Fiorenzo Oliva - Il mondo in una piazza

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Fiorenzo Oliva

IL MONDO IN UNA PIAZZA


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Fiorenzo Oliva, torinese doc, è alla sua opera prima.

A Paolo e Nicoletta, esempi di vita.

«Ciò che non siamo in grado di cambiare, dobbiamo almeno descriverlo» Reiner Werner Fassbinder


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PREMESSA Torino, parco del Valentino; 22 giugno 2002, ore 23. Fa molto caldo. È un caldo arrabbiato e afoso, si fa quasi fatica a respirare. Sono a zonzo nella notte torinese con altri quattro ragazzi di ventitré anni: due colleghi universitari e due aitanti giovani valdostani. Chiacchieriamo, trovando un po’ di refrigerio nella dolce brezza della riva del Po. Il parco del Valentino è molto affollato. Ci sono ragazzi che bevono birra, genitori con bambini vocianti al seguito, coppiette che passeggiano mano nella mano e gruppi di giovani stravaccati sul prato che fumano canne suonando gli djembé. L’atmosfera è rilassata, noi anche. Passeggiamo e chiacchieriamo. Chiacchieriamo e passeggiamo. Ogni tanto diamo qualche golata alla nostra birra ghiacciata. «Guarda che bella quella… eh, no, non si può andare in giro vestite così!» dice uno dei quattro. «Si può, te lo assicuro. E va benissimo così. Tu resta lì a guardare perché tanto me le faccio tutte io» risponde Socio, il mio amico. L’ho conosciuto all’università, per caso, il primo giorno. Per qualche misterioso motivo ci siamo seduti a fianco, abbiamo iniziato a scherzare e abbiamo subito legato. Ora ci vediamo quasi tutte le sere. In nome della nostra amicizia nasce il suo soprannome, “Socio”, perché per me è un vero amico. Dell’altro suo soprannome, Zizzania, lascio intuire le motivazio3


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ni. Diciamo solo che nella vita gli piace un sacco rompere le palle. È un bravo ragazzo, brioso e intelligente, molto simpatico, grande imitatore di tutti i dialetti d’Italia, un po’ sbruffone, un po’ vanitoso. Sconfina nella molestia quando è ubriaco. Una volta per poco non ci siamo menati, o meglio, non ci siamo menati perché ci hanno divisi, altrimenti ce le saremmo date di santa ragione. Si esprime con un linguaggio colorito e ha un viso particolarmente espressivo, che lui sfrutta abilmente per risultare ancora più divertente. «Cosa vorresti fare tu?» gli rispondo; «Da quando ti conosco l’unica donna con cui ti ho visto parlare è tua madre!». «Oh, sciocchino,» mi dice Socio con aria boriosa e un’espressione insolente che mi fa un sacco ridere, «ho fatto più sesso io il mese scorso che tu in tutta la vita!». Scoppio a ridere, e mentre lo faccio vedo con la coda dell’occhio un gruppo di giovani nordafricani che corre. Un attimo dopo mi arriva addosso un getto di liquido. “Ah, finalmente un po’ d’acqua”, penso. Una frazione di secondo dopo sento bruciare. “Cazzo, è acqua bollente!” Passa un’altra frazione di secondo. “Cazzo, cazzo, cazzo, non è acqua bollente, questo È ACIDO!” Urlo come un pazzo e mi metto a correre verso il Po. Voglio buttarmici dentro. Intravedo una fontana. Correndo mi precipito sotto il getto d’acqua. Mi tolgo la maglietta. È ridotta a brandelli. Qualcuno prende un secchio e mi rovescia litri d’acqua addosso. Non capisco più niente. Sento bruciare anche la 4


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faccia, la testa e le braccia. Temo per il mio viso, per la mia schiena, per le parti del corpo che non riesco a vedere. Quelle che vedo mi spaventano. Sono viola, rosse, verdi. Non c’è più la pelle, vedo la mia carne. L’acido scava, scava, e io non capisco come sono conciato. So solo che molti passanti si girano increduli, si fermano qualche secondo per capire cosa è successo e fanno una faccia schifata. Sto male. Fisicamente e psicologicamente. Ripenso a quel giorno, a scuola, nell’aula semibuia di chimica. Un mio compagno di classe, che non spiccava per intelligenza, aveva rovesciato una boccetta addosso a un tizio con cui stava litigando. Sebbene la cosa non avesse avuto esiti tragici, non avevo mai visto il professore così arrabbiato. «Non si scherza nell’aula di chimica!» urlava paonazzo. A un certo punto aveva preso un’altra boccetta contenente acido e ne aveva rovesciato qualche goccia sul tappo della sua biro. Dopo qualche minuto il tappo si era sciolto. Ora, qui, al Valentino, qualche anno dopo, sono io che mi sto sciogliendo. Qualcuno, nel frattempo, ha chiamato il pronto soccorso. L’ambulanza non riesce a entrare nel parco a causa dei parcheggi selvaggi che sbarrano gli ingressi. Il dolore si fa sempre più intenso, e nel frattempo si lacerano anche i pantaloni. Arriva Euse, l’altro mio amico, colpito anche lui, ma molto meno. Un attimo dopo ecco arrivare gli altri. Per fortuna sono illesi. Anche loro inorridiscono alla vista della mia schiena, delle braccia e della faccia, ma lo fanno con le espressioni del viso, mentre a parole minimizzano. Mi dicono che le mie ferite non sembrano gravi, che 5


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poteva andare molto peggio, che comunque sta arrivando l’ambulanza e che mi cureranno subito. «Non ti preoccupare» ripetono. Ma io leggo nei loro occhi che stanno pensando il contrario di quello che mi dicono. Manca Socio. Chissà dov’è. Non ho il tempo né la forza di preoccuparmene. Finalmente arriva un’ambulanza, e anche Socio, colpito al viso. Al momento il più grave sembro io. Mi caricano sul mezzo della Croce Rossa insieme a un ragazzo maghrebino, il vero bersaglio del lancio di acido. Lui, sì, è conciato malissimo. Se a me l’acido è arrivato di striscio, a lui l’hanno rovesciato addosso. Parla a fatica. Durante il viaggio in ambulanza l’acido gli scava il viso. Guardarlo fa impressione. L’acido che ha addosso lacera la cinghia della barella. Arriviamo al CTO, reparto ustionati, dove ci curano alla svelta. Mi fanno un sacco di domande sulla sostanza che mi ha colpito. Mi chiedono quale tipo di acido sia. Visto che sto male e mi sembra ovvio che non ne ho la più pallida idea, mi spazientisco. «Cosa vuoi che ne sappia? La prossima volta che mi succede una cosa del genere urlo: “mi scusi, signore, che tipo di acido mi ha lanciato?”» Mi versano addosso altre sostanze, mi massaggiano, mi parlano, mi toccano, mi bendano. Mi caricano su una barella e mi trasportano fuori dalla stanza del pronto soccorso. Sembro una mummia. Mentre sto uscendo dalla stanza incrocio Socio e Euse, anche loro in barella. Li vedo solo di sfuggita. Mi sembra che Socio 6


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abbia qualcosa che non va. Così è: mentre io venivo portato al CTO con il maghrebino, perché giudicato più grave, loro due rimanevano al Valentino in attesa di un’altra ambulanza. Poi li hanno portati al pronto soccorso di un altro ospedale torinese, dove medici e infermieri, colti alla sprovvista, erano incerti sulle modalità di cura. Al termine di lunghe discussioni, hanno deciso di dirottare anche loro al CTO, e quindi vengono curati un’oretta dopo di me. Sessanta minuti in cui l’acido ha proseguito il suo lento ma inarrestabile lavoro. Euse, colpito alla schiena, se la cava senza troppi problemi. Socio non è così fortunato: colpito anche in faccia, arriva in reparto con brutte ustioni di terzo grado sul viso. Quando tutti e tre siamo belli ricoperti di bende, ci portano in una camera dove rimaniamo da soli. Ci fanno ingoiare una lunga serie di farmaci e mettono degli antidolorifici nelle flebo. Ora, non so se questi medicinali hanno effetti stupefacenti, ma ho passato una delle notti più incredibili della mia vita. Nonostante lo spavento, le ferite e qualche preoccupazione, ho un vicino come Euse che mi fa ridere come un matto tutta la notte. Euse potrebbe fare il comico, perché con lui ogni situazione può diventare buffa o divertente. È un gaudioso e un gaudente allo stesso tempo. Simpatico, ha la dote innata di ritrovarsi sempre nella possibilità di ridere e di far ridere, raccontando improbabili aneddoti della sua vita o inventandosi madornali scemenze. Non si lascia abbattere dalle situazioni e di rado ha paura. Vista una certa incoscienza che ci contraddistingue, e che quindi ci unisce, spesso è capitato di trovarci insieme in situazioni difficili. Lui è sveglio e atten7


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to, in un attimo ragiona e fa la mossa giusta. Quando non ragiona, agisce d’istinto e fa lo stesso la mossa giusta. Questa sua caratteristica mi affascina profondamente. E così eccoci qua, tre amici, in una stanza del pronto soccorso, a ridere delle nostre disgrazie. In realtà siamo più io e Euse a divertirci e Socio a farne le spese. Assume toni epici la vicenda del pappagallo. Socio intendeva pisciare già prima di andare al Valentino. Adesso, al CTO, cinque ore dopo, non l’ha ancora fatta. Noi lo osserviamo contorcersi e imprecare nel vano tentativo di trattenere i liquami corporei. «Mi scappa, mi scappa!» urla con voce femminea. Io scoppio in una risata prorompente mentre Euse lo imita. Un’infermiera gli porta il pappagallo. Socio chiede di girarci dall’altra parte. Lo facciamo deridendolo. Ora, di pisciate nella vita ne ho fatte e ne ho viste fare tante, ma giuro che Socio, in questa occasione, le batte tutte. Quando, più di un minuto dopo, il nostro amico ci comunica ufficialmente di aver finito, il pappagallo trabocca fino all’orlo. In un attimo mi ritrovo piegato in barella a sganasciarmi per le risate. Euse è paonazzo in viso. Più ridiamo più ci viene da ridere. Dopo pochi secondi ci dimeniamo scalciando e tenendoci la pancia. La notte passa tra qualche provocazione, molte prese in giro e risate inopportune. Il giorno dopo tutti a casa. I miei genitori, a cui avevo accennato al telefono che ero capitato in mezzo a una rissa, vedendomi tutto bendato, si spaventano. Raccontargli l’accaduto non è semplice. Più tardi dalla polizia vengo a sapere che mi 6


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sono ritrovato in mezzo a un regolamento di conti tra spacciatori nordafricani. Nel pomeriggio arriva a casa un giornalista per intervistarmi. Non so come abbia saputo dove abito ma gli dico subito che non intendo rilasciare alcuna intervista. Mi vogliono fare una fotografia ma io chiedo di non essere ripreso. Il giorno successivo sul giornale c’è una mia bella foto a mezza pagina con la maglia a brandelli. Nel testo dell’articolo sembra che io abbia dichiarato: «Non parlo con voi. Sono troppo arrabbiato». Nel frattempo, le testate locali si erano sbizzarrite nel trovare le storie più assurde dietro la vicenda dell’acido al Valentino. In Valle d’Aosta si poteva leggere che Euse aveva avuto una colluttazione con gli spacciatori per una partita di droga, e aveva avuto la peggio, mentre in Liguria hanno scritto che Socio sarebbe rimasto sfregiato a vita dopo aver acquistato del fumo dai maghrebini e aver contrattato troppo a lungo sul prezzo, provocando la reazione violenta dei pusher. Ognuno, insomma, ha raccontato la sua. Quanto a me, ho avuto da discutere con un’anziana giornalista di un quotidiano torinese a tiratura molto limitata. La signora, legata a un partito di destra, voleva sfruttare la nostra storia per contrastare l’immigrazione. Ci teneva che chiedessimo un risarcimento al Consolato del Marocco e che prendessimo pubblicamente posizione contro l’immigrazione dal Nord Africa. In quei giorni, l’episodio dell’acido al Valentino aveva fatto scalpore nel torinese. Tre studenti sfregiati da un gruppo di spacciatori stranieri mentre passeggiavano in un parco! L’opinione pubblica era impazzita. Ero anche andato a parlare 9


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con i politici cittadini al Consiglio Comunale. Nel mio piccolo, ero qualcuno. E così, la simpatica signora spingeva in una direzione e, visto che io ero quello che più spingeva dalla parte opposta, inevitabilmente ci siamo scontrati. La vecchia mi ha fatto talmente arrabbiare che, se Euse non mi si fosse parato davanti nel momento peggiore, l’avrei aggredita fisicamente, oltre che verbalmente. Purtroppo, io ero leggermente nervoso e lei una persona pronta a tutto per i suoi fini. Mi diceva che se io avevo «dei soldi da parte» e quindi non mi interessava essere risarcito, perlomeno pensassi ai miei amici, «che magari erano poveri». Fuori uno. Prova a rispondere con garbo: «Guarda che siete stati fortunati, le cose potevano andare molto peggio. Pensa che, se l’acido ti fosse andato nell’occhio, saresti rimasto cieco e non avresti fatto lo schizzinoso.» Fuori due. Mi tengo a fatica e le rispondo per le rime, mantenendo una certa signorilità. E poi, dopo un botta e risposta serrato, se ne esce dicendomi: Se non ti sei fatto niente, dovresti pensare ai tuoi amici, loro sì che stanno male». Una vampata di calore mi inonda il corpo fino alla testa. Il sangue ribolle. Mi sento un toro rinchiuso in una gabbia di vetro che aspetta solo di essere sfondata. «Non mi sono fatto niente? Non mi sono fatto niente?!» sbraito, «Brutta vecchia, ho ustioni di secondo e terzo grado in tutto il corpo e non mi sono fatto niente???». Urlo come una furia, la minaccio, la aggredisco. Lei si spaventa, indietreggia e io mi muovo verso di lei. Interviene Euse e si mette fisicamente in mezzo a noi due. Prova a tenermi e a parlarmi, mentre nel frattempo la vecchia scappa. Pen10


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so che l’avrei picchiata, sul serio. Immaginate la scena: passeggiate per il centro città e vedete un ragazzo di ventitré anni prendere a schiaffi una signora anziana, insultandola e percuotendola in mezzo alla strada. Una scena che farebbe inorridire il mostro di Firenze. E invece, cosa vi devo dire? Io l’avrei fatto, e in fondo, ancora adesso, dopo anni, penso che Euse avrebbe fatto meglio a non intervenire subito, ma solo dopo i primi ceffoni. In quel frangente, per la prima volta, ho avuto la chiara percezione che io, con i giornalisti, non avrei mai voluto avere nulla a che fare. Eppure a me nella vita piacerebbe diventare giornalista. Che volete che vi dica? La dualità dell’essere umano. Nella vita però non ho mai pensato di fare il poliziotto. Anche con loro ho avuto qualcosa da ridire. Tra una medicazione al CTO e l’altra, ogni tanto mi toccava andare a Palazzo di Giustizia per il processo, e anche in questura. Il processo non aveva niente a che fare con il mio caso, ma poco dopo la vicenda del Valentino era stato arrestato un maghrebino che aveva usato dell’acido nel corso di una colluttazione con un iracheno, e le autorità pensavano che i due casi – il nostro e questa zuffa – potessero essere collegati. In questura domande sciocche, sempre le solite, ripetute con parole diverse a distanza di pochi minuti. Volevano sapere se avevo visto chi ha lanciato l’acido, che sostanza era, e in quale recipiente era contenuta. Non ne avevo la più pallida idea. Glielo ripetevo con tenacia e con una vaga amarezza. Ero il primo a voler vedere i colpevoli subire una giusta punizione, perché mai avrei dovuto fare ostruzionismo? Ma loro non se ne rendevano conto. O forse sì. Semplicemente svolgeva11


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no con nozione di causa il proprio lavoro. La parte più bella è arrivata quando mi hanno chiesto che cosa ci facevo al Valentino alle undici di sera. Fumo hashish? Volevo comprarmi una dose? In realtà stavo solo passeggiando. Ma avevo la precisa sensazione di parlare a vuoto. Le ferite bruciavano. Per mesi sono andato al CTO a farmi medicare, inizialmente una volta al giorno, poi un giorno sì un giorno no, poi una volta ogni tre giorni, una volta alla settimana, una volta al mese. La cosa era spiacevole. Le infermiere che ci curavano avevano letto nei giornali cosa era successo, e ci parlavano del problema dell’immigrazione, dicendo che erano spaventate e temevano per i loro figli. «Dove andremo a finire?» ripetevano. La domanda me la ponevo anch’io. Volevo riuscire a darmi una risposta, e a dare una motivazione a quello che mi era successo. Dopo il 22 giugno mi capitava di andare ai Murazzi,1 o in altri posti frequentati da giovani maghrebini, e di stare male quando li vedevo in gruppo, o di spaventarmi nel sentire la loro parlata aspirata e dura. L’esigenza era di capire. Capire per stare bene, capire per superare lo choc, capire per crescere. Quale miglior modo per affrontare il problema se non andare a vivere nella tana del lupo? Superato lo sgomento iniziale, dopo tre anni mi sono deciso. Eccomi a Porta Palazzo.2 1

Splendida zona di Torino lungo il fiume Po, uno dei luoghi della “movida’ notturna torinese. 2 “Porta Palazzo” è il nome tradizionale della piazza (e del quartiere), ribattezzata Piazza della Repubblica nel 1946.

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NEL CENTRO DI TORINO NON TUTTO È COME SEMBRA Nel centro di Torino, non lontano dal Duomo e da Palazzo Reale, sorge un piccolo quartiere di nome Borgo Dora. Il suo nucleo è piazza della Repubblica, dove ha sede il mercato di “Porta Palazzo”, uno dei più grandi d’Europa. Ogni torinese può raccontare vicende notturne ambientate tra queste strade. Si tratta sempre di narrazioni avvincenti, ai confini tra realtà e fantasia. Automobilisti solitari fermi ai semafori rossi, a cui vengono tagliate le gomme: tempo di accorgersene, di scendere dall’auto e prendere il cric nel bagagliaio, che qualcuno entra in macchina rubando quel che può. Se il ladro non trova né portafoglio, né soldi, né cellulare, tanti saluti all’automobile. Si mormora di altri automobilisti circondati e derubati di ogni avere. Le televisioni parlano di bande in guerra tra loro che in qualche seminterrato organizzano le loro lotte fratricide. Ma Porta Palazzo non è solo questo: è profumo di frutta e verdura, colori vivaci, vociare straniero mescolato agli svariati dialetti italiani, contatto con popoli lontani. A Porta Palazzo vivono, si incontrano e si scontrano l’Europa, l’Africa e l’Asia. Ruben e io, per ragioni diverse, speravamo da tempo di tro13


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vare alloggio in quella zona, la cui realtà cruda e autentica ci incuriosiva e ci imprimeva una vaga sete di avventura. Ruben è un ragazzo brillante e intelligente, di poco più grande di me. Si presenta molto bene, ha mille interessi e la battuta sempre pronta. Porta avanti dei progetti di cooperazione internazionale in alcuni Paesi africani per un’associazione torinese ed è appassionato e innamorato del suo lavoro. Pensava che la vita di Porta Palazzo fosse un’occasione di comprensione e consapevolezza sociale. Quanto a me, in maniera forse un po’ incosciente e soprattutto abbandonando ogni tipo di indulgenza verso me stesso, speravo che questa potesse essere la volta buona per lasciare alle spalle un capitolo della mia vita, quello dell’acido. Dopo un mese di ricerca abbiamo trovato un appartamento che faceva per noi, proprio nella piazza del mercato di Porta Palazzo. Abbiamo deciso di viverci per un anno della nostra vita.

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ATTO PRIMO Dieci di sera, buio, freddo intenso. Ruben e io siamo in macchina diretti a Porta Palazzo, per prendere possesso della nostra nuova casa. Sta guidando lui, tra una risata e l’altra, in un clima festoso e disteso. Siamo felici. Finalmente vediamo apparire in lontananza il nostro caseggiato. Il quartiere è fatto di edifici vecchi, costruiti nella prima metà del 1800.3 I muri sono scrostati e sporchi, non vengono ristrutturati dall’alba dei tempi. Parcheggiamo la macchina in corso Regina Margherita, il viale che interseca la piazza del mercato. Un gruppetto di ragazzi di colore è in piedi alla nostra destra, portano il cappuccio delle felpe ben stretto sulla testa e sono disposti a semicerchio. Ci osservano senza parlare. Scendiamo dall’auto un po’ intimoriti e ci incamminiamo verso casa. In piazza della Repubblica vediamo un altro gruppo di ragazzi, questa volta maghrebini, tutti giovani, sui vent’anni. Qualcuno è sicuramente minorenne. In mano hanno delle bottiglie di vetro. Passiamo tra i due gruppi. Con la coda dell’occhio ci accorgiamo che i nordafricani ci stanno seguendo. In un attimo ci ritroviamo divisi e circondati. Tra una frase in arabo e una in italiano, dopo una spinta, uno sgambetto e una manata, Ruben “abbandona” il portafoglio mentre io, che avevo 3

La costruzione di piazza della Repubblica è stata completata nel 1837.

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nascosto soldi e cellulare prima di scendere dalla macchina, do l’addio a una pila da minatore comprata un mese prima a Glasgow. Entriamo nell’androne di casa. Con un cancello chiuso a proteggerci dai pericoli provenienti dall’esterno, il cervello si rimette in funzione e ricominciamo a pensare. Siamo un po’ scossi: un conto è il fascino di Porta Palazzo, altro è viverlo sulla propria pelle. È la nostra prima notte nel quartiere, sono le dieci di sera e non le tre del mattino e non siamo riusciti a percorrere trenta metri senza farci rapinare. Siamo due fessi. I maghrebini ne hanno preso atto e ci hanno fatto capire che la vita di strada è difficile. Ci lasciamo alle spalle il vecchio cancello di ferro, attraversiamo l’androne fino al cortile, apriamo il secondo portone, ancora più arrugginito del primo, e saliamo sui lerci scalini di pietra. Le scale sono cupe, manca un’illuminazione decente. Siamo un po’ turbati per l’accaduto, ma continuiamo a sorridere. Proviamo a prenderla con filosofia. «Prima sera e ci hanno già derubati… » mi dice Ruben. «Sì, ci hanno mandato il comitato di accoglienza! La Zidane non perdona!» gli rispondo. Nel gergo, la “Zidane” è il tentativo di borseggio tipico dei ragazzi maghrebini. Consiste nel presentarsi al malcapitato con il sorriso sulla bocca e, facendo finta di scherzare, ostacolarne il cammino facendo mosse simili a quelle con cui il calciatore franco-algerino Zinedine Zidane scartava gli avversari: in pochi attimi, mentre lo sfortunato è tutto preso nel tentativo di non cadere per terra, il portafoglio che ha in tasca passa di proprietà. Il ladruncolo poi, compiuto il fur16


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to, smette di sorridere e si dà alla fuga.4 L’avevamo visto fare tante volte, ma questa notte la Zidane è toccata a noi. «Se la situazione è questa, vivere qui non sarà per niente facile!» dice Ruben. Ci guardiamo negli occhi e ci intendiamo. Vogliamo reagire, tornare in strada e ritrovare il portafoglio, se non altro per non dover rifare tutti i documenti. Abbiamo imparato la lezione e, questa volta, nascondiamo i nostri averi in casa. Ci tastiamo le tasche per essere certi di non avere nulla addosso: è troppo rischioso. «La gente generalmente prima di uscire di casa controlla di aver preso tutto! Noi ci assicuriamo di non avere niente... siamo ben messi!» dico a Ruben. Ridiamo di gusto. Per la strada la situazione è sempre degna di nota. Gruppi di maghrebini ci vogliono vendere hashish e cocaina. Rifiutiamo con gentilezza. Gli raccontiamo la storia del portafoglio e chiediamo un aiuto. «Sono stati i romeni» ci risponde un ragazzo marocchino, spacciatore. Non può aiutarci. Anche lui deve fare attenzione a passare la notte senza subire rapine. Càpita. E poi non gli piacciono i romeni. Scambiamo ancora quattro chiacchiere. Ruben gli racconta che è stato molte volte in Marocco, a Casablanca e a Khouribga,5 e gli parla in francese. Il ragazzo maroc4

Oltre che a Porta Palazzo, la Zidane (detta anche “mossa marocchina”) avviene spesso anche ai Murazzi e in altri luoghi di ritrovo dei ragazzi nordafricani a Torino. 5 Città del Marocco situata in un’area rurale ricca di risorse minerarie.

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chino ci dice che è nato lì. La conversazione presto finisce. Ha da lavorare. Nel frattempo conosciamo anche il suo amico che però non chiacchiera con noi. Anche lui non sa chi sia stato. Gli promettiamo dei soldi, se ci fa riavere il portafoglio; ma senza successo. Facciamo più volte il giro dell’isolato, e ci spingiamo oltre. Sembra che ogni strada sia controllata da un diverso gruppo etnico. Casa nostra è in piena zona nordafricana, corso Regina è territorio nigeriano-senegalese. La sensazione è che tra la piazza e il viale sia stato costruito un muro invisibile. C’è molta tensione a girare di notte nel quartiere. In giro non vediamo facce amiche, ma solo potenziali assalitori. La banda che ci ha rapinati sarà ormai fuori zona. Di poliziotti neanche l’ombra. Nella via dietro casa, noto una giacca blu per terra. È di marca, sembra costosa, mi chiedo perché sia stata abbandonata. La raccolgo. Vedo delle bruciature sulla giacca. Qualcuno, quella sera, prima di noi, ha subito un’aggressione con qualche sostanza acida. La cosa mi fa accapponare la pelle. «Torniamo a casa» dico. «Va bene Fiorenzo, andiamo» mi risponde Ruben, allarmato dalla vista della giacca, ma senza rendersi conto di quello che provo io. Il mio amico è ancora all’oscuro di ciò che mi è successo qualche anno fa. Non è una cosa che mi fa piacere condividere, nemmeno con una persona a cui voglio bene.

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ATTO SECONDO L’adrenalina scorre ancora, a fiumi. La rapina subita ci imprime una forte scossa e decidiamo di dormire nel nuovo alloggio, nonostante che i nostri progetti fossero diversi. Non abbiamo lenzuola né coperte. Inoltre, non c’è riscaldamento: la caldaia è rotta. Dobbiamo prendere qualcosa per coprirci, altrimenti moriremo di freddo. Ci svuotiamo di nuovo le tasche, portiamo con noi solo la patente e ci dirigiamo verso casa dei miei genitori dove prendiamo in prestito qualche trapunta e un sacco a pelo. I miei sono a letto, ma sono entrambi svegli. Gli dico che sta andando tutto bene. Forse capiscono che non è così. Riprendiamo la macchina di Ruben, ma guido io. La sua patente è nel portafoglio ora in mano straniera. È notte, le strade torinesi sono stranamente scorrevoli. Parcheggiamo dietro casa. Non capiamo se la zona è a pagamento o no: se lo fosse, dalle otto di domani mattina saremmo passibili di multa. Restiamo vari minuti a osservare i cartelli stradali, ma dall’interno dell’autovettura, perché nessuno dei due ha più voglia di scendere. Ruben attira la mia attenzione su un ragazzo grande e grosso, rasato a zero, con una giacca di pelle nera, fermo in mezzo alla strada. Sembra italiano, non si toglie mai le mani dalle tasche e ci fissa intensamente. «Sarà un poliziotto in borghese» mi dice Ruben. 19


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Non è zona blu.6 Parcheggiamo. Il ragazzo entra in un negozio, aperto, alle due del mattino. La sua figura ci incuriosisce. «Abiti qui? Noi ci siamo appena trasferiti», gli butto lì una frase, per vedere come reagisce. «Sì.» Non sembra voler parlare troppo. Capisco che la cosa migliore è spiegare cosa ci è successo. Essere una vittima può sempre tornare utile. Gli raccontiamo l’aggressione subita due ore prima. Lui risponde, sempre con le mani in tasca, che quello è un quartieraccio. «Ragazzi, questo è il Bronx, per vivere qui dovete organizzarvi.» Mentre dice questa frase, si toglie finalmente le mani di tasca. Nascondeva un coltello a serramanico. «Non sapevo chi eravate, e io ero pronto a tutto» afferma a muso duro, mostrandosi orgoglioso e compiaciuto. Nei due minuti successivi ci fa vedere, nascosti dietro la porta d’ingresso, una spranga di ferro e un machete lungo almeno mezzo metro. Il negozio è la sua casa, ci dorme tutte le notti. Ci dice che siamo stati fortunati: generalmente per le rapine partono subito con le bottigliate in testa. In effetti, a Porta Palazzo di notte non è difficile trovare per terra oggetti che possono essere utilizzati come armi, soprattutto bottiglie di vetro. E, come capiremo più avanti, sicuramente non è frutto di casualità. Il ragazzo ci dice che lui, che non è «un pivello», di recente è stato aggredito con un altro suo 6

Area di parcheggio a pagamento, delimitata da strisce blu.

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amico quarantenne, «che non è un pivello neanche lui», davanti al distributore automatico di sigarette, cioè sotto casa nostra. Il suo discorso non è ben chiaro, ma ci fa capire che si sono difesi con le unghie e coi denti. La conversazione procede serenamente. Ogni tanto scappa qualche risata. Soprattutto quando il ragazzo capisce che lavoriamo per un’Associazione che fa dell’accoglienza e dell’integrazione i suoi cavalli di battaglia. «Chi è origine dei suoi mali... » dice, scuotendo la testa. Ci consiglia anche, per le prossime elezioni, di «votare dall’altra parte». «E spostate la macchina da lì. Non mettetela mai in questo angolo. Spesso di notte qui si prendono a bottigliate e sassate. Ogni tanto si tirano i tombini. Chi ne fa le spese scappa da questa via e le bottiglie vanno a finire sulle macchine.» Ci mostra dove parcheggiare, noi spostiamo la macchina, lo ringraziamo e ci congediamo. Ci dice che è di estrema destra. Ma questo l’avevamo già capito. Torniamo a casa, con le coperte in mano, guardandoci attorno con apprensione. Con noi sta rientrando anche un signore non più giovanissimo. Ci parliamo. Sono le tre del mattino, noi siamo due ragazzi impauriti, mentre questo tizio se ne torna a casa tranquillissimo e da solo in piena notte. Ci guardiamo negli occhi, allibiti: i conti non tornano. Dopo le reciproche presentazioni e la sua frase di benvenuto, il vecchio ci dice che in quel condominio «sono tutti dei poveri cristi». Salendo le scale, indica tutte le porte di ingresso delle abitazioni, dicendo: «Vedete, lui è un povero cristo, lei è una povera crista, loro sono dei poveri cristi. Tutta gente che lavora». 21


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Gli rispondiamo che anche noi siamo dei poveri cristi e gli diamo la buona notte. Rientriamo a casa. Finalmente. Ci hanno derubati, abbiamo visto le svariate zone di competenza della delinquenza straniera, abbiamo conosciuto il “Fascio”, il “Povero Cristo”, i due spacciatori marocchini. Abbiamo visto tanta gente veramente strana. È un bell’inizio. Prepariamo i due letti, pisciamo e ci sdraiamo. Guardo l’ora. «Ruben, cazzo, sono le tre e mezzo! Abbiamo vissuto Porta Palazzo quattro ore e mi sembrano passati quattro giorni!» gli dico. «Abbiamo trovato il posto giusto, Fiorenzo!» mi risponde Ruben. Ci addormentiamo.

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IN CUI SI INTRECCIA LA VITA DI PORTA PALAZZO Ogni mattina Porta Palazzo è un formicaio. Una massa vociante e colorata proveniente da tutte le parti del mondo e anche tanti, tanti italiani che di notte non si fanno vedere. Porta Palazzo è un mercato gigantesco che ogni giorno produce più di quindici tonnellate di rifiuti. Un migliaio di banchi vendono prodotti ortofrutticoli, alimentari e abbigliamento. Ogni sabato, tra le bancarelle coperte da tendoni multicolori, si aggirano centomila persone. Cento anni fa, Edmondo De Amicis così descriveva il mercato, che lui chiamava “il ventre di Torino”: «Sotto le vaste tettoie, fra lunghe file di baracche di mercanti di stoffe, di botteghini di chincaglierie e d’esposizioni di terraglia all’aria aperta, in mezzo a monti di frutta, legumi e pollami, a mucchi di ceste e sacchi, tra il viavai delle carrette, tra il fumo delle castagne arrosto e delle pere cotte, gira e s’agita confusamente una folla fitta di contadini, di servitori, di sguatteri, di serve imbacuccate negli scialli, di signore massaie, di ordinanze colla cesta al braccio, di facchini carichi, di donne del popolo e di monelli intirizziti, che fanno nera la piazza. Intorno ai banchi innumerevoli è un alternarsi affollato e continuo di offerte e di rifiuti, di discussioni a frasi secche 23


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e tronche, di voci di maraviglia e di sdegno, d’apostrofi e di sacrati, che si confondono tutti insieme in un mormorìo sordo e diffuso, come d’una moltitudine malcontenta».7 Un secolo dopo, il panorama è lo stesso. Se passeggi per il mercato senza la consueta fretta puoi incontrare tutto il bene e il male di una città che per decenni ha vissuto a braccetto con l’industria automobilistica, per poi trovarsi catapultata nell’era post-industriale. Miseria, gioia, indifferenza, dignità, disperazione e voglia di vivere qui si confondono tra loro e si uniscono ai suoni, agli odori e ai colori della folla. Se ti fermi a osservare ne rimani stordito. Vedi i cinesi che camminano velocemente e a testa bassa, le donne musulmane con lo chador dietro ai loro uomini svestiti e scarmigliati, il vagabondo che chiede l’elemosina, la famiglia che pazientemente e meticolosamente studia i prezzi di tutti i banchi per spendere il meno possibile. C’è chi fruga nelle cassette vuote gettate a terra, alla ricerca di un po’ di verdura o di frutta che qualche commerciante ha appena buttato. C’è il ragazzo che ha bisogno di soldi e chiede qualche spicciolo che già sai dove andrà a finire, ma ci sono anche tante persone comuni che qui vengono a comprare, attirate dall’immensa possibilità di scelta delle mercanzie. Il mercato della carne e quello del pesce, entrambi al coperto, fanno impressione. Tutti gli esercenti urlano per attirare la clientela, le voci rimbombano da una parte all’altra della piazza. 7

De Amicis E., Speranze e glorie. Le tre capitali, Milano, Fratelli Treves, 1911.

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Qui Francesco Cirio, originario di Nizza Monferrato,8 aveva una bancarella. Una sera, in un piccolo appartamento buio di via Borgo Dora,9 dopo innumerevoli tentativi, riuscì a conservare ortaggi e frutta in barattoli di latta. Così nacque l’industria. Come ai tempi di De Amicis e di Cirio, mezza città viene qui a fare la spesa. Anche sotto casa nostra si fa la spesa, ma di hashish e eroina. Lo spaccio è incessante, ventiquattro ore su ventiquattro, anche alle otto e trenta del mattino quando Ruben e io usciamo per andare a lavorare. Anche alle diciotto e trenta, quando torniamo dal lavoro, e parcheggiamo la macchina davanti al negozio del Fascio, esattamente dove ci aveva consigliato lui. Il mercato di Porta Palazzo ha sempre attirato la delinquenza. Nel passato era quella di piccoli truffatori e giocatori d’azzardo. Leggende mormorano che, agli inizi delNovecento, nella zona esistessero delle vere e proprie “scuole di furto” per apprendisti borseggiatori e ladruncoli: una stanza, alcuni insegnanti, dei campanelli sonori e un manichino con il portafoglio in tasca. Gli allievi dovevano sfilare il portafoglio senza far tintinnare i campanellini. Chi riusciva andava a fare il borseggiatore, chi non imparava faceva il “palo”. Le cose non sono cambiate nel dopoguerra, e nemmeno nei decenni successivi. Il borgo ha accolto tantissimi immigrati 8

Nizza Monferrato è una cittadina dell’astigiano a pochi chilometri da Torino. A Porta Palazzo, sulla facciata del numero 24 di piazza della Repubblica, ci sono ora una lapide e un bassorilievo in memoria di Cirio. 9 Strada di Porta Palazzo. Inizia dietro casa mia e finisce in piazza Borgo Dora, la piazza limitrofa al fiume omonimo.

