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L'arte sfida il potere

a cura di Cristian Barba

NOTE DI PROTESTA C ile, Hong Kong, Francia, Libano, Catalogna, Bolivia. Nell’ultimo anno, gli equilibri politici di diversi paesi in giro per il mondo sono stati messi in discussione da agitazioni popolari intense, sviluppatesi in contesti sociopolitici anche molto lontani tra loro, ma accomunate dal desiderio di riscatto di categorie sociali la cui insoddisfazione si è trasformata in rabbia. Le strade dei principali centri urbani sono state prese d’assalto e i fuochi di protesta sono divampati, prolungandosi per settimane se non addirittura mesi. Le folle di manifestanti hanno quindi avvertito la necessità di unirsi sotto bandiere e messaggi comuni, volte a dare un obiettivo unitario alle mobilitazioni ma anche a plasmarne l’immaginario. Immaginario plasmato in più modi, a seconda delle circostanze: cortei, popolarità di alcuni leader, social network, striscioni. Ma anche cori, balli e canzoni, perché nella maggior parte di queste battaglie la musica è stata un potente mezzo di aggregazione e rafforzamento identitario attorno alle ragioni della protesta. In paesi con una tradizione storico-politica importante sono state rievocate le canzoni simbolo di epoche passate, evidentemente ancora adatte a rappresentare lo spirito delle rivendicazioni odierne. È il caso del Sud America, dove la stagnazione economica degli ultimi anni ha accentuato le lacerazioni sociali, esplose nell’intero continente creando un clima da guerra civile. Non è stato un anno tranquillo neanche a Hong Kong, la città-stato all’interno del territorio cinese, di nuovo alla ribalta per le riaffiorate tensioni col governo di Pechino, accusato di non rispettare l’autonomia dell’ex colonia britannica. La difesa dell’indipendenza di Hong Kong non ha però un corposo immaginario di riferimento, così all’interno dei movimenti studenteschi sono nate canzoni che nel giro di poche settimane sono diventate veri e propri inni. Istanze indipendentiste hanno mobilitato anche la Catalogna, dove si avvertono gli strascichi della repressione a cui andò incontro il referendum per l’indipendenza organizzato nel 2017, mentre le strade di Parigi e di tutta la Francia hanno fatto i conti col malcontento dei gilet gialli, voce di un ceto medio esasperato dall’impoverimento. Nel resto del mondo occidentale, la protesta è sfumata nel dissenso, trovando più diffusione sui social network che nelle piazze. La traslazione del dibattito pubblico sui social è coincisa con l’avanzata di movimenti sociali nuovi, che hanno estremizzato il lin

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Cile 2019 - credit: pressenza.com

guaggio della politica e polarizzato le opinioni. La presidenza degli Stati Uniti di Donald Trump e la Brexit ne hanno fornito la massima espressione, mostrando la nuova faccia del conservatorismo fondato sul protezionismo commerciale e sul controllo delle frontiere. Numerose star, da entrambe le sponde dell’Atlantico, hanno espresso posizioni in contrasto con le politiche di Trump e con la Brexit, ma il consenso del presidente americano e i risultati delle ultime elezioni nel Regno Unito sembrano orientare la volontà popolare in altre direzioni. L’incidenza delle nuove tecnologie sulla vita politica ha influenzato significativamente anche la “seconda vita” di battaglie sociali come il femminismo e l’ambientalismo, i cui ideali si stanno riaffermando nel XXI secolo grazie a movimenti globali come Non Una Di Meno e Fridays For Future, esempi virtuosi di attivismo nell’era della globalizzazione. Flash mob e cortei dal carattere non violento vedono la musica giocare un ruolo di primo piano, con canzoni-simbolo che identificano e accompagnano le manifestazioni in tutto il mondo. Complessivamente, si può dire che il crescente fervore politico degli ultimi anni abbia provocato, a diverse latitudini, il bisogno di esprimere con la protesta, più o meno pacifica, sentimenti derivanti da un’appartenenza sociale, culturale e politica. Le canzoni che hanno dato voce al malcontento riflettono quel senso d’appartenenza e lo rafforzano, irrigando il terreno nel quale germoglia il seme della rivolta.

