Piccoli ghiacciai alpini. Sulle tracce di Bruno Castiglioni tra le Pale di San Martino

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Giovanni Baccolo

PICCOLI GHIACCIAI ALPINI

SULLE TRACCE DI BRUNO CASTIGLIONI TRA LE PALE DI SAN MARTINO

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Collana del Museo di Geografia Dipartimento di Scienze Storiche Geografiche e dell’Antichità – Università di Padova


Mappamondi - 2 Museo di Geografia dell’Università degli Studi di Padova Comitato Scientifico di Collana Mauro Varotto (direttore scientifico), Aldino Bondesan, Elena Canadelli, Monica Celi, Giovanni Donadelli, Chiara Gallanti, Paolo Mozzi, Lorena Rocca.

Dove non diversamente indicato le immagini d’epoca presenti nell’opera sono di Bruno Castiglioni – Archivio Museo di Geografia, quelle recenti di Giovanni Baccolo.

In copertina: La fronte del ghiacciaio della Fradùsta, Agosto 1922. In quarta di copertina: La catena settentrionale delle Pale di San Martino dai dintorni di Cima Juribrutto, 1926.

Con il patrocinio del Comitato Glaciologico Italiano

© Dipartimento di Scienze Storiche Geografiche e dell’Antichità - Università degli Studi di Padova © 2020 Cierre edizioni

via Ciro Ferrari 5, 37066 Sommacampagna (Vr) tel. 045 8581572, fax 045 8589883 edizioni.cierrenet.it • edizioni@cierrenet.it isbn 978-88-5520-090-5 Progetto grafico: Andrea Dilemmi Editing e impaginazione: Lucia Turri


Giovanni Baccolo

PICCOLI GHIACCIAI ALPINI

SULLE TRACCE DI BRUNO CASTIGLIONI TRA LE PALE DI SAN MARTINO

cierre edizioni | università degli studi di padova



SOMMARIO

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Introduzione, di Mauro Varotto

piccoli ghiacciai alpini

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Custodi delle terre selvagge Bruno Castiglioni Dolomiti all’ennesima potenza

i sette ghiacciai delle pale di san martino

41 55 69 77 89 99

Il ghiacciaio del Travignòlo, una rampa verso il cielo I ghiacciai delle Ziròccole e di Val Strutt, incerti ed effimeri Il ghiacciaio del Focobòn, ghiaccio nato dal fuoco Il ghiacciaio della Fradùsta, colate di miele in quota Il ghiacciaio della Pala, raschiare il fondo del catino Il ghiacciaio del Màrmor, ghiaccio sepolto dalla roccia

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Per concludere Ringraziamenti



INTRODUZIONE

Q

uesto secondo numero della collana “Mappamondi”, che segue a breve distanza il primo volume dedicato all’origine e agli sviluppi del progetto museale di Geografia, costituisce un primo tassello utile per misurare, esplorare e raccontare il valore delle collezioni sedimentatesi in oltre un secolo di ricerca e didattica geografica all’Università di Padova. La collezione di fotografie è, assieme a quella cartografica, la più nutrita tra le collezioni conservate al Museo: oltre ventimila documenti positivi e negativi su lastra, pellicola o diapositiva, di cui oltre tremila compresi tra seconda metà dell’Ottocento e prima metà del Novecento. Si tratta di un’eredità preziosa che attende ancora una scrupolosa analisi relativa a processi di acquisizione, datazione, autori, temi e aree geografiche interessate. Di questa vasta e variegata collezione, il fondo “Bruno Castiglioni” è senz’altro uno dei più cospicui per consistenza e interesse documentale: il Museo ha acquisito dagli eredi i diritti di utilizzo per una selezione di immagini che ha sottoposto a scansione digitale ad alta risoluzione (1614 documenti selezionati tra 2298 foto

e provini a contatto appartenenti all’archivio privato di famiglia). Si tratta perlopiù di scatti realizzati tra gli anni Venti e Trenta del Novecento in occasione di ascensioni alpinistiche o escursioni scientifiche in area dolomitica, che recano sul verso a matita precise indicazioni su luogo, data ed autore se diverso dallo stesso Castiglioni. Il corpus è suddiviso in 47 buste dedicate a diversi gruppi dolomitici: tra questi le Pale di San Martino sono l’area maggiormente perlustrata e documentata, suddivisa in 8 buste per altrettanti sottogruppi, per un totale complessivo di 461 fotografie. La conservazione e digitalizzazione di questo patrimonio prezioso è solo il primo passo di un processo di valorizzazione che dal “cosa” o “come” della conservazione deve puntare al suo “perché”, ovvero alla sua utilità per l’oggi, oltre l’indiscusso valore di testimonianza storica. L’operazione di re-photography realizzata da Giovanni Baccolo a partire dagli scatti originali di Bruno Castiglioni consente di collocare la ricostruzione documentale del glacialismo dolomitico di inizio Novecento all’interno della cornice di riflessione critica 7


sugli effetti dell’attuale fase di riscaldamento climatico, che ha avuto una prima presentazione pubblica durante la Notte Europea dei Ricercatori del 29 settembre 2017, in una conferenza-concerto dal titolo significativo: “Rincorrere i ghiacciai”. La ricerca del passato esprime così potenzialità inedite all’interno di un rinnovato ruolo pubblico della Geografia e dell’Università: oltre le tradizionali funzioni scientifica e didattica, iniziative di public engagement ravvivano il patrimonio e favoriscono una consapevolezza e

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sensibilità diffusa sulla drammaticità del cambiamento climatico in atto. Ci sembra questo il modo migliore per ricordare e tenere vivo l’alto profilo scientifico e civile di Bruno Castiglioni, a 75 anni dalla sua tragica e prematura scomparsa avvenuta a Pavia il 27 aprile 1945, all’indomani dell’armistizio nel primo giorno di pace. Mauro Varotto Coordinatore scientifico del Museo di Geografia


PICCOLI GHIACCIAI ALPINI


La calotta sommitale della Marmolàda di Penìa, all’epoca dello scatto unico esempio di cima ghiacciata delle Dolomiti. Fotografia del 1926, presa dalla cresta Nord del Vernèl.