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provenienti dal Sud Italia, che hanno vissuto e cambiato il mercato, creando nuovi commerci, leciti e illeciti. E poi gli anni 90 e l’inizio del nuovo millennio, periodo in cui Porta Palazzo è diventata un punto di ritrovo per immigrati africani e dell’Europa dell’est, luogo di lavoro e di impegno ma anche di spaccio di droga e rapine notturne. I torinesi sanno che non è il caso di recarsi a Porta Palazzo di notte, perlomeno nella parte “cattiva”, quella dalla parte di corso Giulio Cesare,10 dove si trova casa mia. Corso Regina Margherita, infatti, una grande arteria di scorrimento per le automobili, funge da spartiacque tra due mondi: la Torino “bene”, fatta di studenti, di giovani alla moda e di figli di papà, con locali traboccanti di persone, di vino e di chiacchiere, e la Torino immigrata, tanta brava gente, ma anche qualche delinquente che fa della zona un porto franco.

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Lungo viale che porta dal centro di Torino alla tangenziale Nord. Il corso ha inizio da piazza della Repubblica.

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I MALEDUCATI OGNI TANTO SIAMO NOI La casa è fredda e sporca. Ruben e io diamo una veloce ma efficace lavata al pavimento, nel tentativo di liberarci di scarafaggi e altri insetti. La casa, finalmente, assume un odore dignitoso. Ogni tanto ci fermiamo a osservare dalla finestra, o dal terrazzino, l’incessante lavoro dei pusher. Il nostro balcone dà sulla via principale del Balon,11 il mercato delle pulci che ha luogo ogni sabato mattina. In questa strada gli spacciatori sono sempre presenti. Molti sono giovanissimi, qualcuno avrà dodici o tredici anni, e spesso urlano tra di loro. All’improvviso qualcuno bussa alla porta e grida in arabo. Sbianco. Chi può essere? Così arrabbiato... che parla una lingua strana? «Tranquillo, non stanno bussando a noi, Fiorenzo!» dice il mio amico. Ruben mantiene la calma, è nell’altra stanza e sa benissimo che sarò io a dovermela cavare. Bussano di nuovo e parlano con tono ancor più minaccioso. Io non oso aprire la porta ma guardo dallo spioncino. Mi trovo di fronte un ragazzo maghrebino, non tanto alto e piut11

‘Pallone’, in dialetto piemontese: il nome deriva dall’antica presenza, tra quelle vie, di uno sferisterio.

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tosto tarchiato. È più stupito di me. Capisce che sono italiano, cambia modi e tono. «Scusami, gentilmente, puoi spostare il materasso perché non riesco ad andare a casa, ostruisce il passaggio.» Mi rincuoro per il falso allarme, spalanco la porta e mi scuso con lui per l’inconveniente: Stiamo pulendo la casa e l’ho appoggiato lì fuori». È il momento delle presentazioni: si chiama Mohammed, viene dal Marocco e si è trasferito a Torino qualche anno fa. Sembra un brav’uomo. Rido con Ruben per come si è rivolto a noi pensando che fossimo stranieri e come ha cambiato tono quando ha capito che eravamo italiani. «Forse è una questione culturale» propongo, appena rimaniamo da soli: «Tra di loro i maghrebini abitualmente si parlano così. A vederli in giro sembrano sempre incazzati e pronti a picchiarsi, mentre in realtà si abbracciano e ridono». Ci ragiono qualche secondo, poi proseguo: «O forse, semplicemente, Mohammed pensava di avere a che fare con un maleducato delle sue parti e invece quando s’è reso conto che si trattava di maleducati italiani ha usato le buone maniere». «Lo capiremo presto» risponde Ruben. Sono d’accordo con lui. Finiamo di pulire per terra e decidiamo di andare a mangiare dai romeni. Il loro bar è subito dopo la zona dei nigeriani. Il locale è pieno di romeni, senegalesi, nigeriani e maghrebini. Mancano solo i cinesi, ma non ho mai visto un gruppo di cinesi chiacchierare in un locale, a meno che non sia di loro proprietà. Il bar è accogliente, semplice, all’apparenza tranquillo, e pure 28


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economico. C’è anche un cameriere italiano, nato e cresciuto a Porta Palazzo, che ormai parla arabo (o meglio, il dialetto della zona di Khouribga) quasi come un madrelingua. Ci dice di averlo imparato in strada. L’altro cameriere è maghrebino. La peculiarità del locale è che per accedervi bisogna superare due porte: la prima, quella che dà direttamente sull’esterno, porta al bancone dove si può bere qualcosa; ma per entrare e sedersi si deve oltrepassare un’altra porta che i proprietari aprono dall’interno. Ogni tanto la aprono con riluttanza, ogni tanto con diffidenza, ogni tanto non la aprono. Noi non facciamo in tempo a oltrepassare il primo portone che si apre anche il secondo. Prendiamo pizza e birra, spendendo pochissimo. Il menu ha ancora i prezzi in lire. Torniamo a casa con l’idea di andare a letto presto. La situazione è più tranquilla della sera precedente. Per quanto questo possa voler dire a Porta Palazzo. Ricevo una telefonata: è Euse, proprio lui, il mio compagno di sventure, che mi dice che passerà a trovarci.

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È IL NUMERO A FARE LA FORZA: L’UNIONE VIENE DOPO «Benissimo Euse, passa pure, ma ti dobbiamo venire a prendere alla fermata del bus.» Non me la sento di farlo arrivare da solo, dopo ieri notte. «Facciamo una cosa: fammi uno squillo sul telefonino cinque minuti prima di arrivare e vengo a prenderti» gli dico. Ecco lo squillo. Ruben viene con me: muoversi in gruppo è una buona assicurazione antiscippo. È il numero a fare la forza da queste parti, l’unione viene dopo. Scendiamo di casa. I maghrebini sono al lavoro. Come al solito. Vediamo una figura sospetta avvicinarsi, ha cappello di lana, guanti di pelle, sciarpa, giacca e pantaloni tutti neri, viso coperto. Un oggetto lungo un metro e mezzo in mano. Sembra una spranga. La rotea nel buio e la muove battendosela sul palmo della mano, come chi non vede l’ora di farne uso. Ci avviciniamo, non senza un certo timore. Una sorpresa ci attende: è Euse. «Cazzo Euse, se sapevo non venivo mica giù a prenderti. Vestito così chi ha il coraggio di toccarti?» gli dico, non senza un’ombra di orgoglio vedendo come si è organizzato per venire a trovarmi. La spranga di un metro e mezzo è un tubo di cartone che con30


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tiene una cartina geografica del mondo, regalo per la nostra nuova casa. Ce la mostra con impazienza. Proseguendo verso il portone, sarà per il fatto che siamo in tre, sarà per la “spranga” di Euse, sarà perché in quel momento i maghrebini sono solo in due e molto giovani, fatto sta che involontariamente sventiamo un borseggio ai danni di un signore sui sessant’anni. I due stranieri avevano già il suo cellulare in mano, ma ci vedono arrivare con passo deciso e glielo restituiscono dicendo: «Tieni amico, stavamo scherzando!». Portata a termine la nostra buona azione quotidiana, saliamo e beviamo brindando alla nostra nuova a casa, a Porta Palazzo, al futuro. Si fa tardi e nessuno ha più voglia di scendere in strada, Euse dorme da noi. Gli diamo due coperte dei romeni che abitavano quella casa prima di noi. Gentilmente ce le hanno lasciate. Sono un po’ sporche. In casa gira qualche scarafaggio di troppo, ma per Euse non rappresenta un problema. Non riesco a prendere sonno. Fumo una sigaretta sul balcone, lo faccio volentieri anche per dare un’occhiata in strada. Un signore sta passando in mezzo a un gruppetto di quattro giovani maghrebini. Ha un passo pronto e sicuro, tipico di chi abita qui e a questa situazione ci ha già fatto il callo. Gli chiedono se vuole hashish, ma l’uomo non gradisce la domanda. Si arrabbia. «Cosa mi hai chiesto? Ripetimelo un po’, dai!» I ragazzi rimangono in silenzio ma, appena il signore gli dà le spalle e riprende a camminare, gli urlano che è un razzista e mi sembrano pronti ad attaccarlo. Temo per la sua inco31


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lumità, sono pronto a urlare anch’io. Ed ecco l’imprevedibile. L’uomo non solo non è intimorito, ma esibisce una grinta invidiabile. Si gira verso i ragazzi, corre verso di loro e prende a sbraitare. «Sì, sono razzista! E allora? Hai qualche problema?» Continua a gridare questa frase, e gliela urla guardandoli negli occhi e avvicinandosi a pochi centimetri dal viso di ognuno dei ragazzi. “Sta firmando la sua condanna a morte…”, penso sconsolato. In realtà non solo non viene attaccato, ma non riceve nessuna risposta e mi sembra quasi che i maghrebini lo rispettino. Lui si incammina verso casa a testa alta, orgoglioso di sé e con il sorriso sulla bocca. Io invece ho capito che non ci capisco più niente.

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EUSE E RUBEN DIVENTANO AMICI, E IO NE SONO FELICE Torno a casa, da solo. Attimi di panico. La portafinestra che dà sul balcone è spalancata. Entro come una furia alla ricerca dell’intruso, ma tutto è tale e quale a come l’abbiamo lasciato. Non è entrato nessuno, siamo noi che abbiamo dimenticato la porta aperta. Tiro un sospiro di sollievo e mi metto a pulire mobili e pavimento con una dedizione che non avevo mai conosciuto. Poi leggo, tanto. Sono da solo. A casa. Mia. È una sensazione nuova, la assaporo con piacevole calma. Mi sento felice. Purtroppo la caldaia è ancora fuori uso. Maresca, il proprietario, uomo robusto, emigrato prima in Germania e poi a Torino assieme a sua moglie Teresa, e che ha vissuto sulla propria pelle la dura legge dell’emigrazione ma a sua volta odia gli immigrati di oggi, è tornato nel meridione a causa della morte di un parente. Verrà la prossima settimana a riparare la caldaia. Al momento per me la temperatura non è delle migliori. “Faccia pure con calma, tanto qui fa un caldo caraibico!” penso, condendo la frase con qualche imprecazione. Mi infilo nel sacco a pelo e continuo a leggere, nel tepore, finalmente. Leggo Torino è casa mia di Culicchia12 e mi godo 12

G. Culicchia, Torino è casa mia, Bari, Laterza, 2005.

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le frasi con cui descrive il nostro lato di piazza della Repubblica, «proprio a fianco all’angolo con corso Regina Margherita, quello dove le uniche facce bianche che vedi appartengono a chi è in cerca della dose quotidiana». Leggo e sorrido. Qui c’è casa mia. Rimango sotto le coperte finché non arrivano Ruben e Euse. Li vado a prendere al portone d’ingresso perché il citofono, come quasi tutto da queste parti, è rotto. Sulle scale incontro un ragazzo dell’Europa dell’est, probabilmente albanese, che sta andando al quarto piano. Mi presento, gli spiego che sono un nuovo inquilino. Lui mi guarda a bocca aperta. Non gliene frega niente. Provo a scambiare quattro chiacchiere lo stesso, ma questa intenzione non sembra reciproca. Lo saluto dandogli la mano. L’albanese me la stringe appena. Ruben e Euse chiacchierano, con mio gran piacere. Si conoscono da poco e considero entrambi dei buoni amici: vedere che vanno d’accordo mi rende felice, anche perché tra loro sono molto diversi. Ruben unisce follia e razionalità mentre Euse agisce d’impulso, vive di sensazioni; Ruben fa mille attività contemporaneamente mentre Euse è ozioso e prende la vita con tranquillità, anche se è sempre pronto a mettersi in moto; Ruben è un disilluso, Euse un sognatore; Ruben è un prolisso scrittore e vive di geopolitica internazionale mentre Euse è attento ai moti celesti e al linguaggio della natura; Ruben vive di piccole e grandi realizzazioni personali, Euse di piccoli e grandi emozioni collettive.

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ENTRA IN GIOCO UN ALTRO ATTORE: LA POLIZIA Andiamo a mangiare al bar dei romeni. Sotto casa non c’è nessuno, i lampeggianti blu della polizia hanno fatto scomparire tutti i pusher. Non ci sono nemmeno i ragazzi che stazionano in attesa di qualcuno a cui sottrarre il portafoglio con la consueta rapidità e perizia. I poliziotti sono in forze: due camionette e due furgoni. Non scendono neppure dai mezzi, se non per perquisire i pochi passanti. Veniamo guardati con sospetto ma passiamo senza problemi lo sbarramento. In corso Regina Margherita questa sera non ci sono neanche i nigeriani. Il bar è tranquillo. Una stanza al piano superiore attira la nostra attenzione, purtroppo è privata e non ci fanno andare. Continuano però a circolare persone che salgono e scendono da una scala a chiocciola interna al locale. Ci chiediamo quali traffici si stiano svolgendo tre metri sopra le nostre teste. Probabilmente stanno solo chiacchierando tra amici. La cosa singolare è che chiunque passa ci dice:«Ciao ragazzi, buon appetito». E la cosa ancora più singolare è che ci sono altre persone nel locale, ma questa frase la dicono solo a noi. «Gli staremo simpatici» ci diciamo, sorridendoci. 35


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Esco con Euse per fumare una sigaretta. I poliziotti transitano avanti e indietro con i furgoni, fanno il giro dell’isolato a passo d’uomo. Con i finestrini abbassati e il manganello in mano fuori della portiera, guardano in giro con aria minacciosa. Ogni tanto si fermano e spaventano qualche immigrato. Talvolta passando sbattono all’unisono i manganelli contro la portiera, creando un discreto trambusto che serve a farli odiare ancora di più. Mi unisco nel sentimento ai giovani extracomunitari. A un tratto un uomo viene verso di noi. È basso, nordafricano, sui cinquantacinque anni, i capelli lunghi a nascondere le ampie stempiature e un paio di occhiali da vista troppo grossi per il suo viso smunto. Ha la dentatura tipica dei marocchini di Khouribga, che Ruben mi ha insegnato a riconoscere. Gli abitanti di quelle zone hanno tutti i denti marroni a causa del fosfato, di cui quelle terre sono molto ricche. La maggioranza dei migranti marocchini di Torino proviene proprio dalla provincia rurale di Khouribga, ricchissima di risorse naturali, i cui proventi però non vengono ridistribuiti tra la popolazione. Ogni giorno da quella regione partono treni merci carichi di fosfati e diretti in Francia. I fosfati sono utilizzati nei fertilizzanti, in alcune medicine, e anche negli armamenti. Tre settori economici in continua espansione commerciale. Potenzialmente, quindi, il territorio di Khouribga dovrebbe essere ricco e sviluppato, mentre in realtà è poverissimo, le infrastrutture inesistenti, e gli abitanti scappano. A lucrare su questa risorsa, oltre all’intera famiglia reale del Marocco, sono i colonizzatori europei. «Scusate, siete italiani?» ci chiede. «Sì» risponde Euse. 36


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«E avete la patente?» «Sì». Al che impiega dieci minuti buoni a spiegare come un suo amico abbia avuto un incidente con la macchina e poi non si sia fermato per fare la constatazione amichevole. Dice che lui aveva ragione ma non poteva fermarsi perché è clandestino. Teme di avere dei problemi con la polizia. Gli rispondiamo di non aver paura, che non gli capiterà niente. Nel frattempo dei ragazzi maghrebini passeggiano avanti e indietro e, ogni volta che si avvicinano al vecchio, lo deridono con una ironia tagliente che sconfina nella cattiveria. Anche noi ridiamo di gusto, soprattutto per le reazioni sconsiderate dell’uomo, che si arrabbia e li insulta in arabo, salvo poi girarsi verso di me e dire «scusatemi, sono dei pezzi di merda», rigirarsi, riprendere a urlare in arabo, rivolgersi a Euse e dirgli «chiedo scusa», e così via, fino al nostro rientro nel locale. All’interno vediamo un anziano meridionale che manda a cagare un nigeriano. Il nero lo guarda con disinteresse: la cosa sembra non sfiorarlo. La scena è spassosa. Prima di lasciare il bar ci offrono dei limoncelli che accettiamo con piacere. La polizia è ancora in giro. Vogliamo andare al bar dei marocchini ma, incredibilmente, non c’è nessuno neanche lì. Il locale, una via di mezzo tra una kebabberia da asporto e un bar malandato, è un covo della delinquenza di strada maghrebina. Non per precisa volontà dei proprietari nordafricani, ma solo per la sua ubicazione infelice, nel centro dell’isolato più pericoloso di Porta Palazzo. Il bar, nel gelo invernale come nell’opprimente 37


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calore estivo, tiene sempre le porte spalancate. Ad essere sincero, non sono neanche convinto che esistano delle porte. Quando, la notte, decidono di chiudere, semplicemente, abbassano la serranda. L’interno è misero e cadente. Muri scrostati, pareti spoglie senza un quadro, qualche sedia e pochissimi tavoli. Generalmente mi piacciono i locali un po’ vissuti, ma questo bar non esercita alcuna attrattiva. Non mi pare di avere mai visto un italiano entrarci e acquistare qualcosa, ad esclusione del sabato, giorno in cui qualche temerario, tra le migliaia di persone che vengono al Balon, entra circospetto per ordinare un kebab. L’idea di entrare lì dentro, per di più nel buio della notte, è tanto pericolosa quanto affascinante per tre ragazzi che vogliono capire cosa può essere la vita. Ma il problema non si presenta perché il locale è chiuso. La polizia ha seminato il terrore. «Poco male, ci andremo un’altra volta» ci diciamo. Non ci andremo mai. Per la prima volta a quest’ora si vedono gruppetti di giovani italiani. Il nostro ospite si ferma a dormire e “corre” tutta la notte per espletare bisogni corporali, imprecando contro il bar dei romeni: crede che gli abbiano messo un purgante. Secondo lui è quella la ragione per cui chi passava ci sorrideva e ci augurava buon appetito. Alle dieci del mattino successivo io e Euse scendiamo di casa, e constatiamo che la zona è di nuovo in mano ai maghrebini. Euse ha uno zaino sulle spalle. Provano ad aprirglielo. Me ne accorgo. Facciamo i duri, gli diciamo che abitiamo lì, ma non riusciamo a impressionarli. 38


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CONOSCO IL MIO VICINO DI CASA Torno a casa. I parcheggi davanti al Fascio sono tutti occupati, lascio la macchina di fronte al bar dei romeni. È domenica, l’unico giorno di inattività del mercato. Piazza della Repubblica mi accoglie con un immenso meltin’ pot di popoli. Gruppi di uomini, all’apparenza dall’animo disteso, crocchiano sulla strada, sono tantissimi, provenienti da tutte le regioni che maggiormente popolano la Torino immigrata: marocchini, romeni, algerini, moldavi, nigeriani, tunisini, senegalesi. C’è anche qualche albanese, anche se loro non frequentano molto Porta Palazzo. Ogni tanto passano i cinesi, anch’essi a gruppetti. Sembrano di gran lunga le facce meno inquietanti, anche se la loro mafia è forse la peggiore. Per la strada, nei cinquanta metri di piazza della Repubblica che dividono (ma che in questo caso uniscono) corso Regina e corso Giulio Cesare, ci sono centinaia di persone, sui marciapiedi come in mezzo alla strada. Le auto transitano a passo d’uomo, infilandosi a fatica tra i capannelli. Molti automobilisti di passaggio, intimoriti dalla presenza di tutti quegli “stranieri”, chiudono la sicura delle portiere. Non ce n’è bisogno: nessuno si cura di loro, il clima è festoso. Sono contento. Qua e là, le solite frasi: 39


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«Tutto a posto bello? Cocaina buona. Hashish. Vieni qua bello!». I pusher mi pongono queste domande in maniera meno sfacciata del solito, con un tono di voce più basso. Forse il fatto di avere a fianco centinaia di connazionali che lavorano onestamente e che a Porta Palazzo si ritrovano solo per scambiare quattro chiacchiere tra amici li inibisce. Rispondo che sono già a posto. Il lavoro in casa è piuttosto faticoso, le camere sono ancora sporche, soprattutto la cucina. Accendo la radio, mi giro una sigaretta. Ormai compro solo tabacco e cartine, le sigarette non me le posso più permettere: devo pagare l’affitto. “Tanto meglio, se me le devo rollare ne fumerò di meno” mi dico. Un pensiero sensato ma valido solo per le prime settimane. Attacco sul frigorifero alcune immagini della curva Maratona13 a copertura di un adesivo della cocacola messo lì da qualcuno prima di noi (forse i precedenti inquilini romeni?). Preso dalla smania di personalizzare l’abitazione, di renderla più “casa”, appendo sui muri un sacco di sciocchezze. Mi guardo in giro. Adesso, finalmente, è casa mia. Verso le due e mezzo smetto di pulire, ho fame, vado a mangiare dai romeni. Il bar è pieno e tutt’e due le porte sono aperte, spalancate. Le chiudono solo di notte, evidentemente. All’interno, stranamente, a differenza delle sere precedenti, ci sono 13

Settore dello stadio dove si trovano i tifosi più “caldi” della squadra di calcio del Torino.

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solo romeni, giovani, adulti, famiglie. Bevono alcolici, tutti. Io prendo cocacola e kebab. Mi guardano con un po’ di sospetto. Cosa ci faccio lì dentro? Sono italiano, e sono da solo. Si stanno chiedendo chi sono. Mi rendo conto di dare particolarmente nell’occhio: sono curioso e li fisso tutti, uno per uno. Anch’io mi chiedo chi siano e che strada abbiano percorso per arrivare a bere la loro birra una domenica pomeriggio a Porta Palazzo. Arrivano kebab e cocacola, devo pagare subito, i proprietari non si fidano. Mi giro un’altra sigaretta nel locale. Ho gli occhi addosso. Con calma, esco e fumo. All’esterno i maghrebini mi chiedono di nuovo se voglio cocaina. Li ringrazio ma non ne ho bisogno. Incontro un altro vicino di casa, un uomo alto e magro, con gli occhiali. Zoppica leggermente e ha un forte accento meridionale. Scopro che abita proprio di fianco a me, è quello che sulla porta d’ingresso attacca adesivi raffiguranti la crocifissione di Gesù. Mi dice di chiamarsi Antonio, che ha cinquantacinque anni, quindi è «giovane», e che è sposato con una ragazza romena. Mi fa vedere anche una foto, che custodisce gelosamente nel portafoglio. «Ti piace mia moglie?» mi chiede. In realtà no, però gli dico che è una bella donna. Lui sembra soddisfatto della mia opinione. «C’è qualcuno a casa mia?» domanda Antonio. “E io che cazzo vuoi che ne sappia?” vorrei rispondergli. Invece gli sorrido e gli dico che non ne ho la più pallida idea. Gli chiedo come mai mi fa questa domanda. «Sai, lei mi fa girare le palle» dice Antonio, piuttosto arrab41


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biato, «è sempre con le sue amiche e non viene mai a casa. Ma ora basta, non si va più avanti così». Non capisco se sta scherzando o parla sul serio. Me lo ripete più volte, sempre lo stesso concetto, senza preoccuparsi di cambiare qualche parola nella frase. Poi mi assicura, tra maledizioni, vituperi e parolacce, che il palazzo è tranquillo, tutta gente che lavora. È già la seconda persona che mi fa questo discorso. Mi dice anche che se ho bisogno di qualcosa posso tranquillamente chiedere aiuto a lui. «Grazie mille. Sicuramente. Tra l’altro, non abito da solo, vivo con il mio collega, presto lo conoscerà» gli dico. «Ah! Tu e il tuo collega vivete insieme. Sarete mica froci?» Sorrido di nuovo, questa volta con visibile coinvolgimento, Antonio mi ha fatto ridere. Comincio a guardarlo con un certo interesse. Nel frattempo, saranno arrivati una cinquantina di poliziotti a pattugliare la zona, tutti raggruppati. Il migliaio di immigrati che prima chiacchieravano per la strada è scomparso di colpo. Nel raggio di un centinaio di metri ci siamo io, Antonio e la polizia. Lo saluto stringendogli la mano e mi incammino verso casa, tra i gruppi di agenti fermi ad ogni angolo. Antonio ricambia il mio saluto con uno strano entusiasmo. Anche oggi sono contento di vivere a Porta Palazzo. Talmente tanto che decido di passare a prendere i miei genitori e di fargli vedere la casa. Piace anche a loro. Gli mostro dall’esterno il negozio del Fascio, gli dico dove parcheggio la macchina abitualmente, gli racconto qualche aneddoto, compreso Antonio che mi chiede se sono omosessuale, e ci 42


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confrontiamo su come sia meglio secondo loro organizzare la casa. Come al solito, hanno delle belle idee. Non si sconvolgono per la presenza della polizia e per il continuo andirivieni di personaggi dall’aspetto poco rassicurante, è da una vita che loro vanno a comprare al mercato di Porta Palazzo, ci sono abituati. E non mi danno a vedere che un po’ sono preoccupati per me. Ho proprio due bravi genitori. Li riaccompagno a casa e vado a cena da amici.

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MENTRE SI RACCONTA CHE I MAGHREBINI IL COMMERCIO CE L’HANNO NEL SANGUE, CONDIVIDO CON RUBEN LA MIA ESPERIENZA Porta Palazzo ha un’anima orientale. La respiri nell’aria. La vedi nelle facce che incontri, nelle contrattazioni infinite al mercato, negli esercizi commerciali, nelle strade. Tra queste vie si respira aria cosmopolita, in un melodioso e sprezzante crocevia di culture. Hai sempre la sensazione di percorrere un viaggio, ma sei nella tua città, a quattro passi da casa. Porta Palazzo per molti migranti è un punto di riferimento. Altro che Ufficio Immigrazione, quando uno straniero arriva in città questo è il primo luogo in cui si reca per capire come orientarsi a Torino. Trova dei connazionali, spesso addirittura dei compaesani. Girando per le vie del quartiere ci si imbatte in macellerie islamiche, gastronomie arabe e bazar tipicamente nordafricani. Ci sono anche una moschea14 e un centro culturale ita14

Si tratta della “Moschea della Pace”, ubicata in corso Giulio Cesare, 6.

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lo-arabo.15 Il centro offre in consultazione testi in arabo e in italiano, lezioni di islamistica e di archeologia, seminari e incontri, proiezioni, spettacoli di musica e danza, corsi di lingua araba e di italiano per stranieri. All’interno c’è anche un hammam, il bagno turco. Ruben ci va pazzo. Ogni giorno mi chiede di andarci. E quando gli dico che pagare per morire di caldo mi sembra una cazzata, lui prova a convincermi che la mia visione è riduttiva. «Fiorenzo, quel posto non è solo un hammam, è un luogo di incontro e di svago. Andarci è fondamentale per conoscere i nostri vicini di casa. Saranno tutti lì, fidati. Se non vuoi venire per rilassarti, fallo almeno nell’ottica di un utilizzo sociale del tempo libero.» Non mi ha mai convinto, e lui non ha mai smesso di andarci. Porta Palazzo ha un’anima orientale, ben visibile tra i banchi di piazza della Repubblica. Qui si parla e si veste arabo. Nell’aria si respira fragranza di tè verde e l’odore stantio di qualche kebab cotto frettolosamente. I maghrebini il commercio ce l’hanno nel sangue. Lo capisci quando entri nei loro negozi. Se ci sei già passato una volta per caso, stai tranquillo che si ricordano di te. Ti chiedono come stai, ti parlano fraternamente. Ti fanno sentire un amico ben accolto. Di rado ho provato queste sensazioni in un normale esercizio commerciale gestito da italiani, a meno che si tratti di conoscenti. Stesso discorso per il “commercio abusivo”: un lenzuolo steso a terra sul quale è appoggiata la 15

È il “Dar Al Hikma” (tradotto in italiano “La Casa della Sapienza”). La sede è in via Fiocchetto, 15.

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mercanzia più varia. I prezzi variano a seconda dell’impressione che fai al venditore. Se ti ha già visto spendi di meno. Se sei nuovo spara cifre altissime. Un maghrebino paga poco, un italiano almeno il doppio. A Porta Palazzo c’è sempre, anche durante la notte, un carretto che vende prodotti tipici come pane arabo o carne di vitello. Qualche immigrato musulmano, più ligio nel seguire i dettami islamici rispetto alla media dei miscredenti che popola queste strade, evita di mangiare maiale. L’osservanza dei precetti spesso vale solo per la carne e non per gli alcolici. Tutti i carretti infatti vendono anche birra e qualche superalcolico. I venditori ambulanti generalmente sono provvisti anche di seggiola portatile e aspettano seduti comodamente l’arrivo di qualche acquirente. Secondo Imad A. Ahmad,16 «furono i mercanti, e non i soldati, i fautori della diffusione dell’Islam in giro per il mondo». Sicuramente anche le imprese militari hanno fruttato ottimi risultati, ma l’affermazione di Ahmad è più sensata di quanto possa sembrare a prima vista. Mentre parlo con Ruben delle poliedriche attività dei migranti maghrebini di Porta Palazzo, il discorso quasi per caso va a finire al 2002. Ruben non ne sa ancora nulla. «Scendiamo e andiamo a comprarci due birre» propongo a Ruben. Lui non se lo fa chiedere due volte e scatta in piedi. Ruben va orgoglioso delle sue doti di gran bevitore. Da buon nati16

Esponente del “Minaret of Freedom Institute” di Bethesda (Maryland, Stati Uniti d’America), attivissimo gruppo di musulmani libertari impegnati a rivalutare le radici islamiche medievali dell’economia di mercato.

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vo delle Langhe, adora il vino ma non disdegna la birra. Detto fatto, in un attimo siamo pronti per scendere. Dopo pochi secondi la triste realtà: entrambi dovevamo andare a ritirare i soldi al bancomat prima di tornare a casa e ce ne siamo dimenticati. In due arriviamo a 75 centesimi. «Ruben, ci ho ripensato: non ho proprio voglia di andare in banca adesso per comprare una birra di merda! Piuttosto sfoderi le tue doti da grande intrallazzatore, andiamo dal tizio e ce le facciamo dare a credito.» «Sì, figurati se ci fa credito!» mi risponde. «Beh, se si mette a fare delle storie gli diamo due schiaffi e lo derubiamo!» scherzo io. Ruben ride, e io con lui. «D’accordo Fiorenzo! Allora scendi e vai a derubarlo… poi, quando il maghrebino ti insegue con la bottiglietta di acido, io gli rubo le birre e torno a casa! Ci rivediamo qui!» dice Ruben, per gioco. Invece di stare allo scherzo, mi innervosisco e divento pensieroso. Ruben se ne accorge subito. «Fiore, scherzavo! Ma che hai?» mi chiede con tono preoccupato. «No, niente» rispondo io, evitando i suoi occhi. «Hai uno sguardo severo. Mi fai quasi paura! Oh, Fiore, c’è qualcosa che non va?» domanda Ruben. Dopo qualche secondo di esitazione, inizio a raccontare del Valentino, dell’acido, del CTO, di Euse, del Socio, del pappagallo, della vecchia. Tutto. Prima con una voce esitante, poi coinvolta, infine incontrollabile. Provo a raccontare quell’avventura in maniera ironica, non so se ci riesco, ma il 47


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tentativo è quello. Non mi piace fare le cose troppo serie. Ruben cade dalle nuvole. Continua a ripetermi: «Cazzo, Fiore!». «Comunque» gli dico io «vivere qui mi sta facendo bene. Da un lato è veramente difficile, d’altro canto però comincio a sentirmi libero dalla paura». Pausa. Ruben non parla. Io fumo nervosamente, emettendo un suono forte quando espiro. «Non so come dire… mi sento più calmo… e cioè: il quartiere è difficile e faccio ancora più attenzione di prima, ma sai… fino a qualche mese fa vedere gruppi di ragazzi nordafricani mi angosciava, era un tormento. Ora, perlomeno, mi sembra una cosa normale. È un grande passo in avanti!» Ruben mi sorride e annuisce. Generalmente è un chiacchierone, ma ora non sa cosa dire. Forse questa mia esperienza passata lo sta facendo riflettere. «Comunque, dov’eravamo rimasti, Ruben? Che vai a rubare due birre al maghrebino?» scherzo io. «Veramente dovevi andarci tu e farti inseguire!» risponde Ruben con il sorriso sulla bocca. Ridiamo e riprendiamo a chiacchierare, i nostri animi sono di nuovo distesi. Sono felice di aver condiviso questa esperienza con il mio amico, ma l’idea della birra la rimandiamo al giorno dopo. Ci addormentiamo in compagnia di qualche lettura.

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A PORTA PALAZZO NON CI SONO SOLO GLI ARABI Chi passa da Porta Palazzo intorno alle 13 e si ferma a osservare i bambini che escono strillanti da scuola alla fine delle lezioni si rende conto che non ci sono solo gli arabi. Nella scuola media della zona c’è un piccolo mondo di ragazzi sparso su tre sedi e fatto di ventidue diverse nazionalità. Alla “Morelli” di via Cecchi i ragazzi stranieri sono il 60%, alla “Verga” di via Pesaro17 un po’ più del 50%.18 È la nuova Torino che avanza, con fatica, ma con una forza inarrestabile. Quasi un terzo degli immigrati cinesi di Torino abita tra queste vie.19 Qui dietro c’è l’unica associazione italo-cinese del Piemonte.20 E ci sono anche la Lega dei romeni in Italia (LRI)21 e un’associazione di promozione culturale italo-romena22 che organizza corsi di 17

Via Cecchi e via Pesaro sono due strade dietro Porta Palazzo, vicine al fiume Dora. 18 I dati sono stati forniti dal preside dell’Istituto, Onofrio Di Giovanni, intervistato da La Stampa per un articolo pubblicato nella “Cronaca di Torino” il 23 marzo 2005. 19 Comune di Torino Ufficio Statistica, a cura di M. Omodè e M. Procopio, L’immigrazione straniera a Torino nel 2003: Analisi e approfondimenti statistici e sociodemografici, Torino, 2004. 20 AICUP (Associazione Immigrati Cinesi Uniti in Piemonte), con sede in Lungodora Firenze, 23. 21 Sede in corso Giulio Cesare, 29 bis. 22 “Fratia” (fratellanza), con sede in corso Giulio Cesare, 29 bis.

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romeno e di italiano per stranieri, di informatica, cucina, danza, pittura. Ai bambini nati in Italia insegnano la storia e la geografia della Romania. I romeni possono contare anche su due riviste mensili autoprodotte, con articoli in doppia lingua contenenti informazioni utili ad ogni immigrato. Tra un call center e un negozio di bigiotterie da quattro soldi, ci sono anche i sudamericani, i sino-vietnamiti, i senegalesi, i nigeriani. I gruppi sociali di colore sono meno attivi sul fronte associazionistico, ma forti di una coesione sociale quasi naturale. Ciò non significa che siano uniti come popolo. I concetti di stato, nazione, cittadinanza sono molto europei e poco africani. I nigeriani sono divisi in etnie e non hanno una lingua in comune se non quella dei colonizzatori inglesi. Ogni tanto senti che tra di loro si parlano nella lingua dell’invasore, ma per la maggior parte ognuno socializza con persone del proprio gruppo etnico. La metà della popolazione nigeriana è musulmana, l’altra metà è cristiana. C’è anche qualche animista. I senegalesi sono un po’ meno disgregati ma, pur essendo tutti di fede islamica, non frequentano la moschea di Porta Palazzo, dove si incontrano quasi solo nordafricani. Qui spuntano ovunque esercizi commerciali etnici, sartorie specializzate, coiffeur di acconciature afro, negozi di cosmetici per donne di colore. Il Cous Cous Clan,23 un’associazione di “incappucciati” con un cappello da cuoco sulla testa che si scambiano consigli e ricette etniche, organizza dei viaggi etnogastronomici tra i negozi, i profumi e i sapori etnici di Porta Palazzo. 23

Associazione fondata da Vittorio Castellani, meglio conosciuto come Chef Kumalé (pseudonimo ricalcato sull’espressione “cum’a l’è?”, che in dialetto torinese significa “com’è?/come va?”).