VENTO DEL SUD…AMERICA I l connubio tra suoni e agitazioni politiche ha trovato terreno fertile in Sud America, dove la storia politica, caratterizzata da grandi movimenti popolari e spietati autoritarismi, incontra la tradizione musicale, ricca di incroci e contaminazioni (dalle sonorità dei colonizzatori europei a quelle degli schiavi africani). Instabilità politica e stagnazione economica segnano un paesaggio ripiombato nell’incubo di povertà e disordine, dopo un inizio di secolo nel quale lo sviluppo economico e il sogno socialista sembrarono gettare le basi per un futuro di crescita. Il 2019 è stato un anno di scontri in Ecuador, Cile, Colombia e Perù, mentre in Bolivia i militari hanno costretto alle dimissioni e all’esilio Evo Morales, in Argentina le contestazioni sono culminate nell’elezione di un nuovo governo e il Venezuela, con lo scontro per il potere tra Maduro e Guaidó, ha visto aggravarsi una condizione già devastata. Un denominatore comune alla base di tutte le proteste è stato l’aumento delle disuguaglianze sociali e l’allargamento della forbice tra l’élite, sempre più ricca, e le classi popolari, sempre più povere. L’espressione più violenta del malcontento si è registrata in Cile, le cui città sono state messe a ferro e fuoco per settimane, causando centinaia di feriti e decine di morti. Lo spirito della protesta ha rievocato in parte l’ondata rivoluzionaria che si diffuse in Sud America negli anni Sessanta e che in Cile portò alla nascita della Nueva Canción Chilena, movimento artistico con una esplicita identità politica, legato alle battaglie di Salvador Allende e ispirato dai principi della Rivoluzione Cubana, di Fidel Castro e Che Guevara.Quell’esperienza si concluse in modo traumatico nel 1973 col golpe militare guidato da Pinochet, cui seguirono 17 anni di dittatura. Eppure, a 46 anni di distanza, la mobilitazione cilena si è affidata ancora alle parole e alla musica di El Derecho a vivir en paz di Victor Jara - di cui è stata prodotta anche una nuova versione, scritta e interpretata da una trentina di artisti cileni - e di El pueblo unido jamás será vencido, eseguita da un’orchestra e cantata da un milione di persone durante una manifestazione a Santiago del Cile il 25 ottobre. Molti dei manifestanti sono troppo giovani per aver vissuto gli anni in cui quelle canzoni sono state scritte e si sono intrecciate con la storia del paese, ma in quei brani è evidentemente ancora ben rappresentato l’orgoglio del popolo cileno.

Cile 2019 - credit: Marcelo Hernandez/Getty Image

HONG KONG IS NOT CHINA U no dei luoghi su cui gli occhi del mondo sono stati puntati a lungo nel 2019 è stato senza dubbio Hong Kong, teatro di proteste e scontri andati avanti per mesi a causa

di contrasti col governo cinese. Gli equilibri nel rapporto con Pechino - rispetto a cui Hong Kong gode di una sostanziale indipendenza - erano già precari e hanno rischiato di saltare del tutto a causa di un emendamento alla legge sull’estradizione, visto dagli abitanti della città-stato come un tentativo da parte della Cina di interferire con il loro sistema giuridico. A partire dallo scorso giugno, e fino alla fine dell’anno, le manifestazioni si sono moltiplicate e col passare del tempo sono diventate sempre più violente, portando all’arresto di oltre 7mila persone e a più di 2500 feriti. La legge sull’estradizione è stata solo la goccia che ha fatto traboccare un vaso in bilico da tempo, tanto che i manifestanti non si sono accontentati dell’avvenuto ritiro della legge ma hanno chiesto le dimissioni della governatrice Carrie Lam e un sistema di democrazia diretta. A rivendicare e difendere l’indipendenza di Hong Kong sono stati principalmente i più giovani, organizzati all’interno del movimento democratico, che hanno dato alla protesta contenuti e obiettivi politici ma anche e soprattutto contenuti simbolici,

