Speciale Charlie Hebdo da la Repubblica 2015/01/14

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la Repubblica MERCOLEDÌ 14 GENNAIO 2015

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LA PRESENTAZIONE Il vignettista Renald Luzier, conosciuto come Luz, mostra la prima pagina del nuovo numero

A una settimana dal massacro nella redazione, torna il Charlie Hebdo Ecco il paginone centrale con le vignette oggi in edicola e gli articoli del direttore e del disegnatore Luz

Jesuis Charlie

GÉRARD BIARD A UNA settimana, Charlie, giornale ateo, ha compiuto più miracoli di tutti i santi e i profeti uniti. Quello che ci ha fatto più ridere sono le campane di Notre-Dame che hanno suonato in nostro onore... Da una settimana, Charlie solleva più che montagne. Come l’ha magnificamente disegnato Willem, Charlie ha molti nuovi amici. Anonimi e celebrità planetarie, umili e ricchi, miscredenti e autorità religiose, alcuni sinceri e altri gesuiti, alcuni che resteranno per sempre con noi e altri solo di passaggio. Oggi li prendiamo tutti, non abbiamo il tempo né il cuore per fare una cernita. Non siamo però degli sciocchi. Ringraziamo di cuore tutti quelli, milioni, semplici cittadini o istituzioni, che sono davvero al nostro fianco e che, sinceramente, “sono Charlie” e che si riconosceranno in noi. Degli altri ce ne freghiamo, e probabilmente anche loro... Una domanda, però, ci arrovella: finalmente scomparirà dalle espressioni politiche e intellettuali la sporca parola “laico integralista”? Finalmente smetteremo di inventare sapienti circonlocuzioni semantiche per definire allo stesso modo gli assassini e le loro vittime? Negli ultimi anni, ci siamo sentiti un po’ soli nel tentare di respingere a colpi di matita alcune porcherie e furbizie pseudo intellettuali che ci buttavano in faccia, così come ai nostri amici che difendevano fermamente la laicità: islamofobi, cristianofobi, provocatori, aizzatori, razzisti, ve la siete cercata... Sì, condanniamo il terrorismo, ma. Sì, minacciare i vignettisti non è bello, ma. Sì, bruciare un giornale non si fa, ma. Abbiamo sentito di tutto. Spesso ci ridavamo su, perché è ciò che sappiamo fare meglio. Ma ora ci piacerebbe ridere d’altro. Il sangue di Cabu, Charb, Honoré, Mustapha Ourrad, Michel Renaud, Franck Brinsolaro, Ahmed Merabet, Clarissa Jean-Philippe, Philippe Braham, Yohan Cohen, Yoav Hattab, François-Michel Saada, era caldo e già si è sentito Thierry Meyssan spiegare ai suoi fan su Facebook che si trattava, ovviamente, di un complotto giudeo-americano-occidentale. Abbiamo anche sentito, qui e là, alcuni schizzinosi fare il muso davanti al raduno di domenica, con argomenti che tendono a giustificare apertamente il terrorismo e il fascismo religioso, oppure indignandosi del fatto che si celebrano i poliziotti = Ss. No, in questo massacro, non ci sono morti meno ingiusti di altri. Franck, che è morto negli uffici di Charlie, e tutti i suoi colleghi uccisi in questa settimana di barbarie sono morti per difendere idee che, forse, non condividevano neppure. Estratto dell’articolo del direttore di Charlie Hebdo che compare nel numero speciale oggi in edicola

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8 / CHARLIE HEBDO N° 1178 / 14 janvier 2015

DOMENICA A PIÙ GENTE PER «CHA

TRADUZIONI DI FABIO GALIMBERTI


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11 GENNAIO 2015 ARLIE» CHE PER LA MESSA

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4 janvier 2015 / CHARLIE HEBDO N° 1178 / 9

7 gennaio, Londra. Migliaia di persone portano le loro penne a Trafalgar Square Silenzio sotto “le coq bleu”

C‛è sem pr un esib e izionist a.

Bandiere delle Unità di protezione popolari curde

Voglio solo dire che questo è un evento pacifico.