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Sono così tante le attività commerciali di proprietà o in gestione a stranieri che i negozi italiani stanno scomparendo. Rimangono, ma solo tra le vie del Balon, le botteghe di antiquariato e quelle di mobili antichi, gestite da autoctoni. Non tutti i negozi hanno il commercio come finalità. Se ne rende conto chi ci abita, ma anche la polizia e le autorità comunali. Basta una passeggiata in queste strade, senza essere uno 007, per capire che c’è qualcosa che non va. La questione di Porta Palazzo è stata esaminata anche dal Parlamento, in prospettiva delle Olimpiadi di Torino 2006.24 Ne è emerso un quadro inquietante: è stato sottolineato come 24

«Il dottor Bongiovanni, segretario particolare del Sindaco, ha dichiarato che nella zona di Porta Palazzo sono sempre più numerosi gli esercizi commerciali gestiti da italiani che, per vari motivi, cessano l’attività e, contestualmente, si assiste all’apertura di nuovi locali gestiti da persone provenienti dal Nord Africa. Il Sindaco ha aggiunto che si registra un monopolio di gestori commerciali stranieri, o meglio di famiglie straniere, alcune delle quali contigue a reti terroristiche. In particolare, in sedi pubbliche, sono state raccolte voci di connessioni con uno degli Imam, Bourichi Bouchta, a sua volta titolare di alcune attività commerciali. Il dottor Chiamparino ha suggerito che potrebbe essere interessante effettuare un approfondimento investigativo su questi possibili intrecci tra attività commerciali, organizzazioni di stampo mafioso e reti terroristiche. L’assessore Bonino, in merito alla richiesta se esistano ditte al di fuori della Regione e della città che abbiano vinto appalti, ha riferito che con l’attuale sistema di gare partecipano società provenienti da tutta Italia. Vi è comunque in atto un controllo da parte della polizia municipale sulle ditte appaltatrici, ma soprattutto sulle imprese subappaltatrici.» Documento della XIV Legislatura – Disegni di legge e relazioni – Documenti: scaricabile dal sito della Camera dei Deputati al seguente indirizzo: http://www.camera.it/_dati/leg14/lavori/documentiparlamentari/indiceetesti/023/008_RS/00000005.pdf

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gli italiani stiano abbandonando il territorio, a beneficio soprattutto di nordafricani. Si parla di «gestori commerciali stranieri attigui a reti terroristiche». Il sindaco di Torino «ha suggerito che potrebbe essere interessante», si legge nel documento parlamentare, «effettuare un approfondimento investigativo su possibili intrecci tra attività commerciali, organizzazioni di stampo mafioso e reti terroristiche». Mettendo da parte le esagerazioni preolimpiche, rimane che, in un quartiere straordinariamente multietnico, gli italiani se ne stanno andando via e tutto passa in mano agli stranieri. Staremo mica creando un ghetto?

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I DIVIETI NON VALGONO PER TUTTI Al numero 13 di piazza della Repubblica, di fianco al condominio dove abito, c’è un palazzo25 dove non abita nessuno e in cui è proibito l’ingresso. «È il punto più caldo di Porta Palazzo. Il cuore del mercato maghrebino, il marciapiede della ricettazione, l’angolo delle risse con i coltelli in mano» si leggeva in un articolo della Stampa di qualche anno fa.26 Sta proprio all’angolo con via Cottolengo,27 nel punto in cui svetta l’insegna nera di una tabaccheria, anch’essa chiusa da tempo. Nel distributore automatico di sigarette, fuori uso, i maghrebini abitualmente nascondono bottiglie di vetro e altri oggetti contundenti di cui si servono per giocare tra di loro, per difendersi da intrusioni nel loro territorio e, eventualmente, per aggredire. Spesso lanciano le bottiglie sulla strada, e si sentono fragori di vetri rotti. È un gioco, un passatempo molto pericoloso per chi passa. Ma tanto qui, di notte, non ci passa nessuno, salvo qualche ragazzo che acquista droga e qualche scemo come me che deve tornare a casa. 25

È di proprietà del Comune. Alla fine di agosto del 2006, dopo innumerevoli reclami, porte e finestre sono state murate. 26 La Stampa, “Cronaca di Torino”, 28 luglio 2000. 27 Strada del Balon, nello stesso isolato del mio palazzo.

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Anni fa il Comune aveva promesso che l’edificio sarebbe stato adibito a stazione dei carabinieri.28 Nessuno ci aveva creduto. Gli abitanti di Porta Palazzo avevano fatto bene a diffidare, perché non si è mai visto un geometra, neppure un architetto, né tantomeno un muratore. Tuttora il palazzo langue nel degrado. Spesso, passando, vedi giovani stranieri che si infilano all’interno, arrampicandosi sulla grondaia fino a una finestra al primo piano senza vetri né infissi. Si nascondono o scappano da qualcuno, spesso dalla polizia. Il palazzo, infatti, è ottimo per le fughe: disabitato, sicuro e, soprattutto, con molte vie d’uscita. Si può fuggire dal retro, dal cortile di via Lanino,29 o si può scappare dai bassi fabbricati del vecchio salumificio, dietro via Cottolengo. La maggior parte dei fuggitivi però si introduce furtivamente sulle scale, sale sui ballatoi, quindi, per scappare, scavalca la recinzione, passa di corsa su uno dei ballatoi del mio palazzo, scende ed esce dal portone. Il viavai è continuo. Scavalcare è pericoloso: le inferriate non sono tanto alte, ma sotto c’è il vuoto. Se cadi non c’è nulla da fare. È un gesto che puoi fare giusto se non c’è altra scelta. C’è chi un’altra scelta non ce l’ha. È così che conosco Tigre.

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Dichiarazione del 27 luglio 2000. Dopo tre anni di finte promesse, nel 2003 è stato definitivamente abbandonato il progetto. Il 10 dicembre 2003 il Comune ha dichiarato che la palazzina sarebbe diventata un centro di servizio per gli anziani. Da quella dichiarazione sono passati altri tre anni ma il palazzo è ancora inagibile. 29 Strada del Balon, nell’isolato del mio palazzo.

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RICEVO UN OSPITE INASPETTATO Tigre è un ragazzo di vent’anni, slanciato, magro ma muscoloso. Parla un buon italiano. È miope, ma ha appena perso i suoi occhiali da vista. Lo conosco per puro caso. Io sono sul ballatoio di casa mia e sto fumando una sigaretta. Generalmente fumo in casa o vado sul balcone che dà su via Mameli.30 Sul ballatoio non ci vengo mai a fumare, ma oggi ho voglia di vedere se ci sono movimenti nel cortile. Ne sono ricompensato: vedo un ragazzo che corre. Sta scappando, da cosa non mi è dato sapere; si intrufola nel palazzo disabitato, sale velocemente le scale fino al quarto piano e scavalca la recinzione. Lì succede l’imprevedibile: inciampa, cade, gli occhiali cascano nel vuoto. Ma con un guizzo riesce a tenersi a uno spuntone arrugginito della recinzione. Sul cappello di lana, ben stretto sulla sua testa, compaiono macchie di sangue. Vedo la scena, protetto dalla semioscurità. Lo guardo in faccia: capisco che vorrebbe urlare per il dolore e per la paura, ma sa che non se lo può permettere. Corro verso di lui e gli tendo una mano, lui me la stringe e con fatica si tira su. È spaventato e non sa dove andare. Mi fa pena, ha appena rischiato di morire. Mosso da pietà, incoscienza e curiosità, 30

Altra strada del Balon nell’isolato del mio palazzo.

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gli consiglio di entrare in casa e di dare subito una sciacquata alle ferite sanguinanti. Accetta felice e si chiude in bagno. Nell’attesa, mentre lui si disinfetta, comincio a chiedermi se ho fatto una cosa sensata invitandolo a entrare. Chi sarà mai? Perché è così spaventato? Cosa farà quando uscirà da quel bagno? E se fosse armato? Ma è ovvio che sia armato! Qui tutti i ragazzi in strada hanno un coltello in tasca. Può sempre servire, per tagliare l’hashish come per accoltellare qualcuno. Ma il mio problema non è quello. La cosa che mi preoccupa sul serio è il pensiero dei brutti ceffi da cui stava scappando. Se qualcuno dal cortile l’avesse visto entrare a casa mia potrei passare dei seri problemi. Fortunatamente il ragazzo esce presto dal bagno e mi evita ulteriori riflessioni. «Grazie, sei stato molto gentile», mi dice: «Senza di te non so come avrei fatto… » Mettendo da parte qualche inutile modestia, mi trovo d’accordo con lui. Mi dice di chiamarsi Tigre. “Cominciamo bene!” penso: “Gli ho salvato la vita e neanche mi dice come si chiama, ma si presenta con il suo nome di battaglia”. Non si è tolto il cappello , dove le macchie di sangue si allargano vistosamente, segno che continua a sanguinare nonostante le medicazioni casalinghe. Vede che a casa abbiamo della vodka, mi chiede se può berne un sorso. Prendo due bicchieri e li riempio. Dopo un brindisi silenzioso, lui beve il suo bicchiere tutto d’un fiato. Si sta riprendendo dallo shock e non fa altro che ringraziarmi in un continuo intercalare di parole significative e affettuose come «amico» e «fratello». Ma, prima che io possa finire il mio bicchiere, gli 56


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squilla il cellulare, lui si alza di colpo, mi dà una pacca amichevole sulla spalla ed esce da casa mia con una gran fretta. In un attimo, sta correndo giù per le scale. Dopo pochi secondi sento lo stridore delle ruote di una macchina in partenza sotto casa. Qualcuno è arrivato a prenderlo e se l’è portato da dov’era venuto.

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PENSILINE E TRITARIFIUTI Decido di non raccontare a nessuno la storia di Tigre. Temo le facili critiche di amici e genitori. Dopo il lavoro, Ruben e io torniamo a casa. Passiamo in macchina all’angolo tra corso Regina e piazza della Repubblica. Un ragazzo sui trent’anni dall’aspetto vigoroso sta attraversando la strada. A un certo punto vede qualcuno, ha un sussulto, fa uno scatto e si nasconde dietro una cabina telefonica. La foga con cui si muove lo fa quasi cadere a terra. Purtroppo siamo in macchina, il semaforo è verde, automobili nervose dietro di noi con automobilisti ancora più nervosi al volante. Anche volendo, non possiamo fermarci. La cosa ci fa sorridere. Fino a un certo punto, perché quel ragazzo sembra molto spaventato. Scendo dall’auto e mi incammino solitario verso casa, mentre Ruben va a trovare alcuni amici. Vedo una signora distinta, sui cinquant’anni, che si fa strada tra decine di immigrati di colore che stazionano sul marciapiede di corso Regina. È buio e lei è visibilmente spaventata. La fisso. “Cazzo, non ci voleva”, penso, “questi se la mangiano se la vedono così”. La fermo, le chiedo se va tutto bene e facciamo un tratto di strada insieme. La rincuoro, mentendo. Le dico che non 58


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c’è nessun problema perché tutti mi conoscono, che nessuno ci toccherà. Mi sembra che tiri un sospiro di sollievo. Mi spiega che non abita a Torino e, arrivando dalla Consolata31 per andare alla chiesa di Maria Ausiliatrice,32 ha sbagliato strada. «Dopo pochi passi mi sono trovata in un altro mondo» mi dice affannata. Passate le tre vie più a rischio, la saluto e torno indietro verso il mio portone. Mi ringrazia di cuore. Verso le ventidue e trenta, delle urla e tanto rumore sulla strada. I maghrebini hanno divelto le pensiline del cantiere sotto casa nostra e se le stanno lanciando addosso. Ruben e io andiamo di corsa sul balcone, sentiamo molto rumore ma non abbiamo visuale sulla scena. Vediamo invece delle pensiline in mezzo alla strada, con il sottofondo sonoro di bottiglie di vetro che si spaccano e del ferro che si schianta sull’asfalto. Nella notte, sentiamo delle urla. La mattina successiva le pensiline tornano alle loro funzioni ordinarie. Appena cala il sole, vengono di nuovo divelte e nel quartiere si respira un’aria pesante. Sotto casa, poliziotti in passamontagna arrestano dei nordafricani. Ruben cena da solo al bar dei romeni. Nel ritorno a casa un gruppo di ragazzini maghrebini gli chiude la strada e prova 31

Una delle principali chiese torinesi, a cinque minuti a piedi da Porta Palazzo. 32 Altra chiesa della zona, molto nota.

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la “Zidane”, ma Ruben se la cava a testa alta perché non ha il portafoglio con sé. L’esperienza insegna. Il telegiornale regionale parla di un uomo ucciso e gettato nei bidoni dell’immondizia di piazza della Repubblica.33 Abitava a Porta Palazzo. Guardando le immagini televisive, Ruben e io scopriamo che eravamo quasi vicini di casa. Le interviste rilasciate ai quotidiani da alcuni conoscenti rivelano che l’uomo era famoso perché «litigava sempre con gli extracomunitari». Questa è solo una delle piste che la polizia sta seguendo, ma forse abbiamo capito la ragione di tutti quei poliziotti in passamontagna. Euse e io abbiamo uno zaino a testa e il mio pc portatile nel bagagliaio della macchina. Decidiamo che è troppo rischioso portare il tutto a casa mia alle tre del mattino. Dormiamo a casa di Euse.

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L’omicidio è stato commesso nella notte tra il 16 e il 17 gennaio 2006.

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IN CUI SI PRESENTA IL BALON, QUELLA INCREDIBILE «CONFUSIONE DI COSE, E D’AVANZI DI COSE, DA FAR IMPAZZIRE IL DISGRAZIATO CHE NE DEBBA FAR L’INVENTARIO» Ogni sabato sotto casa mia ha sede, dal lontano 1856, il Balon, mercato delle pulci cittadino. Nella piazzetta qui dietro un vecchio caseggiato porta sul frontespizio una scritta in cemento con quel nome.34 La seconda e la quarta domenica di ogni mese ha luogo anche il “Gran Balon”, mercatino dell’antiquariato e dell’usato. Le strade sono piene di coperte dai colori sbiaditi, riposte a terra quasi con affetto, per ospitare ogni sorta di cianfrusaglie: scarpe spaiate, un 34

L’edificio è stato abbattuto nell’agosto del 2006. Ci costruiranno un bel condominio, forse. È un pezzo della memoria storica di Torino che se n’è andato.

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orologio senza lancette, la copertina di un libro senza pagine, gambe di tavolo marcite dalla pioggia, padelle senza manico, elettrodomestici anni ’20 completamente a pezzi e all’apparenza inutilizzabili. Gli oggetti sono ordinati con cura, la disposizione è pensata, ragionata nei particolari. La varietà e la stranezza degli oggetti è meravigliosa. Per la strada una veggente dispensa pozioni contro il malocchio, mentre un imbroglione propone a qualche signore stempiato una crema miracolosa contro la calvizie. Questo è il Balon, l’incredibile, sorprendente, splendido mercato delle pulci di Torino, quello che De Amicis definiva «un’esposizione grandiosa e compassionevole di miserie, di cui non è possibile farsi un’immagine fuorché supponendo che un intero quartiere di Torino, invaso da un furore di distruzione, abbia rovesciato giù dalle finestre tutte le masserizie delle sue case, dai solai alle cantine, fino all’ultima carabattola dell’ultimo armadio. … È una confusione di cose e d’avanzi di cose da far impazzire il disgraziato che ne dovesse far l’inventario».35 Passeggiando e contemplando mi chiedo a chi possa essere utile quel ciarpame. Ma, considerato il fatto che, da quando ho cominciato ad andare al Balon, cioè almeno una decina d’anni, quelle bancarelle ci sono sempre state, ne deduco che qualche acquirente ce l’avranno. Al Balon puoi trovare chiunque, indipendentemente da ceto sociale, colore politico, fede calcistica, aspirazioni, attitudini. Io guardo bene in giro, vorrei incontrare Tigre. Ho pen35

De Amicis E., Speranze e glorie. Le tre capitali, Milano, Fratelli Treves, 1911.

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sato molto, in questi giorni, a quella manciata di minuti passati insieme l’altra sera. Quando è andato via, quasi scappando, mi ha lasciato con un senso di impotenza e insoddisfazione. Vorrei rivederlo, capire chi è, cosa fa, da chi o da cosa stava fuggendo. Ma lui non c’è. Questa mattina invece incontro un ragazzo che suonava al presidio di Venaus36 contro il TAV, i cui canti e le schitarrate hanno fatto da colonna sonora a quella notte tanto intensa quanto ghiacciata. La mattina successiva gli avevo dato un passaggio fino a Torino. Lo invidiavo per la vita da bohémien. Sta suonando, anche qui, le canzoni a me conosciute. Un crocchio di persone attorno lo ascoltano incantate. Mi fermo anch’io, lo guardo per qualche minuto, lui continua nel suo canto solitario a occhi chiusi. Sorride. Passo oltre. Il bar dei marocchini è pienissimo. Parecchie persone non riescono a entrare e stanno fuori, al freddo, accalcate, in punta di piedi nello sforzo di riuscire ad avere visuale sul piccolo televisore all’interno. Stanno trasmettendo una partita di Coppa d’Africa, gioca il Marocco. Qualcuno si fa prendere in braccio per avere un campo visivo un po’ migliore, qualcun altro spinge e crea trambusto. Tutti urlano. Mentre torno a casa sento una voce. Alzo gli occhi: il Fascio mi chiama. «Oh, chi si vede!» gli dico. 36

Paese della Val di Susa a 57 km da Torino. Il comune è stato al centro della cronaca italiana nel periodo novembre 2005 – gennaio 2006 per le proteste “No TAV”, concentrate nel paese a causa dei cantieri preliminari alla realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione.

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«Allora, l’hai comprato il tirapugni?» Ridiamo. Gli dico che non l’ho ancora fatto, ma che mi sto organizzando. Lui dà inizio ai soliti suggerimenti. La prima notte che mi rompono le palle devo menarne uno, mi dice. «Così si ricordano di te. Ascolta quello che ti dico, ti servirà nel futuro.» Mi dà un sacco di consigli inutili. Se mi mettessi a girare per Porta Palazzo come fa lui, con un coltello a serramanico in tasca, e lo tirassi fuori al momento buono, sicuramente finirei accoltellato. Perché, come il Fascio stesso mi dice, «a loro non gliene frega niente. A te deve fregartene ancora di meno. Nessuno scrupolo. Devi volergli fare male più di quanto te ne vogliono fare loro». Glisso sul discorso. Gli dico che aveva ragione, finché non ci vivi a Porta Palazzo non capisci cosa vuol dire. Mi sorride compiaciuto. «Adesso è tranquillissimo, tra poco ci saranno le Olimpiadi e ci sono tanti poliziotti in giro. Vedrai tra due mesi, a Olimpiadi finite, che casino qua sotto.» Il Fascio riesce sempre nell’intento di segare i miei facili entusiasmi. Lo saluto e mi incammino verso casa.

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IL PASSATO, A VOLTE, RITORNA Ho un appuntamento con Euse, compriamo della pizza dalla panettiera sotto casa mia. È una vecchia “torinese doc”, molto gentile, parla sempre in dialetto stretto e sprizza vitalità. Stravede per me da quando – la prima volta che sono entrato nel suo negozio – ho risposto in piemontese a una sua domanda. A Torino il dialetto autoctono si è perso dopo la forte immigrazione degli anni ’50. Un giovane che parla il dialetto, agli occhi dei piemontesi di una certa età, suscita a priori una vaga ma duratura benevolenza. È bello, cambiano espressione del viso, nonostante la mia parlata non perfetta. Euse e io andiamo verso casa, dove mangiamo, studiamo e chiacchieriamo. Ormai abito a Porta Palazzo da qualche mese. Euse ricorda il passato. In un attimo il discorso va a finire a qualche anno fa, al Valentino e all’acido. Non ne parlavamo da secoli. Condividere quell’esperienza è piacevole e mi dà sollievo. La sentiamo distante, anche se qualche strascico lo paghiamo ancora oggi. Gli dico che ancora non capisco se vivere qui mi sta facendo bene, e che lo capirò solo con il passare del tempo. Parliamo di questa zona tanto meravigliosa quanto problematica e delle forti sensazioni che ti imprime. Rivanghiamo con il sorriso sulle labbra – e un po’ di amarezza – la corsa a tutta velocità verso il fiume dopo il 65


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lancio dell’acido. Ridiamo del pappagallo del Socio al pronto soccorso, dei nostri corpi bendati, delle paure e dell’angoscia iniziale, ma anche del nostro modo di affrontare questa “avventura” con una certa serenità. E sorridiamo pensando alle facce che fa la gente quando ci mettiamo a torso nudo. Chi ci vede ci guarda con un punto interrogativo stampato in faccia oppure – se c’è un rapporto che lo permette – ci chiede come mai abbiamo quelle ferite. E allora noi raccontiamo, e raccontiamo, e raccontiamo. Certo, parliamo dell’aggressione, ma in fondo raccontiamo di noi, di me, di Euse, del Socio. «Quelle ferite sono il simbolo del nostro legame» mi dice Euse, e lo fa sorridendo a centoventi denti. «Sì» gli rispondo io, «noi siamo tra i pochi a poterci vantare di non avere un’amicizia astratta, ma molto ben visibile». Ridiamo. Ognuno di noi quella sera si è assicurato un posto d’onore nella rispettiva memoria storica. Le ferite rimarranno per sempre, e sorridiamo pensandoci settantenni, con i nipotini che ci chiederanno che cosa abbiamo sulla schiena, e noi che potremo parlare dei nostri compagni di gioventù. In fondo non capita a molti. Preso dall’entusiasmo, a metà pomeriggio mi sembra quasi che quel gruppo di nordafricani nel 2002 ci abbia fatto un favore. Dopo qualche ora finisce il momento di esaltazione. A un tratto rimbomba un boato proveniente dalla strada. «È scoppiata una rivolta. Oppure ha segnato il Marocco in Coppa d’Africa!» dico a Euse. Speriamo che si tratti della seconda ipotesi. 66


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A cena mangiamo tonno, cioccolato e cracker. Non ho un gran bel rapporto con la cucina e tra gli amici – neanche a dirlo – godo di una certa fama per le cene stomachevoli. Euse, avvezzo alle mie abitudini culinarie, ormai questo cibo lo gradisce quasi. In compenso non si dà pace per il freddo. Impreca dicendo che dovevamo andare a casa sua. Purtroppo, il riscaldamento, seppur al massimo, sprigiona poco calore. Leggo e studio ancora, mentre il mio amico si addormenta. Dopo pochi minuti lo seguo anch’io.

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PASSEGGIANDO PER LE VIE DEL BORGO SI FANNO INCONTRI STRANI È domenica. Vado a pranzo dai miei genitori. C’è la giornata del pedone, le macchine non si possono usare in tutta Torino e in mezza provincia. «Tutto a posto bello?» Siamo alle solite. Quando faccio finta di niente e non rispondo, cambiano l’intercalare: smettono di chiamarmi “Bello” e usano qualche termine più ricercato per farmi capire che si rivolgono proprio a me. I più usati sono “Coda” e “Barba” (ho i capelli lunghi legati e una barbetta rada e incolta), ma anche “Baffi” e, più raramente, per chi conosce meglio l’italiano, “Pizzetto”. Per strada c’è tantissima gente, ma in misura minore della domenica precedente. Camminando, incrocio lo sguardo di un ragazzo italiano, un po’ cresciuto. Mi sta fissando. Mi chiedo perché lo fa, forse vive nel mio palazzo ed è una delle decine di persone che ci abitano e ho conosciuto, ma di cui non mi ricordo le fattezze. Penso che il condominio dove abito abbia una delle maggiori concentrazioni umane perlomeno del Piemonte: consta di cinque piani più le man68


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sarde e ci sono cinque o sei alloggi per piano. Considerato che la media di inquilini sarà di quattro o cinque per alloggio (Mohammed e la sua famiglia ci vivono in otto), si fa presto a superare le centocinquanta persone. Se poi si contano gli amici, i parenti che spesso arrivano in visita, i numerosissimi uomini che vanno avanti e indietro e le cui mansioni all’interno del caseggiato non mi sono ancora chiare, e se si considerano anche le persone in fuga come Tigre, o quelle che per qualche incomprensibile ragione scavalcano la recinzione del palazzo al numero 13 ed entrano nel mio, ne consegue che ogni volta che salgo e scendo dalle scale incontro qualcuno che non conosco. Incrociare per la strada una persona che mi guarda intensamente non mi sembra strano, magari può essere qualche mio vicino di casa. Passando, lo saluto. Lui sembra rasserenato dal mio «ciao», mi ferma e mi chiede se gli vendo del metadone. «No, non ce l’ho. Mi dispiace.» Nel frattempo guardo l’uomo che è con lui, un eroinomane visibilmente in carenza di “roba”. Mi chiedono se so dove trovarlo, ne hanno bisogno al più presto. Gli dico che non so dargli una mano. Si allontanano da me con una camminata stanca e triste. Non lavorano, ma anche loro, penso, sono dei poveri cristi. Alla mia sinistra sento qualcuno urlare. Tempo di girarmi e vedo che scoppia una rissa tra un vecchio piemontese che urla in dialetto e un giovane immigrato. Se le danno di santa ragione. I ragazzi maghrebini, a occhio e croce tutti minorenni, si mettono in cerchio attorno ai due contendenti e li incitano a picchiarsi più forte. Prima dell’arrivo di qualche 69


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anima pia a dividerli e contro ogni previsione, il giovane va a terra mentre il vecchio continua a menarlo. I nigeriani non si muovono dal loro territorio, anche se la scena è poco distante e tutti sembrano molto interessati. I maghrebini invece incitano alla rissa. A sedare le divisioni arrivano due ragazzi giovani ma dal passo pronto e sicuro. Uno di loro ha gli occhiali e mi ricorda intensamente qualcuno. Ma è Tigre! Solo adesso me ne rendo conto. L’avevo visto con un copricapo di lana in testa e senza occhiali, ora so che ha i capelli corti e scuri e gli occhiali da vista neri. Lo rincorro per la strada, nella foga finisco addosso a un nigeriano gigantesco. Per qualche ragione che non mi è chiara, è lui a chiedermi scusa. Tigre nel frattempo si gira, mi vede ma non mi saluta e prosegue velocemente il suo cammino. La cosa non mi frena, voglio parlargli, se non altro per curiosità, e riprendo la corsa fino a raggiungerlo. «Cos’è? Non mi saluti neanche?» gli chiedo. Lui mi risponde a bassa voce, quasi bisbigliando: «Poi ti spiego tutto, passo a casa tua. Ma ora vai via.» Rimango lì attonito per qualche secondo. Poi, con un po’ di stizza, faccio come dice.

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DUECENTO METRI NON SONO UGUALI DAPPERTUTTO Torno a casa con Ruben. Vuole fare una puntata al cinema con me. «No, non posso, Ruben, devo studiare. Ho un esame la prossima settimana e non so una minchia» gli rispondo. Perché, a dover di cronaca, sono un onesto lavoratore, un povero cristo, ma sono anche uno studente universitario. In realtà, più che studiare, spero che arrivi Tigre, come mi aveva promesso. Proseguo la strada, parcheggio dal Fascio. Passando in auto mi stupisco della tranquillità. Poliziotti dappertutto, camminano a gruppi di sei. Non serve che si diano troppo da fare, basta la loro presenza. Sotto casa mia, questa sera non spacciano neanche. Si saranno solo spostati di qualche centinaio di metri. Decido di fare una passeggiata in piazza della Repubblica. Il clima attorno a me è incredibilmente tranquillo. Oltrepasso corso Regina. Mi soffermo un po’ ad ammirare, piacevolmente colpito, piazza Emanuele Filiberto37 e la Galleria 37 Piccola e graziosa piazza limitrofa al Quadrilatero Romano. Nel XVIII secolo i sotterranei della piazza, grazie a una rete di canali che facevano affluire l’acqua dal vicino fiume Dora, fungevano da ghiacciaie pubbliche.

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Umberto I38 appena ristrutturata. Passare di qui la sera è impressionante. Soprattutto nelle nottate primaverili e estive, l’intera piazza brulica di locali e di giovani sorridenti e gioiosi. Casa mia dista due minuti, camminando con calma. “Questi sono i duecento metri più distanti del mondo” penso tutte le volte che mi capita di percorrerli. Due mondi diversi, bizzarramente e dolorosamente opposti. Lo spartiacque di corso Regina Margherita funziona fin troppo bene. Passo davanti alla sede di “The Gate”,39 un progetto finanziato dall’Unione Europea per la riqualificazione della zona. Sono loro che organizzano, due volte l’anno, le giornate “Due tiri in Porta… Palazzo”. Sono bellissime manifestazioni: il sabato, quando vengono smontati i banchi del mercato, sulla piazza compaiono campi da calcio, ping-pong e calcio-balilla, pronti per il giorno successivo. La domenica, tra l’allegria generale e le montagne di zucchero filato, iniziano i tornei. Mentre le compagini di Marocco, Romania, Cina, Nigeria e Senegal sfidano Balon, Porta Pila,40 Forze dell’Ordine, Consiglio Comunale, Servizi Sociali e Musici38

Galleria che porta da piazza della Repubblica a via della Basilica, nel Quadrilatero Romano. La galleria è la più lunga della città e occupa quello che, fino al 1884, era stato il corpo corsie del vecchio ospedale Mauriziano, poi trasferito nell’attuale sede di corso Turati. 39 Progetto pilota urbano volto a migliorare le condizioni di vita e di lavoro di Porta Palazzo. In programma: interventi a favore dello sviluppo economico e del miglioramento dell’ambiente, iniziative sociali e culturali, ristrutturazione degli edifici, degli spazi pubblici, del mercato. La sede è in piazza della Repubblica, 4. 40 Popolare denominazione di Porta Palazzo in dialetto piemontese.

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sti, la folla a bordo campo si agita e rumoreggia. Giornate sempre splendide: il gioco miscela e unisce. Percorro ancora qualche metro, osservo da lontano le Porte Palatine,41 le vecchie porte d’ingresso della città, costruite dai romani più di duemila anni fa. L’illuminazione serale le rende ancora più affascinanti. Alla fine Porta Palazzo è una zona che ha molto da offrire. La stessa piazza della Repubblica è meravigliosa. Non riesco a capire come mai sia abbandonata a sé stessa. Tra un pensiero e l’altro, il tempo vola. Lo studio mi chiama e mi incammino verso casa. «Ciao bello. Coca? Cocaina buona! Ti faccio buon prezzo!» mi arrivano insistenti le voci di giovani spacciatori. Mentre rimuginavo sui tornei di calcio e sognavo di diventare il goleador del Porta Pila, la polizia se n’è andata e i pusher sono tornati al loro posto. Suonano le campane, come sempre, un suono armonioso e gradevole. Qui le campane si sentono ogni quarto d’ora circa, provenienti dalle numerose chiese del quartiere. È un gradevole sottofondo musicale. Sarà una di quelle piccolezze che mi rimarranno più impresse quando non abiterò più qui.

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Costruite dai romani nel I secolo a.C., consentivano l’accesso alla città di Torino (Augusta Taurinorum) da settentrione.

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I PROFESSORI DEL LICEO DOVREBBERO FARE PIÙ ATTENZIONE A QUELLO CHE INSEGNANO AI PROPRI STUDENTI Ruben mi ha assicurato che sarebbe tornato verso le undici portando due pizze. Nell’attesa del suo arrivo e di quello di Tigre, mi metto a studiare. Sono stranamente molto concentrato. Le sedie e i mobili che sbattono nell’appartamento al piano di sopra non riescono a distrarmi. A un tratto, mi accorgo di alcuni rumori provenienti dal ballatoio, davanti alla mia porta di ingresso. C’è qualcuno. Mi preoccupa il fatto che si sta muovendo molto piano, come se non volesse fare rumore. Sento però un fruscio continuo e inquietante. Se fosse qualche mio vicino che sta rientrando a casa non lo farebbe così silenziosamente. Comincio a preoccuparmi. Temo che i romeni che abitavano prima di noi in quell’alloggio, prima di lasciarlo, abbiano dato le chiavi di ingresso a qualche loro amico. Giunti dei nuovi inquilini da spennare, questo amico ora magari sta provando a vedere cosa abbiamo di valore. Oppure, temo che il padrone di casa, vista la sua lungimirante abitudine di allegare alle chiavi anche un portachiavi con la scritta dell’indirizzo esatto 74


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(compreso il numero del piano), si sia in passato fatto rubare il tutto da qualcuno, il quale non avrebbe troppa difficoltà nell’individuare l’appartamento da aprire. Forse è meglio andare a vedere cosa succede. Devo agire al più presto. Ma faccio tesoro dell’arduo insegnamento della mia professoressa di filosofia del liceo: «Prima di agire» ci diceva sempre, «prima di parlare, di qualsiasi cosa si tratti, vi prego, pensate». Mi fermo un attimo. Uscendo, anche se vedessi qualcuno, non avrei la certezza che stia provando a penetrare furtivamente in casa mia. Devo acciuffarlo sul fatto. Prendo un coltello e spengo la luce. Spero che, vedendo la luce spenta e senza sentire il minimo rumore, il ladro entri in casa. Mi apposto dietro la porta, in spasmodica attesa. Non sono convinto che la mia professoressa avesse questo in mente quando ci ripeteva quella frase. Attendo due minuti circa con i nervi a fior di pelle, ma non sento più rumori. Nessuno ha tentato di entrare. Decido di uscire di casa. Apro di colpo la porta e guardo, a destra e a sinistra. Non c’è anima viva. A un certo punto, alle mie spalle, sento un rumore. È il fruscio di prima. Mi giro di colpo, spaventato e pronto a tutto, brandendo il coltello a mezz’aria. Ma, delusione e felicità allo stesso tempo, è solo il vento che muove la veranda di plastica bianca montata dai romeni davanti all’ingresso di casa. Sono matto. O meglio, capisco che Porta Palazzo mi sta facendo impazzire. Col sorriso sulla bocca mi rimetto a studiare. Alle undici, come previsto, arriva Ruben, con le pizze. Di Tigre neanche l’ombra, ma la cosa, visto il suo comporta75


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mento dell’altro giorno, non mi stupisce. Mangiamo e Ruben mi racconta il film che è andato a vedere. Lui ci va matto, per i film. Si è tagliato i capelli. Sembra Doc di Ritorno al Futuro, il vecchio pazzo genialoide che inventa la macchina del tempo. «Ci facciamo una briscola?» gli chiedo. Ho portato le carte. Ho voglia di svagarmi. Lui fa finta di non sapere le regole, di non giocarci da dieci anni e più. In realtà, più di un’ora di gioco stabilirà una mia pesante sconfitta. Dopo l’amara sconfitta, ci insegniamo a vicenda alcuni trucchi di magia. Lui quelli con le carte, glieli ha insegnati il nonno, celeberrimo baro, prima di morire. Io gli insegno a far sparire una monetina, esattamente come mi aveva mostrato il buon Teufik, il bosgnacco di Srebrenica42 orfano di genitori (uccisi dalle Tigri serbe di Arkan), conosciuto l’estate precedente in Bosnia Erzegovina. Andiamo a letto soddisfatti. Prima di dormire, come al solito leggiamo. Gli presto un libro sulla Cina scritto da Tiziano Terzani. Gli piace. Ne sono contento. Io invece mi butto su La luna e i falò di Pavese e leggendo ripenso al giovane incontrato in piena notte ad Avignone, anni fa, in una sosta notturna. Euse e io, diretti a Barcellona per festeggiare il capodanno, incontrammo questo ragazzo che, appena seppe che eravamo di Torino, stupito e ammirato ci rispose: «Oh, la città di Cesare Pavese!». 42

Cittadina bosniaca tristemente famosa per gli abomini subiti nel corso della guerra jugoslava. L’11 luglio del 1995 infatti, nonostante la “protezione” delle Nazioni Unite, si è consumato il genocidio di quasi 10.000 civili musulmani.

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In quel momento ci sentimmo due ignoranti: non eravamo mai andati oltre la lettura scolastica di Pavese. Ma un giovane francese era entusiasta della nostra torinesitĂ pensando proprio a lui. Ora, a distanza di quattro anni, periodo in cui testardamente ho mantenuto la consueta ignoranza in materia, ho scelto proprio un libro di Pavese per accompagnare le mie avventure a Porta Palazzo. Strana la vita!