di natura artistica, fondamentali per conoscere e raccontare la generazione di studenti ai quali appartiene questa battaglia. Oltre alle pietre, i fumogeni, i manganelli o le pistole, a sostegno dell’indipendenza di Hong Kong sono state impiegate anche armi come matite, colori e note: molti ragazzi hanno messo a disposizione le loro capacità artistiche, tappezzando le strade della rivolta con graffiti, adesivi, caricature e in alcuni casi vere e proprie opere d’arte come The Vantage, firmato da @harcourtromanticist, quadro-citazione de La libertà guida il popolo di Delacroix. Non sono mancati neanche gli spunti musicali: durante i cortei è stata più volte intonata Do you hear the people sing? - il brano più celebre del musical Les Miserables - ma col prolungarsi delle proteste, diversi artisti e band locali hanno scelto di produrre canzoni in favore delle istanze indipendentiste. Uno di loro - protetto dallo pseudonimo “Thomas dgx yhl” - ha scritto una marcia in cantonese e l’ha pubblicata a fine agosto col titolo Glory to Hong Kong. La canzone ha iniziato a circolare e in poche settimane è diventata un vero e proprio inno della protesta, al punto che, durante una partita di calcio tra Hong Kong e Iran, i tifosi hanno dato le spalle al campo mentre risuonava l’inno cinese e poco dopo hanno cantato Glory to Hong Kong.

Fridays For Future - credit: ohga.it

Hong Kong 2019 - credit: nationalgeographic.com.au

Greta Thunberg - credit: peopleforplanet.it

DAL POPOLO SOVRANO D ai tempi della polis greca a oggi, la piazza è sempre stata il simbolo della partecipazione cittadina alla vita della comunità, soprattutto a quella politica. In piazza sono stati bruciati eretici e decapitati re, sono state dichiarate guerre e appesi dittatori, sono stati rovesciati governi e consumate brutali repressioni. Ancora oggi le piazze riescono a essere il luogo nel quale si scrivono pagine di storia, ma nel mondo occidentale ciò accade sempre meno. Le cause sono più di una: individualismo capitalistico, dominio dell’economia sulla politica, nascita di nuove piazze virtuali, crisi degli ideali e conseguente crisi della rappresentanza. AL POPULISMO SOVRANISTA

Eppure qualcosa nelle democrazie nordatlantiche succede: le elezioni europee dello scorso maggio hanno confermato la crescita in tutto il continente delle forze sovraniste, un modello di destra che in parte si rifà al nazionalismo novecentesco ma che al tempo stesso ha cambiato il linguaggio della politica, rendendolo più semplicista e meno composto. L’apripista di questa nuova tendenza è stato Donald Trump, che grazie a una campagna elettorale controversa e aggressiva si è guadagnato la presidenza degli Stati Uniti a fine 2016, ispirando il modus operandi di diversi leader europei tra cui Boris Johnson, trionfatore delle ultime elezioni nel Regno Unito e firmatario della Brexit. L’elezione di Trump e la Brexit sono stati eventi estremamente polarizzanti e hanno generato un confronto pubblico internazionale che inevitabilmente ha toccato anche il mondo della musica, con artisti di fama mondiale che si sono schierati