Sì!! È il fatto di essere tutti insieme!

Questo tizio è rimasto in piedi da solo per più di tre ore.

Charlie Hebdo 2015 / International coordination: Global Editors Network


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Serra La vocazione minoritaria dei vignettisti diventati eroi MICHELE SERRA

Benni “Non hai vinto non è finita” disse al fucile la matita STEFANO BENNI

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A satira è sempre stata un linguaggio di minoranza, per pubblici ristretti, piuttosto radicali e piuttosto colti. La comicità è popolare, la satira assai raramente. La comicità è universale, perché accomuna, la satira non può esserlo perché divide. Non è una valutazione di qualità: ci sono grandi comici e ci sono mediocri satirici. È una valutazione di “genere”. Anche un bambino sa ridere di Stanlio e Ollio, ma per godersi una vignetta di Altan, o di Plantu, o del New Yorker, o una striscia di Doonesbury, è necessario padroneggiare le cose della politica e della società, essere inclini a osservarle con spirito critico, avere chiavi di lettura non banali. Di tutte le dismisure che ci sono cadute addosso in questi giorni (prima tra tutte la mostruosa dismisura della morte come esito di un’opinione), si è parlato poco della inaudita dismisura di ambito e di competenze che ha scaraventato un piccolo giornale parigino e un pugno di disegnatori anarco-libertini al centro della scena mondiale: laddove un satirico, ve l’assicuro, pagherebbe per NON essere mai, perché ciò che è troppo centrale, troppo frequentato, troppo condiviso, non solo non gli è familiare, ma lo snatura, lo spaesa, lo strappa alle sue riflessioni periferiche. “Je suis Charlie”, in questo senso, è una affettuosa, generosa, benedetta bugia che mezzo mondo

Disse la matita al fucile “Oggi io sono importante Anche se mi spari, tanti e tante Stanno dalla mia parte Sfiliamo in piazza, ben strette Milioni di baionette” Rispose alla matita il fucile “Tu sei un’arma geniale Ma l'uomo è uno strano animale Che dimentica in fretta

si è sentito di confezionare in segno di solidarietà con le vittime e di rivolta contro i carnefici. Ma solo Charlie è davvero e fino in fondo Charlie, nella sua oltraggiosa e inevitabile solitudine; perché la satira è (anche) un volontario esilio linguistico, un addio alla norma. Così quando il disegnatore Luz, di fronte agli occhi e alle orecchie di un pubblico mondiale forse centomila volte più vasto del suo pubblico “naturale”, cerca di “spiegare” come sarà la attesissima prima pagina del nuo-

La comicità unisce, è universale la satira invece divide: chi la fa non vuole mai essere troppo popolare e preferisce restare in una nicchia vo numero, capiamo in una sola volta l’errore bestiale commesso dagli assassini (hanno moltiplicato per centomila ciò che volevano cancellare) e la innaturale, commovente fatica dell’artista eccentrico strappato dal suo margine e trascinato, sulle ali di un amore popolare mai sognato né desiderato, nel mezzo del palcoscenico, con i grandi della terra — quelli derisi fino a un minuto prima — che gli fanno affettuosamente corona.

Per un buon industriale Rendon più i carri armati Che i lapis colorati Vediamo chi tra noi Lasciò il segno più profondo Se il tuo durerà un solo giorno Domani sarò di nuovo io A disegnare il mondo” Sorrise la matita “Forse son sfavorita Ma ancora non è finita”


