medioevo sono stati secoli in cui i simboli dicevano molto e questo è indiscutibile, infatti, la civiltà contemporanea ha molto in comune con le culture dell’immagine prodotte nel Medioevo. P E quali sono le cose che sono sopravvissute, anche se in modo inconsapevole? L La pubblicità, i manifesti politici, il cinema. Nel Medioevo, il ciclo di affreschi di Giotto ad Assisi è un film, bisogna leggerlo in sequenza, l’exultet è un cinema. Poi abbiamo addirittura l’exultet che si srotola... Nell’attuale logo l’uliveto rappresenta solo Bari e il castello di Federico II non è caratterizzante perché in tutto Federico avrà costruito 4 o 5 castelli. Il luogo di Federico II non è unificante se è vero che a Parma, nella motivazione che accompagna la concessione della medaglia d’oro alla Resistenza, si dice che gli abitanti di Parma hanno respinto i Barbari tedeschi, gli invasori, oggi, così come in passato hanno respinto e sconfitto i Barbari di Federico II. Bisogna stare attenti perché, come vi ho detto prima, Federico II diventa il mito- motore per scelta del Regime fascista. Castel del Monte è un simbolo inflazionato. Il primo ente culturale ad usarlo è stato proprio il centro di studi Normanno Svevo, quarant’anni fa. Se dovessimo scegliere un personaggio che ha influenzato anche l’assetto territoriale di questa regione, non dovremmo pensare a Federico II, ma ad un sovrano come Alfonso D’Aragona che, nella metà del Quattrocento, ha creato la “dogana della mena delle pecore” e quindi, tutta la Murgia, anche la Murgia Salentina è toccata dalla dogana, come pure la Terra di Bari, la
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Capitanata, il Molise e l’Abruzzo. Questa dogana ha determinato l’assetto territoriale odierno, i tratturi, le poste, le masserie, le colture, la disciplina dei rapporti tra agricoltura e pascolo. Il personaggio più importante dal nostro punto di vista è stato, quindi, proprio Alfonso D’Aragona e non Federico II. La dogana è nata con Alfonso D’Aragona nella metà del Quattrocento come istituzione fiscale perché con le imposte regolava la transumanza delle pecore e, di conseguenza, la cerealicoltura, l’arboricoltura (perché le pecore mangiavano le foglie). Fasano, da sempre, ha avuto problemi nella transumanza interna. Ci sono decine di documenti che attestano le lotte tra gli agricoltori degli uliveti e i pastori. Alfonso ha creato un’istituzione che ha resistito fino all’eversione della feudalità agli inizi dell’Ottocento. Di Federico II, invece, cosa è sopravvissuto così tanto dopo la sua morte? Nemmeno il suo regno è rimasto Svevo dopo Manfredi! Io non capisco perché non si faccia un circolo intitolato ad Alfonso D’Aragona. Alfonso era definito il magnanimo, era definito il buono e aveva una corte d’intellettuali che superava di gran lunga il prestigio di quella che aveva Federico II, visto che quest’ultimo ereditò la corte dal nonno Ruggero II il Normanno. Quello che voglio dire è che c’è un’esaltazione di Federico II talmente immotivata da danneggiare lo stesso Federico II. Per arrivare ad una conclusione, perché non chiedete al professor Dino Borri chi, tra Federico II (con la sua politica) e Alfonso D’Aragona, ha inciso di più sull’assetto territoriale? Perché io sinceramente non riesco a ricordare altro che castelli in relazione a Federico II ed un’idea di masseria fuori dal comune perché le sue costituzioni sulle masserie chiedevano ai massari pugliesi, ai contadini pugliesi di coltivare, nella masseria, tutto: alberi da frutto, grano, avena, vigneti, uliveti; bisognava allevare tutti gli animali: quelli da cortile, quelli minuti, quelli grandi. La masseria era un progetto completamente sbagliato, tant’è vero che, dopo questa sua costituzione, c’è stato il primo sciopero contadino; i massari rifiutarono di coltivare, di seminare l’avena che Federico gli aveva fatto avere, perché dicevano che non faceva parte della tradizione delle nostra campagne. Anche Alfonso D’Aragona ha creato una grande masseria a Lucera, sul modello federiciano, però per produrre cereali e non per produrre il miele come aveva imposto Federico II; la differenza è che con Federico II se il massaro non coltivava tutte queste colture insieme passava i guai; ecco perché i massari “scioperarono”, si rifiutarono e questo fu un grosso smacco per l’Imperatore. In Germania tacciono su questo argomento perché il loro intento è quello di rafforzare il mito. Non sono io che vi devo dire che la storia può studiare i miti, ma non è fatta da miti. Per tornare al nostro discorso, l’Oriente è l’unica chiave.