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MI ILLUDO DI POTER LAVORARE NEI SERVIZI SEGRETI Prima di andare al lavoro, prendiamo un caffè al bar. Colgo l’occasione per comprare anche delle cartine, ieri con la scusa di non averle ho fumato tutta la sera le sigarette di Ruben. Entra Antonio, il nostro vicino di casa. Ruben non l’ha ancora conosciuto. Glielo presento. Ma il nostro Antonio non è interessato alle presentazioni. Ha altro per la testa. Stringe la mano a Ruben senza alcun trasporto e inizia a raccontare che ha appena fatto un incidente. Lui era in moto e ha bocciato contro un’auto che procedeva contromano, guidata da un nigeriano. L’incidente l’ha fatto esattamente sotto casa nostra. Spiega l’evento più volte. «E allora chi ha ragione? Dimmi, chi ha ragione?» mi chiede con seccante insistenza. Lo dice in maniera così fastidiosa che non voglio rispondergli. Lui continua a imprecare e a raccontare, alzando il tono di voce. In breve tempo raggiungo il limite massimo di sopportazione. Esausto, gli dico che ha ragione lui, badando però a mantenermi sul vago. Non voglio dargli troppa soddisfazione. Felice del mio parere, ci saluta sgarbatamente ed esce dal bar. Era entrato per comprare delle sigarette. Tra l’altro, incu78


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rante delle rigorose norme italiane, se n’è accesa una all’interno del locale. Nessuno gli ha detto di non farlo. Dopo dieci secondi rientra urlando, sempre più arrabbiato: «Anche i marocchini mi hanno dato ragione, pensa! Mi hanno detto di sfondargli la macchina! Hai capito? Anche i marocchini!». Mi immagino i ragazzini maghrebini, divertiti dall’incidente e dalla reazione spropositata di Antonio, mentre lo incitano a picchiare, esattamente come giorni fa tutti in cerchio incoraggiavano la rissa poi sedata da Tigre. Antonio esce nuovamente, ma poi rientra subito per raccontarci non so più quale sciocchezza. Per un attimo, temo che la cosa prosegua fino a quando non ce ne andremo dal quartiere. Questa volta però esce dal locale definitivamente. Ruben e io rimaniamo storditi e divertiti da questo incontro, beviamo il nostro caffè, e ce ne andiamo a lavorare. Sento alla radio che questa sera al Cairo giocano MaroccoLibia di Coppa d’Africa. Mi dispiace di non andare a dormire a Porta Palazzo, ci sarebbe da divertirsi. Il giorno successivo, pranzo a casa dei miei. Faccio con le carte il gioco di prestigio che mi ha insegnato Ruben. Mia mamma rimane sbalordita. Mi importuna tutto il pomeriggio chiedendomi qual è il segreto. Sono orgoglioso di me. Più tardi, mi incammino verso casa. Come al solito, dopo l’arrivo notturno di Euse a Porta Palazzo quella lontana sera, ho un abbigliamento particolarmente trasandato. La mia figura di notte non è più quella del bravo ragazzo di un tempo, altrimenti verrei derubato tutte le sere. Eccomi qui che 79


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mi aggiro per le vie del borgo con un copricapo di lana nera, la sciarpa che mi copre il viso, guanti neri, il cappuccio della felpa stretto sulla testa, camminata impostata, sguardo fiero. L’altra notte così abbigliato camminavo nel quartiere dei miei genitori. Le persone cambiavano lato della strada per non incrociarmi. Arrivo quasi sotto casa. Un gruppo di maghrebini si rivolge a me. Mi parlano in arabo! Pensano che sia marocchino. “Cazzo, Fiorenzo, sei un camaleonte! Già ti scambiano per uno di loro… potresti entrare nei servizi segreti!” penso, compiacendomi di come mi sono calato nell’ambiente. Gli rispondo che non ho la più pallida idea di cosa mi stiano dicendo. «Ah, sei italiano?» mi chiedono stupiti. «Sì» rispondo. «Amico, ti serve un cellulare?» Declino l’offerta ed entro a casa. Bene, bene. Oltre a confondermi per marocchino, quando hanno capito che ero italiano mi hanno chiesto se mi serviva un cellulare. Solo alcune settimane fa provavano a rubarmelo, il cellulare, ora provano a vendermene uno rubato. L’idea di fondo è già completamente diversa. Starò scalando la gerarchia sociale di Porta Palazzo. Tra l’altro, Ruben mi dirà che anche a lui è capitata una situazione simile. Ne sono contento.

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LA NEVE FA FUGGIRE LA CLIENTELA DEL MERCATO Devo studiare. Ho un esame la prossima settimana e non sono preparato. Di nuovo. Mi dispiace presentarmi sapendo già di fare una figura di merda, ma la seppur ridotta probabilità di passarlo mi induce a provarci lo stesso. Nevica e fa freddo. Molto. Accendo la caldaia appena arrivo a casa. Generalmente, per risparmiare, la accendiamo al minimo. Spesso non la accendiamo proprio. Ho ai piedi delle scarpe da ginnastica bucate, sono le Puma taroccate che porto sempre da quando le ho comprate al Gran Bazar di Istanbul. Non esistono scarpe peggiori da usare quando c’è la neve. Però ripensare a quel gigantesco bazar e al turco urlante che me le ha vendute mi fa sentire in armonia con l’ambiente che mi circonda. La prima cosa che faccio dopo aver aperto la porta è asciugarmi i piedi bagnati e ormai a un passo dal congelamento. Le dita non le sento più. Apro il frigorifero. È tristemente vuoto. Scendo e vado dalla panettiera. Non la vecchia piemontese mia amica, oggi è il suo giorno di chiusura, ma da un’altra fornaia, piuttosto anziana anche lei e di origine meridionale. Il suo modo di fare mi piace molto. 81


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«Buongiorno signora, mi dà quel pezzo di pizza con le olive, per favore? E anche quella focaccia» le chiedo. Nella panetteria non c’è nessuno. «Piove ancora vero? Ha smesso di nevicare?» «Sì, ora sta piovendo.» La signora gioisce. Spera che la neve si sciolga presto e che qualche cliente entri nel suo negozio. «In questi giorni non c’è nessuno. La neve ci ha fatto buttare anche il sabato. Ormai, è l’unico giorno in cui vendiamo.» Oggi a Porta Palazzo, come al solito piena di banchi di frutta, verdura, abbigliamento, tegami, pentole, carne, pesce, formaggi, non c’è nessuno. Chiariamo: non c’è nessuno per gli standard di Porta Palazzo, perché comunque ci saranno svariate centinaia di persone. Sotto casa della maggior parte dei miei amici tutta questa gente non la vedi neanche nelle feste del quartiere. La signora però non è contenta di come vanno le cose. «Da quando hanno iniziato i lavori» mi dice «vengono solo più stranieri a comprare. Gli italiani vanno nei centri commerciali». Un attimo dopo esprime tutto il suo disappunto. Parla scuotendo la testa e con due occhi tristi. «È tutta una presa in giro, Gioia», da qualche minuto a questa parte ha preso a chiamarmi così, «impongono alle persone di andare a comprare con bancomat e carte di credito, in modo che la gente non si renda conto di quanto spende. E poi questi non arrivano neanche a fine mese... .». Sono completamente d’accordo con lei. «Da due, tre anni a questa parte il mercato ha avuto un calo, 82


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e se hanno un calo loro ce l’ho anch’io purtroppo, perché quante meno persone vengono a comprare a Porta Palazzo, tante meno persone vengono a prendere il pane da me.» Il suo ragionamento non fa una piega. È la prima persona a cui sento dire una cosa del genere. Ero convinto che la clientela del mercato di Porta Palazzo fosse in continua crescita. Le dico che comunque può ritenersi fortunata perché ha un nuovo cliente: mi sono trasferito da poco, abito in piazza della Repubblica. Mi chiede dove esattamente. «All’angolo con via Cottolengo.» Saputo l’indirizzo, storce un po’ il naso. Poi, mi guarda negli occhi e mi dice: «Guarda Gioia, io sono qua da trent’anni e non mi è mai successo niente. Certo, devi stare attento al portafoglio, ma quello lo devi fare dappertutto. Tu vai a lavorare, vivi, esci la sera se vuoi uscire e torna a casa. Stai tranquillo e fatti i fatti tuoi. Io ho sempre fatto così e non mi è mai successo niente». La ringrazio, le stringo la mano, ci presentiamo. Torno a casa. «A posto bello? Fumo buono!» mi dicono sotto casa mia. «A posto, grazie.» Ormai piove fitto. Le strade sono ancora completamente innevate. Questo manto bianco rende la zona molto affascinante. Nel tardo pomeriggio passa a trovarmi Puccio. È un mio caro amico, ci conosciamo da quando eravamo bambini. Abita in Valsusa ma viene spesso a Torino per seguire i suoi corsi universitari e, la sera, per uscire con gli amici. Tra le svariate cose che condividiamo, l’amore per la lettura e una forte curio83


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sità per “il diverso”. Insieme da ragazzini ne abbiamo combinate di tutti i colori nei piccoli paesi della sua valle. Qualche anno dopo giravamo l’Italia seguendo le sorti del Toro in trasferta, e abbiamo girovagato per mezza Europa in viaggi molto molto low cost. Gran bevitore, al pari di Ruben, bibliotecario a tempo perso, ideatore di progetti e proposte nel suo ridente paesino di montagna, Puccio è un ragazzo interessante e interessato. La casa gli piace. Pensava che fosse peggio. Chiacchieriamo. Gli racconto un sacco di cose. Mi rendo conto che ormai di Porta Palazzo potrei parlare per ore. Andiamo assieme nel piccolo supermercato all’angolo, il China Market. Vendono solo prodotti asiatici e arabi. Io sto cercando del caffè. Non ce l’hanno, ma mi mostrano un negozio dove posso trovarlo. È una cosa che succede sempre qui, a Porta Palazzo, che i negozianti ti mandino nel posto giusto. Anche gli esercenti stranieri. Nelle altre zone non capita spesso. La conversazione con Puccio procede senza intoppi. Mi dispiace che se ne debba andare via presto. Nel salutarlo lo accompagno, sempre sotto la pioggia, in corso Regina, fino alla parte tranquilla di Porta Palazzo. Ci salutiamo. Mi promette che tornerà a trovarmi molto presto. Mi sembra affascinato e anche un po’ scosso dal quartiere. Mi dice che per la strada gli sembravo molto sciolto. «O sei così o ti rapinano tutte le sere» gli rispondo. Rientrando a casa butto un occhio come al solito dentro l’appartamento di Antonio. Lui è in piedi, fissa il muro. Non è la prima volta che, passando, lo vedo in quella posizione. Mi chiedo se non sta diventando pazzo. Mi ricorda, in maniera 84


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inquietante, il protagonista del film L’inquilino del terzo piano:43 un tizio all’apparenza normalissimo che va a vivere in una casa nel centro di Parigi; la precedente inquilina si era suicidata gettandosi dal balcone; lui farà la stessa fine. Il protagonista, già sull’orlo della pazzia, vede delle persone che fissano il vuoto nel bagno in comune dirimpetto alla sua finestra. L’idea di avere un vicino di casa nella stessa situazione non mi entusiasma. Provo a studiare, ma in maniera poco produttiva. Un gocciolio d’acqua mi infastidisce e ho difficoltà a concentrarmi. È passato un sacco di tempo e Tigre non si è fatto vedere. Ormai ho perso ogni speranza. In strada un gruppo di persone sta sbraitando. Scoppia un boato e un vociare molto forte. “Staranno di nuovo giocando la Coppa d’Africa”, penso. Dopo pochi minuti, arrivano quattro o cinque volanti della polizia. Questa sera, purtroppo, non sta giocando il Marocco.

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Film drammatico, produzione francese, 1975. Regista: Roman Polanski.

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NEGLI INSEGUIMENTI VINCE SOLO CHI È PERFETTO Non ho piacere che la mia ragazza mi venga a trovare a casa. I motivi si possono ben immaginare. Dopo una serie infinita di rinvii, oggi sarebbe dovuta venire, ma siamo rimasti a casa sua, posticipando così il suo primo ingresso nella mia “reggia” di Porta Palazzo. Di questo passo non la vedrà mai: non la porto volentieri nel borgo. In primo luogo per le difficoltà di arrivo: non posso garantire la mia incolumità, figuriamoci la sua. La prima sera con Ruben a Porta Palazzo ho avuto la chiara percezione di non avere alcun controllo della strada. Quella notte eravamo in due e, se avessero voluto, ci avrebbero mangiati. Letteralmente. In secondo luogo, la casa fa schifo e, nonostante che ci abitiamo da un po’, continua a essere sporca. Un problema tipico nelle case abitate da ragazzi, maschi e giovani, ma con l’aggravante della sporcizia accumulata anche dagli inquilini precedenti. A metà pomeriggio, però, vista anche la poca voglia di studiare, decido di fare un salto a Porta Palazzo. In effetti ho dimenticato sulla mia piccola scrivania un libro e il caricabatterie del cellulare. Nessuno dei due oggetti risulta fondamentale, ma mi forniscono una valida scusa per fare un giro e controllare la piazza. 86


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Arrivato sotto casa, un furgone e una camionetta della polizia mi sorpassano a gran velocità e inchiodano di colpo. Una dozzina di poliziotti scende dalle vetture e parte all’inseguimento di un gruppo di maghrebini. Gli altri gendarmi, una decina, che non prendono parte all’inseguimento, scaricano il manganello e la loro aggressività su qualche straniero a caso. Fuggi fuggi generale. Rimango bloccato dietro le vetture degli agenti che ostruiscono totalmente il passaggio e osservo la scena. I maghrebini fuggono con i poliziotti alle calcagna. È bello scappare, le volte che l’ho fatto ho provato un certo gusto. Devi essere deciso, astuto e rapido. Non puoi inciamparti, non puoi cadere e neanche fermarti perché sei senza fiato. Non puoi permetterti di perdere, e mentre corri lo sai. Devi essere perfetto. Io mi godo i secondi di perfezione dei ragazzi nordafricani. I gendarmi attraversano corso Giulio Cesare senza neanche guardare se passano macchine. La cosa mi fa rivalutare leggermente l’operato delle forze dell’ordine: c’è qualcuno che ha del fegato. Qualcuno sposta le vetture della polizia e mi permette di ripartire. Parcheggio sotto casa. Non passa qualche secondo che una voce mi chiede se voglio cocaina. A non più di dieci metri di distanza ci sono ancora una decina di poliziotti in assetto antisommossa. Lo ringrazio ma, come al solito, rifiuto. È da qualche giorno che vivo poco Porta Palazzo. La cosa mi dispiace, ma è momentanea. Ho avuto molto da fare sul lavoro, a tempo perso ho arrotondato lo stipendio facendo l’im87


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bianchino. Poi devo studiare perché ho l’esame tra pochi giorni. In questo momento le attività non mi mancano. E, visto che in un certo senso Porta Palazzo per me adesso è un’attività prima che una casa – nel senso che la curiosità di scoprire ciò che riguarda questo borgo domina su tutto –, ne consegue che è da qualche giorno che non la sto “vivendo” come vorrei, perché ci dormo solamente. Sì, mi manca Porta Palazzo. La cosa ha dell’incredibile. Nonostante i mille problemi ci sono affezionato. Ruben domani si opera al menisco, e io resterò a casa da solo per qualche settimana. Mi dispiace di non vederlo, ma sono contento perché l’operazione vuol dire anche che presto tornerà a giocare a calcio. Per lui significa molto. Ruben è un portiere fortissimo: a diciott’anni giocava già in prima squadra in Serie D. Per chi capisce anche solo un minimo di calcio, vuol dire che in una partitella tra amici lui fa la differenza. L’altra sera mi ha detto che nel prossimo futuro ha intenzione di trasferirsi fuori Torino. Sono felice per lui, sento che sta trovando la sua strada. Quanto a me, si vedrà. Affitto, gas, luce, spese condominiali, tassa sui rifiuti… l’indipendenza dai miei genitori mi ha dato la percezione molto chiara delle spese, che sono anche ingenti. Sicuramente non mi posso permettere di abitare da solo. E non penso che riuscirò a trovare qualcuno che viva con me. Chi sarebbe così piciu44 da venire a stare qui? In un posto dove, ogni volta che porti le chiappe fuori di casa di notte, rischi, nella migliore delle ipotesi, di essere derubato? 44

Membro virile, in dialetto piemontese: parola usata comunemente con il significato di ‘scemo’.

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NEL SUPERMERCATO DEI CINESI I BUTTAFUORI SONO NIGERIANI Torno a casa dal lavoro e già lo studio mi chiama. È pieno giorno e oggi c’è anche un bel sole. Vengo letteralmente assaltato da un nugolo di maghrebini che mi vogliono vendere qualunque tipo di droga. Dopo dieci minuti, quando ridiscendo diretto verso il bar dove ho tragicamente dimenticato il mio libretto universitario, in quello stesso angolo che prima pullulava di giovani spacciatori non c’è più nessuno. Sono arrivate alcune pattuglie della polizia. I maghrebini si sono spostati d’una cinquantina di metri. Ci sono sempre, ma non si vedono. Non penso che riuscirò mai ad abituarmi a questi fulminei cambiamenti. La cosa non facilita la scelta del momento appropriato per invitare degli ospiti. Ovviamente non ho piacere che i miei amici vengano derubati sotto casa. Generalmente prima di dire «vieni da me» a qualcuno (cosa che non avviene mai quando è buio) scendo in piazza per saggiare la situazione. Il problema è che la delinquenza di strada è instabile. Nell’arco di pochi minuti la situazione della piazza può assumere pieghe totalmente 89


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diverse. Poniamo il caso che alle sei di sera ci sia la polizia sotto casa mia. Do appuntamento, che so, a un’amica, dicendole di venire appena può. Lei arriva alle sei e venti, ma alle sei e quindici la polizia ha pensato bene di andarsene e quindi sotto casa la situazione per lei può essere molto pericolosa. O mettiamo il caso che qualche mio amico maschio, che tengo costantemente aggiornato sugli accadimenti di Porta Palazzo e che si immagina il Bronx, venga a trovarmi quando sono appostate le camionette di polizia e carabinieri. Porta Palazzo sarebbe allora in completo letargo, nessuno per la strada, situazione pacifica, potrebbe passare anche un bambino dell’asilo con in mano mazzette da cento euro e un lingotto d’oro tra i denti e nessuno lo toccherebbe. Farei una incredibile, mostruosa, gigantesca figura di merda. Verrei preso in giro a vita per aver raccontato un sacco di cazzate. Quindi, paradossalmente, vivo la situazione peggiore: non posso invitare la mia ragazza a casa, ma non ho neanche la certezza che qualche mio amico con cui mi vanto di essere un duro possa constatare sulla sua pelle la difficoltà del vivere a Porta Palazzo. Tra le due, soffro di più per la seconda. Entro in camera e mi metto a studiare. Di nuovo, sono senza carta igienica. Il dramma vero è che non ho neanche qualcosa da cui possa ottenere lo stesso utilizzo. Mi scappa, vorrei pulirmi con i fogli di appunti di letteratura italiana, ma non mi sembra una buona mossa. Puntualmente mi ricordo che non ho la carta igienica solo quando devo andare in bagno e impreco perché non posso. Scendo e mi dirigo all’Asia. 90


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L’Asia è un piccolo supermercato gestito da cinesi, con due enormi buttafuori nigeriani all’ingresso che controllano tutto. I buttafuori generalmente sono fissi sulla porta, si muovono solo quando entrano clienti maghrebini. Al che, lasciando qualche metro di distanza, li seguono per il locale controllando ogni loro minimo gesto. Di me generalmente quasi non si curano. Sugli scaffali sono accatastati, alla rinfusa, prodotti tipici cinesi e indiani, con scritte in lingua, e anche qualche prodotto arabo. Le uniche merci italiane o comunque occidentali sono la Coca-Cola e un’ampia varietà di birre. Molti ragazzi nordafricani, che secondo le ricorrenti campagne mediatiche sono considerati dei fondamentalisti islamici, ne fanno incetta, di birre. E così sono quasi sempre ubriachi. Se poi ci aggiungiamo che quelli che vedo io mangiano abitualmente carne di maiale e, soprattutto, bestemmiano dal mattino alla sera, mi chiedo dove vive la gente che si fa fregare dalle sciocchezze che dicono ai telegiornali. I nordafricani non sono dei fondamentalisti islamici. Tutt’al più puoi dire che qualcuno di loro è un gran pezzo di merda. Cosa che, per inciso, si può dire di qualunque altro popolo. Tornando alla mia situazione diarroica e al supermercato Asia, trovo dodici rotoli di carta igienica a venticinque centesimi di euro. Dopo due minuti, durante l’atto della pulizia al termine della defecazione, mi renderò conto del perché costano così poco. “Comunque, è meglio di niente”, penso. Forse. Ma con della carta igienica che non ti si scioglie tra le mani quando la usi sarebbe andata meglio.

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NEL PIENO DELLA NOTTE NON TUTTI STANNO DORMENDO È mezzanotte passata. sono in camera, al tavolino. Studio. Inizialmente, però, la concentrazione scarseggia. I miei vicini hanno deciso di non farmi studiare. Sono la mamma settantenne e il figlio quarantenne. Quest’ultimo, un ciccione con gli occhiali, che avevo sempre ritenuto essere handicappato, sembra svegliato da un letargo lungo cent’anni. Urla. Tanto. E insulta la madre: «Sei una puttana! Mi hai rotto le palle, puttana! Adesso me ne vado, e non mi rompere più i coglioni». Esce di casa, sbattendo la porta. Cammina come una furia sul ballatoio, lo vedo correre goffamente giù per le scale. Sento che tira cazzotti al muro. Sbalordito, mi rimetto a studiare. Ma, dopo non più di cinque minuti, di nuovo un gran baccano: «Puttanaaaaaa vaffanculo!». È tornato subito, e ha ripreso con il solito tran tran. Questa volta, ci va giù ancora più pesante: «Se mi rompi ancora i coglioni, te lo giuro che ti ammazzo! Ti ammazzo!». Comincio a preoccuparmi. È un normale litigio o sta succedendo qualcosa di brutto? Devo fare qualcosa? Vorrei chie92


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dere alla madre se ha bisogno di aiuto, ma da solo non me la sento di andare. Siamo in piena notte e il Ciccione sembra completamente fuori di testa. Per giunta pesa un centinaio di chili. “Se mi dà una manata mi sfonda”, penso preoccupato. Di andare con Antonio non se ne parla, quello è ancora più matto, potrebbe combinare qualche casino. Penso che la cosa migliore sia svegliare i marocchini che, tra tutti gli inquilini del mio piano, mi sembrano di gran lunga le persone più pacate e rassicuranti. Insieme potremmo andare a chiedere se va tutto bene. Ma le urla presto cessano. Rimango un po’ in attesa. Sembra che la situazione si sia calmata. L’ha ammazzata, oppure hanno fatto pace. Tra le due, mi convinco della seconda ipotesi e mi rimetto a studiare. Cessano le urla nel palazzo e cominciano quelle sulle strada. O meglio, quelle c’erano anche prima, ma non me ne accorgevo perché pensavo al Ciccione e a sua mamma. Gli spacciatori maghrebini stanno litigando. Chissà cos’è successo. Questa notte Porta Palazzo non mi vuole far studiare. Si picchiano. Temo per la mia macchina, lasciata incustodita vicino al luogo della rissa. Per fortuna non le accadrà niente. Durante la notte, sento arrivare le sirene di ambulanza e polizia. Ogni tanto, macchine in piena corsa arrivano e ripartono, con gran stridore di gomme e marce tirate oltre il limite. Gli accadimenti della serata mi permettono di accertare un’ipotesi di cui ormai mi stavo convincendo. È un discorso che, come tutte le generalizzazioni, lascia molto a desiderare ma che ha una base di fondatezza. La cosa è molto semplice: all’esterno, in strada, quasi tutti i problemi che affronto quo93


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tidianamente sono dovuti agli stranieri, e per la maggior parte ai maghrebini. Gli italiani non mi hanno mai dato nessun problema. Ma, appena varco il cancello del condominio, e me lo chiudo alle spalle, abbandonando così i pericoli della strada, ecco che la situazione si capovolge: gli stranieri mi sembrano facce amiche, assennate e sostanzialmente pacifiche, mentre i pochi italiani che sono rimasti a vivere qui mi sembrano persone problematiche e non completamente normali. Non voglio cadere nel tranello dello spiegare la normalità, non ne sarei in grado, anche perché si potrebbe obiettare che non esiste “la normalità”. Però è innegabile che questo sia un quartiere particolare, e i suoi abitanti lo siano altrettanto. Qui il tasso dei laureati è la metà della media di Torino e quello di bassa scolarità è superiore al 50% della popolazione residente.45 In questa zona più di un quarto della popolazione non ha titoli di studio, neanche la licenza elementare. Il problema comunque è molto più profondo e non ha niente a che vedere con il mondo della scuola: conosco molti laureati idioti e altrettante persone che hanno studiato poco ma hanno una cultura fuori dal comune. È solo una questione di equilibrio. La maggior parte degli italiani del mio palazzo mi sembrano molto poco equilibrati, e pertanto potenzialmente pericolosi.

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Relazioni sulle trasformazioni dell’area di Porta Palazzo, Cicsene, 2002.

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IN CUI VENGO ASSALITO DA UNA FURIA STATISTICA Ho scoperto che nel 2002 a Porta Palazzo vivevano persone di ben 55 nazionalità diverse.46 Negli ultimi sei anni sicuramente il numero è ancora aumentato. In alcuni isolati della zona gli stranieri sono il 52% della popolazione. Gli studi statistici sottolineano come questa tendenza sia in costante aumento. Più della metà dei “residenti”, quindi, sono immigrati. Pensando a quante persone abitano tra queste strade pur non avendo la residenza, è chiaro come in alcuni palazzi abitino quasi solo stranieri. Il panorama sociale del quartiere si fa sempre più complicato, confuso e difficile da gestire. Creare un ghetto è molto rischioso: le banlieues parigine insegnano. A incrementare la pericolosità del “ghetto Porta Palazzo” c’è il forte squilibrio sessuale. «Se il rapporto tra i sessi, a livello cittadino,» si legge nella ricerca del Cicsene «sta infatti raggiungendo quasi una posizione di pareggio, a Porta Palazzo la distanza è ancora abbastanza sensibile. Segnale che vi risiede un tipo di immigrazione prevalentemente composta, dicono i dati dell’anagrafe, di giovani maschi celibi». 46

Per la fonte vedi nota 31.

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Più del 50% delle persone che vivono qui infatti non ha una famiglia. Allo stesso tempo c’è una percentuale doppia rispetto alla media cittadina di nuclei familiari superiori alle sei persone. E ancora, a Porta Palazzo la tendenza della popolazione all’invecchiamento è solo leggermente più bassa della media torinese. Il dato sorprende pensando alla popolazione straniera, in genere molto giovane. Ciò vuol dire che la popolazione residente è polarizzata: accanto ai giovani maschi immigrati, ci sono italiani ultrasessantacinquenni. Secondo la ricerca, questi dati rappresentano un fattore di instabilità e di scarsa coesione sociale. La conclusione è che anche i migranti, appena possono, scappano da qui. L’altro giorno parlavo con un ragazzo egiziano, proprietario di una kebabberia nella periferia torinese. Quando gli ho detto che abitavo a Porta Palazzo, ha storto il naso e mi ha risposto: «Lì ci sono solo delinquenti. Rubano, spacciano, picchiano. Io ci ho passato i primi mesi che ero a Torino. Appena ho potuto sono andato via. Sono passati dodici anni e non ci sono più tornato. Non mi piace per niente, è molto pericoloso». E poi, guardandomi con aria severa, ha aggiunto, con un tono che non ammetteva repliche: «Vai via da lì!». Una ricerca dell’Ufficio Statistico del Comune47 ha individuato due momenti fondamentali per gli stranieri immigrati in città. Il primo è la concentrazione in alcune zone cir47

Gli stranieri residenti a Torino nel 2004: Strutture demografiche e aspetti socioeconomici, Comune di Torino, Divisione Servizi civici Ufficio statistica, a cura di Massimo Omedè e Maria Procopio.

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coscritte, «poco appetibili sotto il profilo del degrado ambientale e socioeconomico e pertanto particolarmente convenienti sul mercato immobiliare». Porta Palazzo su tutte. Il secondo momento si ha dopo il superamento dei bisogni primari. Gli immigrati si spostano in altre zone a causa del «progressivo scadimento della qualità della vita in quartieri in cui la tensione sociale si fa spesso insostenibile e che hanno con ogni evidenza raggiunto un livello tale di saturazione da compromettere ogni spazio di civile accoglienza. Questa fase è iniziata nella seconda metà degli anni Novanta e prosegue ancor oggi con sempre maggiore intensità». Le tabelle statistiche della ricerca vedono la Circoscrizione 7 del Comune, quella di Porta Palazzo, al primo posto sia come località di approdo iniziale, sia come zona da cui scappare dopo il raggiungimento di un certo grado di stabilità economica. Questa Circoscrizione ospita il più alto numero di immigrati stranieri e, secondo le statistiche del Comune, «il peso di tale presenza rispetto al contesto cittadino è addirittura cresciuto negli ultimi dieci anni … Non così è avvenuto per San Salvario (nella Circoscrizione 8), che non ha avuto altri sbocchi e ha gradualmente perso capacità attrattiva, passando dal terzo posto ad una delle percentuali più basse d’incidenza distributiva di immigrati». Mi sono sempre chiesto perché San Salvario balzi costantemente agli altari della cronaca cittadina per la delinquenza, mentre Porta Palazzo passa quasi inosservata, anche se le condizioni sono decisamente peggiori. Ecco qui la prima cruda, rilevante motivazione: a San Salvario abitano italiani che convivono con lo spaccio di droga, e giustamente se ne 97


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lamentano. A Porta Palazzo abitano migranti che convivono con la delinquenza e la criminalità, ma non vengono presi in considerazione per una ovvia e ingiusta mancanza di forza sociale. Per gli uni il costante grido di allarme dei mezzi di comunicazione, per gli altri il silenzio. «La miseria non piange, non ha voce» scriveva KapuÊciƒski: «La miseria soffre, ma soffre in silenzio. La miseria non si ribella. I poveri insorgono solo quando sperano di poter cambiare qualcosa. Di solito si sbagliano, ma solo la speranza è capace di indurre la gente ad agire. La principale caratteristica di un mondo perennemente in miseria è l’assenza di speranza».48 La povera gente segue il destino, come è sempre stato nella storia. Queste vie sono abbandonate a loro stesse, e così rimarranno fino a una imminente esplosione.

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R. KapuÊciƒski, Autoritratto di un reporter, Milano, Feltrinelli, 2006.

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TALVOLTA GLI ESAMI UNIVERSITARI RISERVANO DELLE SORPRESE Oggi ho l’esame all’Università. Guardo l’ora dopo il risveglio. Sono in ritardo, gli esami saranno già iniziati. Cominciamo bene!Mi alzo, faccio lo zaino in un attimo ed esco. Non vado neanche in bagno. Scendo le scale di corsa, mi butto sulla strada attraversando frotte di consueti «Tutto a posto bello?». Questa mattina non rispondo neanche. Vado all’Università. Mi presento nell’aula dell’esame, vedo dei professori che interrogano, mi metto a ripassare qualcosa. Dopo un’oretta mi alzo in piedi. Voglio passare subito per limitare gli effetti di questa lenta agonia dell’attesa. «Buongiorno, mi sono iscritto all’esame ma ero in ritardo e quindi prima non ho risposto all’appello. Se è possibile vorrei passare subito perché devo andare a lavorare.» «Prego, si sieda.» “Bene, bene, non ho dovuto neanche penare troppo”, penso. «Mi parli del saggio di Balzac che abbiamo letto in classe.» Non ho la più pallida idea di cosa cazzo mi stia chiedendo. A parte il fatto che le lezioni non ho possibilità di frequentarle, e poi di Balzac non ho letto niente. 99


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Gli faccio una delle mie introduzioni storiche e gli tiro fuori le poche reminiscenze liceali sull’intellettuale francese. Parlo tanto, dico altrettante sciocchezze, e il professore comincia a innervosirsi. «Va bene, basta, basta. Mi parli del realismo.» Di nuovo, non so cosa dire. Lo imbastisco di stupidaggini. Quando vedo che non regge più le mie cazzate gli dico che non ho ben chiaro il tipo di discorso che vuole che gli faccia. «Ma senta, lei su quali testi si è preparato?» Gli elenco in breve i pochi titoli che mi ricordo del programma. «Ma lei deve dare l’esame di Letteratura italiana, non Critica Letteraria!» L’intera sala esplode in un boato. Ho sbagliato esame, e non me ne sono neanche accorto. Rido anch’io. Il professore sembra felice. Mi dice che gli ho allietato la giornata. Ne sono contento. A testa alta, esco dall’aula e leggo, bello grosso attaccato sulla porta d’ingresso, che il «professor Rosinaldo – il mio docente – «ha rimandato gli esami di letteratura a giovedì prossimo». Che figura di merda! Esco da Palazzo Nuovo e vado a lavorare. Al mio rientro, parcheggio dal Fascio e percorro a piedi i cinquanta metri della via che mi separano da casa. È buio, i negozi stanno chiudendo e il borgo è in fermento. Qui le attività commerciali chiudono presto, la situazione per loro è insostenibile. E così si crea il circolo vizioso: nel buio dei 100


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pomeriggi autunnali e invernali, fino al tanto atteso arrivo dell’ora legale, i negozi chiudono prima, ma con le loro serrande abbassate fanno sì che i torinesi non frequentino la zona e che la delinquenza diventi ancora più forte. E così, alle sei di sera, i maghrebini si rincorrono minacciosi per la strada. pare che un ragazzino abbia rubato una bicicletta dal negozio all’angolo, sotto casa nostra. È normale, siamo a Porta Palazzo.

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SI PARLA DI IMMIGRAZIONE AL BAR DEI ROMENI A casa il freddo è pungente. Prendo in prestito il piumone di Ruben. Lui non è ancora tornato e non ho voglia di morire per assideramento. Lo studio mi innervosisce, soprattutto in queste condizioni. Fuori urlano tanto. Stanno di nuovo litigando. E in casa ci saranno una quindicina di gradi. Un conto è starci mezz’ora, un conto è rimanerci per metà pomeriggio e tutta la serata. Vado al bar dei romeni a scaldarmi un po’. Stranamente sotto casa nessuno mi dà fastidio. Ormai mi conoscono. Al bancone due uomini nordafricani, dall’aspetto e dai modi colti e raffinati, stanno discutendo con un italiano vestito molto elegantemente. Mentre mangio un’ottima pizza al tegamino, non posso fare a meno di tendere l’orecchio in quella direzione. «Alla televisione si parla di immigrati solo nei fatti di cronaca nera» sta dicendo uno dei due nordafricani, quello alto e magro, con la schiena un po’ ingobbita. «Sì, soprattutto se si tratta di un extracomunitario e se la parte lesa è un italiano» prosegue l’altro, con un’ottima parlata senza inflessioni. «Procedendo su questo passo, l’opinione pubblica sarà sempre più ostile agli immigrati. Anche per102


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ché non si parla mai della maggior parte di noi» continua l’uomo, nervosamente, «quelli che lavorano, che faticano, che vivono gli stessi identici problemi quotidiani di tutti voi italiani, e forse di più». L’italiano li provoca: «Sapete cosa vi dico? Io non penso che ci siano tanti italiani che rubano agli immigrati, non siete d’accordo? Forse è per quello che se ne parla tanto. Perché voi rubate a noi mentre noi vi offriamo una sistemazione e un lavoro!». «Punto primo» gli risponde il tizio alto, evitando gli occhi dell’interlocutore ma mantenendo un tono di voce severo e sicuro: «Chi lo dice che gli italiani non rubano agli immigrati? Hai mai sentito parlare di contratti in nero, turni di lavoro di dieci o dodici ore? Paghe da fame? Non è rubare questo?». Il nordafricano si sta innervosendo, i suoi modi raffinati si trasformano presto in grossolani, quasi offensivi. «Punto secondo: gli immigrati» prosegue «sono tantissimi. Molti non hanno i soldi per mangiare né un posto dove dormire e purtroppo qualcuno non si comporta come dovrebbe. Ma quello che dovete capire è che gli scippi, le rapine, le risse, danno più fastidio a noi che a voi!». «Non penso proprio» gli risponde l’italiano, «perché tanto il portafoglio lo rubano a me e non a te!». «Ma cosa stai dicendo? Cosa stai dicendo? Due mesi fa quella gentaglia mi ha strappato via il borsellino che mi portavo sempre dietro, con i documenti, i soldi e il mio permesso di soggiorno! Quindi se non sai non parlare!» Il tono è sempre più brusco, gli occhi si incendiano, le mani 103


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si muovono da una parte all’altra all’impazzata. Il nordafricano beve un lungo sorso della sua bevanda ghiacciata. Nel frattempo, il silenzio. Quando riprende a parlare è molto più calmo. «Ti assicuro che per ogni atto di violenza e per ogni scippo fatto da qualche delinquente ci rimette l’intera comunità di immigrati. Te lo ripeto: queste cose danno più fastidio a noi che a voi. È per colpa di quei delinquenti se gli italiani hanno paura, se non ci rispettano e se qualcuno ci odia.» Iniziato a tre, il dibattito ormai è circoscritto tra l’italiano, sempre più beffardo, e il nordafricano, sempre più infervorato nello spiegare le sue idee. «Bravo, mi hai quasi convinto» gli risponde l’italiano con un sorriso di scherno. «Sai qual è il problema? Girando tra queste vie, scusami se te lo dico, mi sembra che non ci sia solo “qualche delinquente”, ma ce ne siano centinaia. E mi sembra anche che i tuoi amici musulmani sputino tanto sul cristianesimo ma intanto vadano tutti a mangiare e a dormire ospitati dalle organizzazioni religiose italiane e cattoliche. Perché non fate un bel progetto anche voi? Le moschee le avete, e non mi sembrano povere. Come mai non organizzano qualche progetto sociale? Come mai non si oppongono come si deve alla delinquenza, allo spaccio di droga? C’è forse qualche interesse dietro?» Domande di questo tipo me le sono poste anch’io in questi mesi. Come mai l’associazionismo migrante, soprattutto religioso, fa così poco? La disorganizzazione dei centri islamici torinesi è obbligata o voluta? «Siccome siamo musulmani» ha scritto Mohammed Lam104


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suni,49 poeta e scrittore di Casablanca immigrato a Torino, «dovrei dire forse che il Cottolengo fa schifo e i due centri islamici vicini sono migliori o perfetti? Il primo serve cinquecento pasti il giorno e offre vestiti e medicine agli stranieri, a noi; i secondi fanno solo affari e discorsi sulla menta e sullo zucchero». È una questione da approfondire. Allungo l’orecchio il più possibile per sentire bene la risposta del nordafricano. «La comunità marocchina è troppo frammentata purtroppo, e non abbiamo esponenti rappresentativi che possono parlare per tutti.» L’italiano lo interrompe, quasi urlando: «Sì, tanto voi avete gli imam che parlano per voi e vi dicono cosa pensare!» La conversazione si fa sempre più tesa, i toni sono aspri e forti. Non ci sono più solo io a osservare. In molti nel locale ora stanno seguendo il discorso. Qualcuno si è anche alzato e prova a fare da paciere. «Tu» risponde il nordafricano, che adesso ha gli occhi arroventati, e quasi balbetta per quanto è arrabbiato, «mi vuoi provocare! L’unico nostro luogo di incontro, oltre alla piazza del mercato, è la moschea, o un centro islamico. Noi andiamo lì per incontrarci, lo sai? Andiamo lì per vedere gli amici e per chiacchierare, per avere notizie da casa, e per pregare anche, certo! Non è mica colpa nostra se alcuni imam si sono autoproclamati rappresentanti della comunità». «Adesso vuoi farmi credere che nessuno gli dà retta!» fa l’italiano. 49

M. Lamsuni, Porta Palazzo mon amour, Torino, Traccediverse, 2006.

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«No, amico, ti sto solo dicendo che di propria iniziativa si sono arrogati il diritto di parlare per tutti. E i media italiani li intervistano. Sono i giornalisti tuoi connazionali, prima di noi, ad alimentare la forza degli imam, e il risentimento della gente.» «Il potere della comunicazione!» risponde l’italiano. «Ma senti che argomenti tira fuori questo» e lo indica con la mano a beneficio dei presenti, tutti interessatissimi alla discussione, «per non prendersi le sue responsabilità. Il problema vero è che voi extracomunitari siete troppi. In Italia già non c’è lavoro per gli italiani, figuriamoci per gli stranieri». Se prima la conversazione mi interessava, quest’ultima frase non mi è piaciuta. In Italia non c’è lavoro per gli italiani… una banalità del genere fa sorridere ascoltarla da un ragazzino, figuriamoci da un uomo, e di cultura. «Scusami ma non è vero» intervengo io, d’istinto: «Guarda che solo in provincia di Torino nel 2005 ci sono state 23.000 domande di regolarizzazione. Operai generici o specializzati, muratori, operatrici domestiche. Quella è tutta gente che lavora, anche sottopagata. Di lavoro ce n’è. Il vero problema è che le quote previste per la provincia di Torino nel Decreto Flussi 2005 fissavano non più di un migliaio50 di regolarizzazioni. Sai cosa vuol dire? Che ci sono almeno 22.000 persone che vivono e lavorano onestamente in città, a cui non viene riconosciuto alcun diritto». L’italiano mi guarda torvo e, incredibilmente, anche il nordafricano non sembra troppo felice del mio intervento. Pro50

Per l’esattezza, 1.087. Fonte: FIERI, Forum Internazionale ed Europeo di Ricerche sull’Immigrazione.

