Nino Muzzi Il film lascia il segno

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Il film lascia il segno

Indagini semiotiche sul Cinema di Nino Muzzi


Quasi una prefazione Stavano andando tutti al cinema – al Paramount, all'Astor, allo Strand, al Capitol o in un'altra di quelle gabbie di matti. Erano tutti in ghingheri perché era domenica e questo peggiorava le cose. Ma il peggio era che si capiva benissimo che volevano andare al cinema. Non ce la facevo a guardarli. Posso capire che uno vada al cinema perché non ha nient'altro da fare, ma quando uno vuole proprio andarci e si affretta perfino per arrivare prima, questo mi riduce proprio a terra. Specie se vedo milioni di persone impalate in una di quelle tremende file lunghe quanto tutto l'isolato, che aspettano con una pazienza atroce di trovar posto e via discorrendo. (Salinger, Il giovane Holden) Ecco, quello che faceva orrore al giovane Holden costituiva (e l’imperfetto è d’obbligo) il fascino del cinema. Ho sempre sostenuto che l’emozione del cinema è data dal fenomeno collaterale/centrale delle sale buie, delle code, della folla nel ventre della balena, che faceva scrivere a Neruda: ...e nei malfermi cinema silvestri / dove l’amore scopre i suoi denti. (Canto general). Ma più in generale il cinema, prima della sua entrata nella sfera privata, rispondeva in pieno a quella verità che fu pronunciata da Mac Luhan per la televisione e cioè che il contenuto della tv è la tv stessa. Da quel momento l’indagine si sposta sull’autoreferenzialità del mezzo che ci fa capire come l’attrazione per l’esposizione d’arte sia l’esposizione stessa o come oggi spesso si dice l’istallazione. Che sarebbe un concerto dei Rolling Stones se sparisse la folla e tu restassi il solo spettatore? Sarebbe come una sensazione da fine del mondo, da day after, una cosa spaventosa. E’ quanto è successo al cinema, il vecchio cinema amico dei poveri e dei ragazzi, che si vede tutto agghindato uscire in prima visione e poi sparire di circolazione, catturato dal video. Ogni forma d’arte in ogni momento della storia evoca un pubblico, e li vedi quei damerini settecenteschi a teatro, nei palchetti o in piedi nel pozzo della platea, come tante statuine di un presepe, mentre assistono a La serva padrona, le vedi le Dames savantes nei salotti francesi, mentre leggono i poemi di Ronsard; insomma l’Arte non è mai sola, asfittica, richiede sempre un contesto di fruizione, come un quadro la sua cornice. Il cinema è invece spoglio, ha perduto la veste e l’habitat, la sua ubiquità lo uccide, prolungandone la vita in mille forme digitali, ma sterili, acontestuali. Il film entra in archivio e ci muore. Per questo io sono favorevole a quegli enormi, spropositati scatoloni Kitsch di cemento armato e di lustrini, costituiti dai Planet Multicinema, dove l’odore nauseabondo delle patatine quando entri ti scaccia, poi ti ci abitui. Ovviamente si tratta di “contenitori di giovani” e, come le pizzerie alla moda o gli aperitivi oceanici, dove fai a gomitate, prescindono dalla qualità del contenuto o addirittura dal contenuto stesso. Però si sa che là si vede cinema. E vabbene, incontriamoci là! Non sono mica sicuro che tutti quelli che si vedono assembrati dinanzi al Planet entreranno a vedere un film… Ovviamente non basta lo scatolone di cemento a ridare vita ad una società di spettatori, come invece è molto facile crearne una dei cineamatori, fondando un circolo del cinema. Però, essendo io convinto che la fruizione del film è quella dello spettatore e non del cineamatore, aspetto il miracolo… Un giorno vedremo uscire dalle scale del Planet un popolo calmo che conversa a coppia a coppia o a gruppi di tre o di quattro, gioiosamente, interessato a capire quello che ha visto e ad approfondirlo, come si vedono i filosofi di Raffaello nelle stanze vaticane, mentre discettano dell’essenza del mondo e Platone indica con un dito il cielo, mentre Aristotele stende la mano sulla terra. Quella società di spettatori s’incontrerà sempre per strada col cinema negli occhi, vivrà attraverso il cinema, interpreterà il mondo cinematograficamente, sceglierà un attore su misura, per entrarci e viverci, come Mia Farrow nella Rosa purpurea del Cairo… E’ già giorno?!


Il lamento dello spettatore Perché, perché, perché il Cinema è così crudele da mostrarci volti di attori che non vivono più, mode ormai morte e vestiti in disuso, capigliature scese su collo e spalle d’avorio di attrici scomparse? Perché, perché, perché mi perseguita il sorriso triste di un Yves Montand con l’ombrello, che accetta rassegnato gli anni perduti, e la fisarmonica ne accompagna il passo leggero di ballerino lungo un marciapiede umido di pioggia, inquadrato dalla robusta cinepresa di Sautet? Perché, perché, perché il vecchio professore del Posto della fragole la sera prima di addormentarsi ripensa agli anni della propria infanzia e di fronte a questo teatro della memoria si addormenta dolcemente invece di sentire dentro di sé lo strazio dell’irreversibilità della vita? Perché, perché, perché Charlot è invecchiato e ha acquistato la parola, invece di restare quell’omino muto eternamente giovane e scattante, pronto alla risposta e combattivo contro i pachidermi del potere? Perché, perché, perché Alain Delon ha i capelli bianchi, proprio lui, l’eterno “môme” (come lo chiamavano Jean Gabin e Simone Signoret)? Perché, perché, perché il sorriso di Belmondo si è fatto stanco e triste con gli anni? Il nostro tempo, invaso dal cinema, ha commesso il peccato più grave, quello di guardare dietro le quinte. Ha visto la vita privata degli attori, li ha scovati su ogni spiaggia, in ogni luogo di vacanze, li ha intervistati e portati sui rotocalchi, e ciò facendo ha incrementato il proprio nemico, quello che da sempre il Cinema si porta dentro: l’uso dell’immagine iconica (l’Uomo in carne e ossa) per rappresentare l’immagine simbolica (il Personaggio della vicenda filmica). Meglio sarebbe stato il film di animazione, dove il personaggio disegnato vive di vita eterna e quando muore, muore giovane, semplicemente perché non piace più. E invece il Cinema ha dovuto farsi carico dell’invecchiamento degli attori, cucendo loro addosso gli abiti della vecchiaia, come successe con l’ultimo Jean Gabin. Questo accompagnare l’attore alla tomba ha conferito al cinema un’aura quasi cimiteriale. Perciò ho trovato splendida l’operazione semiotica dei fratelli Coen che hanno preso Jeff Bridges e lo hanno ridotto ad un disegno animato. E’ un personaggio con un occhio solo, l’eterno cappellaccio di feltro sulla testa, un cappotto da pistolero duellante e la bottiglia di whisky sempre in tasca. E’ un vecchio che non fu mai giovane, un solitario che non fu mai sposato, anche se si apprende nel corso del film che certo fu giovane e scapestrato, che fu sposato e che ebbe una figlia. Grande è stato Jeff Bridges nell’accettare il ruolo di cartoon. Ma poi, alla fine, è giunto il riscatto: il vecchio salva la bambina in uno sforzo sovrumano, e il cartoon ritrova la più grande umanità. Bisogna dire che rivedendo il vecchio Il Grinta di Henry Hathaway, ho notato che John Wayne convince meno di Jeff Bridges. Il primo è troppo flessuoso, per certi versi troppo morbido, troppo elegante nel portamento, oserei dire addirittura affettato; mentre il secondo è scheggiato, angoloso, rauco, istintivo. Mi piace senza chiedermi troppi perché.


Cinema e tv si pestano i piedi ballando? Sono da sempre un sostenitore dell’incompatibilità fra cinema e tv. E lo sono per degli aspetti che all’apparenza sembrano esterni: il pubblico, la sala, le dimensioni delle immagini, il carattere pubblico e non privato della fruizione del film. D’altronde fin dai suoi primi esordi il cinema ricevette gli stessi commenti dall’intellighenzia contemporanea. Essa, partendo da quel battesimo di fuoco che furono le sale buie e affollate, il pigia pigia ai botteghini, la fumosa e vivace presenza popolare, lo segnalò innanzitutto come fenomeno di massa. Poi si mise a discettare subito sulle funzioni educative del nuovo mezzo o sulle sue eventuali influenze negative sul popolo, ma questa è un’altra roba. La cosa essenziale era già stata detta: fenomeno di massa. Quando negli anni cinquanta fece la sua comparsa in Italia, la tv conobbe forse un decennio di fruizione pubblica - nei bar, nelle case del popolo e anche nelle parrocchie – ma poi entrò nelle singole abitazioni, quindi nelle singole camere, infine in tutti gli anfratti del privato. La tv è oggi nel gabbiotto del portinaio, del centralinista, dell’usciere ministeriale, nel taxi che ti porta a casa e poi è lì di nuovo a casa che ti aspetta in cucina, in sala da pranzo e in ogni singola camera. La tv appartiene alla categoria dei ninnoli, dei soprammobili, degli elettrodomestici. Il suo schermo potrebbe essere applicato allo sportello del freezer, il modello andrebbe a ruba. Ecco allora apparire il volto della Garbo fra il tostapane e la fruttiera, ecco l’intensità delle scene di Bergman interrotte da un: "Mi passi il sale?", ecco la disfatta di Napoleone sulla Beresina fra due piedi oscillanti in una notte insonne d’estate. Eh sì, proprio così, perché la tv si guarda mangiando, sdraiati sul letto, allungati nella vasca da bagno, seduti in giardino, facendo i compiti, con una mela in mano, un’aranciata con la cannuccia, una banana sbucciata con gli occhi fissi allo schermo. Insomma la tv riempie di sé gli spazi del privato. Addio fenomeno di massa, addio fruizione collettiva, addio ansie e paure nel buio della sala, addio presenza coattiva degli altri. Come posso affidare la fruizione del film a questi momenti privatissimi? Non posso. Eppure uno dice che ha visto un film in tv, ma è come se dicesse che ha mangiato una bistecca passata al tritacarne. La forma della bistecca resta essenziale per definire la bistecca stessa, altrimenti ci potremmo tranquillamente nutrire di omogeneizzati al plasmon. Però tutti guardano il film in tv, ci sarà pure un motivo. Semplice: le sale sono inaccessibili, i film spariscono di circolazione dopo una settimana e… per sempre. Il succedaneo è la videocassetta, il succedaneo di lusso il dvd. Come in ogni epoca di grandi rassegnazioni e poche speranze noi conserviamo come possiamo l’opera d’arte: le facciamo un piccolo museo nel nostro privato, acquistiamo il dvd, che rappresenta appunto questo gesto pietoso di conservazione del film, con annessi e connessi, trailers, commenti, scene scartate e tutti i possibili "materiali" ad esso riferibili. Il film è un oggetto di studio, non è più oggetto di fruizione.

Fra terra e aria Un’analisi semiotica di “Io non ho paura”


Voi ragni pelosi Voi tassi barbassi Lumache bavose E ciechi orbettini Restate lontani Dai nostri bambini. Voi bestie notturne Amanti del buio Voi che non dormite Se non al mattino Vegliate sul sonno Di questo bambino. La mia tesi è la seguente: in questa filastrocca sta riposto tutto il senso “semiotico” del film di Salvatores, tratto dall’omonimo romanzo di Ammaniti, romanzo nel quale manca per l’appunto proprio questa filastrocca che il bambino protagonista del film recita con un filo di voce, pedalando in salita in una notte punteggiata da mitiche figure di animali, di terra e d’aria. Gli animali di terra sono schifosi, pelosi, bavosi. Gli animali dell’aria sono saggi vigili notturni, animali protettivi del sonno di un bambino. Il bambino minacciato sta dentro una buca, scavata nella terra, da cui non si scappa, a cui si accede solo tramite una scala di legno che viene di volta in volte ritirata dai suoi carcerieri-rapitori che attendono un riscatto dalla famiglia. Il bambino liberatore che si agita sui pedali sa che quella notte il bambino prigioniero può essere ucciso dai suoi rapitori e così recita col fiato mozzo per ben due volte la filastrocca-preghiera che dà tutto il senso semiotico al film. In effetti durante tutta la vicenda filmica assistiamo ad una divisione fra alto e basso, aria e terra, che si contrastano come i due principi fondamentali del bene e del male. Il bambino protagonista, per esempio, adirato giustamente contro la famiglia, si rifugia sull’albero (aria) e non vuole scendere oppure salta dalla finestra (aria) sul tendone del camion per soccorrere il bambino “interrato” oppure nella stalla, dove deve fare la penitenza per essere arrivato ultimo in bicicletta, cosa avviene? Gli viene imposto di camminare su un trave pericolante (aria), e lui lo fa senza paura, e quindi gli viene ordinato di lanciarsi dalla finestra sui rami di un albero poco distante (aria), e lui lo fa senza paura. Le forze ctonie (terra) sono rappresentate dal padre, un ingenuo meridionale circondato da cattive compagnie che lo hanno spinto a sequestrare il figlio di un commerciante del nord. Accanto al padre quindi si trovano i ragni pelosi, le lumache bavose e i ciechi orbettini (Abbatantuono e complici). Per raggiungere la prigione del bambino bisogna superare alcuni ostacoli rappresentati da “segni” di terra, come una porcilaia con cani da guardia e un guardiano armato di fucile. La madre non ha il potere di salvare il marito, destinato al fallimento (è lui che tira sempre il fiammifero più corto…). Nessun protagonista della vicenda può salvare, anche volendo, il bambino “interrato”. Una volta il bambino protagonista lo fa uscire dalla fossa e corre con lui nei campi, ma poi lo riporta alla sua prigione, nell’assurdo rispetto di un’assurda regola del gioco. A nessuno dei due bambini salta in mente di scappar via da quel luogo per cercare rifugio da qualche contadino o dalla Polizia. Ambedue rispettano l’assurda regola del gioco e ciò rientra perfettamente nella mentalità dei bambini, nel loro serioso rispetto delle regole, anche delle più crudeli. Quindi nessuna salvezza verrà dai bambini, nessuna salvezza verrà dalla donna, nessuna salvezza verrà dagli uomini. Solo un deus ex machina che scenda dal cielo, solo una forza dell’aria potrà


salvarlo. Infatti una delle più belle scene del film si aprirà ai nostri occhi nel buio della notte, quando sulla testa del bambino prigioniero, seminudo, sferzato dal vento, scenderà in salvataggio una forza dell’aria, un enorme uccello notturno: l’elicottero della Polizia.