CUSTODI DELLE TERRE SELVAGGE

L’

uomo ha imparato da tempo ad adattare la montagna alle proprie esigenze. Esiste però una barriera invisibile oltre alla quale le nostre tracce si fanno rade, lasciando spazio alla natura incontaminata. L’altitudine è sicuramente tra i fattori fondamentali che definiscono la posizione di tale limite, ma non è l’unico. Più spesso è stata la topografia accidentata e impervia a preservare molte regioni montuose, mantenendole isolate. Gli spazi dove lo spirito della natura è rimasto autentico e selvaggio non mancano e si tratta di un patrimonio inestimabile. Essi rappresentano l’unica antitesi cui possiamo confrontare il nostro mondo artificiale. La loro mancanza renderebbe impossibile il dialogo tra le due prospettive, quella umana e quella naturale, che da sempre ispira il progresso culturale e scientifico e tanto può contribuire alla crescita personale di ciascuno. Per vivere questi luoghi così speciali non è necessario spingersi nelle regioni più remote del pianeta. Essi abbondano anche sulle frequentate Alpi, ma forse è proprio l’averli così vicini a renderli lontani. Per scovarli bisogna avere pazienza, adattandosi al ritmo del-

le stagioni e ancor di più a quello dei propri pensieri. Solo così si avvertirà il desiderio di uscire dai sentieri battuti, lasciandosi conquistare dalle invisibili piste che attraversano gli spazi selvaggi. Non avrebbe senso farlo senza la giusta preparazione perché costerebbe una fatica incomprensibile. Una volta entrati in sintonia con questa dimensione però, sarà difficile tornare indietro. I silenzi si faranno ricchi di suggestioni e i monti appariranno come le pagine di un libro che attende di essere letto. Non saranno più i soli percorsi degli uomini ad indicare la strada, bensì anche le tracce degli animali, del tempo e della geologia. Se esiste un simbolo che rappresenti queste dimensioni, si tratta dei ghiacciai minori e dei solitari anfiteatri che li custodiscono. Sono luoghi di montagna e di natura, nient’altro. Spesso non esistono sentieri che li raggiungano e sono lontano dai punti di appoggio frequentati. Date queste premesse non sorprende sapere che non sono molti a spingersi lassù. Terminata l’esplorazione geografica e alpinistica della catena alpina, pochi hanno saputo costruire delle motivazioni 11


per raggiungere quei luoghi impervi, ma così ricchi di fascino. Eppure, qualcuno non ha mai abbandonato quegli ambienti. A presidiare i valloni più sperduti sono sempre rimasti i piccoli ghiacciai, nonostante oggi siano sepolti dai detriti e stretti tra le morse del cambiamento climatico e dell’oblio. Il perché dei piccoli ghiacciai Il ghiaccio è qualcosa di particolare. Il glacialismo è sicuramente un fenomeno affascinante. Laddove le nevi invernali si accumulano, masse ghiacciate resistono ai calori estivi e fluiscono come fiumi lenti e inarrestabili. Nel loro incedere trattengono memorie e testimonianze e allo stesso tempo lasciano segni inconfondibili nel presente. Ma il fascino sprigionato dai ghiacciai non nasce solamente dalla grandiosità. C’è qualcosa di più profondo, un particolare ossimoro che contraddistingue il ghiaccio. Imponenti colate che precipitano dai versanti più selvaggi e inaccessibili di alte montagne, crepacci, seracchi che crollano rovinosamente; sono tutte manifestazioni maestose e impressionanti. I ghiacciai però sono anche delicati ed effimeri, animati da una mutevolezza che trova pochi paragoni nel mondo naturale e forse ci rammenta la fragilità della vita. Essi respirano, espandendosi e ritirandosi si adattano all’ambiente che li circonda. Questo loro dinamismo è sicuramente più vicino alla manifestazione di una creatura vivente che non a quella di un fenomeno climatico e geologico. Dalle profondità dei ghiacci risuonano suoni amplificati dalle cavità spalancate tra i crepacci. Avanzate e ritiri danno vita a una sinfonia che echeggia attraverso prospettive temporali diverse e lontanissime. Fluttuazioni stagionali, annuali, decennali, fino ad arrivare ai 12

grandi cicli climatici del pianeta, dove le ere glaciali si alternano nell’arco di centinaia di migliaia di anni, inseguendo i moti astronomici della Terra. Il complesso sistema climatico è il direttore di un’orchestra variopinta. È lui a scegliere i tempi e gli andamenti e a coordinare i musicisti. Tra questi troviamo temperatura, precipitazioni, contesto geografico e tanti altri fattori, a cui di recente sembra essersi aggiunto l’uomo. Il caotico dialogo tra le parti definisce il comportamento dei ghiacciai della Terra. Ritiri ed espansioni non sono altro che la manifestazione della loro interminabile rincorsa verso un equilibrio in continuo divenire. Questi delicati meccanismi sono ora in difficoltà. I ghiacciai alpini si sono sviluppati e accresciuti sotto il segno di un clima diverso da quello attuale. Temperature fresche e precipitazioni abbondanti li hanno alimentati nel recente passato, portandoli ad una prosperità culminata circa centocinquanta anni fa, durante la piccola età glaciale1. Da allora un divario sempre più profondo si è accresciuto tra la loro condizione e il contesto climatico dominante, rompendo un equilibrio antico di secoli. Difficilmente i ghiacciai potranno resistere allo squilibrio che si è creato e ciò che sta accadendo sulle Alpi ne è prova lampante. A causa del cambiamento climatico i ghiacciai alpini scompaiono sempre più numerosi. Entro pochi decenni la maggior parte di essi sarà perduta. Per raggiungere le fronti dei ghiacciai superstiti ogni anno dobbiamo camminare qualche minuto in più. Godere di un paesaggio glaciale imponente e vitale è diventato impossibile senza raggiungere le quote più alte. Più in basso tutto cambia e il glacialismo sta rapidamente abbandonando la media montagna. Chi non osserva con i propri occhi queste trasformazioni fatica a immaginarle. Intere vallate sono sconvolte da profondi cambiamenti. Il ghiaccio è sostituito da


rovine di sedimenti instabili e morene2 in rapido disfacimento, colonizzate dalle piante pioniere. Inoltre, la sempre minor disponibilità di acqua di fusione durante l’estate sta alterando il ciclo stagionale di molti torrenti d’alta quota. Questi processi hanno ricadute pratiche in tanti e diversi ambiti: disponibilità di acqua, turismo, stabilità dei versanti, produzione di energia idroelettrica, e sono solo alcuni. Ci sono però anche conseguenze indirette, legate alla nostra percezione del paesaggio di montagna. Il confronto tra uno sterile pendio di sfasciumi e il piccolo ghiacciaio che qualche anno prima lo sostituiva, inevitabilmente induce in noi il malumore. Non siamo abituati ad assistere a cambiamenti nel sistema naturale tanto rapidi. In meno di un secolo sulle Alpi interi gruppi montuosi hanno cambiato volto. Tanti ghiacciai facevano mostra di sé dalle piovose Giulie alle solive Marittime. Oggi i superstiti sono sempre più frammentati, sporchi e immobili, dei veri e propri fossili climatici. Lo scontro che si protrae con il nuovo clima ha lasciato un segno profondo. I ghiacciai accusano il colpo e mostrano un’indicibile stanchezza. Perché allora perdere tempo e curarsi degli apparati minori sull’orlo della scomparsa? Esistono tante risposte. La più scontata è legata alla loro importanza climatica e scientifica. Monitorare il loro comportamento significa indagare i tanti fattori coinvolti, da quelli climatici a quelli geografici e legati alle attività dell’uomo. Con una bindella diventa possibile accedere a una grande mole di dati e convertire metri di ritiro in innalzamento delle temperature planetarie e aumento del livello dei mari. Ecco perché i ghiacciai sono definiti i termometri del pianeta e sono tenuti in grande considerazione dagli studiosi del clima. L’interesse per i piccoli ghiacciai non è però mantenuto vivo solamente dalla scienza. Oltre alla già citata fragili-