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babilmente sono stato un po’ fuori luogo inserendomi di prepotenza nel discorso. Non pensavo di ottenere queste reazioni. Gli altri clienti del bar mi guardano senza espressione. Io arrossisco il giusto e finisco con calma la mia pizza mentre loro continuano a parlare con un tono molto più pacifico e composto. Anche impegnandomi non riuscirei più ad ascoltare ciò che si dicono. “Non sono stato gradito, ma perlomeno ho tranquillizzato una dibattito che stava diventando troppo focoso”, penso uscendo dal bar dei romeni, per risanare l’orgoglio ferito. La sera, porto Euse e altri amici a casa mia. Con l’automobile faccio più volte il giro dell’isolato per assicurarmi che tutto sia tranquillo. C’è chi è entusiasta della casa e del quartiere, ma non tutti ne sono altrettanto convinti. Usciamo subito. Passando in macchina, mostro velocemente i luoghi di cui racconto. Sembrano molto interessati, ma è meglio che non vengano qua troppo spesso.

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DURANTE LE OLIMPIADI NON SEMBRA DI VIVERE A PORTA PALAZZO Le giornate olimpiche, così strane, così multiculturali, così intense, così aperte al mondo, trasformano totalmente Porta Palazzo. Come d’incanto, diventa un quartiere modello. Tutti i giorni, oltre al normale mercato, c’è anche il Gran Balon. Moltissimi poliziotti garantiscono il buon andamento dell’evento. I maghrebini che stazionano perennemente sotto casa mia e che sembravano parte integrante della via, così come la strada e i mattoni degli edifici, spariscono magicamente per qualche settimana. Incredibilmente Porta Palazzo diventa un luogo sicuro anche di notte. In centro città c’è il delirio. Gente dappertutto. Mi sembra di essere a capodanno a Madrid. Nelle notti bianche torinesi centinaia di migliaia di persone in strada chiacchierano, si divertono e si ubriacano per l’immensa gioia di chi ha un’attività commerciale in una qualunque parte del centro. Per le strade si respira un’aria frizzante, briosa, magica. Decine di migliaia di turisti affollano la città. E qualcuno viene anche a Porta Palazzo. Gli americani vanno matti per le cianfrusaglie del Balon. Vedo con i miei occhi una coppia di statunitensi che compra, per giunta a prezzi maggiorati, i più inutili ciarpami esistenti e un sacco di libri di scuola vecchi, unti e pressoché inutilizzabili. Mi chiedo 108


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cosa se ne facciano. Gli stessi commercianti li guardano con perplessità e un malcelato entusiasmo denigratore. Una famiglia di turisti del Nord Europa alle dieci di sera discute il programma per la serata. Sono fermi in piazza, all’angolo con via Cottolengo, hanno una cartina in mano e ragionano con calma sulle varie possibilità che la città offre. Io sto transitando in quel momento. Ho l’impulso di correre verso di loro, di invitarli ad andare a parlare da qualche altra parte. Qui può essere molto pericoloso. Poi mi guardo in giro. In questo periodo piazza della Repubblica è tale e quale alle altre piazze della città: accogliente, gioiosa e sicura. Solo pochi giorni fa non l’avrei giudicato possibile. Ma una ragione c’è: oltre alle migliaia di turisti, a Torino in questi giorni ci sono orde di giornalisti. Sono addirittura più numerosi degli atleti (3.000 contro 2.500). Le autorità hanno capito che devono tenere sotto controllo anche i punti più caldi della città. “Sicuramente per ottenere questa tranquillità” penso malignamente “avranno trovato accordi con le organizzazioni criminali”. Dietro casa mia, al Cimitero dei Francesi di San Pietro in Vincoli,51 un monaco tibetano vive in un tendone e fa lo 51 Cimitero dei Francesi di San Pietro in Vincoli: vecchio cimitero tardo settecentesco, fatto costruire da Vittorio Amedeo III per seppellire le vittime dell’epidemia di peste scoppiata nel 1776. Contemporaneamente, subito fuori dalle mura, sono stati costruiti un cimitero dei giustiziati e dei giustizieri e un altro per i suicidi e i non battezzati. Per questa ragione i torinesi avevano l’abitudine di chiamare il cimitero “Camposanto degli impiccati”. È stato chiuso nel 1854 perché vi avvenivano riti satanici e saccheggi di tombe. Il cimitero ha conquistato una certa fama per avere ospitato la statua della “Dama velata” alla memoria della principessa russa Barbara Beloselski, morta a Torino nel 1792. Leggenda narra che il fantasma della principessa si aggirasse di notte tra le tombe. Il cimitero è ora adibito a biblioteca.

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sciopero della fame per richiamare l’attenzione del mondo sulla situazione del Tibet.52 Protesta contro l’occupazione cinese e il conseguente genocidio della popolazione tibetana, la repressione delle libertà civili, le violazioni dei diritti umani.53 Su consiglio del Fascio, vado a dare un’occhiata. Firmo la petizione ed entro nella sua tenda. Vedo il monaco, sta bevendo un tè caldo mentre rilascia un’intervista a una giornalista. È rasato e indossa una tunica arancione, ha un tono di voce melodioso e piacevole. Mi sembra di essere in un film. Saprò più tardi che il monaco ha settantacinque anni (di cui ben trentatré passati nelle carceri cinesi) e non mangia da tredici giorni. Per qualche ragione (forse perché, non invitato, sono entrato nella sua tenda senza permesso) mi fissa costantemente. Ha uno sguardo sincero, calmo e ospitale, ma anche orgoglioso e talmente penetrante che non riesco a sostenerlo, e puntualmente quando i nostri occhi si incrociano distolgo lo sguardo. Me ne vado sorridendo, contento di aver vissuto questi minuti, così semplici, ma che mi rimarranno nel cuore.

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Si tratta di Palden Gyatso e dei suoi compagni Gathong Jigme e Sonam Wangdue. 53 La Cina ha ospitato i Giochi Olimpici del 2008. La fiaccola olimpica è partita dalle montagne tibetane. «È come se la Germania la facesse partire da Auschwitz» ha commentato Beppe Grillo.

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TUTTO TORNA COME PRIMA Le Olimpiadi sono finite e iniziano i rimpianti. Come prevedibile, Torino è triste. L’altra mattina, a ricordarmi che la vera piazza della Repubblica non è quella olimpica, ci hanno pensato cinque quindicenni marocchini. Storditi dall’alcool e dalle droghe, durante un litigio hanno pensato bene di salire sul tetto del mio condominio e lanciarsi addosso le tegole.54 Fortunatamente non sono mai riusciti a colpirsi, e così nessuno di loro si è fatto male. Ma il fatto che non centrassero il bersaglio ha significato anche che le tegole lanciate, dopo un volo di sei piani, andassero a schiantarsi sul marciapiede affollato di gente e sulle macchine in sosta. Accorsi sul posto alcuni poliziotti, i ragazzi hanno poi tentato di colpirli gettando mattoni. La situazione è stata portata a stento alla normalità. Porta Palazzo, quindi, rivive come prima. Anzi, a giudicare dal movimento di persone dall’aria poco rassicurante delle serate post-olimpiche, più di prima. Se poche settimane fa sotto casa stazionavano gruppi di decine di nordafricani, ora ce sono centinaia. Devono rifarsi alla svelta del tempo perso. Io ormai sto diventando di zona, mi aggiro tranquillo nel54

È successo il 22 febbraio 2006. La scena ha avuto risalto nelle pagine dei quotidiani locali.

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l’oscurità di piazza della Repubblica e nessuno prova a toccarmi. A vendermi qualunque tipo di droga invece sì, ma su quello dubito che la smetteranno mai. Passo a prendere Puccio nell’ormai deserto villaggio olimpico del Lingotto. Stasera ceniamo insieme. Lo porto a casa. I maghrebini sembrano in forma, ma oltre ai soliti tentativi di venderci della droga non succede nulla. Poco più tardi, dopo cena, quando usciamo per andare al Quadrilatero Romano per una birra, ecco che un marocchino ubriachissimo prova la “Zidane” su Puccio, che aveva diligentemente lasciato tutti i suoi averi a casa mia. Io passo indisturbato. Mi chiedo se non mi toccano perché ho il cappotto lungo, cosa che impedirebbe il borseggio o il furto del portafoglio se non con l’uso della forza, oppure perché, per una qualche incomprensibile ragione, do meno nell’occhio. O forse ormai hanno capito che se abito lì significa che non ho troppi soldi in tasca. Misteri. La serata procede bene. Chiacchieriamo tanto. Puccio mi tiene informato sugli ultimi pettegolezzi e non vuole più andare a dormire, nonostante l’ora tarda. Io invece sono molto stanco.

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LA VIA PIÙ COMODA È QUELLA DI ESSERE FORTE COI DEBOLI, E DEBOLE COI FORTI Passo il pomeriggio e la serata successiva a casa da solo, leggo molto e scrivo le mie sensazioni. Ogni tanto vado sul balcone e, con la scusa di fumare una sigaretta, guardo un po’ in giro. Davanti al mio balcone c’è un caseggiato abitato quasi interamente da romeni. Nelle mansarde dei piani superiori, i cui interni posso vedere con facilità da casa mia, stanno decine di persone. In quelle stanze così affollate l’odore non deve essere dei più invitanti, e così le scarpe le appoggiano sempre sulle tegole del tetto, attorno a una finestra-avista-cielo. I sabati e le domeniche, nei momenti in cui tutti gli abitanti della mansarda sono a casa, sul tetto ci sono decine di paia di scarpe. Fa impressione. Sto guardando i loro movimenti. Ma ogni tanto butto l’occhio sulla strada, tornata ad essere, dopo le settimane olimpiche, luogo di perdizione. Una banda formata da una decina di maghrebini sui sedici o diciassette anni si sta muovendo compatta. Davanti a loro, un ragazzo nero gigantesco cammina nella stessa direzione dandogli le spalle. I maghrebini bisbigliano, mi sembrano 113


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sovreccitati. A un tratto un ragazzo, probabilmente il capo, parte di corsa e spacca una bottiglia di birra sulla testa del nigeriano. Lui è grande e grosso, non cade neanche a terra, ma rimane stordito. In un attimo, dopo il colpo, si ritrova dieci ragazzini addosso che lo prendono a calci e pugni. Si accascia sull’asfalto, mentre i maghrebini continuano a picchiarlo. Io urlo dal balcone, ma nessuno ci fa caso, neanche loro, sono troppo coinvolti nella rissa. Lo lasciano per terra, sanguinante, gli rubano il portafoglio, il cellulare, e anche le scarpe. Probabilmente era un regolamento di conti. Lo stavano aspettando. Altrimenti non mi spiego perché gli abbiano rubato anche le scarpe. Non erano nuove, non erano belle e, soprattutto, erano grosse il doppio dei loro piedi. Dopo l’aggressione i maghrebini scompaiono. Sto per chiamare un’ambulanza (di chiamare la polizia non se ne parla, ci ho rinunciato mesi fa, tanto vengono solo il mattino successivo) quando arrivano altri nigeriani che raccolgono letteralmente l’amico da terra e lo portano via. Attacco il telefono, loro sapranno cosa fare. Sono cose all’ordine del giorno. I maghrebini fanno paura, attaccano sempre in gruppo, mentre se li trovi da soli sono degli agnellini. Ogni tanto, di notte, se non ci sono le bande e se sta passando un nordafricano da solo, prendo a camminare a pochi centimetri da lui, standogli addosso il più possibile. Generalmente il ragazzo si gira di continuo per scrutare i miei movimenti e per controllare che non gli faccia dei brutti scherzi. La cosa mi dà sempre grandi soddisfazioni. Mi rompono le palle tutte le sere e poi quando sono da soli si cagano sotto. Neanche pesassi centoquaranta chili e girassi con una pistola in mano. 114


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Non capisco chi sostiene che non esistano differenti etnie e che siamo tutti uguali. Le etnie di Porta Palazzo sono diverse eccome! Hanno modi di fare e stili di vita opposti. Vivendo nel borgo e, nello specifico, tra le vie dove è più percepibile il disadattamento sociale, non riesco a esaminare i percorsi di vita degli stranieri che hanno un lavoro onesto e si sono integrati, anche perché la loro vita è molto meno “visibile”, mentre con i ragazzi di strada ho rapporti quotidiani. Mi riferisco alle differenti forme di delinquenza che queste etnie hanno creato a migliaia di chilometri da casa. I popoli dell’est, che qui sono rappresentati per la maggior parte da romeni e albanesi, appaiono compatti e solidi, grandi bevitori, potenzialmente pericolosi e sicuramente controllati da una forte mafia nazionale. Sono dediti allo sfruttamento della prostituzione, ma non nel borgo, perché lasciare le prostitute da sole in queste viuzze sarebbe cosa molto poco saggia. Tra i romeni puoi vedere anche famiglie e, tra tutte le etnie, è quella che maggiormente pare ricreare un modello di vita sano, grazie alla varietà sociale e culturale, alle differenze di età e a un’immigrazione sessualmente bilanciata. I popoli dell’Africa sub-sahariana, per la maggior parte nigeriani, gabonesi e senegalesi, stanno spesso in gruppo, generalmente si dispongono in cerchio, oppure a semicerchio se sono vicini a un muro. Sono presenti costantemente sul territorio. La loro mole massiccia li rende temibili e rispettati dalle altre etnie. Controllano la prostituzione delle donne di colore e lo spaccio di eroina e cocaina. Spesso vedi che traf115


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ficano anche con l’oro, in maniera per me niente affatto chiara. Sembrano organizzati e potenti, difesi da un fortissimo orgoglio etnico, sconosciuto agli altri popoli, che li unisce e gli permette di aiutarsi l’un l’altro. Sono l’unica etnia che non sfrutta le mense gratuite e le case di aiuto di cui Torino è ricca. Non ho mai visto una persona di colore ubriaca, o se lo era comunque manteneva sempre controllo, prudenza e dignità. Non li ho mai visti fare uso di droghe, anche se vivono vendendole. So che volendo sono molto pericolosi e molto ben organizzati, ma forse proprio per questo rappresentano per me di gran lunga l’etnia migliore. Talmente tanto che, quando ho paura sotto casa o la situazione si sta mettendo male, mi rifugio sul loro territorio, dove sono certo che nessuno mi toccherà. Tanti ragazzi di colore sono sposati e hanno una famiglia, le donne sono massicce e risolute come i loro mariti ma poco presenti sulla strada. I cinesi sono invisibili. Sono dappertutto ma non si fanno mai notare. Comprano negozi, ristoranti e case in contanti, ma a nessuno è ben chiaro da dove provengano tutti quei soldi – anche se, forse, sono solo il frutto di un duro lavoro. Sembrano comandati da un forte potere che li regola e li opprime. Il fatto che i maghrebini non li tocchino mai significa che la loro mafia è molto potente e fa paura. I maghrebini sono di gran lunga l’etnia più pericolosa. Ne avevo già la percezione prima di venire ad abitare qui. La nottata del 2002 al Valentino ne era stata una labile ma dolorosa conferma. Volevo evitare, però, nei limiti del possibile, di trasformare un fatto contingente come un’aggressione in un principio assoluto. L’esperienza a Porta Palazzo mi sta convincendo. 116


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In strada, l’organizzazione dei nordafricani consiste nella disorganizzazione. Si tratta di un’immigrazione giovane e maschile che vive secondo la legge di Hobbes: l’uomo è predatore dell’uomo, e non solo nei miei confronti, ma anche tra loro stessi. Sentono molto la fisicità, per questo ti fanno la Zidane ogni volta che passi. Spacciano hashish e cocaina, e ne consumano più di quanta ne vendano. Girano in gruppo e assaltano in gruppo, come cani randagi. Capita che si scontrino tra di loro, e sono sempre risse spietate. Tanti sono minorenni, bevono troppo ed esagerano con le droghe, quando ci hai a che fare di notte non sai mai come comportarti e come reagire alle loro inevitabili provocazioni. Con tutte le attenuanti del caso, i maghrebini di Porta Palazzo sono un’etnia difficilmente gestibile che dimostra quotidianamente di vivere secondo la logica del “forte coi deboli e debole coi forti”. O gli fai paura o ti fanno paura, o sei un predatore o diventi la loro preda, travolti da un conflitto perenne senza vincitori né vinti. Vivendo qui ho imparato a temerli, e per questo anche a odiarli.

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UNA SORPRESA MI ASPETTA Oggi piove fitto e tira un vento tagliente. Sto lavorando molto. A casa mangio e vado a dormire, al massimo ho la forza di leggere qualche pagina prima che i miei occhi decidano di chiudersi. A un tratto, qualcuno bussa con forza alla porta. Non ho voglia di alzarmi e di andare ad aprire. Se è qualche mio amico mi chiamerà sul cellulare. Se non è un mio amico può anche tornare un’altra volta. Rimango sdraiato ma il rompipalle prosegue a bussare con veemenza. Imprecando mi alzo e vado ad aprire. Alla porta, bagnato e infreddolito, c’è Tigre. Sono contento di vederlo ma non voglio dimostrarglielo, visto il suo comportamento. Lo faccio entrare in casa con una certa riluttanza e simulando disappunto. «Scusami, amico, non mi sono comportato bene l’ultima volta che ci siamo visti, hai ragione.» Si siede, nello stesso posto in cui si era accomodato l’altra volta. Vede il computer portatile sul tavolo e mi chiede che cos’è. «Un computer» gli rispondo scocciato. «Sai adoperarlo? Io non l’ho mai usato.» Lascio cadere l’argomento. Non me ne frega niente. Ho invece la forte esigenza di capire molte cose da lui. Oggi è più disteso, ma sembra comunque angosciato. Gliene chiedo la ragione. 118


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«No, figurati, fratello, sono tranquillo, sono solo passato a salutarti.» Quest’ultima affermazione, per me ovvia fino a qualche secondo prima, ora mi puzza un pochino. Nel dubbio, gli propongo di andare a fare quattro passi. «No, fratello, sono stanco. Stiamo un po’ seduti qui, e poi andiamo a fare un giro e ti offro una birra» mi dice. Mi sembra di nuovo spaventato. «Usciamo ora, non mi va di stare a casa», mi impunto, per vedere come reagisce. Comincia a pregarmi. “Lo sapevo” penso: “Stava di nuovo scappando. E ora vede nella mia casa un rifugio utile e comodo. Altro che ‘ti passo a trovare’. Più che altro ‘ti uso per scappare’!”. La situazione, ora, non mi piace per niente. Un ragazzo albanese incrociato per cinque minuti una sera si permette di venirmi a bussare in piena notte e di infilarsi a casa mia per trovare rifugio. Chissà da cosa, forse dalla polizia. Magari si è macchiato di un crimine tremendo e io gli offro assistenza. Ma in realtà non è neanche questo. Nel profondo, ciò che più mi irrita è che Tigre non veda in me, ma solo nella mia casa, un rifugio dai pericoli, mentre io sono il rompipalle con cui, volenti o nolenti, bisogna fare i conti per raggiungere l’obiettivo. Come avevo idealizzato la situazione! È vero, sono proprio un ragazzetto che vive lontano dai problemi della strada e per questo l’ha idealizzata. Di colpo capisco che in realtà voglio buttarmi in certi ambienti solo per il fascino che la vita di strada esercita su chi, come me, ne ignora il significato, le sofferenze e le miserie. La lotta per la 119


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vita è palpabile, vera, e adesso inizio a rendermene conto. Per la prima volta, il mio rapporto con Tigre, e con Porta Palazzo, mi è chiaro. Ho guardato troppa televisione e letto troppi libri buonisti. Tigre lo sa benissimo, la cosa deve essergli stata chiara dal primo momento, nonostante i miei futili tentativi, nell’abbigliamento e nell’arredo della casa, di nasconderlo. Ed è proprio per questo che si presenta a casa mia quando vuole, e quando vuole non mi saluta per la strada. Potrebbe spiegarmi mille cose, inventarsi un sacco di scuse, ma la verità è questa. Ormai lo so. Sono arrabbiato, e soprattutto mi vergogno. Con rabbia dico a Tigre di andarsene e di non farsi più vedere, salvo poi ravvedermene e chiedergli di restare. Lui è disorientato dal mio comportamento, ma si risiede volentieri. Il mio atteggiamento altalenante gli scioglie la lingua. «In Albania non si mangiava. Io e i miei amici stavamo tutto il giorno fuori casa. Eravamo piccoli, giravamo per la nostra zona. Cercavamo cibo, ogni tanto giocavamo a calcio con le palle di fieno, o a nascondino. Tornavamo a casa la sera all’ora di cena. Ma c’era la guerra civile e poca roba da mangiare.» È la prima volta che sento parlare dei problemi dell’Albania degli anni ’90 in termini di guerra civile. La cosa mi stupisce e mi rattrista allo stesso momento. “Forse è solo un difetto dovuto alla sua scarsa conoscenza della lingua italiana” penso, ma è più una speranza che una considerazione. Vorrei fermarlo per chiedergli qualcosa in più, ma lui è un fiume in piena. Si è aperto, gli è scattata una molla. Il suo racconto ora è incontenibile, travolgente. 120


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«Poi un ragazzo un po’ più grande di noi» continua Tigre mentre gli brillano gli occhi «ci ha detto che alcuni suoi conoscenti erano venuti in Italia, e che lì adesso stavano bene. Ci ha detto che pochi giorni prima uno di questi suoi amici era tornato in Albania portando regali a tutta la famiglia e che era a bordo di un’auto nuova, fabbricata in Germania. Nei giorni successivi io e il mio gruppetto di amici non abbiamo parlato d’altro. Dopo una settimana abbiamo deciso di provarci anche noi». Ha gli occhi lucidi, le mani lisciano i capelli e la voce diventa tremolante. Sembra che stia per scoppiare in lacrime, ma forse è solo una mia impressione. È molto emozionato. Parla con toni vivi e calorosi. Mi dice che si sono infilati in un TIR, il conducente non ne sapeva niente, hanno passato il confine con il Montenegro, la Croazia, la Slovenia, e infine la frontiera italiana. Nascosti nel camion, da Durazzo a Roma, il buio, il freddo violento, il tempo che non passava mai. «Avevo paura. Per fortuna che ero con i miei amici» mi dice con aria bonacciona, «altrimenti non so proprio come avrei fatto… ». Con loro avevano un chilo e mezzo di hashish. Erano in otto nel rimorchio del TIR, e i soldi ricavati dalla vendita della droga, una volta arrivati in Italia, sarebbero serviti per il primo periodo di ambientamento nel nuovo Paese. «Quanti anni avevi?» gli chiedo. «Dodici» mi risponde guardandomi nelle palle degli occhi, mentre io rimango sbigottito, a bocca aperta. Io a dodici anni non uscivo ancora di casa da solo, se non 121


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per il breve tragitto fino a scuola. Lui a dodici anni ha lasciato la famiglia, si è chiuso in un TIR con un chilo e mezzo di hashish ed è andato a cercare fortuna in un paese straniero. Forse non ha tutti i torti a essere un po’ incazzato col mondo. E anch’io però non ho tutti i torti a essere incazzato con la gente come lui, visto che tutte le notti sotto casa provano a derubarmi. La situazione dell’immigrazione è ancora più complicata di quanto possa sembrare. Tigre mi dice che il primo periodo è stato il più difficile. Si è spostato da una regione all’altra e di città in città. Per ragioni che non vuole condividere con me ha perso tutti i suoi amici per la strada. Alla fine è arrivato a Torino da solo, e ha trovato altri ragazzini albanesi, come lui, con una storia molto simile alla sua. «Tutto ero meglio che non mangiare. E poi lì la gente era molto aggressiva.» Si alza la maglia e mi mostra uno sbrego di qualche centimetro sulla pancia. Si è anche preso una coltellata tempo fa. Di nuovo divaga senza darmi spiegazioni. E così, come un bambino che la vita ha fatto svegliare molto presto, ha trovato Porta Palazzo, e ora si ritrova a casa mia. Lo fisso con intensità, i pensieri viaggiano più veloci delle parole. Ci guardiamo. Lui, Tigre, che non ha mai usato un computer e io, Fiorenzo, che non ho mai avuto fame. Non so come si guadagni da vivere nel quartiere, non l’ho mai visto spacciare, ma la cosa non è improbabile: sarebbe una buona spiegazione per le sue frequenti fughe attraverso il mio palazzo. Probabilmente è uno spacciatore che spesso 122


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esce dal suo territorio, facendo così infuriare i concorrenti che puntualmente lo mettono in fuga. Oppure è un borseggiatore, uno scippatore, uno di quelli da cui mi devo guardare quando rientro a casa la notte? Da un lato non mi dispiacerebbe neanche, magari quando per la strada sarò in difficoltà la cosa potrebbe tornarmi utile. La curiosità ovviamente fa da padrona ma, nel momento in cui gli chiedo cosa faccia nella vita, lui mi risponde che si occupa di tante cose e che si è fatto tardi e deve proprio andare. Non lo trattengo. Lo accompagno alla porta e ci salutiamo fraternamente.

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TRA VITTIMA E CARNEFICE IL CONFINE SPESSO NON È COSÌ MARCATO Dopo il lavoro, rifaccio la carta d’identità. Mi dispiace di non poter scrivere «piazza della Repubblica» sotto la voce “residenza”. Mi avrebbe dato una certa soddisfazione. Un po’ come, qualche mese fa, avevo gustato il piacere di quando l’addetto Italgas da cui ho fatto una voltura, saputo che mi ero trasferito a Porta Palazzo dalla Crocetta,55 ha sgranato gli occhi e mi ha chiesto se ero impazzito. «No, ho solo uno stipendio poco adeguato ai prezzi degli affitti» gli avevo risposto. Non mi era sembrato troppo convinto. Ho conosciuto Paolone, il ragazzo del negozio accanto a quello del Fascio. È giovane, sembra sveglio e gentile, mi ha fatto una buona impressione. Gestisce da anni quell’attività con la sua famiglia. Tempo fa avevano deciso di cambiare vita e si erano trasferiti in un paese della cintura torinese, ma non ce l’hanno fatta. Il richiamo del borgo era troppo forte, e sono tornati a vivere qui. Paolone mi dice che ora abita in via Cottolengo. Sento un forte impulso a stringergli la mano. 55

Quartiere di Torino noto per la sua tranquillità.

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È un posto in cui, anche quando ci sono i poliziotti all’angolo, cioè quando la mia parte di piazza è ripulita, rimangono costantemente gli spacciatori, che semplicemente stanno a una distanza di sicurezza, una quindicina di metri, non di più, dalla polizia. Penso che i suoi ritorni notturni siano ancora peggiori dei miei. La cosa mi sembrava impossibile, se non, forse, nelle periferie di La Paz. Perché, lo giuro, in questi anni ho girato tanto, e anche in luoghi non troppo raccomandabili, ma un angolo come quello tra via Cottolengo e piazza della Repubblica di notte lo annovero fra i tre più pericolosi che abbia mai visto. E ho vissuto la vita diurna e notturna, anche se solo per una manciata di giorni ciascuna, in città come Varsavia, Sarajevo, Mosca, Glasgow, Kraljevo, Istanbul, l’entroterra turco, Antalya, Zagabria, Belgrado, per citare le più pericolose. Glasgow è una città proletaria, con la più alta percentuale di tossicodipendenti e sieropositivi d’Europa, e ha delle periferie che fanno paura. A Varsavia stavo per prendermele da un naziskin polacco gigantesco e rasato a zero che odiava la mia maglietta anglosassone e il mio essere italiano. Lui era talmente grosso che pensavo che avrei salutato la vita in quella inospitale, immensa, splendida pianura polacca. Mentre mi urlava addosso io e il mio amico eravamo pronti a sfoderare una ginocchiata nelle palle, unica via di possibile salvezza, e ci spostavamo piano piano per metterci nella posizione migliore per fargli più male possibile. Alla fine ci ha detto che non ci avrebbe picchiati perché con noi italiani è troppo facile e non ne vale la pena. Eravamo d’accordo con lui. Nella periferia di Sarajevo mi è toccato scappare a gambe levate da una 125


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situazione “di fuoco”. A Istanbul mi hanno sguinzagliato addosso dei cani per spillarmi dei soldi davanti alle mura romane dell’imperatore Adriano. A Zagabria ho rischiato di prendermi un sacco di botte da un gruppo di ragazzi croati un po’ troppo focosi vicino alla stazione dei pullman. L’entroterra asiatico della Turchia è uno dei posti più poveri che abbia mai visto dopo il sud della Serbia e il nord del Kosovo, luoghi dove in qualche modo me la sono cavata. A Antalya mi hanno aperto la macchina mentre ci dormivo dentro, una notte caldissima e buia, al termine di un viaggio massacrante dalla Cappadocia, notte in cui sono finito a dormire per la stanchezza in un distributore di benzina nella periferia della città. A Mosca ho avuto il mio daffare con due ragazzi tartari che, pensando che fossi americano, erano ben intenzionati a derubarmi. Tutte esperienze fortemente adrenaliniche che si sono concluse felicemente. Il tutto per dire che qualche cosa nella vita l’ho visto. Ma Porta Palazzo è Porta Palazzo. Qui le regole sono diverse. Qui non ci sono regole. I ragazzini ubriachi che stazionano stabilmente nella notte con in mano bottiglie di vetro ne sono la conferma. È difficile capire quando e come reagire. È difficile per me, Fiorenzo, italiano, che prova a vivere con poco ma che la prossima settimana va qualche giorno a Londra a divertirsi e che non può pensare di vivere senza viaggiare. È difficile per loro, molto giovani, venuti qui senza genitori, in un Paese sconosciuto, con una lingua, una mentalità, un modo di fare differente; ragazzini abituati ad avere fame che si ritrovano in un luogo in cui si spende di più per dimagrire che per mangiare. Sono i ragazzi che passano tutta la not126


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te all’aperto cercando di rubare qualche portafoglio e di vendere un po’ di fumo, che dormono di giorno e vivono di notte, in costante lotta per la vita. E la lotta la concepiscono nell’unico modo in cui sono abituati: con la violenza. Sono loro le vere vittime, doppiamente, perché non se ne rendono conto, e quindi non fanno nulla per cambiare. Lo scrittore marocchino Lamsuni così parla dei minori suoi connazionali di Porta Palazzo: «E il minore straniero spacciatore? La sua presenza sul territorio è già un’assenza. Gioca con il rischio, con il coltello, con l’acido, col rasoio. Né la polizia, né la legge, né la religione, possono metterlo fuori gioco. La legge lo protegge. Un minore non va in galera e lui lo sa. Di conseguenza è onnipotente come Dio stesso. Giunge qui dal Marocco, ad esempio, trova la libertà, conosce già tutti i suoi diritti di minore, forte della protezione della legge italiana. Scatta il divorzio totale con i valori del suo Paese: niente oppressione, né famiglia, né polizia marocchina. Sa già che la polizia italiana è altra cosa. È la spirale della trasgressione. Sono almeno trecento, i minori che a Porta Palazzo cercano soldi per loro o per altri che li sfruttano. Basta sentirli parlare: sono volgari e violenti, non hanno né Dio né maestro. Questa è la nuova generazione, la seconda in Italia, di giovani emigrati. Sono la disperazione stessa. Questo tipo, questo essere, questa cosa sono gli immigrati spacciatori, adulti e minori, che si aggirano a Porta Palazzo fiutando affari e affari e affari».56 56

M. Lamsuni, Porta Palazzo mon amour, Torino, Traccediverse, 2006 (corsivi nel testo come nell’originale).

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Dopo un venerdì notte intenso, torno a Porta Palazzo con Euse verso le cinque del mattino. Le strade della città sono deserte, poche automobili sfrecciano nel buio incuranti dei semafori. Stiamo percorrendo corso Giulio Cesare ma, superato ponte Mosca,57 vedo in lontananza un grande assembramento di persone. Tempo di arrivare in piazza della Repubblica e mi ritrovo bloccato: tutti i banchi del mercato sono già montati, tutti i bar della piazza sono aperti, un sacco di gente dappertutto. Rimango incredulo per la vita del borgo alle cinque del mattino di un sabato come tanti. Faccio fatica a passare tra i banchi con la macchina. Tante persone imprecano perché di lì non sarei dovuto transitare. Saliamo a casa, siamo stanchissimi, ma non riusciamo a dormire per il baccano proveniente da fuori. Stanno montando anche i banchi e le bancarelle del Balon. Penso a quante persone in quel momento sono lì che lavorano, vivono, a che ora si svegliano per venire al mercato. Mi complimento tacitamente con loro per la forza di volontà che quotidianamente dimostrano. Alla fine mi addormento. Non sarà un sonno riposante.

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Ponte sul fiume Dora progettato da Carlo Bernardo Mosca e costruito nel 1823. L’opera era stata fortemente criticata e giudicata insicura dai torinesi per la sua struttura a una sola campata ribassata. Per dimostrare la solidità della costruzione, Mosca pranzò sotto il ponte con tutta la famiglia.