L’amante inglese Ma cosa c’entra l’amante inglese come titolo non si capisce per tutto il corso del film. In effetti l’originale Partir significa la separazione da qualcosa, da qualcuno. E’ quello che capita a lei, Kristin Scott Thomas, la splendida protagonista quarantanovenne con un piglio interpretativo degno di una Julianne Moore. Capita più a lei che a lui, Sergi Lopez, ottimo maschio orsacchiotto, questa avventura sentimentale dalla quale il protagonista maschile sembra pronto a ritirarsi in ogni momento a causa di tutte le difficoltà e di tutti gli ostacoli “borghesi” che insorgono insistentemente. La regista ha voluto sottolineare fino in fondo il lato femminile della vicenda, la dimensione psicologica e sociologica della donna “prigioniera” di uno status sociale privilegiato, pagato al caro prezzo della rinuncia all’amore, o alla vita, se preferite. Il marito non capisce niente di lei, forse non è un mostro, ma lo diventa seguendo tutti gli orpelli dell’ideologia borghese: i figli, l’unità della famiglia, il passato felice, i privilegi del presente, la dipendenza economica della moglie da lui, medico affermato. Questa ideologia non riceve nessuna risposta, né dalla moglie, né dall’amante di lei. I due protagonisti sono socialmente muti. La regista capisce benissimo -e questo è il suo touch femminile- che la vicenda d’amore “prescinde da…” e, ciò facendo, s’inserisce nella tradizione letteraria europea, dove amori interclassisti e relazioni “impossibili” abbondano. La vicenda d’amore prescinde dai rapporti di classe. Il marito la rimprovera con sarcasmo: definisce la vicenda come l’infatuazione della borghese per il proletario, ma la moglie non risponde. Tutte le scene che la vedono inquadrata nel suo ambiente familiare la vedono afasica. L’innamoramento le ha tolto la parola, è diventata irriconoscibile agli occhi del marito e degli stessi figli, è, come si suol dire, “partita”, esattamente come dice il titolo del film. Dall’afasia la donna scivola lentamente in uno stato di “deregulation”, di allentamento dei freni inibitori del comportamento sociale, fino a varcare la soglia del socialmente proibito. Ruba. Il punto di caduta della vicenda sta proprio nel delitto contro la proprietà compiuto dagli amanti. La storia finisce qui, di fronte a questo muro oltre il quale non si può andare. Ma la regista non ha deciso di fermarsi, e, come in ogni tragedia, ci deve essere una nemesi, una giustizia compensativa, o anche, se volete, una vendetta a suggello di tutto. La regista ha scelto l’atto che sta fra il reale e il sognato, e non ne percepisci la differenza. L’orrore del delitto cruento, alla fine, si sposa con la vaghezza (intesa anche come bellezza) di un paesaggio sconfinato che fa dimenticare l’angustia degli spazi domestici e sociali. Cosa resta alla donna se non il sogno e la vendetta? Le luci della sera Tre vecchi russi, ubriaconi, discutono traballando per strada su quale scrittore abbia rappresentato al meglio l’animo russo. Un uomo, al limite dell’autismo, ci conduce nel suo giro d’ispezione notturna. Una gang mafiosa lo utilizza a sua insaputa per organizzare un furto di gioielli. Il furto riesce e il


metronotte va in galera. Non si discolpa mai, perché non vuole accusare la donna mafiosa che lo ha sedotto (si fa per dire: un bacino sulla guancia!). Si tratta delle riedizione di un personaggio calpestato, alla Woyzeck, tanto caro alla cultura nordica? Si tratta di una nuova cristologia ambientata in sudice periferie urbane? Si tratta di una storia talmente a lettere minuscole che t’impedisce per definizione di cercarne il senso riposto? Questo film e` un monumento al cinema dell’impenetrabilità`, quel cinema che sembra volerci negare lo sguardo "al di là". Lo spettatore non si trova in posizione ne` di vantaggio ne` di svantaggio rispetto ai personaggi. Dopo un po` si accorge che non gli resta altro che mettersi seduto in un angolo accanto al protagonista e osservare i muri che si ergono ovunque, protagonisti anch’essi come i volti muti degli uomini seduti al bar, in una Finlandia desolata, lambita da musiche esotiche e arie pucciniane. In ogni caso questo cinema lotta contro la spettacolarità e l’ambiguità`: mai dialogo fu più esplicito, povero come le stoviglie e i fiori che ornano le tavole d’osteria. In questo vagare tutto in superficie, in questo ridurre tutto a pratica quotidiana con lontane speranze e progetti all’orizzonte che assomigliano ai sogni di un carcerato, in questo accadere antieroico solo una donna indaga, interviene, vede più in là, forse progetta una via d’uscita e salva il protagonista dalla morte civile: la povera venditrice di salsicce.


Non credo né a te, né a Ceausescu Ad Est di Bucares,t girato coi mezzi di bordo, film simpaticissimo, ci rimprovera. Rimprovera noi, che abbiamo venduto l’autenticità per il piatto di lenticchie dell’americanismo. Loro non l’hanno fatto e producono ancora cinema autentico, immagini che pesano. Il segreto del film sta tutto qui, nella sua "pesantezza", in quei volti segnati dall’alcool o dal lavoro o anche dall’ozio e dall’abulia maschile, ma senza la retorica holliwoodiana. Attori che recitano se stessi, film che fanno parlare la realtà antieroica di uno squallore quotidiano non compiaciuto, non curato come nei film americani, dove se c’è lo squallore dev’essere per forza anch’esso spettacolare. L’assenza invece di spettacolarità e l’assenza d’eroismo caratterizzano i tre volti dei protagonisti in tv: un presentatore, un vecchietto distratto e un ubriacone che fa l’insegnante di Storia. Tre destini più o meno raffazzonati che s’interrogano se e in che misura in quella città ad est di Bucarest ci sia stata la Rivoluzione che cacciò via Ceausescu. Tutto dipende dall’orologio: c’era gente in piazza prima delle 12,08 di quel fatidico 22 novembre 1989? Se sì, allora ci fu rivoluzione. Se, invece, la gente scese in piazza dopo le 12,08 la cosa non vale, perché Ceausescu era già partito in elicottero. Intorno a questo dibattito con telefonate in diretta si svolge la seconda parte del film, mentre la prima è una lenta preparazione a spirale: una presentazione delle tre vite di questi uomini abulici dietro i quali ci sono altrettante donne concrete che sanno tirare avanti la baracca. Una di queste donne, Maria, pronuncia la frase che suggella tutto il film: Non credo né a te, né a Ceausescu! Il film infatti è un atto di sfiducia nei confronti dell’uomo (maschio) slavo rappresentato in tutta la sua inettitudine. Insegnanti scafati che banalizzano la scuola agli occhi degli alunni, solenni promesse di redenzione dei mariti, alle quali le mogli non prestano più nessun ascolto. E il tavolo è sempre coperto di briciole e di bicchieri usati, gli abiti hanno sempre macchie o pecche di vario genere, i televisori funzionano a intermittenza, mentre per strada giovinastri impomatati commentano appassionatamente un’auto di lusso nuova fiammante acquistata chissà come e i ragazzacci fanno scoppiare fastidiosi petardi natalizi comprati da un simpaticissimo cinese, mercante di cianfrusaglie. C’è di tutto nella linea del cinema slavo e postcomunista, ma senza compiacimenti, senza colore locale, senza nostalgia e dietro l’ironia, dietro il paradosso, si nasconde la tenerezza di un ragazzo con la cinepresa, che non crede allo "spettacolo" televisivo, ma crede molto allo spettacolo della città silenziosa coperta di neve in cui si accendono a brevi intervalli successivi le file dei lampioni che sembrano il vero addobbo natalizio in questo mondo che non sa dove andare.


Nevica sui "Cuori" Grande regista ovviamente (si parla di Resnais), grandi attori (salvo la Morante, che ha paura della cinepresa) e una splendida piattezza scenografica, ma il tutto e` bloccato, come incantato, nei Cuori. L’elemento semiotico dominante: la neve. Non c’e` quasi scena in cui da una qualsiasi trasparenza – una finestra, una vetrina, una porta di cristallo- non appaia la neve, come una nota di fondo, una musica per gli occhi. Nella neve c’e` tutto il senso del film, c’e` la fiaba crudele, c’e` l’incertezza amorosa, c’e` la fatica della ricerca (il povero Dussollier cerca casa sotto la neve e non la trova mai), c’e` il trascorrere dei minuti, dei secondi come granelli di sabbia di una enorme clessidra, il pulviscolo di neve che cade, cade, talvolta svolazza, volteggia, ma infine cade, inesorabilmente. Questa neve e` fuori della scena, e` sullo sfondo oppure cade come una cortina fra lo spettatore e la vicenda, ma ad un certo punto avviene il miracolo… Siamo nella casa desolata del personaggio (Arditi) che ha perso tutti gli affetti - anche il padre sta morendo in ospedale – e lui, seduto al tavolo, guarda nel vuoto, con la ragazza accanto (Azéma) che gli osserva la mano. Fuori nevica, e si vede dalla finestra, ma ad un tratto quella mano adagiata sul tavolo, che sembra di un soldato morto dentro un cappotto militare, si copre di neve. E’ illogico, la neve e` fuori, ma semioticamente e` logicissimo: la neve "cade" sui protagonisti, sulle loro mani che indicano la possibilità di un contatto, simboli di due "cuori" che si avvicinano, ma non possono incontrarsi, gelati, come sono, sotto la neve.


Le vite degli altri La traduzione italiana è più bella e più pregnante dell’originale titolo tedesco (Das Leben der anderen, La vita degli altri) in quanto, mentre la parola Leben (vita) in Tedesco non ha plurale (secondo una tradizione romantica, per cui il concetto di vita è singolare e generico) in italiano le vite indicano i singoli percorsi vitali che una spia, per esempio, dovrebbe saper percorrere e controllare in casa altrui. Siccome però nel caso della Stasi si tratta di spionaggio repressivo, questo percorso manca, c’e` solo il tentativo di scoprire la devianza della singola esistenza privata dall’ideologia dominante pubblica per poter poi inchiodare il sospettato e condannarlo, secondo l’assunto kafkiano per cui il sospettato è già condannato. Questa è la prassi: ti metto alle calcagna la Stasi e la Stasi, frugando nella tua esistenza privata, di certo troverà qualcosa che non collima con l’ideologia dominante. A quel punto la tua carriera politica, culturale, diplomatica o semplicemente professionale sarà finita. Questo e` il quadro generale entro cui si muovono pochi personaggi, ben definiti, a tutto tondo. In questo quadro ecco che però la spia (Ulrich Mühe) scopre effettivamente le vite degli altri e questa scoperta lo sconvolge, l’ossimoro per cui la pluralità delle vite mette in risalto la singolarità della vita costituisce il grimaldello che riesce ad aprire la coscienza a lui, maestro di grimaldelli e bravissimo nell’aprire le porte degli appartamenti altrui. Il senso del film sta tutto qui. A questo punto si apre l’interpretazione vulgata o ricezione che dir si voglia che in Germania annega nel mediocetismo: si critica la Stasi come intrusione nella privacy del cittadino. Questa che, a ben vedere, è la cosa meno importante rispetto al dato politico dello Stato normalizzatore di coscienze e repressore della devianza politica, diventa nella coscienza a-politica del tedesco di oggi la cosa essenziale, come se lo scandalo in fondo consistesse nel fatto che la Stasi ti piazza una cimice sotto il letto…Il film rientra nel nuovo-nuovo cinema tedesco che ricostruisce percorsi interrotti, riscopre Fassbinder degli anni sessanta, riapre un occhio sulla Resistenza al Nazismo, confeziona, com’era nella sua tradizione, prodotti artigianalmente ben strutturati con attori d’impianto teatrale che reggono allo scavo interiore (Alexander Held ne La rosa bianca), con illuminazione radente e il buon vecchio primo piano espressionista. Se c’è qualcosa di inequivocabilmente tedesco in questo nuovo-nuovo cinema è la pesantezza delle figure. Una pesantezza che avevamo dimenticato: corpi femminili carnosi, non belli, sensuali. Grande maestra di questa fisicità è Martina Gedeck che dalla pudicizia di Bella Martha (la cuoca-suora) passata attraverso alla trasognata trasgressività delle Particelle elementari, offre qui ne Le vite degli altri un abbandono femminile che riassume la prostrazione di un popolo di fronte ad un potere poliziesco: cede il proprio corpo al burocrate di partito per poter continuare a lavorare in teatro. Pesantezza dimenticata in un panorama generale di cinema di evasione, pesantezza che ci riporta alle origini materiali della sottomissione sociale e ricorda il destino di eroine da romanzo del dopoguerra tedesco che si prostituivano per una pagnotta.


E se ci feriscono, non sanguiniamo come gli altri? Si potrebbe cominciare a parlare de Il pianista di Polanski partendo da questa citazione. Ma non considerandola una citazione da Shakespeare, come invece appare evidente nella scena del film in cui tutti gli ebrei sono ammassati in uno spiazzo quadrato in attesa della deportazione e il fratello "attivo" del protagonista gliela legge e gli tende il libro con l’immagine del grande drammaturgo inglese. Polanski in quell’attimo sta facendo invece un’altra citazione. Egli pensa al To be or not to be di Lubitsch, dove un mediocre attore, costretto a fare l’attrezzista della compagnia di teatro, recita a più riprese ad un collega ammirato quella stessa battuta: "E se ci solleticano, non ridiamo come gli altri? E se ci fanno del male, non soffriamo come gli altri? E se ci feriscono, non sanguiniamo forse come gli altri? … vedi che attore sarei?…e intanto devo spalare la neve." Polanski aveva in mente Lubitsch, la sua Varsavia occupata dai tedeschi, quella Varsavia che verso la fine del suo lento peregrinare nei meandri della fame e della solitudine il protagonista, sbucando dal muro di cinta di una casa-topaia-nascondiglio, riesce finalmente a vedere in tutta la sua silente desolazione, un fondale di rovine. E su questo fondale lui, zoppicando, come un topo uscito alla luce, traballa minuscolo e nero in mezzo ad una voragine di macerie, come si era vista forse solo in Germania anno zero, ma meno "trapunta", più romanticamente insanguinata, incenerita, ingoiata dalla Storia, che non è mai giusta ed è sempre senza riscatto. E allora, l’uomo che non aveva mai rifiutato di agire, ma che era sempre stato fermato sulla soglia dell’azione dalla mano di un destino che lo sottrae al massacro e lo preserva forse a futura memoria, quest’uomo non è Polanski –com’è stato detto con troppa precipitazione dai critici- bensì l’Artista contro la Storia. Ma è proprio questo anche il messaggio di Lubitsch: una mediocre compagnia di teatro coi suoi trucchi e travestimenti può fermare per un attimo il corso della Storia. L’Artista trionfa per un attimo sul criminale politico. Questa stessa tesi era stata, forse troppo platealmente e illustrativamente, sostenuta anche nel lontano Bolero di Lelouche, ma qui riprende con una nuova virulenza pessimista ed un’ intensa sospensione scettica – contrariamente al sostanziale ottimismo di Lelouche – ed anche con una scrittura filmica incomparabilmente superiore. Questa scrittura filmica ci appare ad un tratto come una sorta di testamento in vita del regista, di un regista che forse aveva legato la sua fama a filmfeticcio che oscuravano piuttosto che mettere in luce la sua capacità narrativa e descrittiva, e che ora ci si rivela in tutta la sua dimensione di grande scettico della camera da presa. Non pensate di trovare nel film momenti di suspence, né momenti di tenerezza o di retorica. C’è invece molto Kafka. Tutto degrada inesorabilmente verso il peggio: non si può star seduti al bar, né alle panchine, né passeggiare nel parco pubblico, né camminare sul marciapiede, non si può abitare fra gli umani, bisogna abitare nel ghetto e poi non si può abitare più nel ghetto e bisogna abitare nel campo di sterminio, a Treblinca, dove i treni fanno capolinea senza ritorno. Non cercate momenti di speranza: il tipografo socialista che parla con ottimismo di possibilità di riscossa, assieme al suo uomo di fiducia esperto in propaganda capillare, finirà ingoiato come gli altri nell’olocausto, l’uomo che parla di rivolta finirà per primo col cranio fracassato dal calcio del moschetto. Non c’è una sola concessione all’evasione, alla bellezza di un bacio, allo sbocciare di una storia d’amore, non c’è praticamente musica in tutto il film: il piano resta una nostalgia sospesa. Ad ogni scena è come se il regista ci dicesse: "Quello che speri non verrà mai".

Hero L’eroe deve morire?


Nella saga sponsorizzata da Tarantino, restata sepolta per quasi due anni sotto i pesanti dubbi commerciali della Miramax, si parla della fondazione di un regno. Si parla di quell’imperatore "crudele" che tanto "bene" fece alla Cina, dilaniata da lotte feudali, riunificando territori e linguaggi in un unico Stato "protetto" -e insieme isolato dal mondo- grazie alla possente muraglia cinese. Leggetela come volete, questa saga è politicamente regressiva. La spada è il protagonista assoluto della saga. Simbolo di verticalità -tutte le spade lanciate si conficcano verticalmente per terra, qualcuna, poi, si accascia e significa che l’eroe è morto, simbolo di virilità - le donne la impugnano, ma sognano la sua fine, come la protagonista "neve che vola" sogna di un regno-rifugio per lei e il suo amante "spada spezzata", un regno, come lei dice, dove non ci siano più spade. Ma quale contraddizione si nasconde nelle sue parole? Quella stessa che si nasconde nel sogno americano della privacy, della casetta-rifugio con famiglia e giardino. Perché la vendetta, che per gran parte del film anima le azioni dei protagonisti, congiurati contro un re crudele e tirannico, non si placa nel privato, ma nella bulè di Eschilo, nella politica: "sotto un unico cielo". E’ questo l’approdo teorico di "spada spezzata" (nomen est omen!). Lui scrive e scrive, scoprendo che l’arte della scrittura è identica a quella della spada e alla fine opta per la scrittura. La sua è però una scrittura arcaica che l’Imperatore non sa leggere, è il messaggio di una minoranza etnica che non riesce ad arrivare all’orecchio del potere (come in una Cina kafkiana). - Che cosa sono tutti questi linguaggi e territori diversi- esclama il re- io farò di tutto questo un unico linguaggio e un unico regno! E se questo deve passare dal sacrificio della diversità? verrebbe da obiettare. La diversità è solo litigiosa! sembra risponderci il re. E’ il sogno del superamento delle scritture arcaiche (dove la Donna è sovrana) per giungere ad una scrittura unica in uno Stato virile e autoritario. L’approdo alla politica, alla fondazione di uno Stato, sì, ma a che prezzo? La morte degli eroi. Gli eroi devono morire quali residuo di feudalità, e facciamoli allora morire eroicamente, con funerali di Stato, di uno Stato appena fondato che sotterra subito i propri eroi (pensate del resto al destino politico di Garibaldi nello Stato unitario o dei partigiani nella "Repubblica fondata sulla Resistenza"...). Ma io non sono sicuro che sotto quella coperta rossa che ondeggia sulle spalle grigie di un esercitomacchina ci sia veramente il corpo trafitto dell’eroe "senza nome", io non l’ho visto morto, non l’ho visto morire: la selva di frecce piantata sulla porta del Palazzo ha disegnato una nube nera intorno ad un’impronta di uomo. Forse l’eroe si è trasformato in un’ombra vagante. Siatene certi, presto ricomparirà.