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P Noi siamo tra quei grafici che, diversamente dai pubblicitari, hanno più legame con gli aspetti legati alla scrittura, perche riteniamo che la scrittura sia una manifestazione della sapienza visiva in quanto dietro la scrittura c’è anche una ricerca. Quindi ci piacerebbe accostare alla ricerca che sta scaturendo da questi colloqui anche un filone parallelo che ci possa portare ad interpretare una forma scrittoria praticata nella Puglia medievale. L I contadini non sono analfabeti. La cultura non è semplicemente cultura scritta, non dimentichiamocelo. Quando pubblicai nell’82/’83 il libro “Uomini e terre”, che era un’analisi della Puglia, delle tre realtà dell’economia, usai come copertina, per andare dal simbolico al fantastico, un tondo che raffigurava l’aratro. Negli anni, poi, mi accorsi che era un aratro tipicamente mediterraneo, anzi, per essere precisi, quest’aratro è stato usato fino agli anni ’50 anche in quelle zone dell’Oriente di cui abbiamo parlato prima: è l’aratro a chiodo. Guarda la forma che ha, non trovi che assomigli ad una regione d’Italia? Una regione che si sviluppa in lunghezza (la Puglia)? Che combinazione! E qui non si tratta della cultura cristiana, qui c’è la cultura materiale, c’è la tradizione, c’è il lavoro umano; quest’aratro potrebbe simbolizzare la Puglia. Ecco un rapporto con l’Oriente , ma che ruota intorno al lavoro, alla terra. Certo manca il mare, ma non si può avere tutto! Questo è l’unico tondo che ha un senso che riguarda tutta la regione, tutto il Mezzogiorno, tutto il Mediterraneo perché è questo lo strumento caratteristico; mentre, se si va nell’Italia Padana o nel centro Europa o in Francia o in Inghilterra, l’aratro è già diventato, dalla metà del 1100, l’aratro a ruota, quello che scava in profondità, che ha un vomere che deve scendere; è un aratro asimmetrico ed è trainato spesso dai cavalli. L’aratro a chiodo, scavando solo in superficie è completamente inutile nelle zone fertili del centro Europa. Il film del ’74, “Flavia la monaca musulmana”, ha ripreso sullo sfondo un contadino che arava con questo aratro. P Di tutta questa cultura della pietra, al di là della questione religiosa, che ci rimane? L La cultura della pietra non fa parte del Medioevo. Il Medioevo fa parte dell’età del legno! È tutto ciò di cui abbiamo parlato fin’ora ciò che ci è rimasto del Medioevo, tutto il resto è stato perso; si sono perse le stalle intorno a Castel Del Monte che, contrariamente a ciò che si pensa, aveva intorno almeno un muro difensivo e nello spazio tra questo muro e il castello stesso si piantavano le tende durante gli accampamenti. La tesi sulle ombre proiettate dai muri del castello sono sbagliate, ormai non se ne parla più perché le misure che diede Aldo Tavolaro non
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erano quelle del muro che proietta l’ombra. Castel Del Monte non è un ottagono regolare, ma non per centimetri, per metri! Per cui l’altezza di una parete non è uguale all’altezza di un’altra, non si può prendere una parete qualunque sud-est e usare i suoi valori su di un’altra parete. P Avevo letto che avevano utilizzato il numero armonico per fare questi calcoli. L Il numero armonico si ottiene soltanto se tu vuoi inscrivere un ottagono all’interno di una circonferenza, se l’ottagono è irregolare, come lo puoi inscrivere? Sono stati fatti dei rilievi molto accurati, agli inizi del 2000, da parte dell’equipe del professor