tà, c’è un secondo aspetto che li accomuna alle manifestazioni della vita. Si tratta della reazione che avvertiamo quando ci si confronta con la loro scomparsa. Non è una sensazione diversa da quella che accompagna la notizia dell’estinzione di una specie vivente. Abituati a intendere la natura come eterna e immutabile, percepiamo una perdita irrimediabile quando veniamo a conoscenza di un ghiacciaio che non c’è più, perché simili eventi ci fanno capire quanto la natura possa essere fragile. Presto le Alpi saranno trasformate, mantenere viva la memoria dei cambiamenti che oggi stanno vivendo sarà sempre più importante. Gli antichi ghiacciai scomparsi saranno un monito che ci rammenterà come a ogni azione dell’uomo corrispondano precise conseguenze ambientali. Frammenti Qualcosa che già oggi rischia di scomparire insieme al ghiaccio che fonde, è il ricordo di chi si avventurò alla scoperta di piccoli ghiacciai sconosciuti. Nemmeno un secolo è trascorso da quando nelle vallate più nascoste si avventuravano personaggi difficili da decifrare, un po’ scienziati, un po’ alpinisti e sicuramente profondamente innamorati della montagna. Ma oggi chi conosce le loro storie? Non molti ed è un peccato. Sarebbe importante recuperare quell’approccio eclettico e moderno che li spinse laddove pochi erano giunti e che permise loro di osservare la montagna con occhi diversi. Se il cambiamento climatico porterà alla perdita di tanti ghiacciai, allo stesso destino non devono andare incontro le testimonianze di quell’epoca di scoperta. Queste pagine nascono dal desiderio di raccontare alcuni frammenti di quella storia, narrata alla luce dei grandi cambiamenti di oggi. 13


Il ghiacciaio inferiore dell’Antelao. In alto: Cima dell’Uomo, nel gruppo della Marmolada, e il suo piccolo ghiacciaio oggi scomparso.

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Le prossime pagine daranno spazio ai ghiacciai delle Pale di San Martino, il più grande gruppo dolomitico. Oggi di essi non rimane granché, ma cento anni fa erano sette i ghiacciai che facevano bella mostra di sé tra quelle montagne. Allora il più grande conoscitore di quegli ambienti era sicuramente Bruno Castiglioni. Insieme al fratello Ettore – il celebre alpinista – egli esplorò la maggior parte dei gruppi montuosi delle Alpi Orientali alla ricerca di ghiacciai inesplorati e problemi geologici da risolvere. Per molti di quei piccoli ghiacciai, quella di Bruno Castiglioni è l’unica descrizione di cui disponiamo, perché poco dopo i suoi rilievi molti di essi si estinsero. Tra le tante montagne di cui si occupò, le Pale di San Martino furono sicuramente le sue predilette. A partire dal 1922 e fino al 1945, Bruno si recò quasi ogni anno sulle Pale per compiere i suoi studi. Non è un caso se i lavori più noti e completi, non soltanto di Bruno ma anche di Ettore Castiglioni, riguardino proprio queste montagne. Bruno ne completò la prima descrizione geografica e geologica, Ettore firmò invece la prima guida alpinistica completa della zona, dando il via a un’insuperabile serie di monografie. In entrambi i casi si tratta di pubblicazioni ricercate ancora oggi, non soltanto per il valore storico, ma perché tuttora considerate valide fonti di informazione. D’altronde ciò che univa i due fratelli alle Pale di San Martino e alla montagna in senso lato, era una grande passione. Entrambi dedicarono la propria esistenza a essa, condividendo per anni lunghe marce e prime salite. La scelta di concentrare l’attenzione su questo gruppo dolomitico non è casuale. Le vicende che legano i ghiacciai delle Pale di San Martino a Bruno ed Ettore Castiglioni sono una scheggia della loro storia, ma restringendo il campo diventa più semplice cogliere l’essenza del loro andar per monti. Le grandiose Pale sono


l’esempio emblematico di quella montagna selvaggia e solitaria che tanto insegnò ai due fratelli. Tra quelle cime precorsero i tempi e abbandonarono i sentieri quando ancora non esistevano. In un’epoca viziata dall’eccesso di informazione, sembrerà anacronistico tentare di approcciarsi ai monti e ai piccoli ghiacciai con l’intenzione di rivivere le sensazioni di quel tempo. Paradossalmente era proprio la completa assenza di informazioni a rendere così diverso quel modo di frequentare la montagna rispetto a quanto accade oggi. Può esistere un dialogo tra le due prospettive? Personalmente credo di sì e sono anche convinto che i piccoli ghiacciai abbiano qualcosa da dire a riguardo. È vero, gli spazi vergini non esistono più sulle Alpi. Ogni cima è descritta nelle carte geografiche, nelle guide e in infinite relazioni accessibili sul web. In passato era scontato cercare l’avventura frequentando terreni inesplorati, ma oggi è diventato quasi impossibile. Il tempo della scoperta è finito, ma non quello della riscoperta. Quando le cose sembrano inconciliabili, vale la pena ribaltare la prospettiva. Per ritrovare la freschezza e l’entusiasmo degli esploratori non resta che rivolgere l’attenzione nell’unico luogo dove rimane qualcosa di incerto da scoprire. Non più verso l’esterno, ma all’interno di noi stessi, dove ognuno è ancora libero di costruirsi interi mondi che attendono il primo esploratore. Senza nuovi slanci, tutto presto o tardi si esaurisce, e lassù nelle terre selvagge rimarrebbero solo inutili cumuli di pietre. Non è così che deve andare, gli angoli più sperduti e solitari delle Alpi hanno ancora molto da raccontare, come ai tempi di Bruno Castiglioni. Non lasciamo che gli ultimi sussulti degli antichi ghiacciai risuonino a vuoto, chi avrà volontà e pazienza potrà ascoltarli e farne tesoro, ne varrà sicuramente la pena.

NOTE Questa definizione si riferisce al periodo fresco compreso tra il XV secolo e la fine del XIX. Durante la piccola età glaciale i ghiacciai continentali raggiunsero la loro massima estensione registrata storicamente. 2 Le morene sono i depositi di sedimenti accumulati e depositati dai ghiacciai. 1

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La famiglia di Bruno Castiglioni: la moglie Carla insieme ai loro bambini, Brunella e Giovanni Battista. Agosto 1935, nei dintorni di Garès.