Il divo e la sua icona A che serve un film politico? A che serve un film a sfondo sociale? A che serve l’arte civile? La risposta è semplice: a smascherare un mito.Anche il capostipite di questo tipo di film, Quarto potere, in fondo non è altro che il tentativo di sdipanare il mito per ridurlo a semplice ...nulla. Invece, ahimè, Sorrentino (da me tanto stimato) questa volta non ha capito il suo film –succede- e ha fatto paradossalmente un’operazione inversa, si è addipanato non sull’uomo, Giulio Andreotti, ma sulla sua icona: la silouette del diavolo (mille volte ripetuta nelle riprese di spalle). Mai film è stato così


esplicito: nomi, cognomi e indirizzi fioccano ad ogni istante e appaiono addirittura scritti in rosso sullo schermo, come per dire: -Attento, non ti sbagliare, questo è Cirino Pomicino, questo è Sbardella ...- e via dicendo, eppure questa esplicitezza (se così si può dire) non colpisce nessuno. Quelle cronache turbolente che si agitano intorno al protagonista non servono ad altro se non a distaccarlo nettamente dalla turba dei faccendieri che lo circonda e a riconfermarlo intoccabile, immortale, inafferrabile. C’è solo un timido giudizio della moglie, per altro non sviluppato a dovere, che tenta con le armi femminili del: "Ti conosco bene io..." d’invertire una vulgata che vuole Andreotti colto e geniale, piuttosto che informato e accorto. Ma questa battuta della moglie non riesce a smascherare il mito del marito e muore fra le quattro mura domestiche. Le accuse di Scalfari, poi, snocciolate secondo uno stile denunciatorio da anni settanta, sul tema del "caso" non approfondiscono niente e non scalfiscono l’icona, anche perchè, a ben vedere, poggiano su una base euristica linguisticamente ambigua: "E’ un caso che...?" per arrivare ad una risposta unica per tutti gli esempi:’No, non è un caso!". Allora, si dice lo spettatore, ha ragione il divo Giulio quando dice: "Io non credo al caso, ma alla volontà di Dio" ed ha ragione fino in fondo quando la sua intera vicenda politica si legge come volontà divina e si spiega come volontà divina: un male che deve perpetuarsi ad evitare un male peggiore, quindi un male benefico. Un libro, per esempio, che riveli per quale ragione i generali muoiano tutti nel loro letto e non sul campo di battaglia deve approfondire i motivi "laici", se non scientifici, di questo fenomeno. Il film parla dall’inizio alla fine di un Andreotti che passa illeso attraverso mucchi di cadaveri, come la mitica salamandra attraverso le fiamme, ma non ne spiega i motivi "laicamente" condivisibili. La Mafia? Il Vaticano? La CIA? Ma allora si approfondisca il suo rapporto con questi superpoteri oppure si approfondisca quel meccanismo di autodifesa di cui nel film c’è appena un accenno: l’archivio. L’archivio tenuto da Andreotti fa tremare tutti, come dice lui stesso, ma in realtà Andreotti tiene un diario in cui oggettiva, giorno dopo giorno, le sue malefatte, ed è il diario il suo vero confessore, non quello sparuto pretonzolo che appare un paio di volte nel confessionale. L’archivio semmai spiega l’ascesa di un personaggio come Putin, che proviene dalla polizia segreta e sa vita morte e miracoli di tutti i politici della vecchia Unione Sovietica e li tiene in scacco. Il Divo tenta di riagganciarsi al filone del film politico italiano, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Todo modo, Cadaveri eccellenti, L’affare Mattei, Le mani sulla città, Salvatore Giuliano, e via dicendo, ma proprio quel filone tradisce platealmente, in quanto l’uomo di potere non viene tradotto in altri termini, ma resta uomo di potere, cento volte ripetuto e cento volte scritto con la lettera maiuscola. E’ vero che alla fine del film l’icona parlante di Andreotti pronuncia la parola "niente", ma questa soluzione filmica appare quanto mai incollata come un’etichetta. L’Ivan il Terribile di Eisenstein si dibatte fra l’uomo e la sua icona; le incertezze della coscienza individuale che fanno abbassare la testa dello zar fino a terra sui cadaveri dei boiari giustiziati e la consapevolezza del suo ruolo storico che, d’un tratto, gliela fa risollevare risolutamente per pronunciare le fatidiche parole: Non basta! Il divo di Sorrentino invece resta icona anche quando mangia con la moglie gli spaghetti all’amatriciana.

Scacco pazzo, transfer di pazzia Scacco pazzo è il primo film di Haber, con Haber e due ottimi comprimari, Monica Scattini e Vittorio Franceschi. E’ uno spettacolo teatrale portato in giro per due anni e poi filmato. Non sopporta gli esterni. L’estremo varco verso la luce è rappresentato da un terrazzino affacciato sul mondo, e il mondo non è altro che un cortile disadorno e semideserto. Non si esce in ampiezza, si può solo scavare in profondità. E questo fa il film, inesorabilmente. Esso non è altro che l’elaborazione di un lutto. Un incidente stradale ha praticamente decimato una famiglia nell’atto più alto e più solenne di una celebrata felicità, le nozze. Il caso però ha fatto sopravvivere i due fratelli, lasciando ad uno la colpa dei sopravvissuti e facendo regredire l’altro al livello di un’infanzia,


torbida, fra bagliori di pazzia e feticci di memoria, ma con straordinari recuperi linguistici. Se il fratello sano continua a vivere e con solerte pazienza tiene in vita, feticisticamente, tutto il passato sepolto in quella casa, e si affanna ad arginare la pazzia del fratello regredito e renderla “compatibile” col resto del mondo, il fratello regredito invece diventa per lo spettatore la chiave di lettura del lutto stesso, il corrosivo di quella finta normalità. E qui si apre la parte più problematica del film, la sua filosofia se vogliamo. La pazzia è dai primordi un rivelatore sociale. Il fratello sano è un mascheratore sociale: dice ai vicini che tutto è sotto controllo, che non devono temere il fratello pazzo, ma innocuo, dice alla fidanzata che il fratello non è una presenza inquietante, che non inquinerà la loro convivenza: tutto falso. E infine pone a sé stesso il falso dilemma: “Che devo fare di mio fratello? Lo metto in manicomio, lo ammazzo?” Falso dilemma, perché? Ce lo rivela la presenza della fidanzata che è una donna sincera, innanzitutto con se stessa, e invece di chiudersi nello squallore di una vita mediocre e piena di mascherature, dialoga col fratello pazzo per imparare dal suo linguaggio a rivisitare se stessa e la sua presenza negli altri, anche nella mente del fratello sano. Alla fine di questa antiterapia la donna si salva, non perché si defila, ma perché è guarita del suo passato, è rinata. Mentre i due fratelli restano di nuovo soli in casa a trasmettersi la pazzia e l’angoscia e si scambiano i ruoli: il pazzo indossa il feticcio per acquietare il sano, che continua a rimanere un “sepolto vivo”. La filosofia dell’opera è molto amara, perché alla domanda che il fratello sano si rivolge all’inizio del film:“E’ colpa mia se io sono sopravvissuto?” viene data alla fine per bocca della fidanzata la tranquilla, ma perentoria risposta:“Sì, è colpa tua.” Non si può vivere nelle pieghe dell’eccezione, la vita non può essere data e tolta a caso, chi si salva da un terremoto, da un’epidemia, da un campo di concentramento, da una guerra, da un genocidio o semplicemente da un lutto familiare non può tornare a vivere nella normalità, deve scegliere la pazzia linguistica per ri-dire il mondo.

Was weisst denn du? Il cinema è un grande rivelatore dei problemi sociali a patto che non ne parli direttamente. E’ vero, esiste anche un cinema di denuncia che è stato grande, ma più spesso si è avvalso di uno sguardo indiretto, che risulta poi il più efficace…Così King Kong parla della crisi degli anni trenta facendo svenire la giovane protagonista di fronte ad un negozio di alimentari: è affamata. Non diversamente, ma con maggiore spessore narrativo, Fritz Lang apre con M lo scenario del crimine come scenario della crisi economica. E questa quinta resta sempre sospesa nel corso di tutto il film. Ci sono dappertutto accenni al malessere sociale, ma sempre indiretti. Ne parlano indirettamente i muri delle case, i vestiti dei passanti, la stanchezza dei lavoratori. Nella folla d’impiegati che esce dalla


fabbrica dove si è nascosto il Mostro, si sentono nel brusio confuso della massa in chiaro solo le parole di una donna: “Sono stanca morta”. Lo scassinatore che viene arrestato e si decide a confessare al commissario Lohmann il nascondiglio del mostro, comincia con la frase: “Conosce quella distilleria… che ha fatto fallimento?”. Ma la frase che maggiormente colpisce nel film, esce proprio dalla bocca dell’assassino di bambine. Purtroppo nella traduzione italiana il senso è andato completamente perduto. Cerchiamo di ricostituirlo con un’operazione filologica. Siamo alla fine del film e il mostro inizia la sua confessione di fronte al tribunale degli straccioni. Ecco il testo dell’edizione italiana: Ma chi sei tu? Ma cosa dici tu? Chi sei tu che vuoi giudicarmi? E chi siete voi? Un branco di assassini, di malviventi… Ma chi credete di essere solo perché sapete come si fa a scassinare una cassaforte o ad arrampicarsi sui muri e sui tetti. Sapete fare questo e nient’altro. Non avete mai lavorato in vita vostra. Non avete mai imparato un lavoro onesto. Siete un branco di maiali, nient’altro che un branco di maiali pigri… Ma io? Mentre il testo di partenza tedesco che riportiamo con traduzione interlineare suona come segue: Was weißt denn du ? Was redst denn du? Wer bist du denn überhaupt? Was seid ihr denn? Che ne sai tu? Che vai dicendo tu? Chi sei tu in fondo? Cosa siete voi, avanti! Alle miteinander, Verbrecher... Tutti d’accordo, delinquenti…. Bildet Euch von möglich noch was als Einkauf, wenn Ihr Geldschränke knacken könnt oder Pensate di trovare una sistemazione, perché sapete far saltare la serratura di una cassaforte o Fassaden klettern oder Karten zinken. arrampicarvi sulle facciate o segnare le carte. Alle Sachen, denke ich mir, die Ihr gerade so gut lassen könntet, Tutte cose, penso, di cui potreste tranquillamente fare a meno wenn Ihr was Authentisches gelernt hättet oder wenn Ihr Arbeit hättet oder se aveste imparato qualcosa di serio o se aveste trovato un lavoro o wenn Ihr nicht so faule Schweine1) wärt ... se non foste degli sporchi fannulloni... Aber ich? Ma io? Quindi uno spessore di dialogo nell’originale cento volte superiore rispetto alla traduzione, moralistica e semplificata, dell’edizione italiana, ma soprattutto la riconferma che nel film la sostanza si presenta sempre di schisi. Il grande paradosso di M sta proprio in quest’obliquità del messaggio. Il mostro giudica i suoi giudici straccioni, li assolve virtualmente dai loro delitti con una semplice frase ipotetica. Gli straccioni perseguono invece una logica parziale: finché il mostro è in giro, la polizia ci sta alle calcagna e gli affari vanno male. In fondo l’aspetto economico domina tutta la vicenda filmica e Lang rischiava nella sua esplicita esposizione delle diverse logiche, che in tempi di crisi economica non si possono conciliare, di aderire ad ambedue. Era in effetti così: quel mostro dopo la confessione diventa la più grande vittima del film. Così aggiunse in un’edizione compatibile con la censura, una scena in coda, dove giudici veri condannavano alla prigione (non al linciaggio) il mostro, ma sui seggi del tribunale le mamme vestite di nero si contorcevano in pianti silenziosi e appariva una scritta: “Chi ci ridarà le nostre bambine?”. E questa fu una pessima trovata, perché diceva le cose direttamente e finalmente fu tolta. 1) La parola “Schweine” qui ha poco a che vedere col maiale italiano. In questo caso vale tanto quanto poveri cani.



Agata e la tempesta Fu girando "Pane e tulipani" che Soldini s’innamorò di Licia Maglietta e questo non fu un bene per il cinema italiano, perché da quel preciso momento lui la vide con occhio innamorato. Raramente l’amore riesce a dotare chi ama di uno sguardo analitico indispensabile alla creazione artistica. Werther innamorato di Lotte non riusciva più a farne il ritratto, pur essendo lui un discreto disegnatore e lei un soggetto non difficile. Lui diceva di vedere come una nebbia davanti al volto di lei evocato dalla memoria e si rifugiava così nel suo feticcio. Gli oggetti che erano stati a contatto con lei lo attiravano come e più di lei stessa, una volta addirittura, non potendo vederla di persona, mandò il servo a farle visita e quando questo fece ritorno lui l’avrebbe abbracciato per il solo fatto che lo sguardo di lei si era posato su quel volto e su quella uniforme e addirittura sui bottoni lucenti dell’uniforme stessa. Così Soldini dopo Pane e tulipani ha cominciato a feticizzare la Maglietta. La vede come bellezza mediterranea in sottoveste mentre si aggira per le stanze di una casa grande, più ricordata che descritta, e lì resta, non la veste e non la spoglia oltre. Quest’icona della mediterraneità non sa cosa il regista voglia da lei. Sorride al pubblico, lancia sguardi astuti e birichini (molto empatici), sembra che capisca in anticipo tutto ciò che le accade intorno, è addirittura dotata di poteri speciali (fa fulminare le lampadine), ma non sa che cosa il regista voglia da lei. E non può saperlo perché in realtà lui non le affida un ruolo nella struttura narrativa, ma solo un ruolo nell’immaginario del pubblico: la iconizza e la feticizza. Il pubblico però è attratto solo a metà da quest’icona sensuale e casalinga, a causa della gelosia del regista che non la vuole esporre ai baci altrui e la preserva da ogni ruolo (è impressionante l’incongruenza del rapporto fra lei e il suo improbabile amante per tutta la durata del film). Così si uccide un’attrice per amore. Ma che dire di un film che dovrebbe ruotare proprio intorno a lei? Agata non c’è e la tempesta nemmeno. Ci sono tantissimi episodi da corto, montati in maniera ingenuamente smozzicata che non crea suspence, ma piuttosto fastidio. Lo stile delle riprese poi è noiosamente americano, post-pop. La campagna è country, emblema: il vecchio "padre ritrovato" col cappello a tese larghe, sulla sedia a dondolo, con la tuta di jeans e il fucile pronto a sparare contro ogni estraneo invadente (ma dove mai si vedono questi tipi nella bassa padana?). La città, che all’inizio prometteva incontri e situazioni, peripezie narrative e sorprese dietro l’angolo, ad un tratto sparisce di scena per sempre e lascia il campo a un’atmosfera da comune agricola anni ottanta, dove tutti i personaggi si appiattiscono, sfumano l’uno accanto all’altro in una quotidianità di gesti stanchi: nonno e nipotino a pesca, le sdraio allineate e tutti a prendere il sole con relativa crema protettiva. Anche chi muore schiantandosi contro un pioppo non riesce a sconvolgere questa diffusa bonaccia, che è, mi sembra, il contrario della tempesta.

Ma dov’è l’Amour? Che l’amore sia più forte della morte è un tema classico, anche se difficile da capire e da trattare. Tutte le volte che si presenta come tema di un film, vi si presta un’attenzione particolare. S’indagano i particolari, le immagine trattenute più a lungo, si cerca in certi dettagli un valore salvifico: si spera che ci salvino dalla morte, ne ritardino l’ineluttabilità.