tedesco Shirmer dell’Università di Karl Ruer, con degli strumenti sofisticatissimi (non con il metro, come fece Tavolaro che non andò mai a misurarlo) ed è venuto fuori che Castel Del Monte è un ottagono assolutamente irregolare. In fondo lo si intuisce perché la parete su cui si trova il portale come può avere la stessa larghezza delle altre? Non ce l’ha! Solo nelle piante della Sovraintendenza il castello è reso armonico. Il prof. Tavolaro sostiene che la parete sud-est è alta circa 20 metri e solo se ha quella altezza può proiettare una certa ombra in un determinato giorno. Bene, quella parete lì non ha quell’altezza perché ha un parapetto di 70 centimetri che è stato aggiunto dopo e che quindi va tolto; solo dopo che fu costruito, l’ombra della parete finiva nel cortile. Nessuno in tanti anni si è accorto che il prof. Tavolaro in una prima edizione del libro dà certi valori, e sostiene che solo ad un certa latitudine, ad una determinata altezza e per una particolare lunghezza del cortile si possono avere queste precise ombre; nella seconda edizione del libro, nel 1991, i numeri sono cambiati, ma i risultati sono sempre quelli! Non si può giocare con i numeri, non si può inventare che Castel Del Monte non è un castello perché manca il ponte levatoio, manca il fossato, mancano i merli, mancano le cucine, mancano le stalle (come disse all’inizio della sua tesi il prof. Tavolaro), tutto ciò è pazzesco. Per esempio Castel Del Monte ha una cucina in stanze alterne, la cucina si chiama “camino”, se poi ci si aspetta il vano cucina è chiaro che non c’è. Altro punto: la mancanza del fossato. Il castello di Bari, costruito da Ruggero II, fino al ‘500, non aveva il fossato quindi neanche il castello di Bari dovrebbe essere un castello! Ma comunque un fossato a Castel Del Monte, che si trova su una collina, è veramente inutile. Si dice che manchi il ponte levatoio, ma è falso perché se andate a Castel Del Monte, si vede ancora oggi, nel portale, la fessura da cui veniva calata la grata. Dicono che mancano le stalle: è chiaro, non si possono trovare le stalle nel castello; le stalle si trovavano fuori. Dicono, ancora, che mancano i merli, ma i merli, nei castelli del Mezzogiorno, non si
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trovano quasi mai. Per tutte queste errate ragioni Castel Del Monte non sarebbe un castello, ma come si chiama? CASTEL Del Monte! Da quando è sorto si chiama “castrum” di Santa Maria Del Monte; “castrum” non vuol dire tempio, ma vuol dire castello. Se andassimo avanti continuerebbero a venire fuori un’infinità di storie assurde, che, io e il mio team abbiamo contestato dalla prima all’ultima, e adesso cominciano a rendersene conto. Si entra nel cortile e si trova il famoso crittogramma, una scritta misteriosa fatta da Federico II in persona, ma è un’assurdità. Il libro più venduto su Castel Del Monte è quello di Vincenzo Dell’Aria che sostiene che non era un castello, ma il luogo di un percorso esoterico e lo si evincerebbe dalla scritta misteriosa mai decifrata che si trova nel cortile e che lui chiama criptogramma! Nel cortile di Castel Del Monte, ad altezza d’uomo, si trovano scritte due righe; la prima ha le seguenti lettere: “d”, una “B” grande e sopra “lo”, “diablo” o almeno così la tradusse il decifratore, sostenendo che l’avesse scritta Federico II in persona; e questa cosa venne pubblicata anche sulla “Gazzetta del Mezzogiorno”. Secondo il decifratore il significato del crittogramma è: “io