BRUNO CASTIGLIONI

U

no dei lati più evidenti del carattere di Bruno Castiglioni fu sicuramente la discrezione. Durante la sua esistenza ha lasciato poche tracce che riguardassero la sua vita personale. Egli non apprezzava essere al centro dell’attenzione, preferiva dedicarsi agli altri, agli studi o alle amate montagne. Testimone di ciò è il suo sterminato archivio, fatto di fotografie, articoli, diari, appunti e corrispondenze. In tutto quel materiale i riferimenti personali sono rarissimi e anche il solo trovare una fotografia che lo ritragga è un’impresa. Nelle Pale di San Martino, nell’arco di quindici anni, scattò circa seicento fotografie, ma una solamente lo immortala mentre si accinge a salire il Cimòn della Pala con un gruppo di amici1. La riservatezza non è però l’unico tratto di Bruno a trasparire dal suo archivio. Prendiamo a esempio la raccolta di fotografie di montagna. In un cassetto di legno sono ordinate un numero indefinito di bustine ben allineate, ciascuna colma di decine e decine di stampe, corredate di negativi e riferimenti geografici: un piccolo capolavoro di archivistica. La precisione che

tale raccolta sottende è il segno più evidente della cura che Bruno metteva in tutte le sue attività. Egli non si dedicava a nulla in modo superficiale, ciò che faceva era sempre motivato da una grande passione. Parlando di passione con Bruno Castiglioni non possono non essere citate le montagne. Egli le frequentò fin da giovanissimo, compiendo centinaia di escursioni, arrampicate, rilievi, osservazioni. Tra i tanti episodi che varrebbe la pena ricordare, ve ne è uno che più di tutti dimostra questo legame profondo. Era l’estate del 1927 e Bruno aveva 29 anni quando decise di salire la vetta dell’Agnèr, una delle più celebri cime delle Pale di San Martino. Non si trattava di una gita come le altre, quel giorno rimase infatti impresso tra i suoi ricordi come pochi. Per compagni non aveva i soliti amici alpinisti o i colleghi geologi; insieme a Bruno c’era Carla, ed egli lassù le consegnò l’anello di fidanzamento. Che momento! Un progetto immaginato chissà quante volte che finalmente si realizzava. La futura moglie al fianco, le montagne, il futuro davanti a sé e nient’altro. 17


A sinistra: Parte dell’archivio fotografico di Bruno Castiglioni dedicato alle Pale di San Martino. Ciascuna busta corrisponde a un settore del gruppo, all’interno del quale le fotografie sono ancora conservate in ordine di data. A destra: Bruno Castiglioni negli anni ’40.

Monte Agnèr, con Carla. Azzurro di cielo trionfante sopra il chiarore della croda. Andiamo in alto, Carla, sempre più in alto, stretti da uno stesso nodo di corda, tenendoci per mano, aiutandoci l’un l’altro, con un cuore solo. E là, guardando il cielo, mi piace inanellarti. Possa sempre in noi essere impressa tanta serenità, venga su noi la benedizione del Cielo2.

Non appena l’età dei loro bambini lo permise, Bruno e Carla vollero portare anche Brunella e Giovanni Battista tra i monti, condividendo con loro la magia che già avevano vissuto insieme. Proprio Giovanni Battista ricordava così quei momenti3: 18

In montagna ci portava spesso, sempre silenzioso, come volesse educarci alla percezione, più che all’ascolto, delle sensazioni venute dal vento, dai profumi, dei boschi, dei muschi, delle nevi. La neve ha un suo odore, una fragranza fredda che ti secca le narici. I seracchi raccontano un eterno, lentissimo muoversi del ghiacciaio verso valle. Poi, lui ci lasciava con la mamma, sul limitare dei nevai, e saliva a campionare le rocce. I colpi del martello echeggiavano secchi tra le cime, per dissolversi pian piano, moltiplicati in echi sempre più flebili.

Un uomo innamorato della famiglia e delle montagne, ecco chi era Bruno Castiglioni.


Oltre al riserbo, vi fu un secondo motivo che rese rare le testimonianze di Bruno: la sua breve esistenza. Nemmeno cinquantenne, il 26 Aprile del 1945 cadde in un campo a Pavia, colpito da una raffica di mitragliatrice. Un crudele colpo di coda della guerra: il primo giorno di pace fu per Bruno l’ultimo. Da quel giorno sono trascorsi settantacinque anni e il ricordo di Bruno Castiglioni avrebbe potuto sbiadirsi: così però non è stato, e il merito va innanzitutto a suo figlio Tita, come tutti in famiglia chiamavano Giovanni Battista. Alla morte di Bruno Tita aveva quattordici anni, eppure il segno lasciato in lui dal papà fu profondissimo e non si affievolì mai. Ho conosciuto Giovanni Battista e nonostante un’intera vita fosse trascorsa dalla perdita del padre, bastava nominarlo perché i suoi occhi brillassero. La prima volta che ci trovammo per discutere di questo lavoro, Tita prese una grande carta delle Pale di San Martino – ovviamente disegnata dal padre – la stese sul tavolo e con il dito indicò un punto. «Cominciamo da qui, prenda appunti mi raccomando», così disse e nonostante l’età continuò per ore a spiegarmi i dettagli del gruppo montuoso e dei suoi piccoli ghiacciai, finché sua moglie Giovanna non lo interruppe perché era ora di cena. Bruno viveva in lui e non è una frase fatta. Bruno e Carla seppero infondere nei figli tutto ciò che li univa: l’amore per la montagna e per la natura, e un profondo senso di sacrificio e altruismo. Tita scelse di proseguire il cammino del padre, intrapreso forse inconsapevolmente proprio durante quelle gite di famiglia. Diventò infatti, come Bruno, uno stimato professore di geografia e geologia, tra i massimi conoscitori dell’ambiente alpino e della glaciologia4. Tita non solo seguì le tracce del padre, ma si dedicò con costante impegno alla conservazione dei materiali da quest’ultimo tramandati. Studiandoli, tante volte mi sono imbattuto negli appunti lasciati da Giovanni Battista tra i fogli del

padre. Erano note preparate per aiutare a comprendere i pensieri di Bruno anche da parte di chi non lo avesse conosciuto personalmente. Tita non voleva che quelle riflessioni andassero perdute. Bruno era sicuramente scrupoloso, ma senza le attenzioni che il figlio sempre rivolse al suo ricordo e alla sua eredità, non sarebbe stato possibile dedicarmi a questo lavoro e avvicinarmi a Bruno nonostante il muro imposto dal tempo. La storia Bruno Castiglioni nacque a Milano il 12 Maggio 1898, secondo di cinque fratelli. I genitori Oreste Castiglioni e Luisa Alessi appartenevano a una borghesia cittadina che potrebbe definirsi illuminata. Essi crebbero i figli – Manlio, Bruno, Ferruccio, Fanny ed Ettore – facendo sì che in loro si sviluppasse un saldo legame con la cultura e la conoscenza attraverso gli approcci più diversi: musica, scienza, teatro, attenzione alla natura ma anche pratica di attività all’aria aperta e sportive. La frequentazione delle montagne era una delle occupazioni predilette dalla famiglia Castiglioni durante le ferie. Ogni estate tutti si trasferivano in villeggiatura sulle Alpi e fu così che i bambini conobbero la montagna. Manlio e Bruno, i fratelli più grandi, furono i primi a mostrare curiosità per i luoghi dove le rocce si facevano ripide. Nel 1910 – Bruno aveva dodici anni e Manlio quattordici – balzarono agli onori della cronaca per aver compiuto la traversata delle Torri del Vajolet, nel gruppo del Catinaccio, guidati dal celebre Tita Piàz5, il diavolo delle Dolomiti. Quest’ultimo lasciò un profondo segno nei ragazzi e specialmente in Bruno. Non è un caso se venne scelto proprio Tita come soprannome per suo figlio Giovanni Battista. 19


A lato: Bruno Castiglioni con la divisa degli Alpini, ritratto durante un momento di riposo nel 1918, l’ultimo anno di guerra. In alto, a sinistra: Bruno e Manlio ricevono una visita dei genitori durante la guerra. Da sinistra: il padre Oreste, Bruno, la madre Luisa e Manlio. In alto, a destra: Compagni d’arme al fronte. I fratelli erano di servizio presso le postazioni d’alta quota che collegavano il massiccio dell’Adamello a quello della Presanella (Cresta del Maroccàro), a oltre tremila metri.