Con questi sentimenti il pubblico entra in sala a vedere Amour di Haneke e lo guarda con grande attenzione, quasi con concentrazione (lo indaga col fiato sospeso) e alla fine si accorge, purtroppo, di essere caduto in una trappola voyeuristica e quasi necrofilica. Ne resta sconcertato, ma non osa parlarne male. Se ne torna a casa silenzioso, deluso dal mancato effetto catartico che si attende dall’opera d’arte. E ha ragione! In effetti questo film non c’entra quasi niente con l’amore. Sarebbe stato meglio se il regista avesse insistito sulla musica, come elemento che concede una forma d’immortalità a chi l’ascolta e se ne lascia compenetrare. Ma, contrariamente alle attese, quello Schubert tanto amato non interviene nel film che con pochissime note. E tutto poi viene interrotto bruscamente, riportato crudelmente alla realtà che non è quella dell’Amour, ma quella della Mort. Non è assente in questo un certo stile schnitzleriano, ma senza la poesia di Schnitzler, non è assente neppure la crudeltà di Polanski, ma senza lo sguardo politico, del geniale polacco. La Morte in effetti è la subdola protagonista che si avanza inesorabilmente, non parliamo di malattia, non parliamo di medicina (il ruolo laico di Isabelle Hupper che cerca vie d’uscita), non parliamo di cure (operazioni chirurgiche andate male e medicine inefficaci). Tutto questo vien trattato con distrazione e fastidio: il regista s’identifica col protagonista maschile (un bravo Trintignant, ma poco convinto del ruolo che interpreta) che non spera in nessuna tregua. La morte avanza inesorabile, sembra dire, e lasciateci morire in pace! Ma cosa avviene fra i due? A ben vedere viene negato (con l’ammutolimento della moglie) anche il minimo rapporto d’amore, che si riduce ad un amorevole rapporto di cura (che non c’entra niente con l’amore, semmai con l’affetto). Invece Haneke poteva, ricordando La pianista, sviluppare fra i due un amore autentico e rovente, attraverso la musica, magari solo la musica di Schubert. Sarebbero stati presenti tutti gli elementi, primo fra tutti la loro capacità di mettere al mondo musicisti (non solo la figlia, ma anche tutti gli allievi passati dalle loro mani). Sarebbe stata la musica ad aprire spazi di vita e di giovinezza, come dighe contro l’onda inesorabile della morte. E invece si è preferito questo crudele esercizio di voyeurismo che, rientra, ahimè, nel novero dei tanti manifesti (intesi in senso proprio e in senso metaforico) che fanno effetto sulla gente con le terribili immagini dell’anoressia e dell’AIDS o dei tanti film all’americana, con l’immancabile protagonista intubato in un letto di ospedale, ma che poi, in genere, si salva. In questa ricerca di spettacolarità vi si è aggiunto, qui, il disfacimento della vecchiaia, indagata ruga per ruga. Sostituiamo dunque la parola Amour con la parola Mort e tutto diverrà più comprensibile.

Guédiguian e Dardenne a specchio rovesciato E’ uscito Le nevi del Kilimangiaro e subito la mente corre a registi come Ken Loach o i fratelli Dardenne che trattano della condizione operaia dentro la fabbrica e nella società. In questo confronto ci colpisce specialmente la specularità rovesciata, diciamo chiasmatica, fra Guédiguian e Dardenne.


Bisogna riconoscere che ne Le nevi del Kilimangiaro è notevole la “presenza” del regista e di tutto il cast, presenza viva e talvolta vivace in ogni scena, in ogni situazione, che dimostra una freschezza di approccio e un impegno degno di altri tempi. Ma, ad un tratto, il quadro complessivo non tiene più e si sgretola in tante logiche parziali, in tanti soggettivismi irriducibili ad unità. Ogni personaggio ha ragione dal suo punto di vista: ha ragione il vecchio operaio con la sua tradizione di lotte e il suo rimpianto per il Programma comune del 1972, che vide uniti per una stagione i partiti comunista e socialista in Francia, ha ragione il giovane disoccupato con la sua rabbia impotente e vendicativa, solo vendicativa, ha ragione la generazione dei figli, eternamente precaria e immersa nelle difficoltà finanziarie, tipiche di chi mette in piedi oggi una famiglia. Tutti hanno ragione in una logica individuale e tutti sbagliano in una logica collettiva. Sembra quasi una dannazione, nessuno agisce con giustizia, nessuno sa come agire, tutti ripropongono scelte individuali: la madre con la figlia (tradita dal marito), la donna-amante che sopprime il lato materno per piacere agli uomini, il vecchio operaio che si auto licenzia per espiare una scelta sindacale che non ha condiviso fino in fondo. Sembra che non sia nato un nuovo linguaggio che aggreghi le diverse generazioni. Ognuno attinge ad una tradizione: il padre al Socialismo bon enfant, la madre ad un concetto di liberazione femminile molto soft e individuale, il figlio allo scetticismo post-moderno che nega efficacia ad ogni scelta politica in un mondo dominato da meccanismi ineluttabili, i meccanismi di una crisi economica che è diventata cronica crisi di civiltà. La rassegnazione generale domina tutti. Questa è forse la vera protagonista del film. E allora che fare? La deriva cristiana è sempre aperta: Rimbaud scrive “La charité est cette clé”, la carità è questa chiave. Opposto l’approccio dei Dardenne, dove ne Il figlio il dialogo possibile fra due generazioni, il dialogo fra l’operaio e l’apprendista, fra l’uomo e il piccolo deviato sociale che gli ha ucciso il figlio, si riallaccia sulla base del Lavoro. C’è come una nuova dimensione, laica ma anche mistica, che riesce a conciliare il padre di un figlio assassinato con il suo giovane assassino (anche se non intenzionale), ed è il Lavoro. Il mondo del lavoro in genere è fatto di persone che non provano affetti particolari nei confronti dei colleghi, intesi come individui psicologicamente definiti, ma tramite il Lavoro come intervento sulla Materia e quindi sulla Natura ritrovano lo spazio del dialogo fra uomini. Questo dato, osservato con grande scrupolo realistico dai Dardenne, viene compendiato magistralmente in una delle ultime scene de Il figlio, ambientata nel deposito di legname, il luogo progettato forse per una vendetta e che invece si rivela come il luogo della riconciliazione. Mentre Le nevi del Kilimangiaro attinge ampiamente alla tradizione ideale e ideologica del Socialismo francese (Jean Jaurès dà il nome al protagonista), Il figlio dei Dardenne si muove in un paesaggio deserto, privo di ogni riferimento retorico ad alti ideali umanitari. Nel primo caso è presente un’ideologia del lavoro che sostituisce il lavoro assente, nel secondo caso c’è il lavoro presente che sostituisce un’ideologia assente. Anche le figure dei protagonisti sono chiasmatiche: ne Il figlio la moglie critica ferocemente il marito perché non assume un atteggiamento vendicativo nei confronti del piccolo assassino; ne Le nevi del Kilimangiaro la moglie critica il marito proprio perché assume un atteggiamento vendicativo nei confronti del giovane delinquentello. Questo, in un incontro in parlatorio con il vecchio operaio, dirà: “Abbiamo lavorato sei mesi insieme e non mi hai mai visto”. Si tratta di una frase rivelatrice di un aspetto sociologico molto vero per la Francia, e cioè del fatto che il Lavoro costituisce la base per sviluppare rapporti sociali fuori della fabbrica: incontrarsi al bar, fare grigliate ed escursioni in campagna e via dicendo. In questo la Francia mostra ancora un cuore populista, da Front Populaire : dietro la maschera dei grattacieli ride ancora il volto di Renoir. Nei fratelli Dardenne invece l’uomo e il ragazzo dialogano senza dirsi una parola, dialogano lavorando, non s’incontrano nella società. Malgrado tutti i discorsi sul Sindacato e la fabbrica Le nevi del Kilimangiaro non ci fanno entrare nei meccanismi del lavoro, nella pratica della contrattazione e della solidarietà operaia. Le accuse fatte dal giovinastro al vecchio sindacalista per certi versi sono addirittura ridicole da quanto non corrispondono alla vera prassi seguita per la riduzione di personale. Infatti il giovane rimprovera il


vecchio di aver tirato a sorte il nome dei licenziabili senza considerare né l’età né il carico familiare, cosa invece che viene imposta addirittura dalla normativa sui licenziamenti collettivi in tutti i Paesi industrializzati. Lo stesso rimprovero di non averlo visto in sei mesi di lavoro nella stessa fabbrica è incredibile per ogni pratica sindacale corrente che consiste sempre nel prendersi cura dei nuovi assunti (non fosse altro che ai fini del tesseramento). Infine il rimprovero di mangiare grasse bistecche alla griglia, mentre lui si nutre di kornfleks con i due fratellini, si configura in tutto il suo moralismo come una ridicola guerra fra poveri dove il padrone resta sempre fuori dal gioco. Insomma dietro tutto il dramma occhieggia il buon vecchio Victor Hugo.

Il n’y a pas d’amour… Fino all’ultimo respiro di Godard si chiude con una lunghissima strada dritta fra due file di auto parcheggiate e, altrimenti, percorsa da passanti indifferenti. Belmondo, in camicia bianca e pantaloni scuri, vi corre leggero, fuggendo verso l’orizzonte, e ogni tanto volge lo sguardo indietro alla fidanzata che osserva la sua fuga. E’ stata lei a denunciarlo alla polizia e la polizia gli ha sparato


alle spalle. Belmondo si tocca la schiena all’altezza della cintura e la sua corsa rallenta, ma continua ancora a volteggiare la sua camicia bianca, come una farfalla ferita…mentre una chiazza di sangue si allarga su di essa. Il film era cominciato con il nostro protagonista in auto. Dai finestrini aperti entrava la campagna francese e lui canticchiava: “Patriciaa…” poi rivolto al pubblico diceva: “Se non vi piace la campagna, se non vi piace il mare, se non vi piace la città, andate a quel paese” Ma ecco ad un tratto uscire dalla radio accesa una voce umida che dice cantando: Il n’y a pas d’amour… e il protagonista la spenge con un gesto automatico. La mia lettura del film passa tutta da quella frase e da quel gesto. Si tratta del ritornello di una canzone di Brassens su testo di Aragon. La frase completa suona come segue: Il n’y a pas d’amour heureux (non c’è amore felice) Tutto il film si svolge come in un laboratorio di smorfie, smorfie d’indifferenza. Belmondo assiste ad un incidente stradale mortale e passa oltre facendosi il segno della croce; compra il giornale e poi ci si pulisce le scarpe e lo scaraventa nel cestino dei rifiuti prima d’imbucarsi nella Metropolitana; entra in un bagno per derubare un uomo e lo lascia a terra tramortito: si passa sempre il pollice sulle labbra semiaperte come per dire: “Voltiamo pagina, parliamo d’altro”. Il film è stato interpretato da alcuni critici come il deserto politico della Francia al tempo della guerra d’Algeria, riassunto nel volto arido e indifferente di Belmondo. E’ stato interpretato come un film semipoliziesco a finale classico (alla francese) con l’amore, il delitto e il flic alle calcagna. Io lo interpreto come film d’amore. Io amo una ragazza che ha una nuca deliziosa, una magnifica fronte, delle magnifiche ginocchia, ma che però è una vigliacca. Lei, androgina e infantile, attrae lui, abulico e macho, perché racchiude in sé l’icona di Giovanna d’Arco, la donna rapata a zero. E lui dietro a quest’icona sogna di andare alla conquista di Roma. E’ Cinecittà la sua Mecca. Io amo lei, ma lei è troppo vile per voler fuggire con me. Questo è l’amore in Godard: una cifra eroica, una fuga verso, non da. Restano famose le scene a letto, rigorosamente datate, coi torsi avvolti nelle ghirlande delle lenzuola, ma anche nuove nei loro messaggi segnici. Il quadro di Picasso veglia su di loro con il giovinetto che si toglie la maschera del vecchio e lei che mostra a lui la copertina del Ritratto di giovane artista da cucciolo di Dylan Thomas. Io lo interpreto come film d’amore perché alla fine, quando lui va a trovare lei nel suo appartamento e le chiede ancora una volta di partire con lui, di fuggire a Cinecittà, di non essere vile, aggiunge anche una frase rivelatrice: “Dicono che non esiste un amore felice … tutti gli amori sono felici”. Questa era la risposta che cercavo, rimasta sospesa per tutto il film, è la risposta a Brassens, a quella frase appena sorta e subito spenta:“Il n’y a pas d’amour heureux”. La fiamma sull’acqua Io sono Li di Andrea Segre c’immerge in un mondo di fantasmi che galleggiano, si muovono in un universo acquatico, leggeri eppure grevi, fatti di una fisicità trascorsa, di un linguaggio remoto che abbisogna di didascalie per essere compreso, dove il cinese e il dialetto chiozzotto suonano come due lingue egualmente straniere, incomprensibili allo spettatore. E lei è Li, la protagonista cinese, operaia tessile che aspetta l’arrivo del figlio dalla Cina, spostandosi su e giù per l’Italia dietro comando dei padroni e disposta a fare un po’ tutti i lavori che


le vengono imposti, ieri a Roma davanti ad una macchina da cucire, oggi a Chioggia dietro il bancone di un caffè anni sessanta, con tavolini quadrati e biliardo. Chioggia, bellissima e trasparente, sempre lontana, con una laguna diafana che prelude al mare aperto eppure lo nega nella sua terribilità, lo rende familiare, lo rende praticabile come una pozza d’acqua dove si va a mezza gamba. Il mare è una laguna sotto casa e le persone che si muovono per le strade o nel bar sono figurine leggere come l’aria, capaci di camminare sul pelo dell’acqua. Si tratta di un evidente scenario di morte, sempre adombrata dalla presenza e dal protagonismo assoluto dei vecchi. I vecchi parlano, i bambini tacciono. Le tematiche dei loro discorsi sono attualissime, si discute di cinesi e di Obama, ma la loro ideologia è decrepita, impedisce loro di capire i fenomeni contemporanei, l’economia dei soldi che producono soldi senza lavorare. Il più acculturato del gruppo si avventura in asserzioni astruse, al limite della stupidità. Siamo immersi nel leghismo diffuso, minuto e imbelle, ma anche prepotente e violento nelle figure più giovani. E’ il leghismo degli sconfitti, degli indebitati, di chi dopo una vita di lavoro non possiede che una barca rattoppata. E’ il leghismo della nostalgia: mio padre era pescatore e anche mio nonno e il nonno di mio nonno. Su quest’acqua tremolano fiammelle racchiuse in fiori di carta, rossi e gialli, che scivolano in superficie, palpitando di chiarore come lucciole nella notte. Sono i lumini della festa del Poeta. Il poeta per eccellenza, Qu Yuan, il primo poeta riconosciuto dai cinesi, morto suicida nelle acque del fiume Miluo. E la protagonista lo festeggia come può, anche accendendo fiori di carta, galleggianti sull’acqua di una vasca da bagno. Fuoco su acqua, fuoco fatuo della Poesia che fa avvicinare la ragazza e il vecchio Bepi, pescatore di Pola, famoso per le sue rime estemporanee: E’ venuta dall’Oriente Per servire la mia gente. La parla poco italiano Ma i skei ell li ha bell in mano! Nasce un amore ingenuo fra il vecchio e la ragazza, un amore fatto di reminiscenze, di presenze lontane, di attese incerte, un amore contrastato dai pregiudizi cinesi e chiozzotti. E quando Bepi muore, scrive una lettera-testamento per Li, nella quale le lascia in eredità il “casone” cioè la baracca di legno galleggiante sulla laguna, il suo casotto del pescatore. Li vi si avvicina in barca con una tanica di kerosene a bordo, cosparge il casone del liquido infiammabile e vi lancia una torcia da lontano. Si sente lo scoppio dell’incendio e si vede il volto di Li illuminato dai bagliori, poi la camera gira lentamente e riprende in campo lungo la baracca avvolta nelle fiamme, e ti sembra di vedere quel fiore di carta rosso e giallo che palpita di bagliori incerti, come i versi del Poeta che sopravvivono sul mare della morte.