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Immaginate la redazione di un giornale satirico. I giornalisti (pochi) e i disegnatori (tanti). Ogni numero parte dal nulla, dal bianco assoluto: non esiste materiale ordinario, normale cronaca, previsioni del tempo, pagine di servizio. Niente della rassicurante, utile normalità che conduce la nostra vita quotidiana, parole comprese, immagini comprese. Il giornale è da inventare centimetro per centimetro, pagina per pagina, con un lavoro sistematico di travisamento, distorsione, interpretazione inconsueta dei consueti materiali dell’informazione: le notizie. Le si smonta, le si rimonta, le si tradisce, si usano il paradosso e la menzogna con la stessa naturalezza con la quale nei giornali “veri” se ne dovrebbe diffidare. Si ride, si litiga, ci si entusiasma, ci si deprime, si cerca per tentativi un “giusto tono” che funziona tanto meglio quanto meno assomiglia ad alcun tono conosciuto. Si dicono orrende scemenze, oscenità da strapazzo, e in quel mare inverecondo si cerca di pescare il pesce d’oro del titolo giusto, della vignetta che spacca in due la mela del conformismo. Del tutto inetto al disegno, ho sempre ammirato e invidiato i disegnatori che, in quel flusso spesso afasico di parole, affidano al tratto la soluzione dei discorsi più inconcludenti. Lavorando con loro per anni ne ho conosciuti a decine, bravissimi, bravi e meno bravi, stilizzatissimi, barocchi, torvamente

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veristi, gentilmente metafisici, elegantissimi, volgarotti, fumettistici, cinematografici, politicamente raffinati, politicamente rozzi. Resta indelebile l’emozione che alcune vignette, arrivando in redazione, magari disegnate lì per lì, producevano nella mia testa scribacchina, come un colpo di vento quando spazza via un cumulo di foglie secche. Un disegno, pochissime parole e a volte nessuna, e ciò che si cercava di dire senza riuscirci, viene finalmente detto quasi senza dirlo.

Ogni numero parte dal nulla dal bianco assoluto, non esiste materiale ordinario, niente della normalità. Tutto è da inventare Se il Maometto che piange disegnato da Luz mi tocca il cuore, e mi sembra la nobile soluzione di un ignobile affaire, è anche perché conservo intatta, a tanti anni di distanza, la meraviglia per il disegno, l’ammirazione per la mano che lo traccia rapida, il popolo delle parole che si sposta per fargli largo nella pagina, come la folla enorme di Parigi quando passavano i disegnatori di Charlie Hebdo. © RIPRODUZIONE RISERVATA

Luz I Ho sognato Charb e gli altri che disegnavano “Niente odio” LUZ*

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L problema di noi disegnatori è che non sappiamo parlare. Viviamo in un mondo complicato e facciamo dei piccoli disegni per tentare di spiegare in immagini quello che vediamo, come quando eravamo bambini. A lungo ho pensato che questo sguardo infantile fosse anche un modo di proteggerci dalla stupidità. Forse non è così. Vi racconterò come abbiamo deciso la copertina del numero che trovate in edicola. Mercoledì scorso è stato un giorno molto complicato. L’indomani, giovedì, tutto sembrava ancora più complicato ma tutti incominciavano a chiederci: e ora cosa farete? Abbiamo capito che dovevamo tornare al lavoro. Fare un giornale significa cercare di uscire dall’emozione. Molto onestamente, non sapevo se sarei stato capace di disegnare ancora. Giovedì sera ho fatto un primo disegno. Era il disegno della catarsi, che mi ha sbloccato. Nei giorni seguenti ho continuato a fare dei disegni con quelli che sono rimasti, Catherine, Coco, Willem. Abbiamo cercato di ritrovare disegni inediti di Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, Honoré, in modo che fossero tutti presenti in questo numero speciale. Siamo arrivati a lunedì sera. Ero seduto in un angolo, cercavo la vignetta giusta per la copertina. Ho parlato con il pensiero a Charb, Cabu, Wolinski, Honoré. Ho fatto una sorta di riunione di redazione nella mia testa. E allora ho capito quello che non dovevamo fare. Non una vignetta che ci rappresentasse come vittime. E neppure solo come simbolo di tutto ciò che è accaduto. Mi è tornata la voglia di disegnare