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Pochi anni più tardi i due fratelli affrontarono difficoltà ben diverse sui monti. Allo scoppio della prima guerra mondiale, entrambi si arruolarono come volontari. Bruno fu reclutato nel 1917, non appena raggiunse l’età minima richiesta. Insieme a Manlio, grazie alla dimestichezza con l’ambiente alpino, venne destinato alle postazioni di montagna nel gruppo dell’Adamello, una delle sezioni più difficili del fronte. La decisione dei due fratelli potrebbe sembrare una di quelle scelte avventate tipiche dell’adolescenza, ma non fu così. Essa fu infatti maturata in un ambiente familiare profondamente ispirato da ideali patriottici. Il nonno materno di Bruno e il suo padrino Ergisto Bezzi, furono entrambi garibaldini e amici personali di Giuseppe Mazzini. I fratelli furono sicuramente contagiati dagli ideali mazziniani e repubblicani che erano di casa tra i Castiglioni. Anche la scelta di Tita Piàz come guida per le prime imprese alpinistiche si inserisce in questo discorso. Piàz infatti non fu una semplice guida, fu anche un esponente di rilievo dell’irredentismo trentino e del neonato socialismo. Al fronte Bruno, nonostante le vicissitudini legate alla guerra d’alta montagna, ebbe modo di coltivare e consolidare un interesse per la montagna non limitato alla contemplazione e al piacere dell’attività alpinistica. Nonostante fosse stato destinato a postazioni difficili, in prima linea a oltre tremila metri, egli riuscì a trovare la forza e il tempo per preparare la sua prima carta geografica: una bozza che rappresenta l’area di guerra e i ghiacciai che circondavano le postazioni dove combatté. A dimostrazione della passione che egli nutriva per l’ambiente naturale e per i processi che lo governano, vi è anche la scelta che Bruno prese subito prima di partire per il fronte, ovvero frequentare geografia all’università. Dopo un iniziale disaccordo con i genitori, che avrebbero preferito discipline più tradizionali, Bruno prese questa decisione e si trasferì a Padova, dove poté

seguire le lezioni del professor Luigi De Marchi, illustre geografo dell’epoca6. Città nuova, montagne nuove. Terminata la guerra Bruno riprese a seguire i corsi all’università di Padova e fu per questo obbligato a cambiare destinazione per le sempre più frequenti gite alpinistiche compiute insieme al fratello Manlio. In quel periodo si unì a loro anche il fratello più piccolo, Ettore. Egli era poco più che un bambino, ma di lì a poco sarebbe diventato uno degli alpinisti più forti della sua epoca. Pochi sanno che furono proprio i fratelli maggiori a portarlo in montagna le prime volte, insegnandogli i rudimenti dell’arrampicata7. Bruno diventò così un assiduo frequentatore delle Dolomiti. Cominciarono in quegli anni le lunghe trasferte estive che sistematicamente toccavano tutti i gruppi dolomitici più o meno noti. È allora che l’approccio di Bruno nei confronti della montagna evolse definitivamente. Combinando studi, gite e alpinismo, si sviluppò in lui una capacità unica di osservare e comprendere i processi naturali che modellano il paesaggio alpino. Era in questo senso un vero e proprio pioniere. Fu tra i primi studiosi a comprendere l’importanza assoluta del rilievo sul campo; le generazioni che lo avevano preceduto elaboravano le loro teorie più che altro alla scrivania, senza il supporto di un rilevamento geologico vero e proprio. Non che Bruno desse scarsa importanza allo studio del pregresso, anzi, ma egli fu tra i primi a combinare in modo equilibrato quest’ultimo con il lavoro di campo. Tale approccio moderno fu la sua forza e poco dopo essersi laureato era già considerato uno dei migliori studiosi di geologia e geografia. Terminata l’università, Bruno Castiglioni fu assistente del professor De Marchi e più tardi si trasferì a Messina e poi a Pavia, alle cui università ottenne la cattedra di geografia. Il suo primo oggetto di studio furono i ghiacciai; essi rappresentavano il punto di contatto ideale tra le sue 21


Uno schizzo di Bruno. Egli era solito disegnare durante le gite in montagna, il disegno e la pittura erano tra i suoi passatempi preferiti. Oltre che per diletto però, queste figure gli servivano anche per le pubblicazioni scientifiche. Combinando i disegni osservativi con le informazioni che ricavava sul campo, Bruno produceva schizzi geologici estremamente precisi. Qui raffigurato è il Cimèrlo nelle Pale di San Martino, con le sue tante guglie; sulla destra spunta il Sass Maòr.

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due passioni: la montagna e l’alpinismo da una parte, la geografia e la geologia dall’altro. Immaginate un giovane ricercatore amante dell’alpinismo che per raggiungere il suo oggetto di studio è costretto a lunghe arrampicate e a bivacchi in alta quota, cosa avrebbe potuto chiedere di meglio? Con il procedere della sua carriera Bruno seppe però allargare il proprio campo d’azione, affrontando più in generale lo studio della geomorfologia alpina e appenninica8. Con la maturità si avvicinò a temi di geografia umana e antropologia, dedicandosi al rapporto tra uomo e territorio, specialmente nei contesti montani. Con lo scoppio della seconda guerra mondiale continuò a lavorare a Pavia, cercando di mantenere le distanze dal regime. In quanto professore universitario fu costretto ad aderire al partito fascista, giurando fedeltà al regime pena la perdita del lavoro. Bruno quel giorno lasciò un breve appunto sul diario: «Sono un mollusco». In più di un’occasione evitò gli incontri ufficiali con le autorità del regime, inventando inesistenti malattie. Nelle fasi finali del conflitto entrò in contatto con altri colleghi antifascisti e crebbe in lui il timore di essere controllato dalle autorità. Smise allora di prendere qualsiasi appunto sul diario per paura che cadesse nelle mani sbagliate. Suo figlio Giovanni Battista ricordava che in quel periodo il padre teneva sempre a portata di mano una corda per assicurarsi una via di fuga dalla finestra. Viste le scarse informazioni, non sappiamo esattamente quali piani avesse Bruno e non lo sapremo mai. Tutto fu infatti bruscamente interrotto il 26 Aprile del 1945, il giorno successivo a quello che sarebbe stato celebrato come il giorno della liberazione d’Italia.