Paul Newman, l’eros vergine Non era l’eroe del distacco, l’eroe dell’addio che travolge tanti cuori di ragazze e li lascia sul margine della carreggiata per proseguire oltre. Paul Newman era l’eroe della distanza. La sua comprensione passa dalla figura del felino che non si lascia avvicinare, e tanto più chiaro appare nel film La gatta sul tetto che scotta, dove Liz Taylor, invece, è la gatta delle carezze e degli strusciamenti. Lei si accosta quasi indifferente, in sottoveste, dicendogli che il vecchio suo padre prova una grande ammirazione per la bellezza della nuora, al che lui reagisce con schifo e lei, di


rimando:"Col tempo stai diventando sempre più bacchettone". Sembrava un profezia: col tempo si allungò sul personaggio di Paul Newman un’ombra di moralismo, un’ombra fredda che ce lo rende ancora più prezioso nella sua icona erotica, inaccostabile. Il volto di Paul Newman si modella sul calco della statua greca che nessuna ferita riesce a deturpare, e anche quando appare scalfito, la bellezza vi resta, forse ancora più accentuata. Nick mano fredda contuso dai pugni nel penitenziario e Rocky Graziano di Lassù qualcuno mi ama, che torna a casa sempre con un occhio nero e fa spaventare la moglie, sono personaggi che lo esaltarono nella bellezza forse più di quanto lui stesso avrebbe desiderato. Perché anche nella vita era schivo e fece di tutto per restarlo. Per questo si accampa sul suo volto l’eros vergine, la proibizione del contatto, l’aria di chi guarda sempre al di là, che non si piega a bere da nessun calice, che ti ricorda sempre un altro dovere, un’altra urgenza. Essex, il cacciatore di foche in Quintet di Altman, porta in braccio il cadavere della moglie incinta, uccisa da un ordigno primitivo, e lo adagia sull’acqua, affidandolo alla corrente che lo porterà via, in salvo dal morso dei cani neri che si nutrono di cadaveri. Questo è stato il suo più bel ruolo di amante casto, perché riassumeva in sé un’arcaicità che gli si addiceva: una mitologia del gesto sacrale e circospetto.


I ragazzi stanno bene, un po’ meno i genitori Un tempo si diceva che essere omosessuale significa avere il coraggio d’infrangere dei pregiudizi, primo fra tutti quello della eterosessualità necessaria alla procreazione. Lo stesso Thomas Mann, omosessuale nascosto nelle pieghe del perbenismo alto-borghese, ebbe a dire nella sua Lettera sul Matrimonio che l’amore di Gustav von Aschenbach per il giovane Tazio nella Morte a Venezia doveva essere condannato in quanto sterile, incapace di fondare una famiglia. Non è proprio il caso del film I ragazzi stanno bene percorso da cima a fondo dalla presenza del volto trasparente di Julianne Moore, più smorfiosa che brava, direi, questa volta, ma bella e inaccostabile come sempre. Un film non creduto fino in fondo e fino in fondo sorretto da alcune bugie buoniste, del tipo: tenero barbudo, il maschio, crudeli comanderine o sottomesse frustrate, le femmine, ma soprattutto: salviamo il meccanismo familiare in nome dei figli, più saggi e più maturi delle loro madri. E’ assente ogni erotismo, e qui casca l’asino. Infatti se un rimprovero storico muove dalla sponda dell’omosessualità verso la sponda del matrimonio etero-borghese è proprio quello per cui nel matrimonio etero-borghese l’amore si trasforma in amicizia e l’eros svanisce dopo la prima notte di nozze, mentre sulla sponda omosessuale l’eros e l’innamoramento continuo (con relativi intrecci e tradimenti) sono elementi centrali e permanenti del rapporto. L’omosessuale, infatti, al di là delle definizioni tautologiche, si configura(va) come qualcuno che pone(va) l’amore al centro della propria vita in una società a forte repressione sessuale come la nostra. In questo film non si direbbe… In effetti tutto l’eros lesbico viene banalizzato il pratiche e video porno. Una sola occasione viene offerta al pubblico d’indagare un momento di “costruzione di un dialogo saffico”, quando Julianne Moore aspetta, invano, l’arrivo dell’amica nella vasca da bagno. Invano, ahimè, perché l’impegno professionale dell’amica (medico) prevale sul desiderio d’amore, esattamente come in una coppia etero, dove il partner maschile fa prevalere sull’eros gl’impegni di lavoro. Questo film ci appare come una codifica molto ideologica di quella tendenza a normalizzare, normalizzare, normalizzare i rapporti omosessuali, spuntandone ogni aspetto critico verso la società etero-maschilista. Sono lontane ormai, come quadri di Géricault, quelle immagini degli anni ottanta di omosessuali abbracciati ai letti d’ospedale, malati terminali di AIDS con l’amato vicino, disperato, in attesa della morte. Oggi c’è la coppietta gay, amatissima da parte di tutto il vicinato, immersa nel buonismo del giardinaggio quotidiano, adottiva di figli della banca del seme, normativa quanto e più della famiglia etero e proiettata verso un riconoscimento sociale assoluto. Le sacrosante battaglie per i DICO hanno appannato l’iniziale trasgressione omosessuale e ora il gay non è più capace di produrre arte.


Il caimano non è liberatore Chi s’infilasse in un cinema convinto che Il caimano di Moretti lo sollevi, lo liberi, lo guarisca in qualche modo dal morbo berluscoide da cui tutti gl’italiani più o meno sono afflitti, chi si aspettasse da questa pellicola una sorta di viatico preelettorale, un conforto, uno stimolo, una speranza, si sbaglierebbe di grosso. Il caimano non ha virtù terapeutiche, semmai ti divora l’anima. Quattro sono i piani di lettura di questo film, la cui indiscutibile bellezza sta tutta racchiusa nella sua architettura, intelligente e ariosa come la dilatazione dell’anima nei momenti di grazia. Non sembri strana questa scelta lessicale, in quanto per certi versi questo è un film che attinge anche ad una dimensione religiosa, perché nel finale la testa scura del protagonista evoca una presenza demoniaca sullo sfondo di un incendio notturno, quasi fosse l’inizio di un’apocalisse. I quattro piani di lettura sono legati a quattro protagonisti uno dei quali è Berlusconi stesso, ripreso al Parlamento europeo mentre insulta Schulz. Gli altri sono volti tentati: uno assomigliante, uno attorialmente manipolato sulla scia di Volonté quando interpretava Moro o Mattei e uno, assunto da Moretti stesso, volutamente discosto da ogni assomiglianza fisica, ma fortemente apocalittico nel senso originario del termine -che appunto significa "rivelazione". Il tema viene affrontato di schisi, come si deve, in un cinema che non vuole essere banalmente denunciatore o propagandistico. La sorte dell’uomo più ricco d’Italia passa dalle mani di un poveraccio sull’orlo del fallimento economico e sentimentale. Trovata geniale. Quest’uomo -un ottimo Silvio Orlando- è affascinato dalla possibilità di manipolare proprio il personaggio che manipola tutti. Ma è troppo debole ideologicamente e socialmente, troppo ricattabile, troppo fragile per non soccombere via via alle varie difficoltà che incontra nella realizzazione, tanto è vero che il film non si fa. Ma come in Fellini 8 e mezzo il film viene negato fin da ultimo, eppure alla fine rampolla di nuovo quasi per forza propria e si chiude con un "ciak, si gira", così alla fine nel film di Moretti la giovane regista con un fil di voce grida: "Azione!" La tesi la conosciamo: Berlusconi ha vinto ormai da venti, da trent’anni. Ha vinto imponendo uno stile ormai fatto proprio da tutti. Questa tesi della malattia dell’Italia acquista nel corso del film una valenza dinamica, si avvolge su se stessa: chi tentasse di fermarne il decorso ne verrebbe travolto. Tanto è vero che l’unica scena che il produttore è in grado di girare con i pochi fondi a disposizione rappresenta la condanna di Berlusconi a sette anni di prigione, ma proprio questa condanna scatena l’inferno della folla sulla testa dei giudici e la macchina del Cavaliere che se ne va come un Belzebù in carrozza si lascia alle spalle un incendio sempre più dilagante. Il film, chiudendosi su questo finale, sembra che dica: "Da questa febbre io non ti guarisco".

Wildwechsel\Selvaggina di passo


di Fassbinder Sdraiata nuda sul lettino del ginecologo con il pancione, incinta minorenne, Eva Mattes, si protende per l'ultima volta contro la Società e poi soccombe. La incontriamo qualche giorno dopo coperta di tela grigia e con la mente dilavata dalle suore, che dice al suo ragazzo:- Mi hanno fatto abortire. Il bambino non poteva essere buono, era figlio del peccato- Lei era la selvaggina di passo, la ragazza minorenne che non recede di fronte al piacere carnale, una volta degustato. Lui era un piccolo, piccolo ragazzo di provincia impaurito di fronte alla dirompenza di lei, alla prepotente voglia di accoppiarsi della ragazza, priva di scrupoli. E poi, intorno, una società repressiva con la nostalgia dell'uomo forte, una società che non sa più governare i propri giovani. Tutto volge in tragedia: la ragazza spinge il ragazzo verso il delitto. L'uccisione del padre di lei, lungamente rinviata da parte del ragazzo, viene sollecitata invece senza pentimenti dalla figlia stessa. Un rovesciamento di ruoli: lui passivo e pusillanime, lei attiva e decisa gli procurerà anche la pistola. Il film si fa apprezzare per la freschezza del racconto e dei personaggi, per la semplicità dei dialoghi, ma soprattutto e` rimarchevole l’identificazione ribellione-delitto che viene accettata come inevitabile in quella società bloccata. E lei, splendida minorenne, una sorta di Lolita tedesca senza vezzi, una nudità delle foreste, ma piuttosto una russalka che una valchiria, segue femminilmente la linea implosiva che riconduce sempre tutto alla carnalità. Un film splendido, anche se quasi amatoriale.

Lizzani fra classicità e accademia


La domanda si pone sempre quando scompare un artista. In questo caso si pone in modo speciale in quanto l’origine di Lizzani regista va ricercata nel Lizzani critico cinematografico, un caso identico a quello di Truffaut. Questa sua origine lo ha perseguitato per tutta la sua carriera. L’occhio critico della cinepresa che comunque resta in studio e non diventa un occhio documentaristico all’interno di una fiction, come avviene invece con Rossellini e in parte anche con De Sica. Regista di studio quindi con squarci di realtà che vi s’intromettono quasi per caso. La Firenze di Cronache di poveri amanti occhieggia qua e là, ma non viene indagata, sarebbe bastato poco all’epoca, ma Lizzani ricostruì in studio via del Corno e poi vagò con la cinepresa un po’ sui tetti della città, quindi affrontò (male, in termini cinematografici) l’inseguimento di Maciste da parte dei fascisti e condusse lo spettatore in parte per improbabili periferie industriali, in parte per il centro cittadino affollato di opere d’arte e sulle scale della chiesa di San Lorenzo fece cadere Maciste sotto il piombo fascista e mostrò il corpo riverso sulla scalinata attraverso le fiamme del sidecar incendiato, come se si trattasse del rogo di un Ettore del nostro tempo. Ecco, tutto questo è classico o accademico? Io, in questo caso, propendo per il classico, mentre la scena dell’arresto di Mario in Piazza Signoria, con il bacio d’addio a Milena prima di venir tradotto in carcere, è una patacca accademica, un cammeo d’immobilità espressiva, un cedimento al simbolico a poco prezzo. La telefonata di Edda Ciano con il padre (Mussolini) ne Il processo di Verona che termina con il lancio del telefono e il crollo di Edda sopra una rete di materasso a maglie larghe, seguita da un rapido e rocambolesco capovolgimento della cinepresa che inquadra dal basso la protagonista (Silvana Mangano) ingabbiata nella rete, con le dita contratte sulle maglie di ferro, fa parte anch’essa delle scene accademiche di Lizzani. Mentre ci sembra classico, di una classicità americana, l’inseguimento della polizia in Banditi a Milano dove il troppo lodato Gian Maria Volonté introduce invece elementi accademici, essendo lui stesso un accademico-trasformista in quasi tutte le sue prestazioni cinematografiche. Antiaccademico per eccellenza, invece, Ugo Tognazzi interpreta La vita agra con grande freschezza e introduce tutti quegli elementi individuali, tutte quelle scorie, che fanno dell’attore sempre un uomo riconoscibile dietro la maschera di scena. Anche dietro la maschera di scena del Mussolini, ultimo atto interpretato da Rod Steiger si nasconde una grande sensibilità di uomo-attore. E qui si può aprire una riflessione di carattere generale, e cioè se sia lecito far interpretare a grandi attori (Rod Steiger, Bruno Gans) il ruolo di mediocri personaggi storici come Mussolini o Hitler. Forse sarebbe stata una scelta meno accademica far interpretare a Rod Steiger la parte del capo partigiano e a un qualche mediocre comprimario la parte di Mussolini, ormai marionetta disarticolata assistita dalla isterica e visionaria Petacci. Lizzani ha oscillato continuamente fra classicità e accademia e quando la classicità nel Cinema è finita, lui non ha saputo virare come fece Buñuel in modernità e si è aggiornato scegliendo temi di attualità giornalistica, Lutring, Cavallero, mamma Ebe, credendo di afferrare così un lembo della società italiana che stava cambiando, che per la verità era cambiata da un pezzo rispetto ai suoi tempi migliori, quando nacque il migliore dei suoi film: Achtung banditi.


Western senza epopea Sono stati tirati fuori i grandi ascendenti, le fonti imprescindibili, i film di Leone, di Ford, di Hawks, i remake dei remake, ma tutto questo non serve per capire l’operazione filmica che sta dietro Appaloosa di Ed Harris. Anzi serve proprio al contrario: ad allontanarsi dall’obiettivo. In effetti ogni richiamo ai grandi del passato contribuisce in qualche modo all’ampliamento del mito. Qui, invece, siamo di fronte all’operazione inversa: al denudamento del mito o anche, se vogliamo, alla morte dell’epopea. Qui sta tutto il valore del film. La scelta di attori vecchiotti e di una donna bruttina, che non sa neppure suonare il pianoforte da saloon, stanno lì a dimostrare questo assunto. Quindi, mentre da un lato la banda del ranchero Randall Bragg (Irons) ricalca un cinema formale e falso, e fa effettivamente pensare a Sergio Leone, dall’altra i due sbandati ex-tutto, che s’inseriscono nella vicenda a far giustizia come due sgangherati angeli wim-wendersiani, sono "veri". E anche la donna è vera nella sua mancanza di avvenenza fisica, nella sua incertezza femminea, nel suo essere anch’essa una ex (si tratta di una vedova). Donna vera anche quando mente, Allison French (Renée Zellweger), donna di cui non puoi non innamorarti, se sei un angelo protettivo, anche se un po’ eccessivamente collerico, come Virgil Cole (Harris), sceriffo e tiranno. Ma lo sceriffo crudo e talvolta inutilmente crudele vive affiancato dal suo vice Everett Hitch (Mortensen), una guardia silenziosa. Il suo simbolo è il fucile, il suo ruolo è evidente: far sì che la storia si svolga su binari giusti. D’altronde la voce narrante è la sua e questo significa che lui già fin dall’inizio è capace di prendere le distanze, capace di "narrare". Riveste anche un altro ruolo: quello di realistico supporto alle gesta di Virgil Cole, che, impulsivo com’è, può anche (donchisciottescamente) trovarsi senza cavallo, coi piedi semitumefatti a mollo in un fiumiciattolo. Il buon saggio Sancho Panza gli porgerà sempre il supporto di un fucile e di un cavallo. Questa guardia sta sempre sul limitare di qualcosa, osserva ed è pronto ad intervenire, salvo una volta... Alla fine del villaggio sta nascendo una casa: Virgil Cole costruisce il suo primo vero nido d’amore assieme ad Allison. La casa è solo uno scheletro di legname, ma c’è un ingresso, delle stanze, delle finestre, una staccionata di confine: tutto disegnato con assi di legno. Il vice entra pudicamente in casa, chiedendo permesso, e appoggia il fucile allo stipite di una porta inesistente. Il pubblico si aspetta che questo gesto, insolito per lui, di abbassare la guardia, preluda ad un qualche agguato nemico, da cui non potrà difendersi, e scruta l’orizzonte, aspettando che spunti la minacciosa silouhette di un qualche bandito assoldato dal ranchero "leonescamente" cattivo. Niente di tutto ciò: la minaccia viene da vicino e dall’interno della casa. La donna dello sceriffo cerca di sedurlo. Scena sapientemente strutturata con poche mosse e poco dialogo. La donna gli mostra il paesaggio e mentre lui lo guarda dalla finestra (dallo "scheletro" di una finestra) lei gli s’inserisce davanti di spalle, gli prende le mani e se le cinge intorno alla vita, realizzando così un "quadro" vivente classico per il cinema western, quindi si volta lentamente su se stessa e si ritrova sotto le labbra sigillate del vice-sceriffo verso le quali lei tende le sue fino a congiungervele in un bacio. Ambiguissimo bacio, in quanto lui si ritira un istante dopo, pentito, e lei, femminilmente offesa dal suo rifiuto, lo caccia di casa, e il pubblico sa già che medita vendetta. Da questa crepa nel tessuto narrativo inizia il disfacimento di tutto quanto era stato ordito fino a quel momento e tutto prende un carattere ambiguo e minaccioso: non ci si può fidare più della donna. A questo punto si fa ancora più chiara e più "vera" la vicenda nella sua dimensione economica: chi comanda economicamente nella piccola cittadina si sentiva minacciato ed ha chiamato lo sceriffo "duro" in propria difesa, ma se, per caso, Bragg, il ranchero cattivo, riesce a spuntarla sul piano della Giustizia, a non farsi condannare grazie ad amicizie politiche in alto loco, allora diventa un cittadino onorabile che offre alla comunità garanzie di tranquillità e alla donna una sponda più sicura. La mano di Bragg accarezza, regalmente, la nuca della pianista, mentre il povero Cole cammina arrancando su una gamba di legno e la vigile coscienza di Everett distilla con lo sguardo momento per momento la caduta sociale in cui è implicato con lo sceriffo zoppo e reso cieco dall’amore che gli fa accettare ogni sconfitta.