apertamente. Lo sa bene Trump, che nel 2017 per organizzare la cerimonia di insediamento alla Casa Bianca non riuscì a trovare una superstar che volesse cantare per lui, mentre alla cerimonia per l’insediamento di Obama nel 2013 parteciparono (tra gli altri) Stevie Wonder, John Legend, Beyoncé e Alicia Keys. Il tycoon non si è fatto molti ammiratori nel mondo dello spettacolo, e quelli che potrebbe avere preferiscono tenere la loro carriera lontana dalla politica. Eppure, la lista infinita di giganti della musica che lo hanno criticato non ha scalfito il consenso elettorale nei confronti del presidente, che anzi a oggi (febbraio 2020) vanta indici di gradimento molto alti e buone possibilità di ottenere un secondo mandato. Discorso simile nel Regno Unito: a fronte di qualche artista pro-Brexit (come Ringo Starr e Bruce Dickinson), la maggior parte della scena musicale si è espressa per la permanenza nell’UE, da Ed Sheeran a Sting, da Rita Ora a Elton John. Non è bastato: la vittoria dei conservatori alle ultime elezioni è stata la più schiacciante dai tempi di Margaret Thatcher. Get Brexit done.

Donald Trump e Boris Johnson, 2019 - credit: Steve Parsons-WPA Pool/Getty Images

OLTRE I CONFINI: L’ATTIVISMO AI TEMPI DEL WEB 2.0

La digitalizzazione delle nostre vite ha investito e trasformato anche le modalità di costruzione e orientamento dell’opinione pubblica, portando la politica tradizionale ad affidarsi a studiosi ed esperti dei nuovi spazi comunicativi, “tecnocrati digitali” col compito di gestire la comunicazione sui social di leader e partiti. Al tempo stesso, l’interconnessione globale e le nuove modalità di aggregazione digitale hanno stimolato la nascita e la crescita di movimenti su scala mondiale, che portano avanti battaglie su temi specifici, di carattere politicamente trasversale. Due esempi esplicativi sono i movimenti Non Una Di Meno e Fridays For Future, impegnati rispettivamente a favore dei diritti delle donne e contro il riscaldamento globale. In questi casi i social network hanno permesso la creazione di nuove comunità, attirando i riflettori mediatici e favorendo la sensibilizzazione su temi che altrimenti sarebbero rimasti nell’ombra, nonché su categorie sociali spesso in crisi di rappresentanza: le donne e i giovani. La rete, in questo senso, ha risvegliato una “coscienza di classe” che ricorda quella caratterizzante le battaglie femministe e ambientaliste dello scorso secolo, portate avanti però in anni nei quali la politica era molto più centrale nella vita sociale. Oggi gli esempi di partecipazione di matrice femminista e ambientalista assumono un significato e un valore diverso, generando un senso d’appartenenza che, specietra i più giovani, non si ritrova facilmente su altri aspetti della vita pubblica. L’universalità degli ideali su cui si fondano queste battaglie ne spiega anche la diffusione internazionale che negli ultimi anni ha portato gli attivisti a indire delle giornate di sciopero globale. Di portata globale è stata anche la musica al servizio della protesta, veri e propri inni risuonati durante le manifestazioni in tutti i continenti. Il movimento Non Una Di Meno è nato in Sud America e si è diffuso a livello mondiale in seguito al “caso Weinstein” e all’esplosione dell’hashtag #metoo. Gli ultimi due anni sono stati un crescendo di cortei e flash mob, il cui punto più alto si è toccato probabilmente a Santiago del Cile il 25 novembre 2019, quando 10mila donne bendate si sono radunate (davanti allo stadio nel quale Pinochet faceva torturare gli oppositori) per cantare e ballare Un violador en tu camino, canzone scritta dal gruppo Las Tesis, composto da quattro giovani artiste cilene. Il brano è diventato virale e flash mob analoghi sono stati organizzati in tutto il mondo. Viene dall’Europa invece la colonna sonora dei venerdì green promossi da Greta Thunberg, la sedicenne svedese che a dicembre è stata nominata “persona dell’anno” dal Time. Il movimento Fridays For Future ha indetto finora 4 scioperi scolastici globali, coinvolgendo 157 paesi. La protesta degli studenti ha riportato alla luce un’iniziativa realizzata qualche anno fa dal regista belga Nic Balthazar, che scrisse una canzone ambientalista sulla base musicale di Bella Ciao, chiamandola Sing for the climate. Il brano è stato intonato durante gli scioperi in tutto il mondo, come l’inno di una nuova resistenza.