Federico II ho costruito questo castello per difendere l’umanità dal diavolo”. Ovviamente, dopo queste dichiarazioni, arrivarono a Castel Del Monte, moltissimi turisti attratti dalla presunta energia cosmica. Io e il paleografo Franco Magistrale, che fino a due anni fa è stato il presidente dell’Associazione Nazionale Paleografi ed Epigrafisti, abbiamo decifrato quella scritta che dice molte cose, ma quel “d” “B” “lo” vuol dire: Magister Surdo Paciullo (che sono un nome e un cognome) De Barlo (di Barletta). C’è una data, credo 5 settembre 1566. Nel 1551 il castello fu acquistato da Fabrizio Carafa di Andria che, trovando il castello in uno stato pietoso, si rivolse a questo Surdo Paciullo di Barletta, che documenti coevi, pubblicati nel codice diplomatico barlettano, ci mostrano essere proprietario di un’impresa di ristrutturazioni edilizie (infatti questi è intervenuto in molti palazzi di Barletta e di Andria), questi dopo 15 anni finì la ristrutturazione e appose la sua firma, come si fa anche adesso, sul lavoro finito. Il decifratore del “diabolo” è un funzionario di banca che non conosce il latino, ma come si fa ad improvvisarsi storico? La vera strada verso un’identità pugliese è il lavoro e la propensione nei due sensi all’Oriente. ... Io vedo lo stemma della Regione Lazio, lo stemma della Regione Toscana, che tutto dicono tranne dove si trova la regione! Simbolizzano la Regione, ma non dicono in che parte dell’Italia si trova. Questa è una cosa importante. Nella comunicazione che voi esperti date, manca un punto fondamentale; voi parlate di tradizione, di storia, ma è un
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approccio troppo “metafisico” perché la storia è fatta di due assi: il tempo e lo spazio. Chi crea questi simboli/stemmi ha rappresentato solo uno di questi due assi, il tempo, ha rappresentato qualcosa di rappresentativo del tempo, ma dov’è lo spazio? P
Anche questo è uno spunto!
L La comunicazione visiva non può basarsi solo su un livello, altrimenti si appiattisce il Medioevo. P Quando noi parliamo di identità visiva, in realtà non pensiamo ad un marchio, ad un simbolo, ma pensiamo ad una serie di elementi, per esempio a come occupare gli spazi da stampare, per questo sottolineo l’aspetto della scrittura. In alcune regioni hanno fatto un esperimento per cui tutti gli uffici comunali si sono dotati di un font disegnato appositamente che rende tutta la comunicazione della Regione riconoscibile. La persona comune non si rende conto che quello è un font particolare, però nota che c’è una relazione tra la lettera e la Regione. L’insieme di tanti elementi deve concorrere a creare un’identità forte; non deve essere rigido; non si può mettere staticamente in un posto il logo, in un altro la scritta e così via. Questo tuo suggerimento di posizionare la Puglia nell’Italia va seriamente preso in considerazione, magari non nel simbolo, perché in una sintesi grafica non si può mettere tutto. L Non si discute sul fatto che la scrittura sia un segno fondamentale e prioritario e sul fatto che chi non ha la scrittura non ha il potere; la scrittura serve anche a contrastare il potere; è un esempio è Di Vittorio che passando dall’analfabetismo alla scrittura diventa un maestro; la scrittura è assolutamente uno strumento che serve. Bisogna far passare l’idea che anche la scrittura è lavoro. Non soltanto il lavoro manuale, il lavoro agricolo, il lavoro operaio sono sinonimi di “lavoro pratico”, anche scrivere è un lavoro.