Il primo giorno di pace Quel giorno Bruno si trovava a casa a Pavia con la famiglia. Erano momenti di fermento; soldati e partigiani andavano e venivano in un clima di caos ed euforia per l’annuncio dell’armistizio. Dopo aver appuntato la bandiera italiana al balcone, Bruno raggiunse Piazza della Vittoria insieme ai figli, per unirsi ai festeggiamenti. La gioia fu però subito cancellata da un triste avvenimento. Bruno e i figli assistettero a una sparatoria: un gruppo di soldati tedeschi che non aveva accettato la resa, aprì il fuoco verso i manifestanti, ferendo un giovane mortalmente9. Subito Bruno si premurò di mandare i figli al sicuro a casa e proseguì da solo, deciso a contribuire per risolvere la situazione di tensione che si respirava in città. Corse in prefettura per incontrare i comandanti delle forze partigiane e quelli del presidio tedesco. Conoscendo perfettamente la lingua, si offrì come intermediario per convincere i soldati tedeschi ostili a deporre le armi. Bruno fu autorizzato a tentare una trattativa: impugnando la bandiera bianca si incamminò verso la fattoria dove si erano acquartierati, ma dopo pochi passi fu colpito da una scarica di proiettili. Morì in ospedale all’alba del giorno successivo10. La tragica fine di Bruno non può non ricordare quella di suo fratello Ettore, avvenuta l’anno precedente. Ettore morì assiderato il dodici marzo del 1944, dopo aver attraversato in pieno inverno, di notte e senza attrezzatura, il passo del Forno, tra Svizzera e Italia, a oltre 2500 m. Fuggiva dopo essere stato arrestato al passo del Maloja poiché in possesso di documenti falsi. Ettore aveva aderito a gruppi partigiani che aiutavano i profughi ebrei a fuggire dall’Italia verso la Svizzera attraverso impervi sentieri di montagna11. La tragedia della seconda guerra mondiale chiese un tributo altissimo ai due fratelli. Essi avevano tanto in 23


A sinistra: Bruno prende appunti durante una gita nelle Marmaròle (1941). A destra: Alcuni dei più importanti studiosi di geografia e geologia del nostro paese nel ’900. Durante un convegno Bruno Castiglioni (con gli occhiali da sole) si confronta con Ardito Desio (a sinistra con il cappello), Giuseppe Nangeroni (di spalle) e Sergio Venzo (1941).

comune e i monti rappresentavano il perno ideale del loro legame12. Dopo le gite e le arrampicate della gioventù, i fratelli riuscirono a mantenere le montagne al centro della propria esistenza, seppur seguendo strade diverse: il primo da alpinista e come geografo il secondo. È crudele che sia stata la fine a segnare l’estremo riavvicinamento tra i due fratelli, ma è anche emblematico poiché la loro scomparsa ci mostra quanto essi fossero simili. Sia Bruno che Ettore si sacrificarono per aiutare gli altri perché per quanto rischioso, sapevano che era la cosa giusta da fare.

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NOTE La fotografia è proposta nel capitolo dedicato al ghiacciaio del Travignòlo. 2 Uno dei rari frammenti di vita personale che Bruno riportò nel suo diario, è datato 22 agosto 1927. 3 Il brano è tratto dal volume di Camillo Bianchi, Un professore in un campo di grano, dedicato proprio a Bruno Castiglioni. 4 Giovanni Battista Castiglioni (Padova 1931-Padova 2018) è stato un insigne studioso di geomorfologia 1


e geografia fisica e padre fondatore della cartografia geomorfologica nel nostro paese. Ha insegnato all’Università di Catania e presso quella di Padova, dove per anni ha diretto l’Istituto di Geografia. È stato tra i presidenti del Comitato Glaciologico Italiano ed è autore del più importante manuale di geomorfologia in lingua italiana (Geomorfologia, Utet, 1979). La sorella di Giovanni Battista, Brunella Castiglioni, scomparve in giovane età a causa di una malattia. 5 Tita Piàz (Pera di Fassa, 1879-Pera di Fassa, 1948) è stato un grande alpinista, tra le migliori guide delle Dolomiti durante i primi decenni del novecento. Oltre alle numerose vie di arrampicata, aperte specialmente nel gruppo del Catinaccio, è ricordato per lo spirito irrequieto che lo portò più volte a forti dissidi con i regimi con cui ebbe a che fare. Irredentista prima, socialista poi e infine antifascista. Di lui si disse «Forse è l’unico uomo in Italia che abbia conosciuto le carceri di Francesco Giuseppe, di Vittorio Emanuele III, di Hitler e di Mussolini». Parole di Lidia Minervini, dall’introduzione al libro di Piàz: Mezzo secolo di alpinismo, del 1947. 6 Luigi De Marchi (Milano, 1857-Padova, 1936). Grande studioso della geografia e specialmente della allora neonata geofisica. 7 La guida alpinistica (guide grigie del Cai-Tci) di Ettore Castiglioni dedicata ai gruppi Odle, Sella, Marmolàda del 1937, rappresenta il prodotto simbolico della variega-

ta passione che i tre fratelli nutrivano per il mondo della montagna. Ettore coinvolse infatti sia Bruno che Manlio nella preparazione dell’opera. Il primo scrisse l’introduzione geologica e glaciologica, mentre il secondo lavorò alla parte dedicata alle popolazioni di quelle vallate. Egli si occupava infatti di cartografia, geografia e filosofia. Fu anche grazie al suo aiuto se Ettore poté dedicarsi fin da giovanissimo alla preparazione delle guide Cai-Tci; Manlio (Milano, 1896-Milano, 1967) fu infatti per molti anni un dirigente del Touring Club Italiano. 8 La geomorfologia è la branca della geologia che studia le forme del paesaggio in relazione ai processi e agli agenti che le hanno create e modificate. 9 Luigi Boera, un conoscente di Bruno: era il figlio della sarta di famiglia. 10 Giovanni Battista Castiglioni ripercorre quei tragici momenti nel libro di Camillo Bianchi, Un professore in un campo di grano (Il Prato casa editrice, 2005). 11 Per l’aiuto prestato agli ebrei nella fuga, Ettore Castiglioni è stato insignito del riconoscimento di “Giusto tra le Nazioni”. Due libri raccontano questa storia: Il vuoto alle spalle. Storia di Ettore Castiglioni di Marco Albino Ferrari e Il giorno delle Mesules, una raccolta di brani tratti dal diario di Ettore (sempre a cura di Marco Albino Ferrari). 12 Un volume è dedicato loro: Ettore e Bruno Castiglioni, due fratelli e la montagna, a cura della Fondazione Giovanni Angelini-Centro Studi sulla Montagna (2010).

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La Croda Granda dalle cime del MĂ rmor (1926).