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C’È QUALCUNO CHE INIZIA LA GIORNATA IN PIENA NOTTE A pranzo torno a casa, oggi al lavoro è giornata part-time. Mi preparo la solita pasta col ragù e le olive e, mentre sono ai fornelli, inizio a guardare con il computer portatile No Man’s Land,58 il film di Tanoviç sulla guerra nei Balcani. Si tratta di una storia originale, coinvolgente e triste di due soldati, uno serbo e uno bosgnacco, in guerra tra di loro, che per caso si trovano assieme in una trincea tra i due fronti, nella “terra di nessuno”. L’ho già visto più volte, ma lo riguardo sempre volentieri. Sono concentrato, il film è bellissimo, mi dimentico di andare ai fornelli e non mi accorgo neanche dell’ombra immobile sulla porta. Quando alzo gli occhi ricordandomi della pasta, ormai scotta, vedo Tigre. Chissà da quanto era lì a fissarmi. Lo faccio entrare e gli offro di rimanere per pranzo. Lui ha già mangiato, gli spaghetti non li vuole, neanche il dolce, ma non rifiuta il solito bicchiere di vodka. Quando vedo che se lo beve in pochi secondi, temo che a furia di passare di qua mi diventi alcolizzato. Glielo dico, mi ricambia con un sorriso poco spontaneo. In effetti era una battuta del cazzo. 58

Film di guerra, 2001. Regista: Danis Tanoviç.

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«Tigre, ti vedo a pezzi!» gli dico, dopo che quasi si sdraia sulla sedia della cucina. «A pezzi?» mi chiede lui con il viso interrogativo. Capisco che c’è stato un fraintendimento e gli spiego che intendevo dire che lo vedevo stanco. «Eh, sì, ho appena finito di lavorare» mi dice, con le mani nei capelli. Lunga pausa. Mi ha parlato di lavoro, per la prima volta. Mi sembra anche un po’ imbarazzato. Senza volerlo, Tigre mi trasmette il suo stato d’animo. Rimango lì a pensare: “Glielo chiedo o non glielo chiedo che lavoro fa? L’altra volta non mi ha risposto. Dai Fiorenzo, non essere troppo curioso!”. Mi impongo di farmi i fatti miei. D’altronde, per la prima volta è venuto a trovarmi senza aver bisogno di nulla, perlomeno apparentemente. Ma la curiosità domina, e il lungo silenzio chiede di essere spezzato. «Sei stanco per il lavoro?» gli domando con una voce mansueta e pronta all’ascolto, cercando di nascondere l’imbarazzo che provo verso me stesso nel constatare che non sono stato capace di rispettare la sua riservatezza. Prima che lui apra bocca, autogiustifico la mia domanda pensando che, avendogli offerto un aiuto, devo essere sicuro di non mettermi in situazioni di potenziale pericolo. Ho trovato una scappatoia morale e mi sento immediatamente sollevato. Tigre non è altrettanto sereno per la mia domanda. Rimane immobile ancora per qualche secondo, allungato e stravaccato sulla sedia, poi si riassesta con mosse brusche. È nervoso. Non mi guarda negli occhi e mi evita. 130


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Ancora qualche secondo di silenzio. La situazione comincia a farsi insostenibile. «Beh Tigre, non sei mica obbligato a rispondermi: parliamo d’altro se preferisci, no? Che problema c’è?.» Lui si guarda le mani, poi alza gli occhi e mi fissa. Lo sguardo è prima spaventato, poi acuto, infine intenso. Gli sorrido. L’ho imparato da Terzani: «Quando sei in difficoltà, tu sii sereno e sorridi. Un sorriso può salvarti da molte situazioni di pericolo». La mia piccola esperienza fino ad ora gli ha dato ragione. Sorrido a Tigre e lui mi ricambia con un sorriso sincero, mettendo in bella mostra tutta la dentatura. Capisco che il rapporto tra me e Tigre è appena progredito alla fase successiva. In questi pochi secondi di silenzio lui doveva scegliere se fidarsi o meno di me e, a quanto sembra, ha optato per il sì. Tigre si frega le mani e inizia a giocherellare con una monetina sul tavolo. Con gli occhi fa una panoramica della stanza in cui siamo seduti, e poi inizia a parlare. «Vuoi sapere cosa faccio? Mi faccio un culo così!» mi dice. «Cioè?» gli chiedo, mentre lo guardo con aria interrogativa. «Cioè che mi alzo alle due e mezzo del mattino per andare al mercato. Prima monto il banco e poi tutta la notte a scaricare il camion, portare le cassette, spostare la roba. Alle cinque del mattino deve essere tutto pronto, ancora il tempo per un caffè e si ricomincia a faticare. E poi ricarica il camion, smonta il banco, fai questo, fai quello. Arrivo a quest’ora che sono morto.» E così Tigre è un onesto lavoratore, e si dà da fare nella vita sicuramente molto più di quanto faccia io. Mi rendo conto 131


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che vivendo a Porta Palazzo comincio a dare per scontato che tutti gli immigrati che si aggirano tra queste vie siano delinquenti. Certo, ho anche le mie buone ragioni per rimuginare queste sciocchezze, però sicuramente c’è tantissima brava gente. Tutti “poveri cristi”. Una cosa non mi spiego, perché stesse fuggendo la sera in cui l’ho conosciuto. Glielo chiedo, con un po’ di timore per la possibile risposta. Lui smette di giocare con la monetina e mi guarda negli occhi. «Un uomo mi aveva prestato dei soldi, e adesso li rivuole indietro. Ma io non ce li ho ancora tutti. Non posso ridarglieli, capisci?» Mi sembra arrabbiato, gli occhi in continuo movimento e un ambiguo gesticolare con movenze impetuose. «Quella sera in cui ci siamo conosciuti» continua Tigre «gli ho detto che doveva ancora aspettare un po’ di tempo, ma lui si è arrabbiato e io sono scappato. Sapevo che si poteva salire su per quella casa e scendere da questa, i miei amici me l’hanno detto mille volte di fare così se mi trovavo in difficoltà». «E dimmi ancora una cosa» insisto io: «Perché invece quel pomeriggio, quando quei due si picchiavano e tu sei intervenuto, hai fatto finta di non riconoscermi? Non potevi almeno salutare?». Mentre gli pongo questa domanda mi rendo conto di sentirmi ancora offeso per il suo comportamento. La mia voce calma è diventata astiosa. «L’ho fatto per te, non sapevo dov’era l’uomo dei soldi e non volevo che ti vedesse parlare con me. Tu abiti qui e probabilmente passando lo vedi tutti i giorni. È meglio per tutti 132


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che non vi conosciate. Non sapere è la cosa più intelligente che puoi fare da queste parti.» Ha ragione. Tutto mi sembra chiaro, ora. Non che la sua spiegazione mi renda particolarmente felice: un ragazzo in fuga da un usuraio a cui deve un sacco di soldi non è rassicurante, tuttavia mi fa piacere sapere che Tigre sia rimasto onesto, nonostante le mille traversie che ha passato. La cosa piace anche a lui; «Però» mi dice con malinconia «guadagno poco. Gli stranieri che hanno preso altre strade», e intanto con le mani mi fa il gesto di contare i soldi, «sono in coda alla posta in corso XI Febbraio59 quasi ogni giorno per spedire denaro a casa». Ne parla con un tono da ragazzo ferito nell’intimo, profondamente. I suoi occhi esprimono tutta la sua tristezza. «L’ultima volta che sono andato in Albania», e qui il suo sconforto lo sento nell’aria che respiro, «alcuni miei amici che stanno in Italia sono tornati al paese con l’automobile, l’impianto stereo, la televisione nuova da regalare alla famiglia. Tutti li invidiavano e si complimentavano con loro perché sono riusciti a fare fortuna». Scuote la testa, smette di parlare e ricomincia a non guardarmi negli occhi. «Molte famiglie» continua dopo qualche secondo di pausa «con i soldi che arrivano dall’Italia stanno ristrutturando la casa, qualcuno aggiunge nuovi piani. Quando vado giù mi vergogno perché la casa dei miei genitori è ancora come l’avevo lasciata quando sono partito». È una sensazione comprensibile la vergogna, se vedi che gli 59

Corso XI Febbraio è un viale a due passi da Porta Palazzo.

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altri ce la fanno ad aiutare a casa e tu no, o perlomeno non come vorresti. E poco si parla in famiglia di come fanno a guadagnare così tanto. Un genitore è come un innamorato: sempre incline a preoccuparsi ma sempre pronto a credere, fino all’ultimo, nella buona fede e nella rettitudine del proprio figlio. Poi esistono anche genitori che se ne fregano, o altri che pensano sempre al peggio, ma questo è un altro discorso. E così chi spaccia e chi ruba rientra nella categoria di chi ha successo e che cambia la vita dei propri familiari. Questo non è un elemento di poco conto. Lo spaccio di droga è la via più facile da prendere quando arrivi in Italia, e per giunta è anche molto redditizia, con cui «puoi fare del bene a chi vuoi bene». Questo pensiero, spiegatomi con la più totale semplicità da Tigre, non fa altro che complicare le mie considerazioni. Condanno apertamente la delinquenza, tanto più se la subisco con tale assiduità, ma ci sono infinite sfumature che rendono le cose controverse e contrastanti, che trasformano ogni realtà, rendendo il bianco nero e il nero bianco. Venire in Italia, fare una vita di merda e non riuscire neanche a spedire dei soldi a casa, oppure venire in Italia, fare una vita di merda lo stesso ma con dei soldi in tasca e sapendo che a qualche migliaio di chilometri di distanza c’è qualche tuo caro che, arrivato il suo turno alla posta, ti sta benedicendo?

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NON SON SEMPRE ROSE E FIORI La vita di Porta Palazzo, dopo un primo periodo di entusiasmo, si sta facendo sentire nei suoi lati negativi. Certo, di giorno è il luogo migliore dove avrei potuto decidere di abitare. Soprattutto nei weekend, quando c’è il Balon sotto casa e quando la piazza è piena di stranieri che si danno appuntamento per scambiare quattro chiacchiere. Loro sì che hanno ancora la cultura della piazza: si trovano, parlano, ridono, raccontano, condividono le loro esperienze. Noi italiani quella cultura l’abbiamo completamente persa. La domenica a casa a guardare la tv, o si va al centro commerciale a scialacquare quei quattro soldi che abbiamo in tasca. Io, per fortuna, la domenica me ne vado in Maratona a vedere il Toro. Anche quello è un grande luogo di aggregazione collettiva. Di notte comincio a sentire il peso del pericolo costante, e non ne ho più voglia. Il fatto che ogni ritorno a casa sia un’avventura, dopo un primo periodo difficile ma quasi inebriante, si sta facendo insopportabile. Vorrei essere più libero, non dover badare sempre al portafoglio e ai miei averi, oltre che alla mia incolumità o a quella di qualche mio amico. Peraltro mi rendo conto che inconsciamente, se non ho qualche appuntamento prefissato ma devo ancora organizzarlo, preferisco restare a casa. La non voglia di mettermi in situazioni di potenziale pericolo predomina sulla voglia di 135


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uscire. Oppure, per godermi un ritorno a casa coi fiocchi, devo fare tardi: dopo una cert’ora anche spacciatori e borseggiatori vanno a dormire. L’obiettivo prefissatomi con Ruben di tornare a Porta Palazzo di notte entro pochi mesi e di fermarci a chiacchierare con i maghrebini prima di rientrare a casa si fa più difficile del previsto. Un conto sono le nostre speranze, un conto è la realtà delle cose che, a ben vedere, è proprio sfavorevole. Porta Palazzo però mi serve, lo vedo quotidianamente. Continuo a non essere tranquillo nel rapportarmi con i giovani nordafricani, per ovvie ragioni, ma mi sento più sereno. La paura che il post-acido mi aveva lasciato a perenne ricordo di quell’esperienza mi sta passando. Faccio attenzione a tutto, adesso più di prima, però finalmente riesco a vivere i giovani maghrebini in maniera più spontanea, più distesa, slegata dalla brutta esperienza del Valentino. Riesco a rispettare e a farmi rispettare, anche arrabbiandomi talvolta, ma senza quel misto di timore, ansia e apprensione che avevo un tempo nel vederli in gruppo e nel sentirli urlare in arabo. Anche solo per questo, vivere a Porta Palazzo, per me, sta diventando un’esperienza fondamentale. Oggi sono tornato a casa dopo il lavoro e ho parcheggiato al solito posto, davanti al Fascio. Lui è nel suo negozio, mi vede ed esce. «Allora, tutto bene?» Sono contento, sembra felice di vedermi. Mi dice che tra pochi giorni abbatteranno il caseggiato qui dietro, quello vecchiotto ma splendido con la scritta Balon. Tireranno giù 136


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anche le baracche di ferro al suo fianco. Al loro posto costruiranno appartamenti, forse. «Mi dispiace tantissimo» mi dice mogio mogio, e mi sembra anche che gli vengano le lacrime agli occhi. «In quelle baracche andavo sempre a giocarci da gagno,60 ho tanti ricordi lì dentro.» Inizia a raccontarmi di quando era piccolo, e di come era diverso il quartiere. Sempre un posto di confine, pieno di immigrati, che in quei tempi erano meridionali. «Dovevi vedere quando partivano per le vacanze estive. Partivano tutti da qui, passavano da questo negozio,» e mi indica un negozio ormai chiuso, con le porte sprangate, «andavano lì a farsi montare il portapacchi e caricavano le macchine ai limiti delle leggi fisiche. Sai, all’epoca tutti gli immigrati tornavano dalle loro famiglie con tanti regali, soprattutto elettrodomestici: televisore, radio, stereo… », e qui io ripenso agli amici di Tigre, che vanno dai parenti in Albania esattamente con gli stessi beni. «E poi vedevi che tornavano dopo due o tre settimane» continua il Fascio «con le macchine di nuovo piene, ma questa volta di verdure, carne, frutta. Era un spettacolo, te lo giuro, uno spettacolo. Adesso non lo fa più nessuno. Anzi, ogni tanto capita ancora di vedere qualche marocchino, ma sono pochissimi». Mi interessa moltissimo il passato di Porta Palazzo, è fondamentale per capire il presente. «E sai qualcosa del periodo precedente all’immigrazione dal sud? La piazza del mercato di puro stampo torinese?» gli chiedo. 60

Gagno, in dialetto piemontese, significa ‘bambino’.

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Il Fascio mi stupisce di nuovo, è informatissimo su tutto. Mi descrive però una Porta Palazzo al confine tra il bizzarro e il fantastico, che assume il sapore della leggenda, filtrata e logorata da ripetizioni e interpretazioni personali. Per la prima volta nella mia vita, capisco il significato di “tradizione orale”, tanto studiata sui libri di scuola. «Mio nonno» dice «è nato tra queste vie alla fine dell’Ottocento. Mi raccontava sempre che quand’era giovane ai lati delle bancarelle del mercato c’erano contastorie, giocolieri, ciarlatani e teatrini di burattini. Tutto era colorato e festoso, tra le migliaia di voci si distingueva sempre il suono melodioso dei violini e delle trombe, prodotto da qualche musicista strimpellatore che viveva di elemosine. Il mercato era già vivo nel cuore della notte, i contadini venivano coi carri dalle campagne del torinese e preparavano i banchi con la luce fioca delle lanterne. Quando finalmente tutto era pronto, i commercianti aspettavano insieme l’alba». Che sia mezza realtà e mezza fantasia poco importa, l’immagine di Porta Palazzo degli inizi del Novecento è splendida. «E quando eri bambino tu, le cose erano molto diverse?» gli domando. «Sì, ma l’anima di Porta Palazzo è rimasta la stessa. C’erano alcuni personaggi che negli anni ’60 e ’70 animavano la piazza per racimolare qualche soldo. Mi ricordo del mangiatore di fuoco, delle coreografie dei saltimbanchi, di Maciste che sollevava dei massi giganteschi di cartapesta. Da gagno, “monsù61 Maciste” era il mio eroe.» Il Fascio comincia ad apparirmi come la memoria storica di 61

Monsù, in dialetto piemontese, significa “signore”.

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Porta Palazzo. Ha visto tante cose, ha vissuto tutti i cambiamenti della zona, ama il suo quartiere, nonostante i problemi che vive quotidianamente. Si ricorda anche dei primissimi immigrati stranieri. Era la seconda metà degli anni sessanta. Mi racconta di un certo Liao, un rigattiere cinese, ribattezzato da tutti Alfunsin,62 e di Gimmi, un africano, di dove non si ricorda esattamente, che parlava il piemontese e adorava il barbera. Passa poi a raccontarmi di un film, La donna della domenica,63 girato in parte tra le vie del Balon. Mi dice con entusiasmo che Mastroianni e la Bisset pernottavano qui e girovagavano per il mercato. «Affittalo quel film se ti capita. E, se ti fa piacere, ce lo guardiamo assieme, così ti spiego tutto.» Colgo l’occasione per invitarlo a cena appena riesco a scovarlo. «Però» gli dico «ci dobbiamo organizzare perché noi a casa non abbiamo la televisione». «Vuoi un televisore?» mi fa lui. «Tieni, prendi questo» e mi indica l’apparecchio che ha nel negozio: «Tanto io non la guardo mai». Gli spiego che la nostra è una scelta: non puoi conoscere il mondo attraverso la televisione, puoi osservare solo gli effetti, mai le cause. Le notizie alla tv sono superficiali e drammatizzate. «Sono d’accordo con te. Quando guardo i telegiornali mi arrabbio: le informazioni sono manipolate, soprattutto nella scelta degli argomenti. C’è il periodo in cui parlano sempre 62 63

Alfonsino, piccolo Alfonso, in piemontese. Film giallo, produzione italiana, 1975. Regista: Luigi Comencini.

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della guerra in Iraq, il momento delle pietre dal cavalcavia o della violenza ultrà e quello del bullismo nelle scuole. Anch’io non ho la televisione in casa. Vuoi capire cos’è il mondo? Vieni a vivere a Porta Palazzo, sicuramente qualcosa capisci.» Annuisco, interessato e al contempo affascinato. E poi ci mettiamo a parlare di politica, lui mette profondamente in dubbio la buona fede dei politicanti. Non è il solo da queste parti. Niente televisione a casa, notizie su internet, applicazione pratica della teoria del non voto. È un fascio, ma evidentemente abbiamo più pensieri in comune di quanto potevamo credere. Prima di andare via mi regala un sacchettino di cartone con l’immagine di Mastroianni mano nella mano con la Bisset al Balon. Quasi quasi mi commuovo. «Io vado a cena. Grazie di tutto» gli dico. «Figurati! A presto!» Mi incammino verso casa. Due bambini maghrebini sono seduti in mezzo alla strada. Mi vedono arrivare, saltano in piedi per vendermi del fumo. Li guardo bene. “Cazzo Fiorenzo, avranno dieci, massimo undici anni!” mi dico incredulo. Sono proprio dei bambini, piccoli. A vederli lì, buttati sulla strada, mi piange il cuore. Rifiuto le offerte e proseguo verso casa. Mi giro dopo pochi secondi, vedo che tirano fuori un sacchettino e inalano con foga il contenuto. Tirano la colla. Pensavo che lo facessero solo nelle fogne di Bucarest o nelle favelas a Rio de Janeiro.

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TORNO A CASA E INCONTRO MOHAMMED Cambia l’ora, da solare a legale, questa notte dormiremo un’ora in meno ma la sera farà chiaro più a lungo. Si sente che è arrivata la primavera. Mi chiedo come si modificherà la situazione sotto casa. L’ora del coprifuoco generale si sposterà più avanti? Ciò vorrà dire che i maghrebini andranno a dormire più tardi la notte e che quindi sosteranno un’ora in più sotto casa mia, con tutto ciò che comporta? Ci ho messo mesi per cominciare a capire qualcosa degli orari della zona, e ora cambierà tutto? Queste domande te le fai se vivi a Porta Palazzo. La cosa è inquietante quanto seducente. Arrivo a casa alle sette del mattino, nottata lunga. In piazza della Repubblica già mi chiedono se voglio droga. «No grazie, sto solo andando a dormire, questa notte ho fatto tardi» rispondo. Sul ballatoio incontro Mohammed, il mio vicino di casa. È al telefono, sento che parla in arabo. Allontana il telefono dal viso e mi chiede se sto tornando a casa. «Sì, tra due minuti starò già ronfando nel letto» gli rispondo. «Ronfando?» mi chiede Mohammed, scandendo bene la parola, con un’espressione interrogativa e l’aria un po’ perplessa. «Sì, nel senso che vado subito a dormire.» Ride. Poi, quasi urlando, mi dice: 141


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«Con te si imparano sempre parole nuove!» Ride più forte. Anche lui è appena tornato. Tempo di finire la telefonata e andrà a casa. «Buona notte Mohammed, stammi bene!» «Buona notte, Fiorenzo.» Un attimo dopo attacca il telefono. Mentre apro la porta di casa i nostri sguardi si incrociano. Come se non aspettassi altro, attacco subito discorso. Gli chiedo cosa pensa di Porta Palazzo: mi interessa conoscere le opinioni di un onesto immigrato nordafricano che vive nella patria della criminalità nordafricana. «In che senso?» mi fa lui. «Nel senso che qui sotto, non so come te la vivi tu, ma io qualche problema ogni tanto ce l’ho. Tu sei tranquillo? Ti senti sicuro?» gli chiedo. Mohammed prima di parlare mi sorride, ma non è un sorriso sereno: è quasi una smorfia. «Ci sono tanti stronzi in giro» mi dice lui, «soprattutto di notte. Loro mi conoscono, quando torno a casa ci salutiamo, io rispondo al saluto ma non voglio averci nulla a che fare. Fidati di me: da quelli bisogna stare alla larga». Questa volta sono io a sorridere facendo una smorfia. «Guarda, Mohammed, non ho bisogno di fidarmi di te, sul serio! Io provo sempre a stare alla larga… il problema, per quanto mi riguarda, è che non è così semplice stargli lontano! Ma scusa, a te non è mai capitato che ti dessero fastidio? Non ci credo!» gli dico, e comincio a essere un po’ agitato. «Sì, uff! All’inizio capitava sempre, perché sapevano che non ero uno di loro. Poi si sono tranquillizzati: io non do fastidio a nessuno, non me le cerco.» 142


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«Ah, perché secondo te io me le cerco?» gli rispondo; «Figurati! Io sono tranquillissimo, però di notte mi rompono sempre le palle! Appena possono mi fanno la Zidane, e la fanno anche a Ruben, il mio coinquilino. Io non ce la faccio più». Esagero un po’ i toni della mia esasperazione per vedere come reagisce. «Eh, lo so, ti capisco. Io e la mia famiglia» mi dice con un tono confortante «siamo fortunati: veniamo dalla stessa loro terra, parliamo la stessa lingua, ci facciamo rispettare più facilmente». Annuisco guardandolo negli occhi. Lui mi sorride con i denti marroni dei marocchini di Khouribga. «Senti» continua Mohammed, «ti do un consiglio: quando si avvicinano tu reagisci, spingili via, mettiti a urlare e sembra sempre aggressivo. È l’unico modo per toglierteli dai piedi». «Hai ragione Mohammed. Guarda, è il consiglio che mi stanno dando tutti quelli che vivono qui da tanto tempo». Gli racconto della prima sera, l’accerchiamento ai nostri danni e il furto del portafoglio, la nostra iniziazione alla vita di Porta Palazzo. Lui mi ascolta malinconico, poi inveisce e impreca. Continua a ripetere: «Che stronzi». «E avete provato a farvelo ridare indietro?» mi chiede. «Eccome se abbiamo provato! Ma abbiamo perso i ragazzi che ci hanno derubato e gli altri facevano finta di non saperne niente.» La litania del «che stronzi» continua inarrestabile. Mi ribadisce che di notte non dobbiamo permettere che i 143


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ragazzi nordafricani si avvicino a noi e, se capitasse, dobbiamo scagliarci contro di loro urlando e spingendo. «Tu la fai troppo facile, Mohammed. Io sono d’accordo con te, però per la strada mi ritrovo da solo contro tanti» gli dico, seccato. In realtà sono un po’ infastidito dal fatto che il mio amico maghrebino non si renda conto che non è così semplice “sbarazzarsi” dei ragazzi di via Cottolengo, di notte. «Hai ragione, Fiorenzo,» mi dice lui, ma fino a un certo punto. Ti assicuro che i ragazzi che vedi lì sotto sembrano tanto amici ma in fondo sono soli anche loro, perché non si possono fidare di nessuno». Lo guardo interessato e partecipe. Mohammed si avvicina a me e abbassa la voce. «Senti» continua lui, quasi sussurrando, «di solito non si aiutano tra di loro, lo so per certo. Al primo problema ognuno pensa solo a sé stesso. Se per la strada ti vedono deciso e sicuro, pronto a difenderti anche con le maniere forti, non ti toccheranno più, te lo garantisco». Forse il mio sguardo è fin troppo espressivo, Mohammed capisce che non mi ha convinto del tutto. «Se dovesse capitare di nuovo» prosegue «vieni a bussare alla nostra porta. Scendiamo io e mio fratello. Per i soldi non posso garantire nulla, ma almeno il portafoglio e i documenti li recuperiamo di sicuro». Gli sorrido, quest’ultima frase mi convince di più. Ci stringiamo la mano, mi augura di nuovo la buona notte ed entra in casa badando a non fare troppo rumore. Resto da solo sul ballatoio. Ho davanti l’immenso cortile 144


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interno, totalmente circondato dai caseggiati. Guardo in giro. Sulla scala di un palazzo di corso Regina vedo da lontano due ombre che si muovono. Le fisso. La scala è illuminata, ma purtroppo non vedo in faccia le due persone. Scorgo solo due figure, nere. Si stanno picchiando, ma si vede che è solo un gioco. Sembrano due ragazzi, probabilmente molto giovani. Si stanno picchiando per finta, anche se un po’ di male se lo fanno davvero. Mi ricordano le risse inscenate per gioco che ho visto al Ferrante Aporti, il carcere minorile di Torino. I ragazzi non sanno come passare il tempo e quello è uno dei giochi più comuni. Poi viene il calcio, ogni tanto, nel pomeriggio. L’ultima volta che sono entrato ho aiutato a distribuire alcuni opuscoli contro le droghe. Dei depliant con tante immagini e poche parole. Un ragazzo maghrebino mi si è avvicinato e mi ha detto, con il sorriso sulla bocca: «Grazie! Ci metterò almeno un quarto d’ora a leggere questo depliant... almeno per un po’ di minuti so cosa fare!». Penso che quel ragazzo di sedici anni, straniero, con quelle poche parole sincere e innocenti mi abbia fatto capire cos’è il carcere.

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L’APPROCCIO ALLA POLITICA NON È UGUALE PER TUTTI Questa sera tutta l’Italia è attaccata al televisore. Stanno trasmettendo gli exit poll delle elezioni politiche.64 Era da tempo che le votazioni non erano così sentite. Secondo la ricerca del Cicsene,65 negli ultimi anni a Porta Palazzo si è manifestata una crescente sfiducia verso il sistema politico, tradottasi in «una marcata tendenza a scegliere uomini e schieramenti di centro destra, e anche a disertare le urne». In queste elezioni tuttavia non scegliere è molto difficile. Io stesso, dopo anni di renitenza, questa mattina mi sono recato al seggio per esprimere le mie preferenze. Berlusconi è riuscito a fare anche questo. A casa la televisione non ce l’ho, voglio fare il superiore, ma non posso impedirmi di tendere l’orecchio verso l’appartamento dei vicini, dove sento Mentana blaterare a tutto volume. Con un certo sollievo apprendo che la sinistra è in vantaggio. Vedendo le percentuali dei sondaggi, Antonio dà inizio alla più interminabile sequela di imprecazioni che mi sia capitato di sentire. Sento che la moglie si dichiara ignorante in materia e gli chiede cosa stia succedendo. 64 Si tratta dello scrutinio per l’elezione dei candidati di Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, tenutosi il 9-10 aprile 2006. 65 Per la fonte vedi nota 31.

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«Questi hanno votato a Prodi, mannaggia cane. Non hai capito? Hanno votato a quel maiale di Prodi! Così ci alza le tasse! Non hanno capito che se votavano a Berlusconi lui ce le abbassava di nuovo, minchia!» urla Antonio. Lo sento sbraitare che Berlusconi è un imprenditore di successo, che da giovane non aveva niente ed è riuscito a creare un impero economico. Che Berlusconi ha lavorato tutta la vita, ha faticato più di tutti. Che è un vincente, e non può che fare il bene dell’Italia, com’è possibile che gli italiani non se ne rendano conto? Lui, Antonio, sa com’è possibile: perché il popolo italiano è troppo ignorante! Ascolto il monologo con il sorriso stampato sulla bocca. La moglie obietta che secondo lei Berlusconi non ha mai veramente ridotto le tasse. Ma Antonio non la lascia parlare e il suo tono di voce si alza sempre di più. «Stai zitta, cosa vuoi capirne tu che non puoi neanche andare a votare!» Lei deve esserci rimasta male, e lui deve essersene accorto perché, pronunciata questa frase infelice, abbassa il tono di voce e prende a parlarle in modo pacato e sicuro, come un padre che impartisce al proprio figlio una semplice lezione di vita. «Ti spiego qual è il problema: il finanziamento dei partiti. Prodi deve alzare le tasse perché deve sostenere il suo partito. Berlusconi può abbassarle perché cià i soldi per finanziarlo da solo, senza obbligare noi poveri a darglieli.» Il mio sorriso appassisce lentamente, fino a trasformarsi in una smorfia. È un’interpretazione della politica italiana perlomeno singolare. 147


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A CASA MIA NON OSO GUARDARE FUORI DAL BALCONE Non sto tanto bene e non vado al lavoro. Prima di pranzo mi chiama Ruben dall’ufficio. Questa notte, sotto casa, gli hanno sfondato la macchina. Parabrezza e lunotto posteriore. Cazzo, non ci voleva. Ieri notte in effetti era una serata molto calda. Non riuscivo a dormire, troppi pensieri per la testa. E, da una cert’ora in poi, urla, lanci di bottiglie, ragazzi che scappano, automobili che arrivano e ripartono a tutta velocità, con gran stridore di gomme bruciate, vetri che si infrangono. Mi avvicino alla finestra ma non oso neanche uscire sul balcone tanto la situazione sembra pericolosa. Provo a guardare dalle fessure delle persiane ma non ottengo risultati. Qualcuno urla «marocchini di merda», c’è gente per la strada, un grande andirivieni di inseguitori e inseguiti. Molte macchine in sosta ne faranno le spese, tra cui quella di Ruben. Almeno cinquecento euro di danni. Nonostante non mi senta molto bene, scendo per la strada, voglio vedere cosa è accaduto e assicurarmi che la mia macchina sia a posto. Fortunatamente ieri non ho trovato parcheggio davanti al Fascio, dove invece ha parcheggiato Ruben, e ho lasciato la macchina nella via adiacente. Arrivo alla mia vecchia Ford Fiesta del 1995 con il cuore in mano. Che bello, sembra integra. 148


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Faccio due passi in zona, voglio rendermi conto della Polo di Ruben e soprattutto parlare con qualcuno per capire gli umori della gente. L’auto del mio amico è conciata proprio male, cazzo, i vetri sono completamente sfondati, ma non è l’unico fortunato. Passeggiando, vedo tante macchine in quelle condizioni. In giro ne parlano tutti. Ieri i maghrebini hanno esagerato. La tensione si respira nell’aria. Ovunque vado si parla della nottata. «Qualcuno dovrebbe sparare dalla finestra e ucciderne uno» mi dice un’anziana meridionale, «esattamente come aveva fatto quella signora due anni fa. Solo che lei purtroppo aveva sparato con il fucile a canne mozze e non era riuscita ad ammazzare nessuno. Anche a San Salvario quest’estate qualcuno ha sparato dal balcone di casa su uno spacciatore. Tanto nessuno andrà mai a far la spia e a dire chi sia stato». Mi stupisco di me. Quando ha iniziato a parlare, per un attimo, sono stato d’accordo con lei. Poi mi sono fermato un secondo e ho afferrato di colpo la realtà delle cose: sto impazzendo. Forse Porta Palazzo mi sta facendo più male che bene. Proseguo la mia passeggiata. Ne parlano anche dal panettiere. «Non è possibile, ho chiamato tutta la notte la polizia e loro si sono presentati solo il mattino dopo, a prendere atto dei danni.» Questa volta è un ragazzo sui trentacinque anni a parlare. È molto alto, balbetta un po’. «E meno male che sono qui per proteggerci» prosegue “Pertica”: «Questi sono solo capaci di cagarsi sotto e lasciarci nella merda». 149


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Non è stato propriamente un signore, ma ha reso l’idea e, di nuovo, sono d’accordo con lui. I poliziotti a Porta Palazzo si vedono solo quando fanno le retate: armati fino ai denti, con il passamontagna in testa, sguardo spavaldo e manganello facile a prendersela con qualche clandestino onesto lavoratore. Ma di notte, quando via Cottolengo è in fermento e fai fatica a uscire di casa, quando decine di ragazzi si ritrovano per vendere droga e provare a derubare qualche malcapitato, quando non vedi un italiano nel raggio di centinaia di metri e lì sotto ci sei tu, da solo, in balia degli eventi, allora puoi star sicuro che, se anche li cerchi, se hai bisogno di loro, non li vedrai arrivare. Una o due pattuglie senza rinforzi non vengono qui sotto di notte: è troppo pericoloso. Così è Porta Palazzo, una nuova banlieue, un luogo dove l’illegalità è la normalità, dove non si può vivere una vita ordinaria, dove bisogna fare attenzione a uscire e a rientrare a casa. La mia paura è che tra non molto qui scoppi una rivolta, di quelle vere. Una rivolta per la vita, in cui troppe persone non avranno nulla da perdere.

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QUALCHE FORTUNATO I FILM DI SPIKE LEE CE LI HA SOTTO CASA Il clima nel quartiere è sempre molto teso. Per capire cosa sta succedendo e, soprattutto, cosa sta per accadere, passo a trovare il Fascio. Non c’è cosa che accada nel raggio di un chilometro dal suo negozio che lui non venga a sapere. Oltre alla sua presenza costante, il Fascio è un punto di riferimento per molte persone. Me compreso. Come prevedibile, davanti al negozio c’è un capannello di persone. Nessun cliente ma tanti uomini e donne che abitano nella zona. Chiacchieriamo. In molti sostengono, con cieco furore, che bisogna organizzare delle ronde notturne. «Ah, io lo dico da sempre. Bisogna menarli questi, è l’unico linguaggio che capiscono» risponde il Fascio con una voce profonda e coinvolgente che sembra mettere tutti d’accordo. Tutti attorno annuiscono. Vista sotto una certa ottica, purtroppo ha ragione. Se vivi la strada come fanno loro, giorno e notte, sempre pronto a derubare e ad attaccare come a difenderti e a fare attenzione di non essere derubato, l’unico linguaggio è la violenza. Passano una ventina di poliziotti, il primo è in borghese, sguardo da Miami Vice, una serie di telefilm tra il ridicolo e 151


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il faceto sulla polizia in Florida, che amavo guardare da bambino. Occhiali da sole, camminata impostata. Va dal Fascio, sembra che si conoscano da tempo. È il commissario di zona. «Allora, com’è andata stanotte? Sei arrabbiato?» «Ma figurati» gli risponde il Fascio con un tono denigratorio: «Avete fatto bene a non venire... cosa volete? Sono ragazzi! Che problema c’è? Bisogna lasciarli fare: fanno solo delle ragazzate, state tranquilli!». La mia stima per il Fascio cresce parecchio. Lo sta prendendo in giro in pubblico e in maniera neanche troppo sottile, ma senza mai cadere in una facile volgarità. Sta facendo ridere tutti. Tranne i poliziotti ovviamente. La scena è spassosa. Il commissario capisce l’antifona e prosegue la sua ricognizione. Ancora una decina di minuti e torno a casa. Ruben arriva presto, ha fatto anche la spesa. Purtroppo, com’era ovvio, la faccenda della macchina l’ha segnato molto più di quanto era capitato per il portafoglio quella prima notte. Ci è rimasto male. Mi dispiace molto. Subito non ha tanta voglia di parlare. Ceniamo, giochiamo a carte e guardiamo La 25a ora66 di Spike Lee, un film sull’ultimo giorno di libertà di un quarantenne, impersonato da Edward Norton, un uomo di media cultura e dalla vita sostanzialmente serena, nervosissimo perché il giorno successivo verrà rinchiuso in carcere per sette anni. Lui è visibilmente impaurito perché sa che dentro non durerà tanto. È un bel ragazzo, giovane, bianco, che non ha mai conosciuto la vita di strada. È uno spacciatore di “alto bordo” e non si è mai sporca66

Film drammatico, produzione USA, 2002. Regista: Spike Lee.