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Una chiacchierata con il presidente Nichi Vendola Perrone In che termini si può parlare d’identità Pugliese? Vendola Io credo che qualunque lavoro sull’identità è un lavoro sul filo che lega la memoria a una visione del futuro. Naturalmente ogni epoca costruisce il proprio rapporto con la memoria inventando una tradizione. La tradizione non esiste come non esiste tendenzialmente l’identità. Esiste l’autoproduzione di un’identità nella capacità di mettere in relazione l’invenzione di una tradizione e l’immaginazione del futuro. Io credo che la Puglia possa costruire la propria tradizione utile per immaginare il futuro camminando su due gambe: la gamba dell’accoglienza, della mescolanza, di questa Puglia che è stata sempre un crocevia tra Oriente e Occidente in cui al Nord si parla ancora il Provenzale e al Sud il greco antico. Questa importante gamba di una terra che è stata un luogo di confluenza di civiltà, di percorsi, di lingue, di culture, è anche frutto della sua collocazione geografica. Ricordo che la Puglia è l’unica regione d’Italia affetta da strabismo: con un occhio guarda ai Balcani e con l’altro al Nord Africa. L’altra gamba è quella della propensione levantina. L’affacciarsi sul Levante ha prodotto un’attitudine levantina e in genere si è dato un significato negativo a questo termine. I Levantini sono dediti in maniera meticolosa ai traffici, agli scambi, sono commercianti, come lo sono i Cinesi, i Croati e i Pugliesi delle coste, delle marinerie che si sono tuffati attraversando mari e scoprendo nuovi mercati. Io credo che questa cifra levantina della Puglia sia un dato da riscoprire in termini di spirito di intrapresa. La creatività di chi naviga e commercia, il coraggio, la voglia di fuoriuscire da qualsiasi concezione autarchica dell’economia, ma anche della società. Queste sono le due gambe su cui io penso che si possa costruire la nostra tradizione, cioè quella di essere amanti dei forestieri e quindi capaci di accogliere e mescolare le razze e di essere sagaci commercianti in quanto solcatori di mari. Questa tradizione è utile per costruire una visione del futuro perché la nostra possibilità, unica e grande, è quella di lavorare a una visione in cui l’elemento della capacità di accoglienza-confluenza, sviluppato politicamente e culturalmente, e l’elemento dell’attitudine levantina, sviluppato imprenditorialmente e politicamente, ci garantiscono di avere una prospettiva seria e grande. Non esistono piccole prospettive altrimenti non avremmo chances di sopravvivenza nell’epoca della globalizzazione. Parlo dell’elemento dell’accoglienza riferendomi al ruolo che
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una Regione come la nostra può avere nel Mediterraneo cioè nel mare in cui i figli di Abramo, nel nome del Dio di ciascuno, hanno prodotto la guerra di tutti contro tutti, nel mare più bollente del mondo che è diventato per una periodo una specie di cimitero marino, di cimitero liquido pieno di salme di migranti, naufraghi delle tante povertà. Il Mediterraneo diventa nel 2010 area di libero scambio e sta tornando ad essere un mare interessante per tante ragioni economiche, per esempio perché stanno raddoppiando il Canale di Suez e perché è un attracco che produce un risparmio di dieci giorni di navigazione rispetto ai porti e ai mari del Nord; ma nel Mediterraneo ci sono, ancora interi, i conflitti più significativi dell’epoca nostra, conflitti religiosi, politici e conflitti del futuro legati ad esempio al controllo delle sorgenti idriche. Nel Mediterraneo c’è la tragedia del popolo palestinese, del popolo israeliano e libanese e nella parte adriatica c’è un’area balcanica che per otto secoli è stata il più grande mattatoio della storia nel quale le grandi mitologie nazionalistico-religiose hanno prodotto i propri effetti più