il mio personaggio ispirato a quel Maometto che esiste nel cuore di tante persone. Per me è un personaggio simpatico. L’ho guardato. Stava piangendo. Diceva anche lui «Je suis Charlie». Ho aggiunto: «Tutto è perdonato». Sono scoppiato a piangere. Poi siamo scoppiati a ridere, tutti insieme. Era la copertina. Non è la copertina che il mondo avrebbe voluto che facessimo. Non è neppure la copertina che speravano i terroristi. Ora penso alle vittime che non erano vignettisti, come il nostro correttore di bozze, Mustapha, con origini musulmane ma ateo. Penso anche al poliziotto in bicicletta, Ahmed, che pure lui era musulmano: probabilmente non era un lettore di Charlie, forse non gli piaceva quello che facevamo. E allora ho pensato: sono Charlie, sono poliziotto, sono ebreo, sono ateo, ma sono anche musulmano perché i terroristi che ci hanno attaccato vogliono spargere l’odio contro le persone che credono difendere. Non accadrà. Continueremo a fare Charlie. Non so ancora come, ma continueremo. Vorrei che lo “spirito” Charlie sopravviva ovunque, non solo nel nostro giornale. Mi piacerebbe che i quattro milioni di manifestanti che sono scesi in piazza domenica tenessero vivo questo spirito comprando libri, giornali, esercitando l’intelligenza. Andate nelle edicole per comprare Charlie ma anche un altro giornale. Se attraverso di noi, faremo vivere la carta stampata, le vignette e quindi il dibattito delle idee, allora significherà che abbiamo davvero vinto.

* Renald Luzier, in arte Luz, 43 anni, è un vignettista e autore di fumetti Lavora a Charlie Hebdo da 17 anni. Il 7 gennaio era il suo compleanno, per questo è arrivato in redazione un po’ più tardi e si è salvato (Testo raccolto da Anais Ginori)


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Gopnik Satira e libertà è questa la vera fede della Francia ADAM GOPNIK

GIORNALISTI del settimanale francese Charlie Hebdo, massacrati la settimana scorsa in un attentato che ha sconvolto il mondo, non erano vignettisti garbati come quelli pubblicati quotidianamente dai giornali americani. E non avevano nemmeno niente a che fare con gli editoriali ironici e la satira del costume che sono ospiti abituali qui sulle nostre amate pagine del New Yorker (benché alcune copertine di questa rivista, è giusto dirlo, abbiano scandalizzato più di un lettore e scatenato più di una polemica.) I giornalisti di Charlie Hebdo lavoravano nel solco di una tradizione specificamente francese, una tradizione di satira feroce forgiatasi nella lunga guerriglia ottocentesca tra repubblicani da una parte e Chiesa e monarchia dall’altra. Ci sono riviste satiriche e vignettisti “di grido” anche a Londra e in altre capitali europee, in particolare a Bruxelles, ma tendono ad avere un tocco più artistico e a concentrarsi maggiormente sui media. Charlie Hebdo era — e sarà ancora, speriamo — una rivista satirica di quelle che al giorno d’oggi si possono trovare quasi solo in Francia. Diversissimo dall’ironia e dall’autoreferenzialità dell’americana The Onion, o dal pettegolezzo politico del Canard Enchaîné parigino o del Private Eye londinese, Charlie Hebdo ha mantenuto vivo lo stile ottocentesco delle caricature dirette, spiritose e altamente scandalose, una tradizione inaugurata da caricaturisti ormai leggendari come Honoré Daumier e il suo direttore Charles Philipon, che disegnavano il re Luigi Filippo con la testa fatta a pe-

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Garton Ash «O “Basta limiti al diritto di parola sotto attacco in tutto il mondo”