DOLOMITI ALL’ENNESIMA POTENZA

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allidi complessi montuosi si alternano come bianche isole in un mare insolito, dove l’orizzonte non è liquido, ma di rocce, boschi e pascoli. Osservate dalla solitudine di una cima isolata, le Dolomiti appaiono come macchie luminose tra il verde delle foreste e l’azzurro del cielo. I tanti gruppi che le definiscono sono sparsi e indipendenti, proprio come fossero un arcipelago, lasciando tuttavia intendere una continuità nelle loro strutture, se non altro per il candore che li distingue dalle altre montagne. I monti pallidi1 sono tra le più incredibili e ardite architetture dell’arco alpino. Ogni gruppo dolomitico è un mondo a sé, un’isola con la propria elevazione principale circondata da satelliti e cime secondarie. Tra i diversi complessi si dipanano profonde vallate, dove affiorano rocce scure, diverse dalla bianca dolomia, a testimoniare intricate vicende geologiche. Tali discontinuità hanno plasmato un paesaggio alpino frammentato, composto da unità indipendenti che si elevano dal fondo valle e si integrano l’una con l’altra. Con una sola occhiata è

possibile ammirare giganteschi pilastri rocciosi nascere da verdi pascoli, toccare il blu del cielo e vertiginosamente precipitare tra pendii boscosi. La natura non ha però agito da sola. L’alternanza di pareti rocciose, ampie vallate e agevoli valichi ha favorito e incoraggiato la presenza degli uomini. Da migliaia di anni essi popolano queste regioni e la loro frequentazione non si è limitata al fondovalle. Presso alcuni passi dolomitici sono venute alla luce testimonianze che dimostrano come fin da tempi remoti questi snodi geografici fossero presidiati. Già durante la preistoria i valichi vennero sfruttati e insediati da comunità che prosperarono grazie a caccia e commerci. L’uomo e le Dolomiti: una storia di convivenza millenaria tra la montagna e le sue genti. Le Pale di San Martino, i monti protagonisti di queste pagine, sono il più vasto gruppo dolomitico. Si trovano al margine sud-occidentale dell’arcipelago dei monti pallidi e confinano con i gruppi del Làtemar, della Marmolàda e del Civetta. La complessità di questo gruppo è notevole, esse racchiudono infatti un intrico 27


di sotto-catene che definiscono vallate e dorsali dalla topografia frastagliata, rendendo difficile individuare una cima principale, come invece accade per molti altri massicci dolomitici. La geografia Per Bruno ed Ettore Castiglioni le Pale furono montagne predilette. Entrambi diedero molta attenzione a questo gruppo e difatti molte loro pubblicazioni hanno come oggetto proprio le Pale di San Martino. Sarebbe inutile presentare la geografia e la glaciologia di questi monti con parole diverse dalle loro. Quanto scritto da essi è ancora oggi ineguagliato in quanto ad accuratezza e precisione. Cominciamo quindi con l’introduzione dedicata ai limiti geografici delle Pale, che Bruno riportò nella guida alpinistica di Ettore2. Il Gruppo delle Pale, il più meridionale delle Dolomiti, è uno dei più estesi, più ricchi di forme e aspetti svariati. Come gruppo montuoso, è nettamente staccato dai gruppi vicini, delimitato com’è, da ogni parte, da profonde valli e da selle, pur esse relativamente depresse. A N sono il bacino iniziale della Val Travignòlo e la Val del Biòis, allacciate attraverso il Passo di Valles; a NE è la media valle del Cordévole; a SO è quella iniziale del Cismon, che per i passi di Rolle e di Colbricon comunica agevolmente con l’alto Travignolo. A un certo punto le due valli del Cordevole e del Cismon s’allargano a formare due ampie conche gemelle, col fondo a soli 600-700 m.: quella di Agordo e quella di Primiero. Queste due conche sono poi tra loro allacciate, lungo il lato SE del gruppo delle Pale, per mezzo di vallette secondarie e di un interposto bacino quasi indipendente, che è la valle superiore del torrente Mis.

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Uno degli elementi più caratteristici delle Pale di San Martino è sicuramente l’Altipiano delle Pale, vero e proprio baricentro geologico e geografico di tutto il massiccio. È un luogo unico. Passeggiando lassù sembra di essere sulla Luna, dove non vi è altro se non un’infinita distesa di rocce bianche tormentate dal tempo. Solo il silenzio riesce a conciliarsi con quel luogo magico e severo; al più qualche tesa folata di vento può portar scompiglio tra le pallide distese. A ragione molti credono che Dino Buzzati, assiduo frequentatore di questi monti, sia stato ispirato proprio dall’Altipiano delle Pale quando descrisse la landa dove ambientò Il deserto dei Tartari. I silenzi, i colori slavati da infinite intemperie e la solennità immota delle rocce frantumate dal ripetersi delle stagioni che tanto impressionarono il sottotenente Drogo; tutto in quella storia rimanda a lassù, all’altipiano delle Pale. Esso si estende per oltre quindici chilometri quadrati, mentre l’intero gruppo ne occupa circa trecento, corrispondenti a un quadrilatero irregolare di venti per quindici chilometri. La posizione centrale rende l’altipiano il riferimento ideale per descrivere le Pale e le varie sotto-catene che le definiscono. La suddivisione sistematica che ancora oggi viene utilizzata per descrivere il gruppo, fu proposta da Ettore Castiglioni nella sua guida, eccola: 1. la catena settentrionale Le Pale di San Martino si possono dividere in cinque sezioni, distinte rispettivamente dal Passo del Travignòlo, dal Passo Pradidali Basso, dal Passo Canali e dalla Forcella Cesurètte. La prima di queste sezioni, designate generalmente col nome di Catena Settentrionale, quantunque propriamente costituisca la parte NO del gruppo, ha un andamento lineare abbastanza regolare, in direzione NESO, con una lunga diramazione verso NO, che collega


L’altipiano delle Pale di San Martino. A sinistra il massiccio del Cimòn e della Vezzàna, al centro la distesa dell’altipiano e a destra la Fradùsta.

il massiccio del Focobòn col Passo di Valles, e quindi le Pale di San Martino col Gruppo della Marmolada. Altre diramazioni secondarie verso SE, che separano profondi valloni, altro non sono che contrafforti delle cime a cui si riannodano. La Catena Settentrionale è caratterizzata dal frastagliamento della cresta principale e dall’abbondanza di piccoli ghiacciai e canaloni nevosi, fra una cima e l’altra. La Catena Settentrionale può essere suddivisa in cinque sottogruppi: il Sottogruppo del Mulàz che comprende la diramazione N, e cioè il tratto di cresta dal Passo di Valles al Passo del Mulàz; il Sottogruppo del Cimòn di Stia che comprende il tratto a NE del Passo Lucàn, costituito quasi esclusivamente da rocce eruttive (tufi e lave); il Sottogruppo dei Burelòni tra il Passo di Valgrande3 e il Passo di Val Strutt e il Passo del Travignòlo.