dissenati: il Panslavismo con l’idea di una grande Russia e di una grande Chiesa Ortodossa che da Mosca raggiunge Belgrado, il Pangermanesimo con l’idea di una grande Germania che trova il suo sbocco nel mare della costa croata, il Panislamismo con l’idea di un grande Islam che dalla Turchia raggiunge Sarajevo. Nel nome di queste grandi mitologie per otto secoli, con la breve eccezione dei 50 anni del regime titoista, ci sono stati massacri. Noi abbiamo di fronte questi problemi e abbiamo un mondo nel quale matura la tematica dei diritti umani come tema decisivo per qualificare le democrazie e i concetti civili e in più abbiamo la caratteristica di essere una delle principali porte dei flussi migratori in Europa. Tutto questo presuppone una grande responsabilità per la nostra Regione perché se questo ruolo fallisce noi siamo al centro di un grande caos. Se deflagrano nuovamente i Balcani, se non si risolve la loro crisi energetica, se non si sanno fare i conti con la convivenza multietnica, se si generalizzano i tanti conflitti che abitano il Mediterraneo, questo diventa un mare rischioso, un mare chiuso e piccolo che aveva avuto la sua apoteosi nella vicenda delle repubbliche marinare e grazie a Cristoforo Colombo ha rimesso al centro del mondo un altro mare, l’oceano atlantico, che ha cambiato le sorti del mappamondo. Questo mare è entrato in depressione per secoli, si riconcilia con se stesso e ritrova la propria vocazione che è culturale o legata alla promessa di pace che i figli di Abramo hanno tradito per millenni. La Puglia può svolgere un compito in questo campo specifico sapendo che persino l’imperatore il cui castello è l’emblema della Puglia, Federico II, fu famoso non per le guerre, ma per la promozione delle arti, della cultura della scienza.
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In Puglia Francesco d’Assisi, giunto per imbarcarsi per la crociata, si convertì e qui ebbe il punto massimo della sua crisi spirituale. La Puglia in cui i grandi riformatori sociali seppero guardare alla emancipazione della miseria delle campagne dentro un’ottica nazionale ed europea. La Puglia dei grandi assetti sociali di Tommaso Fiore; la stessa che si sentì sempre partecipe della costruzione di una classe dirigente nazionale grazie alle polemiche veementi di Gaetano Salvemini. La Puglia che fu la punta più avanzata nella lotta contro rapporti sociali feudali incarnata dalla figura di Giuseppe di Vittorio. La Puglia che espresse lo statista che più di ogni altro seppe guardare al mondo arabo con curiosità e senza pregiudizi come Aldo Moro e la Puglia che con Don Tonino Bello ebbe uno dei più straordinari profeti di pace immaginando il nostro territorio demilitarizzato, denuclearizzato e “arca di pace” piuttosto che arco di guerra, proteso verso i Paesi poveri. Se questa è la tradizione, la cifra delle convivialità delle differenze, per citare ancora Don Tonino, si riscontra anche nei simboli religiosi; la Puglia ha scelto come immagini della spiritualità provenienti da Oriente i volti di tante protettrici e protettori con la pelle nera. (La Madonna del Porto, San Nicola…). Quindi è una Regione che rappresenta l’estremo Sud dell’Europa, ma anche l’estremo Nord del Mediterraneo ed è punto di totale aggancio tra Oriente e Occidente. Ma la nostra regione non è solo “amante dei forestieri” la nostra regione ospita un numero impressionante di immigrati. Non è un ordinario caso d’immigrazione, ma è lo squagliamento di un’intera nazione che si è riversata sulle nostre coste. Quando l’Albania ci è precipitata addosso c’erano manifestazioni di xenofobia nel Nord Italia ma in Puglia non vi è stato nulla del genere se non una capacità di accoglienze e solidarietà straordinarie. Tanto che qualcuno voleva candidare la Puglia, in particolare il Salento, al premio Nobel per la Pace. Non vi è dubbio che vi sono, in