LONDRA

GGI la libertà di espressione è

ENRICO FRANCESCHINI

sotto attacco. Non solo attacchi sanguinosi come quello che ha colpito Charlie Hebdo, ma anche pressioni, censure, minacce con cui si cerca di restringere un diritto che credevamo inarrestabile dopo la caduta del muro di Berlino e la rivoluzione di Internet. Per questo bisogna proteggerlo». È il parere di Timothy Garton Ash, il politologo britannico, columnist del Guardian e di Repubblica, che nei giorni scorsi ha lanciato un appello affinché la stampa occidentale ripubblichi le vignette di Charlie Hebdo, parte della campagna che guida con l’università di Oxford, dove è docente di affari internazionali, con il progetto freespeechdebate.com. E proprio sulla libertà di parola Garton Ash sta scrivendo il suo prossimo libro. Che reazioni ci sono state, professore, al suo appello a ripubblicare le vignette di Charlie Hebdo? «Reazioni molto differenti e anche questo è interessante. I media di alcuni paesi europei, come Olanda e Danimarca, mi hanno risposto che lo avevano già fatto ancora prima che proponessi di farlo e che avrebbero continuato. In altri, particolarmente in Europa Orientale, c’è stata una risposta molto positiva, molto forte, anche se ragionata: per esempio il mi-

ra, e che nel 1831 furono messi sotto processo per lesa maestà. La famosa e finto ingenua dimostrazione del processo della caricatura da parte di Philipon riesce a esprimere ancora oggi quella magia visiva quasi primitiva che rimane appiccicata all’arte dei vignettisti. Di cosa poteva essere accusato, pretendeva di sapere Philipon, visto che la testa del re era effettivamente a forma di pera? E come poteva il semplice fatto di delinearne il profilo essere giudicato alla stregua di un attacco contro il monarca? Le vignette, più volgari e più scabrose, che campeggiavano sulle copertine di Charlie Hebdo (e che prendevano di mira anche Gesù e Mosè, non solo Maometto; rabbini furiosi e vescovi farneticanti, non solo imam) erano l’esempio più recente di quella tradizione. Nell’era di internet, dove le immagini proliferano, si mescolano e si trasformano in un photoshop-secondo, verrebbe da pensare che il potere di un semplice scarabocchio da graffitaro sia minimo. E in effetti chi studia le immagini e la loro vita ci racconta da anni che questo tipo di reazioni non è più possibile, che l’onnipresenza delle immagini ha privato le immagini stesse della capacità di offendere, che la ripetizione e l’ampia diffusione delle immagini le hanno spogliate di significato, le hanno private del potere di scioccare. Anche nel momento in cui gli assassini islamisti colpivano a Parigi sicuramente c’era qualche professore esperto di media, in qualche facoltà umanistica, che spiegava che la differenza tra la nostra epoca

glior quotidiano polacco, Gazeta Wyborcza, ha pubblicato un’attenta selezione di vignette, scegliendo cosa e come pubblicare. Poi ci sono quelli che io chiamo i liberal ovvero progressisti agonizzanti, come il Guardian in Inghilterra, Die Zeit in Germania, il New York Times negli Stati Uniti, che non pubblicherebbero mai niente del genere, perché non è nel loro stile, non fa parte del loro gusto e della loro filosofia, ma sono ovviamente schierati in solidarietà con Charlie Hebdo e sostengono il diritto del settimanale francese di pubblicare ciò che vuole. Perciò, appunto, agonizzano nell’incertezza su come comportarsi in questa particolare circostanza». E lei come giudica questa risposta così eterogenea? «Come un problema, perché l’Europa non ha una posizione comune. Beninteso, in generale ogni giornale decide per sé, questa è l’essenza del pluralismo. Ma questo è, a mio parere, un momento eccezionale, in cui bisogna difendere la libertà d’espressione e occorre dunque mostrare solidarietà tra i media. È più difficile farlo anche perché non c’è un luogo, uno spazio, un forum comune in cui i giornali europei possano dibattere. E forse sarebbe necessario crearlo». Non c’è stato soltanto l’episodio di Charlie Hebdo, ma anche l’attacco alla Sony per impedirle di distribuire un film giudicato