Tutto ciò può condurre fino alla rovina definitiva dei due protagonisti che la comunità comincia lentamente a sfiduciare perchè stanno collezionando sconfitte su sconfitte sia sul piano della giustizia che su quello della pistola. Il gesto finale del vice, di nuovo "narrante" , riaggiusta con un colpo da pistolero quello che la Giustizia non era riuscita a fare. Quindi la verità ultima sta nel colpo di pistola, e questo è western autentico che vede riunite nel pistolero, come in un grande ossimoro, la figura del bandito e quella del giustiziere. E ora il mondo, ritornato perbenista, emetterà una taglia sulla sua testa.

-Chi è disposto a morire?-Io!... ma non di noia!-


Con queste parole si apre la vicenda individuale di "Zabriskie Point", film-simbolo del Sessantotto, realizzato da un regista di un’altra epoca, che guardava il mondo con occhio sempre disincantato e politicamente scettico. Antonioni, nel 1970, sceglie ancora una volta la via della sconfitta. Noi, che ancora giovani aspettavamo dal Movimento esiti più felici, quando si seppe che Antonioni avrebbe fatto un film sul Sessantotto, si capì che ci avrebbe portato verso la morte. E così fu, infatti. Questo film contiene un profondo desiderio di dissoluzione, di annullamento di se stessi in quanto figli di questa società, la società americana, simbolo del Capitalismo assoluto. A Los Angeles gli studenti manifestano assieme ai professori e ne prendono di santa ragione dalla polizia, una polizia ottusa, analfabeta che quando chiede al protagonista, privo di documenti, di declinare le proprie generalità e lui risponde:"Karl Marx", scrive sul verbale, tranquillamente "Carl Marx". Questa Polizia inseguirà per tutto il film il protagonista in fuga con la ragazza. E la fuga a bordo di un aereo amatoriale, via dalla civiltà, li porta fino al deserto, nel punto di massima aridità, il punto Zabriskie che guarda nella Valle della Morte (Death Valley). Vicenda individuale e istanze collettive si saldano, disperatamente, al corpo dei due amanti che un deserto immenso circonda. È la scena centrale del film. In questa totale aridità gli amanti si accoppiano e si moltiplicano, fino a coprire tutta l’estensione dello schermo, ed è come se ad ogni istante uscisse dalla sabbia una nuova coppia di amanti che si aggrovigliano, coperti di polvere, in un estremo amplesso. È la disperata risposta erotica di una generazione che cerca l’Amore e trova solo rapporti umani disseccati dal capitalismo. Non c’è futuro per questa storia d’amore, come non c’è futuro per la vita vera in questo deserto sociale, e il protagonista non fugge oltre, sa che deve ritornare a casa e morire. E così avviene infatti: appena sceso dall’aereo rubato, i poliziotti, che un minuto prima stavano tranquillamente parlando fra loro di famiglia e di giardinaggio, abbassano la visiera e sparano. Che cosa resta? Resta una deriva potenzialmente terrorista. La ragazza che si trova in una villa, segretaria di un manager senza scrupoli, e sente alla radio la notizia della morte del suo compagno, si allontana dall’abitazione e vede come in sogno l’esplosione della villa stessa ripresa da tanti angoli visuali. La visione si espande come un incendio rivoluzionario mostrando a rallentatore l’esplosione di tutti i simboli della società dei consumi e la musica dei Pink Floyd fa da sottofondo. Il sogno di una esplosione rivoluzionaria, anticonsumistica, antiborghese...ma questo è il Sessantotto!

Cinema e cibo Ci vorrebbero dei volumi, ordinati in serie per Paese o per genere, per descrivere il rapporto fra Cinema e cibo. Ma servirebbe a poco un lavoro del genere, se mancasse alla base una qualche ipotesi iniziale, un’intuizione che ti è venuta guardando, per esempio, un film americano o francese –due tipi di cinema questi che vedono il cibo con occhio totalmente diverso. Ma quale impostazione potrebbe essere convincente? Ovviamente per ogni "civilta`" il Cinema registra un rapporto col cibo nettamente diverso. Una prima divisione fra il Nord e il Sud dell’Europa cristiana vedrebbe una


civiltà del Nord, a dominanza protestante, che antepone il bere al mangiare, anzi disprezza apertamente il cibo, secondo quanto proclama il motto tedesco: Dummheit frisst, Intelligenz säuft (la Stupidaggine mangia a bestia, l’Intelligenza beve a bestia). Nei film di Bergman gli eroi, stanchi, seduti a tavola, discutono, bevendo da calici prestigiosi un non so quale imprecisato nettare –spesso vero e proprio vino- e parlano male di Milano, città stressante, con gente abbrutita dal caos cittadino (Scene da un matrimonio). La Germania mette in tavola la frugalità, spesso legata alla tradizione (Il tamburo di latta): il pranzo di Natale con l’oca farcita di mele verdi diventa ampiamente identificativo, ma non ha sapore... In effetti non basta presentare un piatto che fa scena, se i protagonisti non ne percorrono i sapori, come invece fa ampiamente il Professore in Cuore di cane (di Bortko), quando a tavola assaggia e fa assaggiare al suo assistente antipasti caldi e vodka di prima scelta. Quindi esiste questa prima divisione storica fra la frugalità del Nord e la crapula cattolica del Sud, risalente alla Riforma protestante, ma altre divisioni vi s’intrecciano, quali la ricchezza, il prestigio, la raffinatezza delle classi dirigenti contro la frugalità delle classi subalterne, che si nutrono spesso di minestre, di zuppe di verdura o di pane e formaggio –restando la carne per lungo tempo un elemento di distinzione sociale, finché non scattano gli anni sessanta dove l’allevamento di batteria scaccia il pollo dalla tavola dei ricchi e offre fettine di vitello anche alla mensa del popolo. Allora De Sica ne Il conte Max insegna ad Albertone "come" si deve mangiare la carne ("Niente scarpetta, mi raccomando..."). Il Cinema deve trovare sempre uno specifico filmico che esprima questo dato sociale: c’è modo e modo anche di addentare un panino (l’America insegna): c’è il modo del giovane avvocato o del manager frettoloso, c’è il modo del gangster (Pulp fiction), c’è il modo della donna (frugalissimo, accompagnato da un bicchiere di latte, come in Psycho). Il modo di addentare riclassifica la gente, ne mostra la vera provenienza. Saper indossare un vestito sembra più facile per il protagonista povero che saper mangiare alla mensa del ricco, come dimostrano le idiosincrasie gastronomiche della protagonista di Criminali da strapazzo di Woody Allen. E Woody Allen stesso si presenta come grande mangiatore di Cheeseburger per recuperare simpatia anche negli strati più popolari del pubblico, quello più ostile alla sua comicità. C’è poi l’assaggio del cibo straniero, a cominciare da Un americano a Roma che tenta si scavalcare l’italianità dello spaghetto per addentare pane e mostarda, ma non ce la fa : Macaroni, io ve distruggo! Oppure il malinconico padre di Gena Rowlands nel film Una moglie di Cassavetes che all’ennesima offerta del genero (P. Falck) di restare a cena, sbotta dicendo:"Qui si mangia solo spaghetti, e io non li digerisco!". Il cibo straniero diventa una prova del fuoco dell’accettazione dell’altro, un invito al traghetto in un’altra civiltà, come nel film Hamam- Il bagno turco dove la donna turca conquista Gassman con i mille bocconcini della sua cucina (il miglior invito a restare in Turchia, dopo l’Hamam, s’intende...). Se c’è da un lato il rapporto cibo-civiltà, dall’altro esiste anche una specifica funzione espressiva del cibo all’interno di ogni civiltà. Il cibo in Italia significa famiglia a tavola, e quindi riconciliazione (non esisterà mai una scena di lite a tavola dove due attori si lanciano manciate di spaghetti!) e quindi godimento comune, in Francia, dove il cibo è prestigio sociale, il ceto medio alto (avvocati, editori, musicologi, medici e così via) si riunisce intorno a tavole imbandite di cacciagione, in prestigiose residenze di campagna, ma non per la crapula soltanto, bensì spesso per parlare di cose importanti, di strategie industriali o politiche, di cultura e così via, senza neppure escludere l’animosità e la lite, a indicare che quella mensa non è solo pensata per la "panza", ma anche per lo spirito. Il cibo stesso, sempre in Francia, dal momento dell’esposizione per la vendita a quello della portata in tavola, pronto per essere degustato, sottostà ad una precisa regia di presentazione che ne accentua la nobiltà: Il Pranzo di Babette, film largamente sovrastimato, da questo punto di vista appare fortemente emblematico di una civiltà che si può svenare finanziariamente pur d’imbandire regalmente la propria identità. Vatel raggiunge il sublime col proprio suicidio, quando questa possibilità gli viene negata da un disguido tecnico (la mancanza di pesce). Lo scempio più grande per i francesi fu quello di vedere la carne sparsa per il giardino nell’ultima scena de La grande bouffe di Ferreri. Il cibo in Spagna significa spesso "termometro" di sopravvivenza sociale, nella più classica tradizione picaresca e donchisciottesca: l’hidalgo caduto in miseria possiede le mura del palazzo patrizio, ma dentro non ha più nulla. E in


questa tradizione s’inserisce Tristana che aggiunge al cibo la connotazione sessuale –la povera, orfana Tristana inzuppa lunghi ritagli di pane bianco dentro l’unico uovo alla coque che si trova in tavola e li estrae macchiati di rosso d’uovo oppure i preti che, come corvi, nel finale dello stesso film, raccolti intorno alla tavola dell’hidalgo ritornato ricco (un Ferdinando Rey da monumento!) inzuppano schegge appuntite di zucchero meringato nelle tazze piene di cioccolato caldo, denso come una fanghiglia. Il cibo in Inghilterra, nettamente sottoclassificato rispetto alla bevanda, viene indagato senza eccessiva distinzione fra cotto e crudo: il montone macellato clandestinamente in Ken Loach e venduto clandestinamente a giro per i pub, il porco in Pranzo reale che quando arriva in tavola finalmente cotto con una mela in bocca, tutt’ad un tratto rinasce in un nuovo porcellino festante, allattato al biberon. Nel cinema americano il cibo subisce la peggior sorte, a cominciare dalle comiche con le torte in faccia. Il cibo americano è notoriamente nauseabondo, ma la funzione che gli viene largamente attribuita nei film è ancora più immonda, perché significa ricchezza e spreco. I bambini pestiferi affondano le manine in enormi secchi di gelato e se lo lanciano cogliendo anche la gamba di Elisabeth Taylor in La gatta sul tetto che scotta, e la gatta sale in camera a cambiarsi le calze di seta per sedurre il marito demotivato e alcolista. Questo disprezzo del cibo con conseguente rifugio nel sesso ha prodotto scene "storiche" come in Nove settimane e mezzo, ma produce anche l’effetto di stomacare lo spettatore sia di fronte al cibo che di fronte al sesso. Non parliamo poi del cibo e del delitto, dove le teste si accasciano su tavole di ristoranti (Il Padrino parte prima) o vengono annegate in zuppiere bollenti (Spartacus). In effetti gli americani sono dei grandi moralisti e lo dimostrano ad ogni passo. Il moralismo americano ha prodotto solo poche scene appetitose: la bistecca del cow-boy (L’uomo che uccise Liberty Valance di J. Ford) e la caffettiera appoggiata a due sassi nel bivacco sotto le stelle. ...e si potrebbe continuare all’infinito.

… e Eisenstein taceva Nel 1992 Renzo Renzi pubblicò nel suo Il cinema dei dittatori un verbale di riunione cui avevano partecipato Ždanov, Molotov, Eisenstein, Cerkassov e addirittura Stalin in persona. Siamo nel 1946, appena usciti da una guerra per lui vittoriosa, e Stalin è colloquiale e disposto alla battuta. Si sta parlando della sceneggiatura della seconda e terza parte dell’Ivan il Terribile e le critiche al progetto non mancano. Spiace notarlo, ma sono tutte giuste. Eisenstein non porta nessun argomento in sua difesa. Quando Stalin gli chiede se conosce la Storia, lui risponde: "Più o meno…". Ora noi sappiamo che Eisenstein aveva letto una biblioteca intera su Ivan e la sua storia. Perché dice:


"Più o meno" ? a cui prontamente Stalin ribatte: "Più o meno? Anch’io conosco un po’ di Storia. Voi mostrate in modo scorretto l’Opričnina. L’Opričnina è un esercito del re. A differenza dell’esercito feudale che poteva in qualsiasi momento ripiegare le bandiere e ritirarsi dalla guerra, è stato formato un esercito regolare, un esercito progressista. Voi dipingete l’Opričnina come una specie di KuKlux-Klan. Eisenstein:- Loro portano i cappucci bianchi, mentre i nostri sono neri. Molotov:- Ciò non costituisce una differenza sostanziale. Stalin:- Il vostro Zar risulta indeciso, sembra Amleto. Tutti gli suggeriscono quello che deve fare e non è mai lui a prendere decisioni." Tutti argomenti giusti, a cui solo Cerkassov cerca astutamente di dare una risposta, assicurando gl’interlocutori che verranno apportate al film tutte le modifiche opportune in corso d’opera. Poi allunga la mano verso l’astuccio delle sigarette "…e chiese al compagno Stalin :- Si può fumare?Il compagno Stalin disse:- Sembra che non sia vietato fumare. Lo mettiamo ai voti?- e diede il permesso di fumare." Ma perché Eisenstein tace? Non si tratta certo di un silenzio di disprezzo né tanto meno di sottomissione nei confronti del potere. Le critiche che gli rivolgevano erano giuste, "in sé": l’Ivan della seconda parte rispetto a quello delle prima è talmente impaludato in un amletismo freudianeggiante che a tratti smarrisce qualsiasi profilo e ricade, regolarmente, nell’immobilità. Ha perso lo scatto dell’Ivan giovane, è precocemente invecchiato, soprattutto nell’animo. Le critiche quindi erano giuste "in sé", se applicate cioè alla figura storica di Ivan il Terribile, ma Eisenstein voleva fare un altro ritratto. Voleva fare il ritratto di un dittatore sospettoso, isolato e gelido, che vedeva ovunque congiure di palazzo ordite contro di lui da medici, intellettuali, politici o generali che fossero. Era il ritratto di Stalin, ma questo Eisenstein non poteva dirglielo, e per ciò taceva.