rapporti sociali modernamente arcaici come quelli che regolano lo sfruttamento intensivo di manodopera nelle campagne, lavoratori immigrati che hanno semplicemente sostituito le donne braccianti che subivano gli stessi trattamenti di angherie e di vessazione. Quindi non c’è una tipicità etnica in alcuni fenomeni di tipo neoschiavistico, semplicemente i fenomeni neoschiavisti in tutta Europa e nel mondo vedono come vittime privilegiate i soggetti meno dotati di potere e di diritti di cittadinanza, quindi gli immigrati, perché hanno sostituito quello che precedentemente era l’anello più debole della catena. Ma bisogna anche valutare le reazioni. La Puglia è la Regione che si è dotata della legge più avanzata d’Europa in tema di contrasto al lavoro nero e al lavoro irregolare. Ci viene riconosciuto da
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molte nazioni europee che la nostra legge è oggetto di studio. Io l’ho presentata due volte a Bruxelles in pochi mesi. La nostra è una Regione che reagisce. Una comunità non è un dato omogeneo. La cultura della comunità non è un dato uniforme. C’è una prevalenza ma ci sono anche tanti altri ingredienti. Quando raccontiamo questa Regione non vogliamo fare apologia, vogliamo costruire un orientamento e produrre un processo d’identificazione di massa. Costruire un senso comune. La cifra levantina va semplicemente orientata. In quella cultura c’è il senso di scoperta. L’elemento della scoperta, oggi, in un mondo in cui si naviga in Internet oltre che attraverso i mari. La scoperta non è tanto un dato fisico, perché non si può competere con interlocutori immaginari di cui non si conoscono abilità o mutamenti sociali, ma è anche un dato legato ai processi di innovazione. Per questo la cultura levantina oggi deve mirare a qualificare gli apparati produttivi in termini di crescita e di implementazione dei fattori di innovazione per conquistare la Cina come mercato esportando, ad esempio, il nostro olio o il vino. P Qual è, a suo parere, l’asso nella manica della Puglia che non siamo ancora riusciti a giocare fino in fondo? Su cosa bisogna scommettere? È una domanda complessa che non può presupporre una risposta semplificata. Non c’è un asso nella manica. Se dovessi essere costretto direi la mobilità delle idee che presuppone la mobilità degli esseri umani e quindi uno degli elementi fondamentali è la modernizzazione di tutto l’apparato infrastrutturale della Puglia: porti, aeroporti e tutto il sistema viario. È importante valutare come questi elementi giocano in chiave di intermodalità per superare quella che io chiamo la “sindrome dell’ insularità” della Puglia, una Regione scollegata col Sud, con l’Europa. È importante, invece, metterla in relazione con i mondi e con le altre realtà. La mobilità delle idee è anche nel giocare la partita dell’innovazione. Ho inaugurato il distretto della Meccatronica. Qualche settimana fa ho innaugurato il distretto dell’High tech nell’agro-alimentare, il distretto delle nano-tecnologie. A ottobre partirà il distretto dell’innovazione nel settore dell’avionico. Stiamo dotando l’apparato produttivo, in relazione con il sistema universitario della ricerca, delle infrastrutture necessarie per costruire un vero sistema dell’eccellenza. Non l’eccellenza come fatto eccezionale e miracolistico, ma come ricerca di una Regione che è capace di fare massa critica sui propri talenti costruendone una rete. Poi si tratta di guardare noi stessi e di dire: “Questo siamo!”. V
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Noi siamo un paesaggio abbastanza particolare perché la pluralità delle Puglie è una pluralità abbondantemente ignorata dai Pugliesi medesimi che non conoscono la diversità del Subappennino Dauno. I Pugliesi del Nord, almeno le generazioni più anziane, difficilmente conoscono il Salento… P
Ma esiste davvero questa pluralità?