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e quelle passate è che l’ubiquità delle immagini ci intorpidisce, la proliferazione delle immagini ci rende indifferenti. Beh, non è esattamente così. Sono le immagini che scatenano l’ira: sono molte le cose che hanno spinto i fanatici a fare quello che hanno fatto, ma hanno scelto di concentrarsi sulle vignette. Un disegno è una cosa fatta a mano, il segno vivente di un cocciuto intento umano, che si ribella contro una devozione. Per quelli che si ricordano di Charlie Hebdo come realmente, oscenamente era, trasformare i suoi vignettisti assassinati in pedine di un altro genere di devozione pubblica (farne dei martiri, incompresi messaggeri del diritto di espressione) sembra quasi un tradire la loro memoria. Wolinski, Cabu, Honoré: come i calciatori in Brasile, ognuno di loro in Francia era conosciuto con un solo nome. Viene spontaneo sorridere con irriverenza al pensiero delle bandiere a mezz’asta in tutta la Francia, la settimana scorsa, per questi anarchici birboni, e loro di sicuro sarebbero scoppiati a ridere di fronte al paradosso dell’ex presidente, Nicolas Sarkozy, e di quello in carica, François Hollande, che li commemorano e sfilano per loro. I vignettisti non si limitavano a sbeffeggiare gli atti politici di questi uomini: ingigantivano regolarmente i loro appetiti sessuali e rimpicciolivano regolarmente i loro accessori sessuali. È meraviglioso vedere papa Francesco condannare questo orrore, ma vale la pena ricordare anche lo speciale natalizio del settimanale, intitolato «La vera storia del bambin Gesù», che raffigurava in coperti-

na il disegno di una Madonna sbigottita che partoriva il suo pargolo a gambe spalancate. (L’aveva vista il papa, questa copertina?) E non era soltanto la devozione religiosa della gente che i vignettisti amavano sfruculiare. L’ottantenne Georges Wolinski, di padre ebreo polacco e madre ebrea tunisina, provocò scalpore due anni fa disegnando un manifesto (per il Partito comunista!) in favore delle pensioni di anzianità, in cui si vedeva un pensionato felice che palpava il posteriore di due donne in minigonna apparentemente compiacenti. «La vita comincia a sessant’anni», recitava spiritosamente la didascalia. Ma Wolinski, nonostante tutte le sue provocazioni, era un bon vivant, innamorato della vita e di raffinata cultura, una sorta di istituzione: nel 2005 era stato insignito della Legion d’Onore, la più grande onorificenza di Francia. Negli ultimi anni Charlie Hebdo stentava a tirare avanti. Anche se suscitano grande clamore, le riviste satiriche fanno fatica a trovare finanziatori, in Francia come in America. Eppure Wolinski e i suoi complici rappresentavano l’autentico spirito rabelaisiano della civiltà francese, con la loro tolleranza verso gli appetiti umani e il loro disprezzo verso la falsa nobiltà d’animo, di ogni genere, anche quella laica tanto cara ai progressisti. Charlie Hebdo offendeva gli ebrei, offendeva i musulmani, offendeva i cattolici, offendeva le femministe, offendeva la destra e la sinistra, pur essendo schierato a sinistra: offendeva tutti allo stesso modo. (Il nome Charlie Hebdo era nato, in

parte, come risposta a un provvedimento del governo che aveva fatto chiudere una precedente versione della rivista: era al tempo stesso un tributo a Charlie Brown e uno sberleffo verso Charles de Gaulle). Il diritto di sbeffeggiare e bestemmiare, e di mettere in ridicolo religioni, politici, e benpensanti: era questo che stava a cuore a Charlie Hebdo, ed è per questo che i suoi vignettisti sono stati uccisi; e sminuiremmo il loro sacrificio se accogliessimo le loro azioni sotto il mantello di un altro genere di devozione e le facessimo apparire troppo nobili, quando quello che loro ricercavano era l’allegria dell’ignobiltà. Ora, con gli assassini morti e diversi ostaggi — sequestrati non a caso in un alimentari kosher — morti anch’essi, il pensiero va di nuovo all’inestinguibile tradizione francese del dissenso, la tradizione di Zola, alimentata da così tante violenze e così tante sommosse di piazza. «Nulla è sacro» era il motto dei vignettisti che sono morti, e che si illudevano (tragicamente, si è visto) che la République potesse proteggerli dall’ira della fede. «Nulla è sacro»: ci dimentichiamo comodamente, a volte, e nel piacere di una risata comune, quanto possa essere nobile e quanto caro possa costare questo motto. © Adam Gopnik Questo articolo è uscito sul “New Yorker” L’autore in Italia pubblica per Guanda (Traduzione di Fabio Galimberti)