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to le mani con la delinquenza comune. In molti gli danno consigli su come affrontare la galera. «Sai Ruben, in alcuni momenti, per esempio quando il vecchio dice a Norton di “prenderne uno grosso, senza amici e di menarlo il primo giorno”, in modo che gli altri carcerati lo considerino un duro, mi ha fatto pensare al Fascio che, quella prima incredibile notte di Porta Palazzo, dopo che ci hanno derubati, ci consigliava di menare qualcuno perché ci guardassero con rispetto» dico, e non è l’unica cosa che me l’ha ricordato. Sono tanti i suggerimenti dati dai “duri” a Edward Norton ad avermi fatto pensare a frasi consigliateci in quei primi giorni. Ne parliamo. La cosa ci fa sorridere e inorridire insieme. Il giorno seguente dormo dai miei genitori, non sto ancora tanto bene. Tornando a casa, mi fermo a scambiar quattro chiacchiere in piazzetta. Sembra che ieri notte abbiano menato i marocchini. Questa mattina c’erano tracce di sangue sull’asfalto. Arriva il Fascio. «L’altra notte hanno distrutto le macchine sbagliate» mi dice.

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UN’USANZA ARABA È SCONFINATA IN EUROPA Migliaia di sacchetti di plastica vuoti volano nella piazza del mercato. Altre centinaia restano ancorati all’asfalto, carichi di verdura e frutta che non è stata venduta a tempo e che ora rimane per terra a marcire. Decine di persone di tutte le età e nazionalità passeggiano per la piazza e guardano all’interno dei sacchetti, esaminando con calma il contenuto. Buttano il marcio, il resto lo mettono nella borsa. Nulla va sprecato. Molti non aspettano altro che le bancarelle del mercato sbaracchino per intraprendere il loro consueto giro alla ricerca di verdura e frutta gratuita. Alcuni di loro sembrano signori distinti, forse con una sindrome alla Paperon de’ Paperoni o forse con quella di chi è povero ma ci tiene a un’estetica aristocratica. Fogli di carta volano al cielo. Mi guardo intorno. Vivo una sensazione splendida. La piazza, io ne sono al centro, è bellissima. «Amare le differenze» è l’insegna in almeno venti lingue che campeggia sulla struttura del vecchio mercato del pesce di Porta Palazzo. Al suo fianco, tra le tantissime scritte sui muri, spicca a caratteri cubitali «Solidali con i teppisti di ogni dove». In modi opposti, le due frasi significano la stessa cosa. Riprendo a passeggiare tranquillamente. All’angolo della 154


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piazza con corso Giulio Cesare stazionano i soliti gruppi di giovani maghrebini. «Ciao bello, cocaina buona! Hashish?» Sorrido scuotendo la testa. Non cambieranno mai. Passo sotto il breve porticato della piazza, dove sostano decine di spacciatori nelle nottate piovose, al riparo dalle intemperie. E poi via Mameli, altri maghrebini. Proseguo e oltrepasso il portone di casa mia. Attraverso via Cottolengo e la percorro, in mezzo a gruppi di stranieri di ogni sorta, per un lungo tratto fino quasi alla chiesa di Maria Ausiliatrice. La prima parte, gli isolati di casa mia e quelli dirimpetto, sono popolati da capannelli di maghrebini famelici. Oggi giocano a calcio, in mezzo alla strada, palleggiano e si divertono con un pallone di fortuna, probabilmente appena rubato o “requisito” in nome di un esproprio proletario dei giorni nostri. Più avanti, dopo il Cottolengo, ecco la zona dei romeni. Il Cottolengo è una grande istituzione di carità, chiusa all’esterno, paragonabile per estensione e organizzazione a una piccola città. 100.000 metri quadrati, quindicimila abitanti. Ricovera malati di ogni genere, ma nell’opinione comune dei torinesi rimane un luogo dove vivono matti e minorati fisici. Da bambino, pensavo al Cottolengo come un luogo lugubre e popolato da persone con due teste o senza braccia. Il Cottolengo fornisce quotidianamente centinaia di pasti ai poveri della città, per la maggior parte stranieri. C’è anche una chiesa Ortodossa. Entro nel cortile della chiesa. Sono curioso. Sembra un luogo rilassante. Gli alberi verdi riposano la vista, tutto intorno c’è un edificio d’epoca con un grazioso porticato perimetrale. Tanti romeni chiacchierano e sogghignano, 155


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seduti sulle panchine sotto gli alberi o passeggiando lentamente avanti e indietro. Questo cortile è per loro un luogo di ritrovo. Per la verità le persone non sembrano troppo serene. Purtroppo la chiesa è chiusa. Chiedo a due uomini se conoscono l’orario di apertura, nessuno di loro lo sa con esattezza. Sono tutti molto cortesi con me. Decido di andare via, probabilmente aprirà solo questa sera, l’attesa sarebbe troppo lunga. Mi riprometto di tornarci in un’altra occasione. Passo vicino all’ITIS Casale.67 Al suo interno l’Istituto Islamico da tempo organizza corsi domenicali di lingua araba. Sono circa 300 i bambini iscritti. Torno indietro, questa volta dal controviale di corso Regina. Passeggio davanti all’Afro Bar, supero i negozi dei nigeriani, dei senegalesi e dei cinesi. Vedo qualche italiano, sempre meno man mano che mi avvicino a casa. Ragazzi e uomini maghrebini bevono birra stravaccati sul marciapiede del corso. Sono gli abitanti degli appartamenti da cui sono fuggiti tutti quegli italiani che ne avevano la possibilità. Molti stranieri vivono in cinque o sei in una camera con il bagno esterno, alcuni senza acqua corrente. Hanno un aspetto e un modo di fare aggressivo. Nessuno mi dice niente. Tante bottiglie di vetro sono disseminate per terra. Serviranno come armi durante la notte. Più in là, magnaccia e spacciatori di eroina centroafricani disposti in cerchio controllano, come al solito, il loro territorio. Alla mia sinistra, negozi male illuminati e negozianti con il coltello pronto. Giovani extracomunitari senza lavoro transitano senza una meta precisa per le strade. Giovani extracomunitari lavoratori camminano velocemente a testa bassa per raggiungere 67

L’Istituto tecnico industriale “Casale” si trova in via Rovigo 19.

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la tranquillità casalinga, una faccia amica, il pasto caldo. Oggi pomeriggio sono uno di loro. Passeggiando con calma noto un ragazzo italiano che rovista dentro i bidoni della spazzatura con una ferocia innaturale. Voglio capire cosa diavolo stia combinando e mi giro una sigaretta con estrema calma fermandomi a pochi metri di distanza. Nel frattempo lui quasi si tuffa nella pattumiera e ne esce con una specie di pianale di metallo che appoggia delicatamente sul bordo del bidone. Poi rovista nelle sue tasche, prende una siringa e la posa sulla pattumiera accanto al pianale. Con un accendino, utilizza il metallo scovato tra i rifiuti per scaldare l’eroina. La gente passa avanti e indietro a pochi centimetri senza curarsi tanto di quel che accade. La sostanza ora è liquida. Il ragazzo prende la siringa e la riempie tremando. Poi si siede comodamente per terra e, appoggiato con la schiena al bidone della spazzatura, si inietta l’eroina nel braccio. Mi guardo in giro. Dalle facce che vedo intorno a me, sono il più stupito. Faccio la spesa qui dietro, in un minisupermercato con poca merce ma provvisto di controlli ferrei. Dappertutto all’interno è appeso un inquietante cartello, con disegnati una pistola, un coltello e un fucile e recante la scritta: «Fate attenzione al cane, al proprietario e alla sua famiglia». Il viso del commesso, uno dei membri della famiglia da cui bisogna guardarsi, in effetti non è molto rassicurante. Lì dentro se rubi un tonno ti tagliano la mano. E così capita che in un piccolo supermercato di Torino, posseduto e gestito da italiani, si minacci un’antica usanza araba. Misteri della globalizzazione. 157


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IN CUI SI RIVIVE LA FAVOLA DI HÄNSEL E GRETEL IN VERSIONE MACABRA Da un po’ di tempo, in strada, quando rifiuto le offerte di droga mi chiedono se ho da vendere qualcosa. Qualche giorno fa, sceso di casa, un gruppo di ragazzi maghrebini mi ha accerchiato. Mentre mi stavo convincendo che non me la sarei cavata, un gruppo di loro connazionali che bivaccava sul marciapiede bevendo birra si è alzato ed è venuto verso di noi urlando: «No, lui lo conosciamo, lasciatelo stare: abita qui!». Sensazioni di soddisfazione e compiacimento un attimo dopo mi hanno invaso il cuore. Mi sembrava di camminare a sei metri da terra, compiaciuto di me stesso e appagato di tutti gli sforzi. Quelle parole per me erano la conferma dei passi avanti nella vita di quartiere e nella mia storia personale. Avevo la sensazione di aver raggiunto un obiettivo, e portato a compimento un lungo lavoro di crescita personale e di cicatrizzazione di una ferita non ancora rimarginata. Dopo anni, finalmente la ferita stava guarendo. Con l’animo sereno e benevolo per quelle sensazioni ho vissuto la festa di Porta Palazzo. Tutta la piazza tirata a lucido, 158


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musicanti, giocolieri, un sacco di persone in giro, anche italiani, molto movimento e interessantissima mostra sul quartiere e sul mercato con fotografie dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri. Ho visto piazza della Repubblica con i carri e i cavalli, ho osservato come il mercato di Porta Palazzo si sia ingrandito sempre più, cambiando prodotti e commerci in base all’immigrazione. Ho osservato i mutamenti dei venditori e degli acquirenti, fino alle facce conosciute dei migranti di oggi. L’altro giorno, tornando a casa con Ruben, abbiamo visto delle macchie di sangue davanti al portone d’ingresso del condominio e sulle scale. Era piena notte, l’androne semibuio, quelle macchie sembravano le briciole seminate da Hänsel e Gretel per ritrovare la via di casa. Ma il percorso tracciato con il sangue purtroppo non era stato un atto volontario. Abbiamo seguito quelle chiazze, ce n’era quasi una per scalino, e sulle pareti. Con le mani sporche di sangue, qualcuno doveva aver risalito le scale, appoggiandosi al muro e alla ringhiera per sorreggersi, fino a un appartamento del nostro condominio. Nelle chiazze sul muro era ben visibile l’impronta di una mano. Il contorno lo lasci solo se ti appoggi non per agevolare la tua salita, ma perché hai bisogno di un sostegno, di un supporto, perché altrimenti non ce la fai. Qualcuno doveva essersele prese quella sera, e anche di brutto. Qualche macchia anche sulla porta d’ingresso di un’abitazione al secondo piano. Ruben e io non sapevamo chi abitasse lì e non ci è sembrato il caso di scoprirlo quella sera. Siamo rientrati a casa un po’ agitati, poi siamo scesi di nuovo, questa volta con la telecamera, per documentare il fatto. 159


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Sì, perché ormai sappiamo un sacco di cose su Porta Palazzo e quotidianamente assistiamo a eventi che la maggior parte dei nostri concittadini ignorano. E così, tutti i giorni, tentiamo di filmare la vita di questo luogo di frontiera, per farne una specie di documentario. Il progetto c’è, ma i mesi volano. Noi non resteremo ancora a lungo qui, il nostro anno sta per finire. Se da un lato l’idea di andarmene mi commuove e intristisce, dall’altro non vedo l’ora. Divento malinconico quando penso di dovermi allontanare dalle avventure vissute e dalle esperienze fatte tra queste strade, e rimugino su tutto ciò che vivere quelle emozioni mi ha trasmesso. D’altro canto, voglio andarmene tutte le notti quando torno a casa, quando vengo importunato e impreco solitario pensando che è proprio un posto di merda, o quando mi convinco che qui vivere una vita normale è impossibile. Questi sono i miei pensieri contrastanti. Una decina di mesi sono bastati perché una parte di me non veda l’ora di scappare. Io, che queste strade le ho scelte e non le vivo come un’imposizione, voglio fuggire. Pensate che desiderio di fuga possono provare tutti quelli che un’altra possibilità non ce l’hanno.

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STORIE DELL’IMMIGRAZIONE CHE SI INTRECCIANO Siamo in piena campagna elettorale per il sindaco.68 In competizione con Chiamparino, ma già sconfitto in partenza, un Buttiglione che, con slancio populista, ha deciso di alloggiare al SERMIG,69 di andare in visita al Cottolengo e lanciare vaghi appelli sulla inquietante situazione della microcriminalità di alcuni quartieri torinesi. Ancora una volta, Porta Palazzo si dimostra centrale nella vita cittadina. Pullulano i partiti da votare: tra una lista “Forza Toro” e una “Rivogliamo il Filadelfia”,70 ecco spuntare anche “Immigrati Basta”. Ebbene, il capogruppo di questa lista ha dichiarato a un quotidiano torinese che sarebbe venuto qui, a Porta Palazzo, e poi a San Salvario, a distribuire gratuitamente mille manganelli ai ragazzi italiani. Una foto di mezza pagina nella “Cronaca di Torino” lo ritrae con gli occhi indemoniati e il sorriso sulla bocca mentre impugna un manganello con 68

Elezioni amministrative comunali tenutesi il 28-29 maggio 2006. Servizio Missionario Giovani. Si tratta di un’associazione che opera nel torinese e che ha sede nel vecchio arsenale militare di Porta Palazzo, ribattezzato “Arsenale della Pace”. 70 Il Filadelfia è il vecchio stadio di calcio dove giocava il Grande Torino. È stato demolito il 18 luglio 1997. 69

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tanto di scritta «Immigrati basta». Vado in strada con la telecamera, convinto di assistere a una scena imperdibile. Ma mr. Immigrati Basta all’ultimo momento marca visita. Con un comunicato stampa dell’ultima ora informa i giornali che non sono arrivati i manganelli che aveva ordinato da Bologna. E così, dopo essere balzato agli onori della cronaca cittadina, non si presenta all’appuntamento. Per la strada, oltre ai curiosi come me, rimane qualche duro del quartiere, parecchi giornalisti in cerca di notizia, una agguerrita brigata di autonomi dei centri sociali e svariati gruppi di nordafricani ignari delle motivazioni di quegli strani movimenti e contrariati per la presenza dei poliziotti in tenuta antisommossa. Un ragazzo senegalese, avrà più o meno la mia età, mi chiede cosa sta accadendo. Glielo spiego in due parole. Non sapeva che a Torino ci fossero le elezioni. «Un anno fa, in questo tempo» mi dice il giovane, sforzandosi di parlare una lingua non sua, sono morti due senegalesi. Ti ricordi?». Devo confessargli che non ne so niente. Gli chiedo di spiegarmi cosa è successo. Il suo tono si fa grave. «La polizia stava seguendo un ragazzo al Valentino.71 Lui aveva il fratello a Torino, era arrivato qui solo da tre giorni e non aveva il permesso di soggiorno. Così, da solo, appena arrivato, ha visto che si avvicinava una macchina della polizia ed è subito scappato. Aveva paura. I poliziotti vedendolo fuggire lo hanno inseguito. Lui, che stava correndo accanto al 71

Il Valentino è un parco nel centro di Torino, in riva al Po.

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fiume, alla fine si è buttato nel Po ma non sapeva nuotare. È morto affogato.»72 Questa storia mi ricorda qualcosa. In effetti ne avevo sentito parlare al telegiornale ma non ci avevo fatto troppo caso. E comunque mi pareva che il morto fosse uno spacciatore. È impressionante sentire come la versione che mi racconta questo ragazzo sia diversa. Nelle mie ricerche successive potrò accertare come il «giovane spacciatore» non avesse droga addosso. «E l’altro morto?» gli chiedo. Inizia subito a parlare, con impeto, evidentemente non vedeva l’ora che glielo domandassi. «La notte dopo un gruppetto di quattro ragazzi senegalesi era in automobile. Sono stati fermati per un controllo della polizia. Un poliziotto ha sparato a uno dei ragazzi e l’ha ammazzato.73 Lo conoscevo. Si faceva chiamare Ibrahim Ba, come il calciatore del Milan.» Cazzo, questo sì che me lo ricordo, la notizia mi aveva scioccato. In realtà i media non ne avevano parlato molto. “Ibrahim Ba” è morto quasi subito. Secondo l’ispettore che ha sparato, di cui non sono mai state rese pubbliche le generalità, il colpo di pistola gli era partito accidentalmente nel corso di un normale controllo. «Stavo aprendo la portiera, forse c’è stato anche un movimento da parte di quel giovane, non saprei dire. È partito 72

Si tratta di Mamadou Diane, morto annegato mentre fuggiva da un controllo il 10 maggio 2005. 73 Il ragazzo che ha perso la vita si chiamava Cheik Ibra Fall, senegalese di Mbout, morto ammazzato l’11 maggio 2005.

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un colpo, non me ne sono accorto», aveva spiegato ai giornalisti. Fatto sta che un poliziotto ha ucciso un ragazzo nel corso di un normale controllo. Immaginatevi la scena: siete in auto con alcuni amici. La polizia vi fa cenno di fermare la macchina. Voi accostate. Un poliziotto si avvicina alla portiera del guidatore. Ha paura perché non sa chi siete, e allora prende la pistola pensando di essere più sicuro. Voi non vi muovete. Il poliziotto apre la portiera della macchina brandendo l’arma. Voi siete un po’ agitati, come tutte le volte che venite fermati dalle forze dell’ordine, ma non avete nulla da temere e continuate a essere impassibili. Sperate che tutto vada per il meglio. Poi l’imprevedibile. Boom. Sangue dappertutto. Un colpo di arma da fuoco colpisce alla testa uno di voi. Urla, panico, il cuore esplode. Il poliziotto ha sparato volontariamente o accidentalmente? Solo lui lo può sapere, ma non importa. Ha ucciso. Ha ammazzato il vostro amico. Quando queste immagini le guardate in un film, con un sottofondo musicale commovente e con le dinamiche dei fatti presentate sottolineando l’innocenza della vittima, la gente si sconvolge, seriamente e profondamente schifata. Quando succede sul serio, la gente se ne frega. Io per primo. Nel corpo di Ibrahim, nel corso dell’autopsia, avevano poi trovato ovuli di cocaina. Tanto era bastato per archiviare il caso come un incidente. Ripensandoci dopo un anno, provo ancora un sentimento crudo, angosciante, un misto tra rabbia e schifo. Ricordo anche che pochi giorni dopo quell’omicidio la situazione si era fatta ancora più delicata. Pri164


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ma la rivolta nel CPT74 di corso Brunelleschi, sedata a fatica. Passa ancora qualche giorno e un ragazzo nigeriano cade da un cornicione morendo sul colpo.75 Si era appeso lì fuori per sfuggire alla perquisizione della polizia nel palazzo dove abitava. Non aveva il permesso di soggiorno, aveva paura di essere rimpatriato. Mi ricordo che dopo la sua morte i nigeriani avevano improvvisato una protesta che si era conclusa con alcuni scontri con la polizia. Rimango fermo e zitto qualche secondo. Il ragazzo senegalese fissa il vuoto. Passa un uomo, chiacchierano in una lingua che non capisco e si salutano abbracciandosi. Gli parlo dei miei pensieri, degli altri avvenimenti di quei giorni. Se li ricorda molto bene anche lui. È incredibile come tutto ciò sia successo in una sola settimana e mezzo. Sicuramente è indicativo del grado di pericolosità che possono assumere alcuni contesti sociali. Il ragazzo mi racconta della manifestazione di protesta organizzata il sabato successivo.76 «C’era tanta gente, sia italiani sia extracomunitari» mi dice. «Partiva da qui, da Porta Palazzo. Una manifestazione antirazzista che chiedeva la fine dei morti e la chiusura dei CPT. C’era un grande striscione su cui avevamo scritto “Stop police repression”. Basta con la repressione.» 74 CPT: Centri di Permanenza Temporanea. Luoghi in cui vengono rinchiusi i migranti extracomunitari in attesa di essere rimpatriati. La rivolta nel CPT di Torino è avvenuta il 19 maggio 2005. 75 È mancato così Ewemade Steve Osakue, nigeriano. Viveva con la fidanzata in corso Taranto a Torino. Dopo il decesso del compagno, la ragazza è stata rinchiusa nel CPT e quindi rimpatriata. 76 Sabato 28 maggio 2005.

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Arriva una donna di colore piuttosto robusta, sbraita contro il mio nuovo amico. La donna cammina portando un bambino nerissimo sulla schiena. Mi è sempre piaciuta la spontaneità e la naturalezza con cui le donne nigeriane e senegalesi portano a spasso il figlio piccolo, avvolto in un telo coloratissimo, fissato sulla schiena della mamma ma senza nodi ai fianchi. La donna deve essere la sua compagna. Osservando la scena mi dispiace di non poter intendere ciò che si dicono. Lui si volta verso di me, si scusa e mi dice che deve andare. «Alla prossima, allora. Grazie della chiacchierata.» Lo fisso mentre si allontana, passo sicuro e sguardo alto, non conosco neanche il suo nome. Lo fisso mentre cammina, chiuso nella sua speranza, nel suo dolore e nel suo orgoglio.

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UNA COPERTA CHE CADE DAL BALCONE SPARISCE IN POCHI SECONDI Ho una coperta gettata a terra sul balcone, da due mesi, da quando cioè io e Ruben, telecamera alla mano, abbiamo iniziato a filmare ciò che succede sotto casa nostra. L’operazione non è semplice: bisogna imparare ad aspettare, cogliere il momento giusto e, soprattutto, riuscire a inquadrare nell’oscurità notturna lo spicchio esatto di strada da documentare. Dobbiamo giocare d’anticipo sulle mosse dei ragazzi in strada, per essere pronti a riprendere qualcosa di interessante. Purtroppo i primi filmati non offrono gli esiti desiderati. In primo luogo, il nostro balcone non si affaccia su via Cottolengo ma sulla via limitrofa. Non che la cosa non ci permetta di riprendere, ma in via Cottolengo di notte il pericolo è una costante, mentre nella via sotto il nostro balcone il contesto è variabile. In secondo luogo, stiamo filmando appoggiati alla ringhiera del balcone, con la telecamera seminascosta tra le braccia, senza guardare cosa stiamo riprendendo, per non dare nell’occhio. Ne conseguono delle riprese sfocate e, spesso, invece della strada filmiamo un muro o le macchine parcheggiate. I pochi filmati in cui riusciamo a ritrarre uno spaccato della vita notturna di Porta Palazzo non ci soddisfano. Molte registrazioni e pochi fatti, capannelli di 167


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nordafricani che chiacchierano, in cerchio, con fare aggressivo ma senza aggressioni, qualcuno che si spinge ma solo per gioco, tutti hanno delle bottiglie di vetro in mano ma stanno bevendo la loro birra. Solo chi abita da queste parti può capire retroscena e implicazioni. Ne ho la conferma quando mostro qualche immagine a mio padre che, per tutta risposta, mi dice: «E allora? Un gruppo di ragazzi che sta chiacchierando». “Magari!”, vorrei rispondere io. Filmare aggressioni, rapine o lo spaccio notturno non è semplice, presuppone una presenza serale costante sul balcone di casa con la telecamera pronta. In realtà la questione non è neanche questa: il problema è che ci rendiamo conto quanto sia fondamentale che nessuno ci veda, perché altrimenti passeremmo guai seri. Del condominio di fronte ci fidiamo: gli inquilini sono tutti romeni, e notoriamente non vanno d’amore e d’accordo con gli immigrati nordafricani. I nostri vicini di casa, anche quelli maghrebini, vivono esattamente gli stessi problemi notturni che viviamo noi, e sono imbestialiti contro i loro connazionali delinquenti. Se ci vedessero probabilmente ci darebbero una pacca sulla spalla e ci inviterebbero a cena. L’unica incognita, e purtroppo non è cosa da poco, è rappresentata dalla strada. Se i nordafricani alzassero la testa e ci scoprissero nell’atto di riprenderli, non passeremmo dei bei cinque minuti. Inizialmente Ruben e io risolviamo i problemi acquistando due passamontagna nel vicino negozio di articoli militari. Non sarà un rimedio che scaccia tutti i mali, se ci vedessero infatti non farebbero fatica a riconoscere il bal168


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cone e quindi a farci una eventuale sorpresina casalinga, ma non ci identificherebbero subito. La cosa risulterebbe fondamentale perlomeno per poter uscire in strada il giorno successivo senza che nessuno ce la faccia pagare. Oggi sotto il nostro balcone sono in tanti. Spacciano. Tante automobili transitano, si fermano, gli automobilisti contrattano un prezzo restando seduti in macchina, e dopo l’acquisto ripartono sgommando. Non tutti sono giovani. Nel filmare indugiamo un po’ troppo, qualcuno dalla strada alza gli occhi, noi in un attimo rientriamo in casa ma temiamo di essere stati scoperti. Dopo qualche minuto capiamo che non è così. Ormai però siamo spaventati, e quella telecamera emette troppa luce per poter stare tranquilli. Decidiamo quindi di stendere una coperta sul balcone, di sdraiarci a terra e infilarci sotto. Il metodo è più sicuro ma ci offre un visus limitato. Inoltre non possiamo stare sdraiati lì fuori tutta la notte in attesa che qualche passante venga derubato. Finalmente, un’idea risolutiva: uno dei due deve scendere di casa e andare sotto il nostro balcone, e lì attendere la sua sorte, mentre l’altro con la telecamera rimane sdraiato sotto la coperta, preparato a riprendere il tutto dall’alto. «Così però è poco reale» mi dice Ruben. «Non è mica vero» rispondo: «Noi mica paghiamo un attore che venga a derubarci. La scena è vera. Semplicemente uno fa da cavia per dimostrare quello che succede. Possiamo dire: “questo è quello che mi capita ogni volta che scendo di casa da solo durante la notte”». «Ok, Fiorenzo, se la metti in questi termini hai ragione. Scendi tu?» mi chiede Ruben. 169


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«No, veramente pensavo che scendessi tu.» «E no, sei tu che hai avuto questa brillante idea! A te oneri e onori.» «Io ho avuto l’idea e quindi devi scendere tu, facciamo una cosa a testa.» «Com’è già che dicevano? Armatevi e partite, torneremo vincitori!» «Bravo! Che belle citazioni! Io scenderei senza problemi, Ruben» gli rispondo, «il problema reale è che la telecamera è mia, e la uso molto meglio di te. Quindi i problemi sono questi: 1) mi derubano, quindi ci perdo dei soldi; 2) tu non saresti in grado di fare una ripresa decente, rendendo vano il mio coraggio; 3) dopo essermi fatto derubare, non sopporterei di rientrare in casa e sentirmi dire che non sei riuscito a riprendere con la telecamera… ti prenderesti un sacco di schiaffi! Quindi sei tu che devi scendere di casa, e devi farlo per le tre ragioni che ti ho appena elencato, ma soprattutto per amore della verità!». «Allora. Punto primo: preparati un portafoglio finto, mettici dentro cinque euro per essere credibile e vai esattamente sotto il balcone. Facciamo due euro e cinquanta a testa così spendiamo la stessa cifra e non rompi le palle sui soldi. Punto due: sono due mesi che uso questa telecamera e sono capace di filmare anche meglio di te. Punto tre: se tu dovessi salire e tirarmi anche solo un buffetto sulla schiena faresti una gran brutta fine.» Ci guardiamo torvi per pochi istanti, e poi scoppiamo a ridere tutti e due. Alla fine nessuno scende di casa. Ci ripromettiamo però che una delle prossime sere faremo una sor170


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tita e, passando con l’automobile a velocità ridotta, filmeremo la notte di via Cottolengo. Oggi tira un vento forte. La tenda di plastica bianca davanti all’ingresso di casa a ogni folata emette un suono stridulo e violento. Guardo fuori, c’è un bel sole caldo. A un tratto, una raffica di vento molto energica. La mia coperta, sempre stesa sul pavimento del balcone, vola via. La vedo volteggiare per qualche secondo e precipitare sull’asfalto sotto casa. Mi infilo le scarpe e scendo le scale di corsa. Ci metto una trentina di secondi circa, ma quando arrivo nel luogo dove è caduta, della mia bella coperta non c’è più traccia. Ovviamente nessuno ha visto chi l’ha presa.

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UNA PARTITA A BRISCOLA CI PERMETTE DI RAGIONARE SUI NOSTRI PROGETTI Arriva l’estate, il caldo si fa sentire. A Porta Palazzo non ci sono alberi. La cosa in autunno e in inverno non mi pesava, ma in primavera, quando i larghi viali alberati di Torino diventavano verdi e riposavano gli occhi, Porta Palazzo rimaneva con i colori di un tempo. Ora, in questo luglio infuocato, l’ombra degli alberi è un miraggio nel deserto. Gli spacciatori diurni restano tutto il giorno con le spalle al muro dei caseggiati, protetti dall’ombra dei balconi. Viene buio tardi. Più tardi il borgo va a dormire, più tardi puoi tornare a casa tranquillo, più tardi dalla strada smettono di urlare, chiacchierare, spacciare, correre, giocare, aggredire, ridere, soffrire e bestemmiare. Nonostante questo, Porta Palazzo nelle notti d’estate è un luogo un po’ più sicuro che nel freddo inverno. C’è più movimento di giovani italiani, la gente si sposta dal Quadrilatero Romano verso alcuni locali a due passi da casa mia. È bello vedere in giro qualche viso in cui puoi riconoscerti. 172


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Giocare a carte mi è sempre piaciuto. Da gagno giocavo con i miei genitori e mio fratello. Ho tanti ricordi della famiglia riunita davanti a dei mazzi di carte, soprattutto nei lunghi periodi di ferie che contraddistinguono le estati degli studenti delle scuole primarie e secondarie. A ben vedere l’università ti dà ancora più tempo libero, che però non ho mai sfruttato giocando a carte. Le carte mi ricordano solo momenti di unione, di benessere, di allegria. Sarà per quello che ci sono così affezionato. Una delle prime cose che ho portato con me quando ho traslocato, infatti, è un mazzo di carte. Penso di averlo caricato in macchina prima dei piatti, dei vestiti e delle svariate cianfrusaglie. Appena posso provo a convincere Ruben a giocare. Non che abbia bisogno di essere convinto, lui non si tira mai indietro, nonostante si giochi a soldi e che puntualmente rimanga in mutande. Ruben infatti è accanito nel gioco e, purtroppo per lui, altrettanto accanito nel perdere. Come quand’ero bambino, il gioco delle carte ci unisce e ci invoglia a chiacchierare. È così che realizziamo che il video notturno in via Cottolengo non lo faremo mai. «Dovremmo giocare più spesso a briscola, ho giusto bisogno di arrotondare un po’ lo stipendio» dico a Ruben, sperando di innervosirlo. Per giocare a carte devi essere freddo. Ruben lo è, ma le frecciate giuste al momento giusto fanno sempre spazientire. Saranno dieci minuti che non gli do pace. Mi scarta una briscola inutilmente. Il mio lavoro sta sortendo gli effetti desiderati. Qualche grido da fuori ogni tanto ci distrae. 173


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«Chissà cosa cazzo succede adesso» gli dico. «Le batterie della telecamera sono cariche?» mi chiede Ruben. «No, non le ho più ricaricate. Tanto a filmare da lì non riprendiamo mai niente di interessante. Abbiamo ore di filmati inutili.» «Lo so, Fiorenzo, ma non possiamo smettere di riprendere. Altrimenti come lo facciamo il documentario?» «Dal balcone ormai abbiamo appurato che non funziona. La cosa migliore è l’idea di filmare via Cottolengo passando in automobile.» «Oppure a piedi con una telecamera nascosta» mi dice Ruben. Gli brillano gli occhi. Anche a me l’idea piace. Ma la mia telecamera è troppo grossa per essere nascosta sotto i vestiti e conveniamo tutti e due che affittare una microtelecamera ci verrebbe a costare troppo. «E poi se mai ce la scoprissero per la strada? Che fine facciamo?» domando a Ruben. «Ah già, Fiore, perché invece se passiamo su e giù tutta la sera con l’automobile per via Cottolengo ne saranno felici! Magari tu guidi e io sto con la telecamera fuori dal finestrino!» A questo non avevo pensato. O meglio, le rare volte che il mio cervello ha prodotto questo dubbio ho preferito pensare ad altro. «L’importante è che nessuno veda la telecamera» gli dico, con sempre meno convinzione. «Non possono non vederla. Sai benissimo che di auto qui 174


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sotto non è che ne circolino tante. Quelle che transitano o passano velocemente perché vogliono allontanarsi al più presto da questo posto, oppure si fermano per fare i loro acquisti. Poi passiamo noi, più volte, avanti e indietro, magari ai venti all’ora. Tutti ci guarderanno per capire cosa vogliamo. E la telecamera la vedranno di sicuro.» La descrizione di Ruben è verosimile. Per questo mi inquieta. «E quando vedono la telecamera sono tutti cazzi nostri» gli rispondo. Abbiamo le carte davanti, siamo a metà della partita, ma non stiamo più giocando. «Sicuramente ci tireranno dietro le bottiglie,» proseguo, «l’importante è che nessuno si metta davanti alla macchina. Se lo fanno, siamo spacciati: sarò costretto a inchiodare. Questi allora ci accerchieranno, apriranno le portiere della macchina, ci tireranno fuori, ci ruberanno soldi e automobile e infine ci taglieranno il pisello. A tutti e due». Risata nervosa. «Ah, le bottiglie sicuramente ce le tireranno. E sicuramente riconosceranno la tua macchina, vedranno la targa. Qui sotto di auto parcheggiate non ce ne sono mica tante. E tu sei l’unico con la Fiesta» mi dice Ruben. Tutti e due sentiamo l’adrenalina in circolo nel sangue. «Hai ragione, Ruben, è un casino. Possiamo affittare una macchina, o farcela prestare da qualcuno» rispondo subito. Poi ci penso un attimo. No, non va bene neanche questa idea. «Però affittare una macchina per fare due filmati è una caz175


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zata, buttiamo via un sacco di soldi per niente. E di farcela prestare non me la sento. A chi chiederla, sapendo cosa andiamo a fare? E se le bottiglie che ci tirano dietro colpissero la macchina? Riconsegnarla ammaccata o, peggio, con un finestrino rotto? Non se ne parla.» “«E beh, Fiore… Quindi che facciamo?» «Facciamo che prendiamo la telecamera adesso e proviamo a filmare giù dal balcone. Magari queste urlate presagiscono qualcosa di interessante.» È così che abbiamo abbandonato l’idea di filmare la notte di via Cottolengo.