V È un’invenzione anche questa. Le Regioni sono un’invenzione. L’Italia non ha un’identità regionalistica. Le uniche entità che abbiano avuto un significato sociale e storico e che abbiano innervato la nozione d’Italia sono i municipi, le città rinascimentali. Quelle sono le uniche entità a cui ci si può aggrappare. Le regioni sono entità convenzionali prodotte per ragioni amministrative e politiche. È un caso che il Molise non sia in Puglia o che la provincia di Foggia non sia in Molise. È un caso che la Basilicata non sia in Puglia oppure che Altamura e il suo territorio non siano in Basilicata perché Altamura e Matera sono sorelle gemelle, quasi siamesi, per certi versi. Quindi, costruire identità allargate, purchè queste servano non a disgregare le entità amministrative più grandi, ma ad aggregare le entità minori locali, mi pare una tendenza da favorire, a condizione che non si giochino guerre campanilistiche come Grande Salento contro Capitanata. P Cosa pensa dell’operazione culturale nel Salento sul recupero di questa dimensione e della sua specificità? V Se vai in barca sulla costa salentina e ti fermi a S. Cesarea Terme o a Castro e non conosci bene i luoghi, d’istinto dici: “Siamo in Grecia!”. Se ti bendano e ti portano negli uliveti di Bitonto tu puoi pensare indifferentemente di essere nelle campagne di Salonicco o di Malaga. Se procedi per intuizioni estetiche o olfattive è l’intero bacino del Mediterraneo che, in qualche modo, mescola le sue carte qui dentro. Se ti fermi a Bari vecchia in certe viuzze pensi di essere a Tangeri e man mano che ti sposti perdi le caratteristiche arabe e guadagni quelle greche. Poi entri in un mondo più bizantino. Se ascolti la musica della Grecìa salentina pensi di essere nei Balcani. È una pluralità che è un corpo vivo. Non ci sono barriere amministrative. Soltanto un’idea leghista delle identità può imprigionarle. Quando le identità hanno barriere precise sono morte. Quelle Pugliesi sono vive e rivivono. Riecheggiano tutto quello che è stato, producendo mutamento.
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Il dialetto che parlava mio nonno non è certo uguale al dialetto che parlava mia madre. Forse la presenza degli Americani nella guerra ha cambiato il dialetto. Non c’è dubbio che i miei nipoti parlano il dialetto, ma questo è completamente diverso da quello che nella mia vita ho tentato di parlare io. Fortunatamente le identità sono corpi vivi. P La nostra perplessità è quella di imbatterci in stereotipi dovendo dare un’identità visiva alla Puglia. V Noi abbiamo la fortuna di non essere città regione come la Campania e di esserci salvati in tempo. La Campania è andata troppo velocemente avanti e tornare indietro non è facile. Non ha più un’identità municipale che è un riferimento al reale. E abbiamo anche la fortuna di non essere la Calabria che ha le sue identità municipali, ma queste sono segnate da riferimenti che comandano con codici ancestrali. La Puglia ha un’identità di comunità abbastanza simile a quella della Lucania, ancora con tanti problemi di crescita malata, però tutto sommato con un confine che è stato mantenuto. Il territorio c’è, e l’elemento che mette insieme tutto ciò che ci siamo detti è che c’è una possibilità di tradizione se c’è l’elemento comunitario, l’elemento della coesione sociale, l’attenzione verso l’identità. Bari sembra innamorarsi nuovamente della sua città antica e applaude all’abbattimento di Punta Perotti ricostruendo il suo rapporto con il mare. C’è ancora l’idea delle nostre identità come ricordi sociali che vanno curati e mantenuti. P La nostra ambizione è quella di tentare una strada più moderna per dare un’identità visiva alla Regione Puglia V Trovo personalmente gradevole l’iconografia della Provincia di Lecce e sicuramente quella che non mi piace è, appunto, quella della Regione Puglia.
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Finito di stampare nel mese di gennaio 2011 dalla tipolitografia Grafica e Stampa - Altamura
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L’identità visiva della Regione Puglia propedeutica alla progettazione a cura di Nino Perrone
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