ostile alla Corea del Nord e altri simili casi di pressioni, boicottaggio, minacce ai media, pur senza arrivare a far scorrere il sangue come a Parigi. La libertà di espressione è sotto attacco? «Assolutamente sì, specie se paragoniamo la situazione odierna a quindici o venti anni or sono. Negli anni novanta abbiamo vissuto due fasi positive: la caduta del muro di Berlino che ha portato la libertà di stampa in Europa dell’est e in Russia, e la rivoluzione di Internet, che è sembrata in grado di polverizzare qualunque barriera. Ma oggi ci sono Stati come la Cina che impongono limiti al web, altri paesi che fanno ricorso alla censura, hacker che attaccano media, oltre agli abusi del campo opposto, per così dire, da parte di agenzie di spionaggio come la Nsa, la Cia e i loro alleati occidentali che invadono la privacy controllando email e altre forme di comunicazione. La libertà di parola si è indebolita, su questo non c’è dubbio». Un altro fenomeno relativamente nuovo di questi nostri anni è il politicamente corretto. Perché una certa parola è un insulto razzista in bocca a un calciatore ed è invece satira sulle pagine di un giornale umoristico? «Una società democratica deve essere in grado di distinguere. La differenza è il contesto in cui una frase o un’immagine vengono

usate. Secondo me è sbagliato avere leggi universali che mettono limiti alla libertà di espressione, con pochissime eccezioni, come per esempio la pornografia che fa uso dei minori o usa violenza sulle donne. E quando il contesto è un giornale o uno spettacolo satirico dobbiamo ricordare che la satira è stata compagna di libertà e democrazia per secoli.

«Nel caso di Charlie Hebdo bisogna dire che le loro copertine e vignette sono figlie della rivoluzione dell’avanguardia che c’è stata nell’arte, figlie dello spirito ribaldo e ribelle del ‘68. Sono una forma provocatoria d’arte per il semplice fatto che l’arte è sempre provocatoria. Anche questo è libertà di parola». In America, paese democratico che protegge la libertà di espressione e di stampa, non si pubblicano vignette come quelle di Charlie Hebdo. «Precisiamo. Non le pubblicano i grandi organi della carta stampata e i network televisivi nazionali. I vecchi media. Ma sono state pubblicate online da siti come Slate e il Daily Beast, i nuovi media. È anche questione del pubblico a cui ci si rivolge, di gusti e di stile come notavo prima. Ma sempre in America ci sono serial come South Park e musical come The book of Mormon che si fanno apertamente e aggressivamente beffe di ogni religione e di ogni concetto protetto dal politicamente corretto, di dio, dei gay, delle minoranze etniche, e nessuno pensa che sia razzismo. Perché il contesto è satirico, ironico. E in Inghilterra, dove i giornali non pubblicano niente che possa offendere la religione, da decenni impazzano gli sketch in tivù e gli show teatrali dei Monty Python che ci ridono su senza riguardi».

“Non solo i terroristi: dalla Cina alla Nsa passando per le censure sul web la libera espressione si sta indebolendo Sì ad un’iniziativa comune dei media” È un valore da proteggere». In Italia, come altrove, esiste il reato di vilipendio della religione, non solo di quella cattolica, ma di qualsiasi religione. «Ecco, per me queste leggi non dovrebbero esserci. Si spingono troppo in là nel limitare la libertà di parola, la libertà dell’individuo. Vilipendio della religione è una categoria troppo ampia. Vuol dire che io non posso criticare anche aspramente Scientology? E come distinguere tra una religione e un culto? Chi decide cosa è una religione e cosa non lo è?». Cosa dire a chi trova offensiva una copertina o una vignetta?

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Wolinski e gli altri vignettisti della rivista rappresentano quello spirito del dissenso che è parte fondante del Paese

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Le società democratiche devono essere in grado di distinguere, anche quando nel mirino c’è la religione


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