La musica, le bombe, il silenzio ...e di nuovo la musica Il Pianista di Polanski si chiama Spielmann che in tedesco significa "suonatore". Quale traccia è più adatta di questo nome per condurci in una lettura mitico-fiabesca di questo tardo capolavoro del regista polacco che porta anch’egli nel suo nome l’icona della propria terra. Un suonatore di piano che guarda sospeso, un po’ in tralice, e non vede, non sente (non sente!), suona soltanto, divinamente. Così si apre il film. Le sue mani volteggiano come farfalle sulla tastiera e ne ricavano note terse, asciutte, esplosive come lo scoppiettio di un fuoco oppure sciorinate come perle, così fitte che si sciolgono in scrosci d’acqua. Ad un tratto esplode una bomba, parte una cannonata, s’infrange un vetro, crolla una parete. La guerra entra nella Musica squarciando lo studio radiofonico da dove il nostro protagonista affascina in diretta l’intera Polonia che lo ascolta. E’ già


un pianista affermato quando appare all’inizio del film. Il suo volto, sorridente e trasecolato, non si scompone: egli non sente le cannonate che sfondano la cabina di missaggio da cui fuggono tutti i tecnici e lo spingono, quasi di forza, a salvarsi giù nel rifugio sotterraneo. Così parte la fiaba mitica: Orfeo suonava e il mondo lo ascoltava. Poi arriva la seconda tappa: la Storia interviene e fa tacere la musica a suon di cannonate e con la Storia arrivano gl’invasori tedeschi e le leggi razziali. Il pianista è ebreo. E’ la caduta: la fiaba s’inabissa in un percorso di sfacelo e di lutto. Orfeo è privato della sua lira e comincia a percorrere le vie dei morti, i meandri tortuosi della salvazione dal mondo degl’inferi. Tutta la Storia è morte, tutta la vicenda, mirabilmente impietosa, è una via senza scampo e senza addolcimenti. Nel mezzo della lugubre vicenda, quando nella canicola di una piazza quadrata e recinta di muri piena di ebrei ammassati in attesa della deportazione la famiglia del protagonista si ritrova ancora tutta insieme, riunita dal Caso, il padre compra una caramella di zucchero cotto e con un temperino la spezza in sei parti e ne dà un pezzettino ad ognuno: questo è l’unico addolcimento ammannito con dissimulata sapienza dal regista al pubblico in attesa di consolazioni. Ma la mano del Caso sottrae ancora una volta il protagonista alla Morte, facendolo affondare nel silenzio. E’ salvo, ma non può più suonare. Rinchiuso in un appartamento, seduto di fronte ad un pianoforte, non può far rumore. Allora la cinepresa inquadra il suo volto, fissamente, e uno scroscio di musica riempie tutta la sala, la musica che va dalla sua mente alle nostre orecchie, mentre le mani volteggiano sopra i tasti…senza toccarli. E’ nostalgia di Musica. Orfeo senza la lira è possibile, sembra dirci il regista, Orfeo senza cibo, no. Ed ecco che lo vediamo allungare una mano in cerca di cibo su per lo scaffale di una credenza che ad un tratto si ribalta e fa rovinare a terra una pila di piatti in uno scroscio di frantumi. E’ questo rumore che lo tradisce all’orecchio dei vivi, la musica scheggiata dei piatti vuoti. Da quel momento deve fuggire di casa in casa, come un topo inseguito, stanato, braccato, minacciato da una Storia che si svolge sopra la sua testa in una città la cui fisionomia sta cambiando senza che lui la possa vedere. Così, quando spuntando dal muro di cinta di una casa distrutta, la testa del protagonista vede la città, la cinepresa ci regala in soggettiva un’immensa inquadratura che ai nostri occhi si slarga lenta come la voragine della Storia. Un enorme sfondo di macerie, una quinta insanguinata e combusta, sforata da colpi di cannone, squarciata dall’esplosione delle bombe, bruciacchiata dal getto dei lanciafiamme. La città non c’è più, c’è solo il volto calcinato di un immenso cratere lunare, su cui lentamente, zoppicando, si cala la nera, minuscola silouette dell’ebreo che trascina la gamba sulle macerie, avvolto da un cespuglio di capelli lunghi e da una barba arricciata e fluente che gli divora la faccia quasi spettrale. Orfeo è tornato alla luce, il silenzio e le tenebre sono ormai alle sue spalle. Perché zoppica? Nei miti sulla nascita dell’umanità si legge spesso che l’Uomo nasce dalla terra e che i primi uomini traballavano incerti, zoppicanti, perché avevano ancora la terra attaccata al piede come un erpice. Però c’è stato un pedaggio da pagare al dio degli inferi per poter ritornare fra i vivi sulla terra. Nella sua ricerca di cibo Spielmann è arrivato ad una scatola di cetrioli sottaceto; non ha strumenti per aprirla e così scende giù dalla soffitta dove si nasconde fin nel salotto col caminetto dove tenta di usare un attizzatoio come apriscatole. Ma il barattolo scivola a terra e rotola, perdendo liquido, seguito dallo sguardo del protagonista, finché non si ferma ai piedi di un ufficiale tedesco in divisa, che sta in piedi davanti a lui e l’osserva. Durante tutto il film non c’è mai stato dialogo fra tedeschi ed ebrei. In una scena precedente una ragazza ebrea chiede all’ufficiale che organizza la fila dei deportati: "Wohin bringen Sie uns?" e il tedesco per risposta estrae la pistola e le spara un colpo in mezzo alla fronte. E sarà sempre così, ogni volta che un ebreo tenterà di parlare ad un tedesco. Questa volta invece il tedesco parla, non spara. Pochi istanti prima, dalla soffitta dove Spielmann era indaffarato nei suoi tentativi di aprire la scatola dei sottaceti, si sentivano salire da un pianoforte alcune note della "Sonata al chiaro di luna" di Beethoven. Era l’ufficiale tedesco. "Verstehen Sie mich?"


"Ja" „Sind Sie Jude?" „Ja" „Was machen Sie hier?" Un dialogo pacato, indagatore, riflessivo: il tedesco s’interroga sull’identità di questo ebreo, unico superstite chissà per quali motivi, e viene a sapere che si tratta di un pianista e gli chiede di suonare. Orfeo ritrova finalmente la sua lira e con la musica commuove l’inferno. Nel buio e nel silenzio della città distrutta quella sonata inizia con un incedere lento e incerto, poi si dilata e invade tutte le stanze e si riversa nel buio della strada umida e deserta dove l’attendente aspetta in piedi accanto alla macchina l’arrivo del proprio superiore: lui crede che sia l’ufficiale a suonare il piano e l’ufficiale sa che lui crede così. Ormai l’ufficiale protegge l’ebreo. Quando arrivano i russi a liberare gli ebrei, un amico di Spielmann passando accanto alla rete dei prigionieri tedeschi li maledice in uno strano modo, che, senza la lettura mitico-fiabesca del film, sembrerebbe quasi ridicolo: "Maledetti, io sono violinista e voi mi avete portato via il violino" Ridicola frase pronunciata da un ebreo non appena uscito dal Lager con indosso ancora il vestito a strisce! Eppure ridicola quella frase non è, anzi è rivelatrice di quanto abbiamo detto all’inizio: la Storia vuol ridurre l’Arte al silenzio della morte. E invece Spielmann, l’uomo che si aggira fra le macerie come nella luce di una nuova aurora postapocalittica, quell’uomo nero uscito dalla viscere della terra, ancora pesante di terra, è l’Uomo che le pallottole non potranno mai ferire. Non è l’Uomo contingente della Storia che ieri imperversava sui prigionieri ebrei e oggi sta ammassato dietro un reticolato sotto gli urli incomprensibili di una guardia russa. L’uomo che ci guarda trasognato dagli studi di una radio ritornata libera e sul cui volto cominciano a scorrere i titoli di coda, è trasparente ed eterno perché è l’interprete dell’arte più difficile e più comunicativa, più immediata e più cerebrale, più astratta e più materialmente connotata nella sua strumentazione, la Musica. E come i violinisti di Chagall che volano nel vento con le proprie note, così c’invade il volto trasognato del Pianista e c’innalza sull’onda della musica, del turbinio delle note che si sollevano come polline sotto il volo frenetico delle sue mani sulla tastiera. E il pubblico resta, estasiato, ad ascoltare. Le ragioni del narrare Ormai da qualche decennio assistiamo a narrazioni filmiche di avvenimenti storici tanto recenti, che sono alla portata della memoria di ciascuno di noi. E ci stupiamo di uscire dal cinema un po’ contrariati, anche se normalmente quelle narrazioni si presentano come documentate e molto disponibili alla comprensione delle motivazioni errate che hanno condotto i protagonisti di allora a certi gesti insensati, che volevano essere gesta e non lo furono. Perché, dunque, usciamo amareggiati dalla visione di quei film? Non certo perché il regista ha falsificato gli avvenimenti, per cui poi a correggerli si alza di nuovo Adriano Sofri e confeziona un intero volumetto di precisazioni puntuali e puntute, come ha giustamente fatto con l’ultimo film di Giordana, Romanzo di una strage. Non è per questo che usciamo dal cinema un po’ amareggiati. Si partì con La meglio gioventù e poi, giù giù, con Prima linea (affidato allo stanchissimo Scamarcio), Il sol dell’avvenire (con un’allegra combriccola di ex-terroristi poco o nulla pentiti), senza dimenticare il buonista Buongiorno notte (dell’ormai sopravvissuto a se stesso Marco Bellocchio) e quanti altri, non escludendo né Il divo né I primi della lista e comprendendo anche i


più “storici”, ma sempre sulla stessa linea dell’errore, del diabolico errore indotto dai cattivi maestri (Mazzini in testa). Noi che abbiamo vissuto quel periodo storico, possiamo testimoniare che il mondo, che ci circondava, non era poi così buono come viene mostrato in quei film. Questo è un dato, anzi, direi che è il dato di partenza. Calabresi non era buono, Moro neppure, Saragat non era un sempliciotto, Andreotti non era un promeneur solitaire roussoiano, perseguitato da mediocri faccendieri. Le famiglie, con il loro ritmo quotidiano fatto di buonsenso non erano la gente tranquilla che lavorava di Celentano. Le città non erano più godibili e sicure di quanto lo siano oggi e la fabbrica era una trincea fordista. L’industrializzazione forzata e accelerata degli anni sessanta e settanta aveva fatto incattivire la gente che passava da un qualunquismo bonario da anni cinquanta (alla Totò) ad un qualunquismo inasprito e feroce contro la politica: contro chi la faceva da dirigente o da oppositore. Il rossi o neri sono tutti uguali contro cui si scaglia Moretti in Ecce bombo, gridando: -Ma che siamo in un film di Alberto Sordi!?, era un ritornello che noi sentivamo tutti i giorni come espressione di una cattiva coscienza diffusa, che tentava di sporcare ogni gesto ideale tentato da parte delle nuove generazioni. Cercava di appiattire il tutto in un tutto uguale, cercava di confondere le coscienze, e questo mentre gli americani nel Vietnam si facevano fotografare tenendo per un ciuffo di capelli la testa decapitata di un guerrigliero Vietcong a cui avevano messo fra le labbra un cicca accesa. Questo era il mondo, non inganniamoci. Eppure così non può essere rappresentato. Perché? Perché altrimenti diventerebbe protagonista e le ragioni della narrazione lo vietano. In effetti per potere narrare una vicenda all’interno di un immenso magma di avvenimenti, bisogna che questi si allontanino sullo sfondo e si plachino. E’ questo il destino della narrazione. Un destino teatrale per eccellenza: che si tratti di Fabrizio alla battaglia di Waterloo o di Pierre nella Mosca che brucia o di Renzo fra i rivoltosi o gli appestati di Milano, che si tratti della piccola vicenda individuale di Livia e Franz all’interno della più grande vicenda storica della terza guerra d’indipendenza, il particolare deve prevalere, disegnandosi su uno sfondo inerte. Ecco che la realtà storica degli anni di piombo si appiattisce a normalità quotidiana e non bastano a renderla inquietante le rare osservazioni di Moro-Gifuni, profeta disarmato e inascoltato, si tratta di una realtà che pretende allo statuto di normalità proprio per poter narrare quelle vicende in primo piano, vicende che sembrano così scaturire dalle diaboliche fantasticherie di qualche cattivo maestro e non da logiche concatenazioni storiche, cioè dal vecchio sfruttamento capitalistico. Ma i grandi narratori ovviamente riescono a rovesciare la logica della narrazione e narrando di piccoli casi descrivono i grandi momenti storici, per cui le peripezie di Renzo e Lucia rivelano il volto del Secolo in cui vivono. Non è questo purtroppo il tenore dei film di cui sopra, le cui vicende particolari restano tali e non scoprono universi più vasti e più incombenti. Quindi si rivela ancora una volta vera l’affermazione per cui narrare di fatti gravi (come le guerre o gli attentati, le pestilenze o le carestie) presuppone un talento straordinario in quanto la materia del narrare è di grande momento, ma possiede anche una sorta di severità nei confronti di chi voglia trattarla.


Ostriche e spaghetti Si potrebbe anche intitolare Ostriche e spaghetti il film del franco-tunisino Abdellatif Kechiche, che un tempo ci aveva annoiati cercando di deliziarci con Cou-cous e che oggi riceve la Palma d’oro a Cannes con il suo ultimo film La vita di Adele, cronaca di un amore lesbico fra la protagonista e l’amica Emma. Le ostriche piacciono a Emma, ma non piacciono a Adele che si nutre proletariamente di spaghetti alla pomarola, impropriamente chiamati “alla bolognese” nel film. Piatto intellettuale per eccellenza, le ostriche con il vino bianco, simboleggiano l’ambiente di Emma, artista, che presenta senza problemi la fidanzata Adele alla famiglia. Piatto proletario per eccellenza, gli spaghetti, simboleggiano la famiglia di Adele, aspirante maestra giardiniera, che presenta alla famiglia Emma come un’amica che l’aiuta nello studio della Filosofia, dove lei non riesce gran che…


L’incontro fra Emma e Adele è costellato di differenze fondamentali, non solo nel cibo, ma anche nei gusti estetici e nelle letture filosofiche. Non importa, sembra dire il regista, c’è sempre il confronto dei corpi nudi sul letto che annulla le differenze di milieu. Eh sì, diciamo di milieu, perché la Francia di oggi sublima spesso la differenza di classe in differenza di ambiente, una sublimazione che permette di edulcorare in apparenti abitudini egualitarie (le feste, le discoteche, l’abbigliamento, il linguaggio giovanile etcetera) spaventosi abissi sociali. Ma il confronto dei corpi nudi, filmato dal regista in tempo reale, vale a dire con lo stile voyeuristico del film porno, ottunde invece la vista del pubblico, imbarazzato di trovarsi, appunto, in pubblico e non in solitudine onanistica per il cui fine vengono girati i film di erotismo spinto e trasgressivo. La noia prevale poi sull’imbarazzo già alla seconda scena d’intrecci corporei conditi di sospiri e mugolii sempre uguali. La superficie dei corpi produce, purtroppo, una diffusa superficialità nel rapporto fra le due amiche/amanti e così, col tempo, riaffiorano le due culture diverse, tanto diverse che messe l’una accanto all’altra non producono una storia: le due protagoniste tenderebbero ad invecchiare in un eterno presente fatto dei soliti gesti erotici livellatori delle differenze culturali, dove alla sottile abilità di Emma fa fronte la freschezza giovanile di Adele. Ma questa situazione tende a sgretolarsi per le molte crepe che vi s’insinuano: Adele è troppo modesta intellettualmente per Emma, che la incoraggia ad osare affrontare la scrittura e pubblicare racconti, a cui Adele risponde col classico pudore popolare: ma io scrivo il diario per me, non voglio far conoscere i miei sentimenti agli altri. Crepe che si allargano quindi nel loro rapporto e che si evidenziano alla festa degli amici di Emma in giardino, dove Adele di fatto si limita a fare la cuoca, e che termina a letto col rifiuto di Emma di cedere ai desideri carnali di Adele, accampando la scusa delle mestruazioni. Con astuzia celebrativa il regista ci aveva fatto intravvedere, nel corso della festa in giardino, uno schermo sullo sfondo dove appaiono immagini di un vecchio film in bianco e nero che da alcune scene possiamo identificare con il classico Lulù di Pabst, dove il volto di Louise Brooks richiama il destino di Adele: la ragazza popolare inserita nel milieu borghese. Ma, a differenza di Lulù, Adele non scardina il mondo borghese, non distrugge il fragile perbenismo della classe dirigente. Adele non ha spessore sociale, e se mai di un perbenismo in questo film si tratta è proprio quello dell’ambiente sociale da cui lei stessa proviene. Così Adele resta sola ed esce semplicemente di scena. Una solitudine di classe.