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IL TROPPO STROPPIA Non vedo il Fascio da tempo. Fino a prima della disavventura notturna alla macchina di Ruben, parcheggiavo sempre nella zona del suo negozio. Poi è successo il casino, e ora preferisco andare a parcheggiare più lontano da casa, ma con una certa sicurezza che l’auto rimanga tale e quale a come l’ho lasciata. Inoltre, qualche giorno prima di quella vicenda, qualche simpaticone mi aveva infilato dei rametti nei nottolini di apertura della portiera della macchina. Si era anche impegnato a far le cose per bene, facendo il giro di tutte le porte e del bagagliaio. La mattina successiva, leggermente in ritardo per il lavoro, vado alla mia automobile, eseguo il solito movimento meccanico e quasi istintivo per aprirla, ma non ci riesco. Imprecando capisco cosa è successo. “Fottuti bastardi”, penso, abbattuto e furioso. Torno a casa e prendo delle pinzette per le unghie con le quali, dopo mezz’ora di tentativi, riesco a liberare il nottolino della portiera del sedile del passeggero, poi salgo in macchina e vado a lavorare. Il nottolino della portiera del guidatore, invece, si è rotto. I simpaticoni hanno girato e rigirato il pezzo di legno all’interno fino a rompere il dispositivo di apertura della porta. Di colpo realizzo il motivo di questo scherzetto: ieri notte, tornando a casa, da solo come al solito, ho litigato con dei ragazzi maghrebini perché hanno provato a farmi la Zidane. Di nuovo, gli ripetevo che tanto in 177


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tasca non avevo niente. Ma loro continuavano a farmi lo sgambetto e a toccarmi. Mi sono arrabbiato, ho spinto via un ragazzo, giovane, sicuramente minorenne, urlando: «Marocchino di merda!». Marocchino di merda. Io, Fiorenzo, pacato, pacifista e antirazzista, che urlo una frase del genere. Porta Palazzo mi sta facendo male. Questo quartiere mi ha già dato molto, ma adesso ogni tanto non ne posso più. I ragazzi nordafricani sotto casa mi vedono tutte le notti, e tutte le notti provano a derubarmi. E poi, quando torno a casa, per ripicca mi sfondano i dispositivi di apertura della macchina. Comincio ad essere stanco. Ogni mattina poi, nel breve tratto a piedi che compio, vedo macchine coi vetri rotti, involontariamente però, perché sono frutto di risse notturne. Stando così le cose, ormai ho capito che è meglio parcheggiare in qualche altra zona. E così sono settimane che non vedo il Fascio. Entro nel suo negozio dopo il lavoro, ha un diavolo per capello. Gliene chiedo il motivo. «L’altra notte torno a casa, sarà stata l’una del mattino. Quattro ragazzini maghrebini sono seduti davanti alla porta del mio negozio e io devo entrare in casa. Vado lì davanti, faccio anche il gentile, non volevo scazzi. Sai, ero appena uscito con una bella donna, una buona cena, un bicchiere di vino rosso, non volevo rovinare la serata.» Il Fascio chiede ai ragazzi di spostarsi perché deve entrare. «Il negozio è chiuso!» rispondono loro. A lui girano subito un po’ le palle. Gli dice che lui ci vive e che sta rientrando a casa, quindi per favore, per cortesia, che si levino da lì davanti. Due se ne vanno, fanno qualche pas178


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so, vanno a fianco ai bidoni della spazzatura. Il Fascio sa benissimo cosa vuol dire. Ormai lo so anch’io. Nei bidoni nascondono le bottiglie di vetro e altri oggetti contundenti utili nelle risse. Si parlano tra di loro, in arabo ovviamente. In due sono ancora seduti davanti all’ingresso, uno si alza e fa qualche passo verso gli amici. L’altro non muove un dito. Il Fascio capisce che stanno aspettando il momento giusto per attaccarlo. «Devo entrare in casa, quindi se ti levi dalle palle è meglio. Io lo dico per te» gli dice. Il maghrebino lo manda a cagare. «Fiorenzo,» continua nella spiegazione il mio amico Fascio, «la prima regola quando vai in un bar è non litigare con nessuno da seduti. Io non ci ho più visto, gli ho tirato un calcio in faccia, lui ha battuto la testa contro la serranda del mio negozio e si è accasciato. L’altro ha provato a venirmi addosso e ci siamo presi a cazzotti. È andato per terra anche lui. Sono riuscito ad alzare la serranda mentre gli altri due hanno preso a lanciarmi le bottiglie, rimanendo lontani. Non mi hanno preso. Metto la mano dietro la porta, dove tengo la spranga», lui me la indica e io la rivedo lì, dopo mesi, un attrezzo come un altro, molto diversa era la sensazione che mi aveva dato vederla la prima volta, la prima notte a Porta Palazzo, «la prendo ed esco a inseguirli. Sono riuscito a dare una botta sulla schiena al ragazzo più giovane, che scappava più piano». Mi mostra le nocche della mano destra, sono mezze tumefatte. Deve aver tirato dei pugni in faccia a quel ragazzo con una forza tale che avrebbe potuto stendere un mulo. 179


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«L’unica cosa che mi dispiace è che non ho avuto tempo di accoltellarne neanche uno. Mi viene il magone se ci penso» e sorride. «Non ce l’ho fatta a tirare fuori la lama al momento giusto e, a rissa iniziata, per prenderla avrei perso almeno un secondo, un rischio che non potevo permettermi di affrontare.» Mi piace il Fascio perché su queste cose ci ragiona anche. E, in merito alle sue descrizioni della rissa, non ho neanche un dubbio. Ormai lo conosco e so che le mani sa usarle bene e che non ha remore morali, tanto più se è così incazzato. «Ma ti rendi conto?» mi dice: «Devo fare a botte per entrare a casa mia!». Ride, per non piangere. «Ma a raccontare le cose in giro la gente non ci crede! Fare a botte per entrare in casa propria! Ma io da qui non mi muovo. Non me ne frega niente se se ne vanno via tutti, qui ci sono nato e qui ci muoio!» E poi cominciano le dissertazioni sull’arrivo degli immigrati, e cosa vengono a fare qui, e mi invita a guardare fuori dal suo negozio per vedere cosa vengono a fare. Faccio come dice. Sono le sei e mezzo di sera, il sole è ancora alto. Cinque o sei maghrebini a dieci metri da noi stanno rovesciando un bidone della spazzatura. Altri due stanno vendendo droga a un ragazzino italiano, a un metro e mezzo dalla porta del suo negozio. «Guarda. Guarda!» Non ho bisogno di guardare, ormai lo so benissimo. «Io non dico che tutti gli immigrati siano delinquenti, ma qui davanti sicuramente tutti i delinquenti sono immigrati.» 180


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Purtroppo non ho argomentazioni per dargli torto. Qui funziona così, mi dispiace per lui, e anche per me. Come fai ad avere un’attività commerciale in questo luogo? Come fai a vivere se non puoi entrare a casa tua? Sabato scorso, giorno di Balon, con una marea di gente tra quelle vie, c’è stata una rissa tra spacciatori, conclusasi con gente sanguinante e qualche accoltellato. Torino non lo verrà mai a sapere, se non i presenti e qualche loro amico: tutte le persone coinvolte nella rissa sono clandestine, è difficile che si presentino in un ospedale o al pronto soccorso, a meno che siano proprio sul punto di morire, perché ciò vorrebbe dire essere rimpatriati. Non sono neanche persone che vanno a denunciare gli aggressori alla polizia. Le cose le risolvono per conto loro, aspettando il momento giusto per un’altra aggressione, per agguantare un’approssimativa e inutile vendetta. Tra la folla si è scatenato il panico, in un sabato pomeriggio ordinario, l’unico giorno in cui un buon numero di persone frequenta la zona e quindi l’unico giorno in cui il Fascio e i suoi colleghi riescono a vendere qualcosa. Così, per loro, si fa difficile. «E il bello è che la polizia lo sa benissimo, e non fa niente» continua. «Certo» rispondo io, «le Olimpiadi hanno dimostrato che, se solo volessero, non sarebbe poi così complicato rendere la zona pacifica». Conveniamo nel pensiero che, sotto sotto, ci sia qualcuno che ha interesse affinché le cose rimangano così. «Qui la gente non ce la fa più. È normale che poi ci sia chi fa qualche gesto sconsiderato, in un attimo di collera, maga181


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ri prendendosela con la persona sbagliata. Ma, così, non si vive più.» Sono entrati dei clienti, i primi della giornata. Lo saluto, con il sorriso stampato sulla bocca. «Vieni a trovarmi ogni tanto, mi fa piacere» mi dice. Lo farò. Esco dal negozio. «Ciao bello tutto a posto?» Non rispondo. Proseguendo il mio cammino verso casa, sento rimbombare una voce: «Vieni qua, bello, caramello77 buono, ti faccio buono prezzo!»

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Il “caramello” è una varietà di hashish di migliore qualità e quindi leggermente più costoso.

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A TUTTO CI SI ABITUA Ho sempre meno voglia di scrivere. L’illegalità diffusa sta diventando, per me, la normalità. Sto facendo il callo a tante cose, nulla mi sembra più tanto strano e particolare da dovermelo appuntare. La cosa è positiva e tragica allo stesso tempo. Positiva perché ciò vuol dire che mi sto ambientando, tragica per le sue conseguenze. Ho sempre giudicato incredibile e splendida questa capacità dell’animo umano di adattarsi ad ogni situazione. Tuttavia anche la capacità di adattamento può essere un’arma a doppio taglio. Se io mi sono abituato all’illegalità intorno a me con relativa facilità, lo stesso meccanismo interviene su chi vive la strada. Mi spiego meglio. Mi rifiuto di dividere il mondo in persone oneste e poco di buono. Quella è la conclusione di un lungo processo, l’ipersemplificazione della vita, valida giusto in un telegiornale di basso livello, o in un film rivolto ai ragazzi sotto i dodici anni. C’è il buono e c’è il cattivo. Il cattivo è così infimamente maligno, prepotente, corrotto e farabutto da farti arrabbiare. Il buono è così onesto, integro, di buon cuore che non puoi non provare il desiderio di difenderlo. I ruoli sono ben definiti, è impossibile riuscire a parteggiare per il cattivo. Ma la vita è un’altra cosa. I confini sono molto sottili. Prendiamo un ragazzo straniero che sguazza nella criminalità di strada. Ha affrontato un lungo e pericoloso viaggio per cercare fortuna all’estero, 183


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senza genitori, senza amici, con la famiglia che ha fatto dei sacrifici per pagargli il viaggio. È stato catapultato in un mondo molto lontano dal suo, di cui non conosceva la lingua, non capiva quello che gli veniva chiesto né riusciva a esprimersi. Non condivide i costumi e la cultura del luogo dove è immigrato. La gente lo guarda con sospetto, paura e un po’ di disprezzo. Le aspettative della sua famiglia sono tutte su di lui, perciò deve trovare i soldi per vivere e si sente in dovere di aiutare a casa. Sicuramente, per istinto, frequenta i luoghi dove trova i suoi connazionali. Basta guardare altre realtà dove l’immigrazione storicamente è più presente che in Italia, quartieri come China Town o Little Italy a New York, intere zone popolate dallo stesso ceppo etnico. È normale, lo faremmo tutti. E se questo ragazzo, con così tanti bisogni e così poche certezze, venisse catapultato in una realtà come Porta Palazzo? E se facesse alcune conoscenze sbagliate? Le organizzazioni malavitose sono sempre pronte a reclutare nuovi adepti, e sanno bene come trovarli. Sfruttano la gente che vive dei problemi, mica i figli di papà. Il ragazzo può trovare nella malavita le risposte a molte delle sue fatiche. Cerca i soldi, e li trova. Cerca protezione, e la trova. Cerca un tetto e degli amici e trova una casa e tanti ragazzi come lui. Cerca il rispetto della gente e trova anche quello. Lo trova facendo paura, ma poco importa. In una escalation verso il peggio, in poche settimane è pronto ad accoltellare. Si ritiene che un atto criminale debba essere maggiormente voluto e pensato rispetto a uno inoffensivo. Non è vero. La vita di strada ne è una dimostrazione quotidiana. 184


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NON BISOGNA AVERE PAURA Torno a casa dopo un concerto dei Kill Daddies78 in una birreria del cuneese. Faccio, come al solito, un giro dell’isolato con la macchina prima di parcheggiare. È un’abitudine che mi permette di capire cosa mi aspetta al rientro. Sono le tre, stanno montando i banchi del mercato, la situazione sembra tranquilla. Ma questa notte non torno subito a casa. Il Fascio tempo fa mi aveva detto che il vero mercatino del Balon, quello dove vanno a comprare i commercianti che poi rivenderanno al Balon conosciuto da tutti i torinesi, si fa in una vietta seminascosta dalle tre alle sei del mattino del venerdì notte. Parcheggio al Cottolengo e faccio un salto a piedi. Oggetti di qualunque specie sono gettati alla rinfusa su alcune coperte scolorite appoggiate per terra. Mercanti mezzo addormentati cianciano in piemontese, in svariati dialetti del Sud Italia e in qualche lingua straniera. La via è semibuia e diritta. L’acciottolato stradale preme sulle mie scarpe da ginnastica e mi dà fastidio ai piedi. Qui puoi trovare di tutto: oggetti di antiquariato, libri usati, elettrodomestici, abiti, mobili, lampade al cherosene, videocassette, vecchie schede di memoria per i computer, giocattoli, attrezzi da lavoro, letti, poster, enciclopedie, materassi e cianfrusaglie di ogni tipo. Accanto a ciascun banchetto siede un venditore che, in posa da filosofo, fissa le 78

Gruppo emergente del panorama punk-rock italiano.

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macerie da cui ricava la vita. È ancora un po’ presto, molti commercianti stanno ancora smontando la roba dai camion, ma il mercatino fa già il suo effetto. Mi piace. Non avevo mai visto un mercato in piena notte. C’è molta gente affaccendata e impegnatissima, sono io l’unico “turista” a quanto sembra. Il Fascio non è ancora arrivato. Mi fermo solo pochi minuti ma conto di tornarci, magari con Ruben, appena posso. Mi lascio alle spalle il Balon notturno e passeggio lentamente verso casa. Appena raggiungo piazza della Repubblica, due maghrebini, molto giovani e molto ubriachi, mi inseguono urlando e bestemmiando quasi dentro al portone d’ingresso del mio condominio. Così sbronzi, faccio fatica a levarmeli di torno. Appena sento il rapido stridio del cancello che si chiude, tiro un sospiro di sollievo. Temevo di dover aggredire per non essere aggredito. Meglio così. Sull’androne, incontro Antonio. «Ciao, ragazzo.» «Buongiorno! Già sveglio?» «Eh, sì, vado a lavorare» mi risponde alzando le spalle. «Tutto bene?» mi chiede in maniera strana, come se mi avesse visto un po’ scosso. Forse ha più sensibilità di quanto immaginavo. Gli dico che va tutto bene anche se qui di notte è difficile vivere. «Senti, ragazzo, la cosa è molto semplice. Loro ti chiedono “a posto?” e tu gli rispondi di sì. Dico bene o no? Gli devi dire sempre di sì. Certo, magari ti dà fastidio perché ti chiedono se vuoi la droga e quindi pensano che sei un drogato. Però te ne sbatti i coglioni. Dico bene o no?» Il suo accento meridionale e la sua parlata decisa e lessicalmen186


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te povera mi fanno sorridere. Così come l’intercalare continuo del «dico bene o no?». Cerca conferma per ogni frase che dice. «E poi, ragazzo, se provano a toccarti bisogna sempre reagire, sempre. Dico bene o no?» «Certo che bisogna reagire, altrimenti si fa dura!» «E certo, altrimenti sono cazzi» mi risponde lui. «Io ciò un coltello qui in tasca» e nel frattempo si tocca la tasca destra dei pantaloni. «Sai, dopo che gli dici che sei a posto loro provano sempre a toccarti, vogliono rubarti il portafoglio. Ma io sono sempre pronto. Quando si avvicinano lo tiro fuori e li taglio da qualche parte. Dico bene o no?.» «Ah, sì? Li tagli?» gli chiedo. Me n’ero reso conto dal primo momento che l’ho visto che non era tipo da farsi troppi problemi. Nonostante questo non pensavo che mi venisse a dire così tranquillamente che è sempre pronto ad accoltellare qualcuno. «Li taglio sì. A me non mi devono rubare niente. Pure Papa Bojtila l’ha detto: “non dovete avere paura”. È il più grande insegnamento che ci ha lasciato. Dico bene o no?» Il suo sguardo torvo e allucinato mi inquieta. E ogni volta che mi dice “Bojtila”, con la B, rido sotto i baffi, cercando inutilmente di trattenermi. «Non dovete avere timore» prosegue Antonio, «così disse Bojtila. Non dobbiamo avere paura, ci dobbiamo difendere. E non dobbiamo avere paura di dargli una coltellata. Dico bene o no?» «Sì, certo, dici benissimo... Anche perché... », ma Antonio mi interrompe, alzando la voce mi dice che noi siamo degli uomini, mica delle donne. 187


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Da un momento all’altro cambia discorso dicendomi che sua moglie «adesso si è ripresa», e mentre io sono ancora lì che penso al significato di questa frase che non ha attinenza con nessun discorso di questa notte e nessun discorso che mi è mai capitato di fare con lui, mi piazza la domanda scellerata: «Tu le leggi le Sacre Scritture?». Poi, evidentemente temendo che io non avessi capito il suo linguaggio colto mi ripete: «La Bibbia. Tu la leggi la Bibbia?». Mento, gli dico che la leggo abitualmente. Certo, l’ho letta sul serio, un bel po’ di tempo fa, più per cultura personale che per scrupoli religiosi. Ma questo particolare non lo condivido con lui. «Bravo,» mi dice contento, «mi fa piacere. Perché ti devi ricordare che loro» e dicendo “loro” mi indica fuori, dove al momento non c’è nessuno, però ovviamente si riferisce ai maghrebini «sono come i preti nel tempio, sono delle statue bianche, ridipinte, come dei muri verniciati. Dico bene o no?». Poi, vedendomi perplesso per le sue metafore e le citazioni dalle Sacre Scritture, mi dice, a maggior chiarimento: «Perché guarda che Gesù era una persona molto intelligente e non ci metteva qui tutti questi marocchini se non ci dava i mezzi per difenderci». Mentre parla brandisce il coltello e lo muove a mezz’aria con movimenti veloci da destra a sinistra. Mi allontano per non farmi colpire accidentalmente. «E poi» prosegue Antonio «Gesù ci ha mandato Bojtila per dirci che non dobbiamo avere paura di difenderci, anche con le cattive. Dico bene o no?». 188


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Comincio a essere contentissimo di averlo incontrato. Mi sta tirando fuori delle chicche mica male. Mi dice ancora che la frase di “Bojtila” l’ha sentita alla televisione. «Parlava il Papa, ha detto questa frase e poi mi sono addormentato.» Sorrido, sforzandomi di non ridere. Ha detto che “poi si è addormentato” con un tono basso e molto velocemente, come un figlio che confessa alla mamma una marachella. Mi saluta, stringendomi la mano con impeto. Gli chiedo se lavora al mercato di Porta Palazzo. «Sì, lavoro qui. Ma c’è quel bastardo che se arrivo in ritardo si prende sempre uno o due euro. Bastardo. Sai, io sono un po’ tirato con i soldi, vado a lavorare per mandare avanti la famiglia. E lui si prende ancora i due euro.» Lo capisco con difficoltà. Non so se sono io ad essere stanco o se lui ha serie difficoltà di espressione. Purtroppo, ricordando altre conversazioni, è più facile che si tratti della seconda ipotesi. «E poi» continua, e questa volta gli occhi volano al cielo, «Bojtila ha detto che non dobbiamo avere timore, e io i soldi me li vado a cercare anche in altri modi. Dico bene o no?». «Certo che dici bene. A presto e buon lavoro allora!» «Buona notte, ti ho fatto un bel discorso o no?» Gli sorrido, gli dico nuovamente di sì e ci stringiamo di nuovo la mano, questa volta ci metto un po’ di forza anch’io e ci dirigiamo alle rispettive mansioni. Io a dormire, lui a lavorare. Povero Antonio, è un pazzo ignorante esaltato, ma pur sempre un “povero cristo”.

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SI VA E SI TORNA DALLA CINA, PASSANDO PER MONGOLIA E RUSSIA Musica e canzoni gitane provengono dalla casa di Antonio. Sua moglie parla animatamente con amici e parenti. Ogni tanto si mettono a cantare, e lo fanno con un tono soave e profondo. Il canto è il modo migliore per dimenticare. Le persone quando cantano ricordano giorni felici. È piacevole ascoltarli, sicuramente molto di più di quando urlano a squarciagola alle otto di domenica mattina e io mi sveglio bestemmiando. La musica zingara mi accompagna mentre cerco di addormentarmi. Penso a Porta Palazzo, in strada sembra una nottata tranquilla. Chissà da cosa dipende. Proprio non riesco a capire la dinamica delle bande notturne. Vanno, vengono, sostano, scompaiono, attaccano, osservano, si riposano, apparentemente senza motivazione. Forse sfruttano l’imprevedibilità del loro agire. Da tempo stavo organizzando un viaggio in Asia. Transiberiana: un nome che evoca treni fiabeschi e territori meravigliosi e disabitati. 190


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Sono partito e tornato, passando dal luglio afoso dell’estate torinese a temperature fresche e nottate ghiacciate. Un mese di avventure. Ho attraversato senza paura città sconosciute e talvolta ostili. Ho camminato solitario per le strade scure e senza illuminazione pubblica della Siberia. È Porta Palazzo che mi ha temprato. Sicuramente senza questa esperienza sarei stato più nervoso, più impaurito, più legato ad alcune fobie psicologiche, meno pronto a reagire. Dopo Porta Palazzo mi è stato semplice sbarazzarmi dei mendicanti e dei “venditori-di-tutto” cinesi, mi sono presto abituato alla povertà e allo stile di vita mongolo e ho camminato a testa alta tra gli ubriaconi siberiani e le orde dei tartari di Mosca. Ogni tanto ripensavo al borgo, in viaggio. E sorridevo, sempre.

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IL TEMPO STA PER SCADERE Il ritorno torinese non è semplice, anche perché tutti i miei amici sono ancora in ferie. La cosa positiva è che ho tanto tempo a disposizione per coltivare le mie passioni. I negozi del borgo non hanno chiuso. Nei giorni in cui tutta Torino è “chiusa per ferie”, sotto casa mia i commercianti tengono aperto. E così fanno anche i commercianti di droga. Molti sono andati in vacanza, alcune facce sono nuove, ma la compravendita mantiene ritmi da capogiro. Gli acquirenti, soprattutto di notte, non devono neanche scendere dall’auto, perché via Cottolengo è un Mc Drive79 della droga. Non che la cosa mi dia particolarmente fastidio, anzi: con questi ritmi di spaccio io posso tornare a casa tranquillo, i ragazzi hanno da lavorare e non si curano minimamente del mio passaggio. Dal balcone ho un’ottima visuale sullo smercio. Arriva una macchina, si ferma davanti a un gruppo di nordafricani, il finestrino si abbassa, qualche parola di contrattazione, lo scambio furtivo, il finestrino che si rialza e l’auto che riparte. Spesso l’acquisto avviene in pochi secondi, ma la contrattazione è notevolmente più lunga quando vedo girare 79

Servizio offerto da alcuni Mc Donald’s, che permette di acquistare i prodotti senza scendere dalla propria automobile.

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banconote di taglio elevato. Talvolta si crea la coda. Le automobili rimangono tutte diligentemente e rigorosamente in fila ad aspettare il proprio turno. E così, anche in pieno agosto, la situazione rimane in fermento. Tra i nordafricani c’è gente nuova da cui devi iniziare a farti conoscere. Con i nuovi arrivi, il Fascio è il primo a farne le spese. Dopo qualche reazione un po’ violenta alle provocazioni, i maghrebini hanno minacciato di bruciargli il negozio. Lui di sicuro non ci perde il sonno. Diciamo che non lo intimorisci facilmente, il Fascio. Tigre invece non so dove sia andato a finire, non lo vedo da tempo, spero che non si sia cacciato in un brutto guaio. Antonio è in splendida forma, e non ha intenzione di muoversi né da Porta Palazzo né da Torino, nonostante che sua moglie lo inviti quotidianamente ad andare in ferie. Lei, da qualche tempo a questa parte, è diventata una parrucchiera domestica: un sacco di uomini e donne entrano ed escono da casa sua passando davanti allo sguardo torvo e perplesso del marito e vanno a farsi tagliare i capelli da lei, rimanendo in camera per ore. Ogni tanto Ruben e io, osservando quel costante andirivieni di uomini, pensiamo che abbiano luogo incontri sessuali all’insaputa del povero Antonio. Con ogni probabilità sono pure calunnie, ma noi ci divertiamo lo stesso. Ruben mi racconta che, mentre io ero in viaggio, un giorno ha incrociato Antonio sul ballatoio. Ruben si era appena tagliato i capelli, dopo averli portati lunghi per anni, e i due non si vedevano da un po’. «Ciao» ha detto sorridendo Ruben. «Ciao» ha risposto Antonio, con un lieve cenno del capo. 193


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Ruben si stava incamminando verso la porta di casa. «Ah, abiti lì, sei nuovo» dice Antonio. «Prima ci abitavano due ragazzi della tua età, due imbecilli, pensa che uno lavorava in Africa!» «Ah sì, lo so» gli risponde Ruben: «L’imbecille che lavora in Africa sono io, mi sono solo tagliato i capelli!». Antonio non si scompone. «Eeeh» e gli dà una pacca sulla spalla, «lo sai che stavo solo scherzando. Qui si scherza sempre. Che problema c’è?». Ruben sorride sotto i baffi e fa per entrare a casa. «E allora, sei stato in Africa?» gli chiede Antonio. «Sì» risponde il mio amico. «E com’è? È piena di negri?» dice Antonio, scoppiando in una fragorosa risata solitaria. Ruben, intenerito dalla rozzezza del vicino di casa, gli racconta qualche aneddoto africano. Per tutta risposta, Antonio gli dice che sì, Ruben è stato in Africa, ma lui quando era giovane è andato in Puglia. Poi entra in casa, accomiatandosi garbatamente, e chiude la porta dietro di sé. Pensando a questi aneddoti, mi dispiace ancora di più dover lasciare Porta Palazzo: mancano pochi giorni, e poi ce ne andremo. Ma di personaggi come Antonio non capita di conoscerne da tutte le parti.

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SE NESSUNO HA MANGIATO L’ANGURIA, I SEMINI CHE VEDI IN CASA DOVREBBERO INQUIETARTI È ora. Sbaracchiamo casa, con un po’ di tristezza dentro. Stacchiamo le sciocchezze appese sui muri. Puliamo i pavimenti e aggiustiamo alla meglio l’armadio (la prima sera a Porta Palazzo, quella della rapina, è subito venuta giù un’anta e lì è rimasta per tutto questo tempo), poi rimontiamo il letto cui avevamo tolto gli inutili addobbi. In giro sciami di mosche, grosse e verdi. Mi danno la nausea, se non altro perché si sono impossessate della cucina. Le guardo perplesso, sono immobili sui muri. Chiamo Ruben. Rimaniamo sbigottiti tutti e due. Gli insetti sembrano aumentare di numero con il passare dei minuti. «C’entrerà qualcosa secondo te con il fatto che non puliamo la casa da mesi?» mi dice Ruben. Ridiamo. In effetti siamo due schifosi. E, poco dopo, una sorpresa ancora maggiore. Premetto che tempo fa, era qualche giorno che non venivo a casa, ho visto semi di anguria 195


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sparsi per tutta la cucina, soprattutto sul divano-letto. Tantissimi. “Ruben si mangia le angurie e sputa i semi in giro… vecchio duro!”, penso. Non ci bado più di tanto e, ovviamente, mi guardo bene dal pulire. Ma adesso lui mi rivolge la domanda infame: «Fiorenzo, ma quand’è che hai mangiato l’anguria?». «Ah, non l’hai mangiata tu?» gli rispondo. «No, io ero convinto che fossi stato tu.» Ci guardiamo preoccupati. Esaminiamo i semini. In realtà sono nidi di insetti. In effetti calpestandoli si spezzavano troppo facilmente e facevano un rumore troppo strano per essere dei semini. Io ne deducevo che fossero secchi o marci. In realtà, semplicemente, non erano semi. «Cazzo, io l’altra notte ci ho pure dormito su quel divano!» mi dice Ruben. Ci mettiamo subito a pulire, per quanto possibile, un po’ disgustati. La coperta ne è piena. La portiamo subito fuori e la stendiamo sul ballatoio. Andiamo a comprare un insetticida e lo spruzziamo per tutta la casa. Ne usiamo così tanto che non si riesce a respirare. Siamo costretti a uscire di corsa sul ballatoio, dove incontriamo Antonio. «Ciao cumpà» gli dice Ruben. «Ciao ragazzi» risponde lui. Si è comprato dei canarini, ci dice che sono la sua passione. Ce li mostra, decantandone le lodi per i colori vivaci e l’oggettiva bellezza. Ma prima di tutto per lui vengono i cavalli. Ci fa vedere le foto di quando era giovane e correva all’ippodromo. 196


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«Ero il più bravo di tutto il Piemonte» ci ripete entusiasta, poi entra in casa, prende una coppa e ce la mostra, vantandosene. «Quand’ero bambino avevo una fattoria con i cavalli, era della mia famiglia, è lì che ho imparato a cavalcare.» «Dove?» gli chiede Ruben. «A Gàssino.» Poi, a maggior chiarimento, temendo non avessimo capito, ci dice «Gasu», in piemontese, con un incredibile accento meridionale. La cosa ci fa sorridere. Ci mostra una foto di quando suo padre si era appena trasferito in Piemonte, a venticinque anni. Gli diciamo che in quella foto suo padre era più giovane di noi. Siamo un po’ imbarazzati nel dirlo. La persona ritratta in fotografia è un uomo, noi a confronto siamo dei ragazzini. «E poi mio padre è morto, io mi sono trasferito a Torino per lavorare a Porta Palazzo. Mio fratello poteva continuare in fattoria, gliel’ho detto di non seguirmi, ma lui è venuto con me.» Lo dice scuotendo la testa, ancora contrariato, dopo tutti questi anni. Esce anche la moglie, ci saluta con trasporto. Le spieghiamo che stiamo traslocando, sembrano dispiaciuti. Ci chiedono se ce ne andiamo via perché la zona non ci piace. Sorvoliamo sulla risposta e rientriamo a casa per mettere qualcosa a posto. Nonostante sia tutto piuttosto sporco, non esageriamo nelle pulizie. Usciamo a bere qualcosa, vogliamo fare ancora un brindisi a Porta Palazzo prima di dormire per l’ultima volta nella nostra reggia. Domani restituiremo le chiavi a Maresca, il padrone di casa, che sta già cercando nuovi affittuari. 197


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«Io non affitto agli stranieri» ci ha ribadito l’ultima volta che l’abbiamo incontrato. Cinque minuti prima, ancora arrabbiatissimo e schifato, ci raccontava dei mille problemi che aveva passato per trovare un alloggio appena arrivato a Torino. I piemontesi non affittavano le case ai meridionali. Ora i meridionali non affittano le case ai nuovi immigrati. La storia si ripete.

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L’ULTIMO GIRO PER PIAZZA DELLA REPUBBLICA STIMOLA UN LUNGO SUSSEGUIRSI DI MEMORIE E DIAMO UN COMMOSSO ARRIVEDERCI A PORTA PALAZZO Passiamo una notte taciturna, insonne e carica di ricordi. Nel pomeriggio, dopo il lavoro, ancora qualche sigaretta, quattro chiacchiere e gli ultimi accorgimenti per restituire ai proprietari una casa in condizioni dignitose. Lavoriamo con calma, vogliamo assaporare e degustare ancora il sapore di Porta Palazzo. Dopo aver indugiato in cucina oltre ogni limite consentito, a malincuore ci carichiamo i bagagli e scendiamo. Sotto casa incontriamo Ahmed, il fratello di Mohammed. «Ciao ragazzi. Dove andate con tutta quella roba?» «Ciao Ahmed, stiamo traslocando.» «Mollate già la casa? Siete stati poco.» «Eh, sì, si va via, sai io torno a vivere coi miei. L’affitto, il 199


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gas, la luce, la tassa sui rifiuti, viene a costare troppo vivere da soli» gli dico. Lui annuisce. «Con gli stipendi di adesso non ce la fai ad andare avanti. A noi va bene che le spese le dividiamo in tanti. E poi tutti quei soldi per venire a vivere in questo posto di merda. È difficile per noi marocchini, figuriamoci per voi!» Poi ci parla di Khouribga, la sua città natale. Fa vaghi riferimenti alla cooperazione internazionale e «a quegli stronzi» che lucrano sui finanziamenti pubblici diretti alle campagne più povere. Qualche commerciante maghrebino che conosce, e che ha delle attività commerciali a Torino, sfrutta gli investimenti destinati allo sviluppo di quella regione per le proprie tasche. Come capita a molti, dissimula la propria disonestà con grande attenzione e con un eccessivo rigore sui sottoposti. Scuotiamo la testa dispiaciuti. Ci scambiamo i numeri di telefono, con la promessa di rivederci per un tè. Ancora un sorriso e qualche parola di commiato. Poi anche Ruben e io ci salutiamo, saliamo sulle rispettive automobili e partiamo. Faccio ancora una volta il giro della piazza, mi guardo attorno pensieroso. Sta imbrunendo, il sole è già tramontato ma c’è ancora un po’ di chiarore. Sotto casa solo gruppi di maghrebini. Ho i finestrini abbassati. Passando con la macchina in molti mi fischiano. «Ciao bello, vuoi fumo?» Sorrido. È l’ultima volta che me lo chiederanno da abitante di Porta Palazzo. Proseguo, molto piano, tanto non ho auto200


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mobili alle spalle. In giro ci sono solo stranieri. Passo dall’altra parte di corso Regina. Il solito stravolgimento etnico e di stile di vita. Tanti giovani italiani, tanti locali aperti, musica e aperitivi. Mi impressiono, ancora una volta. Vado oltre, attraverso di nuovo corso Regina Margherita. «A posto bello?» mi urlano. Faccio finta di non sentire. Dopo qualche metro freno perché un gruppo di ragazzini nordafricani sta conversando in mezzo alla strada. Si spostano con molta calma. «Cocaina? Caramello? Vieni qua, ti trattiamo bene» mi dicono mentre passo. Li ringrazio ma non mi interessa. Alla mia sinistra ci saranno una ventina di maghrebini in cerchio. Qualcuno si spinge, solo per gioco, ma devo inchiodare perché un tizio spintonato rischia di finire sotto le mie ruote. Gli altri continuano a chiacchierare. Ripasso sotto casa, due ragazzi italiani stanno camminando velocemente e si guardano attorno circospetti. Imbocco il controviale di corso Regina, territorio dei nigeriani. Sono tutti seduti o accovacciati, guardano lontano e si scambiano poche parole. Proseguo, passo davanti al bar dei romeni. Provo a dare una sbirciata dentro, sembra pieno. Più in là neri e mulatti si confondono. Qualche maghrebino beve birra seduto sul marciapiede davanti al portone di casa. È una serata come un’altra. Ma io, questa sera, sono pensieroso, inquieto e un po’ triste. Rivedo il Fascio, Antonio, Tigre, Mohammed, Ahmed, Ruben, Euse, il bar dei romeni e tutti gli incredibili accadimenti di questi mesi nel borgo. Non si può spiegare quanto sia dura, dinamica, pittore201


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sca e bizzarra la vita qui, tra stranieri e italiani, tra lavoro e festa, fatiche e gioie, delinquenza, ignoranza e concretezza. Molto devo a Porta Palazzo. Il borgo mi ha offerto tutto il suo slancio vitale, donandomi la sicurezza, la tranquillità e anche quell’incoscienza che mi ha sempre contraddistinto. Un’incoscienza che ho sempre pensato positiva, anche in maniera presuntuosa, fatta di curiosità e di voglia di mettersi in gioco. Un’incoscienza, parte del mio carattere, che avevo perso quella notte del 2002. Piazza della Repubblica me l’ha restituita, con la sua vita faticosa ma vera, trasmettendomi un altro insegnamento importante per il mio futuro. Qui ho capito l’importanza della prudenza. Me l’hanno insegnata il Fascio e Tigre, giorno per giorno, con il loro modo di fare irruente e cauto allo stesso tempo, aggressivo e ragionevole, duro ma assennato. Sono due persone che mi hanno lasciato tanto, non con le parole ma con il comportamento, e con il loro modo di reagire alle difficoltà. Anche Antonio, un uomo semplice e piuttosto ignorante, nella sua personale lotta per la vita mi ha aperto gli occhi sul mondo, spesso involontariamente. E poi i miei due fidati vicini di casa maghrebini, accoglienti, garbati, grandi lavoratori e col sorriso sempre pronto. Le immagini scorrono veloci davanti ai miei occhi: le risate con Ruben, la cordialità della panettiera, il China Market, la moschea, il mercato, il Balon, i luoghi che ho frequentato e che ho amato. Anche odiato, ogni tanto. Abbandonare tutto questo mi rende triste. Porta Palazzo è una gran confusione di genti e di cose, di esasperazioni e di speranze. Appena pensi di aver capito qualcosa arriva qualcos’altro a sconvolgere tutto. 202


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È strana Porta Palazzo: un ambiente difficile che però ti dà tanto. Io adesso, quando scenderò dalla macchina, semplicemente, mi incamminerò indisturbato verso casa.

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INDICE La prima volta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il direttore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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S T A M P A direttore editoriale

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A L T E R N A T I V A

MARCELLO BARAGHINI

http://www.stampalternativa.it/ e–mail: redazione@stampalternativa.it CONTRO IL COMUNE SENSO DEL PUDORE, CONTRO LA MORALE CODIFICATA, CONTROCORRENTE. QUESTA COLLANA VUOLE ABBATTERE I MURI EDITORIALI CHE ANCORA SEPARANO E NASCONDONO COLORO CHE NON HANNO VOCE. SIANO I MURI DI UN CARCERE O QUELLI, ANCORA PIÙ INVALICABILI E RESISTENTI, DELLA VERGOGNA E DEL CONFORMISMO. Visita il “Fronte della Comunicazione” di Stampa Alternativa, il nostro blog per discussioni e interventi collettivi: www.stampalternativa.it/wordpress “Libera Cultura”: la collana online che raccoglie i libri storici e le novità di Stampa Alternativa, liberamente diffusi sotto le licenze Creative Commons: www.stampalternativa.it/liberacultura

Fiorenzo Oliva

IL MONDO IN UNA PIAZZA

progetto grafico impaginazione

ANYONE! ROBERTA ROSSI

© 2009 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri Casella postale 97 – 01100 Viterbo fax 0761.352751 e-mail: ordini@stampalternativa.it

ISBN 978-88-6222-072-9 Finito di stampare nel mese febbraio 2009 presso la tipografia IACOBELLI srl via Catania 8 – 00040 Pavona (Roma)


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