Reggiani: l'efficacia del frammento Manda insegue il magnaccia criminale e amico allo stesso tempo della Polizia. Questo si rifugia in una caserma dove tranquilli poliziotti conversano seduti al bancone, e le loro armi stanno appese alla parete. Manda ci si accosta con calma e determinazione ed estrae dal fodero di un cinturone una pistola d’ordinanza. Si accinge a fare quello che la Polizia avrebbe dovuto fare da tempo. Insegue il magnaccia fin dentro il cortile dove si è rifugiato e in un angolo sta tremando. E’ senza scampo. Manda si avvicina con la pistola spianata, mentre la cinepresa inquadra solo il suo volto. E il suo volto spara tre colpi. Sì, la sua faccia spara! Si sentono le tre detonazioni fuori campo e si vede il volto di Reggiani che si contrae ad ogni colpo in una stessa smorfia che esprime sdegno, decisione, rabbia, giustizia. Questo volto galleggerà eterno nella memoria di chi ha visto Casco d’oro, tarda rivisitazione di un mondo fine Ottocento, un mondo scomparso che riesce ad attualizzarsi proprio grazie al talento indiscusso dei due protagonisti: Simone Signoret e Serge Reggiani. Lui è morto quest’anno alla fine di luglio. Aveva 82 anni.


Se aprite Internet è tutto un susseguirsi d’omaggi all’attore scomparso, ci sono già i club dei fans, i testi delle canzoni, i titoli dei libri e le filmografie; ci sono anche i quadri, perché invecchiando si era messo anche a dipingere. Ma io vedo solo quel volto, che spara, perché non credo alla genialità diffusa, e quando si legge che Reggiani fu grande in tutto, dal teatro alla canzone, dal cinema alla pittura, io aggiungo: - Sì, ma frammentariamente - e proprio questo mi piace di lui. Io credo ad un Reggiani che raggiunge in ogni ambito artistico punte insuperate di straordinaria espressività, genialmente sensibile in quel punto, in quel frammento. E penso al suo incontro con le canzoni di Boris Vian nel 1965: un disco che mi porterei nella tomba, se credessi nell’aldilà. Penso ai Sequestrati d’Altona di Sartre, dove lui svolse un monologo ineguagliabile per ben cinquecento repliche. Penso alle sue parti secondarie, genialmente interpretate, come nel “Gattopardo”, “Il giorno della civetta” e infiniti altri film, dove i ruoli gli sembrano cuciti addosso, e invece era lui a saperci entrare (un po’ l’opposto di Jean Gabin...). Penso ad un ritratto indiretto che Sautet riuscì a tracciare di lui in “Vincent, François, Paul... et les autres” e che lo descrive così bene, com’era nella vita, schivo e claustrofobo. Penso alla performance della sua voce, una voce dove si poteva abitare, piena di anfratti, di cavernosità, di nascondigli, ma anche di diafani falsetti e velature accorate che mi fanno tornare in mente una sua lontanissima interpretazione di Robespierre ne “I giacobini” di Zardi, in un italiano lento e sofferto, molto espressivo. Ma Reggiani ebbe anche una vita pubblica, un suo ruolo politico, quando prestava la sua voce alla lotta, per cantare nelle fabbriche e nelle scuole occupate. Mi ricordo ancora nella Parigi degli anni settanta come molti militanti avessero nell’agenda il suo numero di telefono. Lo trovavi a cantare nelle assemblee operaie o studentesche, al primo maggio o alla festa dell’Huma. Vecchio emigrato antifascista da Reggio Emilia con il suo classico percorso da “rital”: poca scuola, la boxe e lo spettacolo come forme di emancipazione sociale. La sua vita ci commuove e ci fa pensare anche a quella Francia da Front Populaire, dove lui come molti altri rinasceva in una nuova identità culturale. Il suo nome italiano resta, per noi, solo una nostalgia.

Ma Silvia ha le chiome nere Silvia ha le chiome nere e presumibilmente anche gli occhi neri, di cui Leopardi dice che erano ridenti e fuggitivi e poi innamorati e schivi. E niente induce a pensare che Silvia abbia i capelli mesciati in biondo e rossiccio e gli occhi chiari. Martone invece parte proprio di lì, quando ce la presenta nel suo Il giovane favoloso, dove la ragazza si affaccia alla finestra e il poeta la vede. Ma non fu così, infatti d’in su i veroni del paterno ostello, il poeta, usando uno zeugma, sente la voce e la man veloce. Quindi è l’udito che viene colpito innanzitutto, è un’eco di Silvia che si diffonde per le quiete stanze e giunge agli orecchi del giovane Conte. Io sostengo che la presentazione fattane da Leopardi è “cinematograficamente” più efficace di quella di Martone. E poi c’è la potenza del ricordo che lo assale a Pisa, dove il clima della città gli fa rinascere l’impegno poetico, e proprio là compone A Silvia. Anche questa del ricordo è stata un’occasione mancata per il film che invece indugia inefficacemente sulla vicenda della morte e del trasporto della ragazza, mostrando scene poco più che di genere. Questo esempio dimostra come il regista abbia cercato Leopardi soprattutto


negli esterni o meglio nell’esteriorità. Che la biblioteca di casa Leopardi sia quella autentica poco serve all’efficacia delle scene che vi si svolgono, che Fanny venga mostrata in villa o nel decoro di un interno nobiliare poco aiuta a capire come mai Leopardi ne trasse il ciclo di Aspasia. La vita e l’opera di Leopardi si sarebbero prestate egregiamente ad una trascrizione filmica se e solo se Martone avesse capito che la vita e l’opera del poeta si sono svolte percorrendo una scalinata in salita da cui non si può scendere, non si può tornare indietro, una scalinata che dà quasi l’assalto al cielo. Quindi Leopardi è tanto più eroico quanto più il suo fisico si va accasciando, eroico contro le fole del mondo e del creato. Se avesse seguito questo filone anche il bravo Elio Germano avrebbe incontrato interiormente Leopardi, e invece lo cerca per tutto il film inseguendolo solo nella decadenza fisica. Il Leopardi di Martone è tutto e subito Leopardi, non è un Leopardi in divenire. È per questo che via via il suo pessimismo annoia lo spettatore, e sembra quasi dar ragione al letterato del Gabinetto Viesseux che dice di lui: scrive bene, ma dice sempre le stesse cose. Questa sensazione fra il pubblico si fa sempre più strisciante mano a mano che si procede nella visione del film. Questo Leopardi uguale a se stesso e impolitico non convince. E poi c’è quell’eccessiva apertura sulla figura di Ranieri, che, se dalla critica letteraria non fu particolarmente apprezzato per il suoi Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, nel film viene invece quasi esaltato e diventa una chiave interpretativa del poeta. Troppo spazio anche per Napoli. Qui bisogna dire che nell’immaginario cinematografico l’atmosfera partenopea svolge una potente attrazione, anche Pasolini trasferì Boccaccio in ambiente napoletano. Napoli è un residuo di classicità perduta, una classicità che non si trova nelle museali pietre antiche di Roma, che resta invece una città papalina, ma che si cerca nella popolazione, nella sua arcaicità, nella sua mistericità. In quegli antri da culto di Mitra che Leopardi percorre in cerca di piacere c’è tutto il desiderio del regista di affondare di nuovo in quella cultura tardoimperiale che con Leopardi ha ben poco a che vedere. Comunque il film è visibile e anche bello, come prova d’attore.

Mia madre Moretti è un regista mentalizzato, quasi un meta-regista, e non dovrebbe cimentarsi con soggetti quali La stanza del figlio o Mia madre perché non ha strumenti “mentali” per trattare quelle tematiche e finisce col fare quello che la protagonista di Mia madre, Margherita Bui, raccomanda di non fare agli attori. Lei ripete da anni ad ogni attore di essere nel personaggio e accanto al personaggio, e nessuno la capisce. Lei stessa ad un certo punto del film confessa di non aver capito neppure lei fino in fondo cosa significhino quelle sue stesse parole. E noi glielo spieghiamo. Una volta, sul set di un film due attori dovevano fare a pugni e le riprese di quella scazzottata non volevano convincere il regista che le fece ripetere per ben diciotto volte. Da ultimo i due attori si picchiarono davvero di santa ragione, esasperati dalla situazione. Ognuno penserebbe che la scena riuscita sia stata l’ultima, quella in cui se le dettero davvero, e invece il regista scelse l’ottava


ripresa perché era più convincente, ed era ovviamente “finta”. Quindi il segreto della recitazione non sta nel saper dare un pugno in scena, ma di farlo con un gesto recitato, un gesto che contiene in sé la spiegazione di se stesso, un gesto che controlla il gesto, un gesto che “rappresenta” il gesto. Ora di questo film si può dire tranquillamente che l’unico attore che rappresenti il personaggio assegnatogli è John Turturro, punto e basta. Gli altri attori, compresa la madre, non recitano “rappresentando” dei personaggi, recitano senza neppure porsi il problema di essere personaggi. E infatti di personaggi non ce n’è uno in questo film. Non si sa chi sia Giovanni, né quale motivazione lo spinge a lasciare il proprio mestiere d’ingegnere. Se fosse stato un attore avrebbe potuto dire quello che invece ad un certo punto del film dice Turturro: sono stanco di stare in una fiction, voglio un po’ di realtà! Allora il confronto con la realtà più dura, la morte di una persona cara, lo avrebbe messo in crisi come attore, come uomo finto, ma lui fa l’ingegnere... Mestiere più scabro ed essenziale non esiste. Lo stesso si può dire della madre di cui sappiamo per dichiarazioni esterne che è stata un’insegnante molto amata, ma non lo vediamo nel personaggio che dall’inizio alla fine giace in un letto inerte. Poteva essere già morta e il film svolgersi in tanti flash back, forse sarebbe stato meglio per la povera Lazzarini: l’avremmo vista in qualche momento della sua vita passata e avrebbe conquistato la simpatia e l’affetto dello spettatore, cosa che adesso non avviene. Se c’è una cosa che il pubblico aspetta è proprio la sua morte. Margherita poi rinuncia in ogni occasione ad una sua definizione di regista, ma anche di donna, diciamolo pure. Lei gira da vent’anni film impegnati, non minimalisti, ma non risponde a nessuna domanda dei giornalisti, in quella scena inutile, remake di Sogni d’oro. Come donna sembra felice e indifferente sia col marito che con l’amante, come mamma non sa niente della figlia e se ne stupisce con espressioni che ricordano la manierata recitazione di Giulietta Masina: un volto tutto in superficie con espressioni al limite della smorfietta. In genere smorfiette di stupore, senza intensità, salvo nell’ultimissimo primo piano che chiude il film, più merito del regista che bravura dell’attrice. Quindi Moretti ha saputo fare dell’autobiografismo il suo cavallo di battaglia fintanto si è offerto come “personaggio”, inventato e posticcio fino allo spasimo, ma quando ha voluto affrontare tematiche dolorose, togliendosi la maschera, allora ha posto il pubblico in imbarazzo, come l’attore che ad un tratto piange davvero sulla scena. Ma l’imbarazzo diventa tanto più grande quando si parla della morte di famigliari. Allora, di fronte a questa realtà ineluttabile, senza vie di scampo, il pubblico viene privato fin dall’inizio di quella sua tradizionale prerogativa, e cioè d’intuire come si svolgerà la vicenda, quale sarà lo scioglimento del dramma. Qui ogni porta resta sbarrata, il pubblico è in prigione, non ha altra scelta che subire il ricatto del dolore altrui. E questo non è cinema perché annienta lo spettatore.

Shame: escrementi e civiltà In Shame, come in moltissimi altri film americani(-zzanti), assistiamo ad un accostamento assurdo, ad un ossimoro che fa spettacolo: il maschio civilizzatissimo e le sue deiezioni maschili. Un uomo nudo si alza da letto la mattina e percorre stanze e corridoi, indifferente alla voce femminile che parla disperata nella sua segreteria telefonica mendicando affetto. Il suo corpo maschile sembra uscito da una rivista porno, la sua nudità da palestra è piuttosto ripugnante che attraente. Si muove meccanicamente e va in bagno dove compie il rito della minzione con lo stesso impegno con cui adempirà per tutto il film al rito della masturbazione, e forse più che di rito si potrebbe parlare quasi di un compito. In questo film assistiamo ad un accostamento con gli aspetti più bassi della fisicità da parte di un impiegato, freddo ed elegante, che si presenta impeccabile al lavoro dopo notti di tregenda. Si tratta di un civilizzatissimo uomo a due facce, anche sessualmente ambiguo, ammesso che abbia


una sessualità. Accanto a lui una sorella opposta, che lo rimprovera già con la sua semplice presenza fisica, così calda da amica-sorella-amante: una sorta di Lolita cresciuta che offre la fisicità alla musica cantando New York, New York allo stesso modo in cui ci si allunga dolcemente in un letto o in una vasca da bagno. Non c’è riscatto per questo eroe della postmodernità. Lui semina morte dove tocca: la sorella si svena, l’allegra collega d’ufficio si rattrista in sua compagnia, le sue avventure amorose non sono altro che un prolungamento della sua attività masturbatoria. Nel suo volto non c’è traccia di pentimento, malgrado le lacrime e la disperazione che ogni tanto lo assale, non c’è catarsi, e quella sorta di criptica immagine finale del particolare della mano femminile senza fede nuziale che lo invita a seguirlo funziona solo come un suggello finale di un’opera che viene contrabbandata dalla critica come un film dalla complessa problematica sessuale e invece si tratta di un film di deiezione, dove in effetti né la donna né l’omosessuale perverso rappresentano una deriva per il protagonista mentre l’universo masturbatorio in cui affonda denota la sua nullità sociale, la sua totale inconsistenza umana. Fassbender sembra si muova senza aver capito niente del suo personaggio. Si tratta di un film senza capo né coda che ti lascia piuttosto infastidito.

L’uomo irrazionale Non si può fare un film scavalcando il personaggio e usando solo un volto, in questo caso quello di Joaquin Phoenix. Ma questo passo è stato fatto proprio da quel grande creatore di personaggi che è Woody Allen. Dopo aver trascorso tutte le tipologie umane, Woody approda al volto di Phoenix e ne rimane esterrefatto. Non può piegarlo a personaggio, neppure a personaggio trasgressivo e maledetto. Phoenix resta Phoenix per tutta la durata del film e alla fine stanca lo spettatore che chiede una vicenda e dei personaggi, delle motivazioni al delitto o all’azione umanitaria. Tutto questo manca in The Irrational Man, film che doveva segnare un incontro fra regista e protagonista che poteva costituire una tappa importante nella filmografia di Woody Allen e che invece segna una grossa pausa di arresto creativo del regista ormai ottantenne. Sappiamo che i temi dostoieschiani lo hanno sempre affascinato e che gli hanno suggerito intrecci


plausibili anche in epoca postmoderna, com’è stato il caso di Match Point . Sappiamo che lui è bravissimo nell’individuare quei certi moventi anche apparentemente futili, ma che possono diventare centrali in una storia. In questo suo ultimo film direi che non c’è traccia di tutto ciò. Il personaggio dell’intellettuale nei film americani in genere viene populisticamente semplificato fino a diventare uno stereotipo degno della fantasia di un liceale. E Woody Allen, che pure si era cimentato in Basta che funzioni con una figura d’intellettuale di tutto rispetto, in questo film mostra delle lezioni di filosofia del professor Lucas (da Kant a Sartre non si risparmia nessuno) che sono di una piattezza sconcertante, e che l’allieva diligente se ne innamori depone solo a svantaggio dell’intelligenza di lei. Una lei di cui non riusciamo a capire il fascino e che posta a fianco di Phoenix mostra una totale assenza di carisma, quel carisma in grado di capovolgere il paradigma classico, quello del trasgressivo anarcoide che mette scompiglio nei sentimenti piccolo borghesi della diciottenne. Qui Woody Allen ha voluto creare un personaggio femminile perbenista che sconvolge con la sua trasgressione il professore rivoluzionario, il quale per un buon tratto di film non fa che difendersi dagli assalti della giovinetta, accampando lui delle motivazioni borghesi: hai già un fidanzato straordinario e cose del genere. Per rovesciare questo paradigma classico però non basta quel personaggio acqua e sapone, ci vuole una nuova Lolita. E infine c’è la motivazione e la preparazione del delitto, ambedue molto fragili. Non si uccide un giudice perché sappiamo che è corrotto e della cui corruzione abbiamo una vaga testimonianza da parte di una perfetta sconosciuta. Un giudice lo ammazzi se questa perfetta sconosciuta è invece tua sorella o comunque un’amica intima e non prepari il delitto introducendoti alla cieca in un laboratorio di chimica dove il cianuro è a portata di mano e via così per soluzioni facili fino al delitto. Tutto ciò ci fa pensare con nostalgia a Match Point o a Sogni e delitti con tutta la loro complicata e accidentata trafila per giungere all’assassinio. Ed è in questi film che Woody Allen ripropone una moderna lettura di Dostoevskij ben convincente, non in The Irrational Man dove Dostoevskij viene solo citato dalla piccola liceale che dice di averlo letto tutto. Figuriamoci!


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