2. la catena di san martino

La Catena Settentrionale delle Pale si salda al Passo del Travignòlo con la Catena di San Martino, che ha inizio con il Cimòn della Pala e si svolge in direzione N-S

fino al Cimèrlo, comprendendo le cime più note del Gruppo delle Pale. La catena non ha andamento regolare e lineare come la Catena Settentrionale, ma è caratterizzata da massicci o gruppi, isolati da larghe insellature rocciose, che danno accesso all’Altipiano delle Pale, retrostante alla catena stessa. Le cime piombano verso la Valle del Cismòn con alte e grandiose pareti verticali, mentre hanno ben più modesto aspetto viste dall’altipiano. Fa eccezione l’ultima parte della catena, il Sottogruppo del Sass Maòr e del Cimèrlo, che divide la Val Cismòn dalla Valle Pradidali, a cui rivolge la colossale muraglia orientale del Sass Maòr. La roccia di tutte queste cime è dolomitica, generalmente solidissima, e si presta ad arrampicate bellissime per tutti i gusti e per tutte le capacità. Unico ghiacciaio della Catena di San Martino è il piccolo ghiacciaio della Pala, racchiuso in un selvaggio e profondo vallone, tra la Pala di San Martino e la Cima delle Scarpe. La Catena di San Martino può essere divisa in cinque sottogruppi: il Sottogruppo del Cimòn della Pala con le sue propaggini a

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S fino al Passo di Rosetta; il Sottogruppo della Rosetta e il Passo di Val di Roda; il sottogruppo della Pala e le cime che ad essa si affiancano tra il Passo di Roda e il Passo di Ball; il Sottogruppo di Val di Roda, che comprende la cima e la serie dei Campanili di Val di Roda; e infine il Sottogruppo del Sass Maòr con la sua sorella minore, la Cima della Madonna e le ultime propaggini rocciose del Cimèrlo. 3. il massiccio centrale Più che una vera e propria catena è un complesso massiccio con andamento assai irregolare, che collega la Catena di San Martino alla Catena Meridionale per mezzo di quel vasto altipiano pietroso e ondulato, chiamato Altipiano delle Pale. Il Massiccio Centrale è compreso tra il Passo di Pradidali Basso, il Passo Canali e la Forcella Cesurètte, che lo allacciano rispettivamente alla Catena di San Martino, alla Catena Meridionale e alle Pale di San Lucano. Nella sua parte meridionale il Massiccio divide la Val Pradidali dalla Val Canali e comprende le cime di maggior interesse alpinistico, quali la Cima di Sèdole, la Cima Canali, la Cima Wilma, la Fradùsta, la Cima dei Lastéi, ecc. Queste cime si incurvano a ferro di cavallo, aperto verso ESE, intorno al selvaggio Vallone delle Lede. La cresta della Fradùsta, dal Passo Pradidali Basso al Passo Canali, forma lo spartiacque tra il bacino del Cismòn e quello del Cordévole. Verso N, la Fradùsta distende come un candido lenzuolo il suo vasto ghiacciaio (il più esteso delle Dolomiti dopo quello della Marmolàda), poi l’altipiano digrada con un labirinto di ondulazioni e con le dorsali tondeggianti delle Pale dei Balconi verso la Forcella Cesurètte, separando la Valle delle Comèlle dalle valli del Mièl e d’Angheràz. Il Mas-

Catena di San Martino. Dalla Spalla del Cimòn verso la Rosetta, la Pala di San Martino e il massiccio di Val di Roda (1922).

siccio si può dividere in tre sottogruppi: il Sottogruppo della Cima Canali, che comprende il ramo meridionale del ferro di cavallo fino al Passo delle Lede; il Sottogruppo della Fradùsta, che comprende il ramo settentrionale del ferro di cavallo, fino al Passo Canali e alla Forcella del Mièl e il ghiacciaio fino alla Riviera Manna; l’Altipiano, che comprende tutte le ondulazioni di scarso interesse alpinistico, tra la Riviera di Manna e la Forcella Cesurètte. 4. la catena meridionale La Catena Meridionale delle Pale si estende con andamento quasi rettilineo da SSO a NNE, dal Passo Cereda alla Valle di San Lucano, parallelamente alla Catena Settentrionale, e costituisce la parte sud-orientale delle Pale di San Martino. Essa è allacciata al Massiccio Centrale delle Pale per mezzo della breve catena del Màrmor e del Passo Canali, che ha direzione perpendicolare all’asse

Pagina a fronte: Catena Settentrionale delle Pale di San Martino. Dall’alto: Cima dei Burelòni dalla Val Venégia (1924); la Taiada (a sinistra, 1922) e i massicci di Cimòn e Vezzàna (a destra, 1922); una veduta panoramica dell’intera catena dai dintorni di Cima Iuribrutto (1926).

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Cima Pràdidali (1926, dal vallone di Ball) e una delle coppie più note delle Pale: Sass Maòr e Cima della Madonna (1925, dalla Cima della Stanga). Pagina a fronte: Massiccio Centrale. In alto: una veduta d’insieme del massiccio, si riconoscono da sinistra Sass Maòr, Cima di Ball, Cima Canali, Fradùsta, Cima dei Lastéi (1925). Sotto a sinistra: la parete sud di Cima Fradùsta (1926, da Cima da Lago); a destra due vedute di Cima Canali, forse la vetta più celebre del massiccio centrale (1925 e 1933).

principale della Catena, cioè da NO a SE. Pure l’ultima parte della Catena, il Sottogruppo dell’Agnèr, piega nettamente in direzione O-E, spingendosi fin sopra Taibòn. La Catena Meridionale costituisce la parte meno conosciuta ma più grandiosa del Gruppo delle Pale, ricca di massicci imponenti e di formidabili appicchi, che contano tra i più alti delle Alpi Calcaree. Essa racchiude la selvaggia e solitaria Valle di Angheràz, a cui fa corona un’ininterrotta serie di pareti rocciose di altezza variante tra i mille e i millecinquecento metri. Tra le selvagge pareti del Màrmor è racchiuso un piccolo ghiacciaio, che aggiunge la nota candida dei suoi seracchi alla severità delle pareti che lo sovrastano. La Catena Meridionale si può suddividere in cinque sottogruppi: il Sottogruppo di Val Canali, che comprende il settore più meridionale, dal Passo di Cereda alla Forcella Sprit; il Sottogruppo del Màrmor, formante la breve catena trasversale, che collega

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la Catena Meridionale al Massiccio Centrale delle Pale, tra il Passo Canali e la Forcella del Màrmor; il Sottogruppo della Croda Grande, tra la Forcella Sprit e la Forcella della Beta; il Sottogruppo dei Lastéi, tra la Forcella della Beta e la Forcella del Pizzòn; e infine il Sottogruppo dell’Agnèr, che costituisce la parte più settentrionale della catena, con le poderose architetture del Monte Agnèr e gli arditi profili degli Spiz e Pizzetti di Agnèr, dalla forcella del Pizzòn fino a Taibòn. Tutte le forcelle nominate, pur essendo profonde depressioni nella continuità delle Catena, non costituiscono valichi praticabili, essendo assai difficilmente raggiungibili, e servono solo per l’accesso alle cime. Gli unici valichi praticabili sono il Passo d’Oltro e la Forcelle delle Mughe (o delle Grave), che mettono in comunicazione la Val Canali con la Conca di Gosaldo. L’impossibilità delle comunicazioni tra i due versanti della catena e la scarsa frequenza di alpinisti e


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di cacciatori su queste cime, ancora poco esplorate, rende la toponomastica quanto mai incerta e complicata, e anche alle cime principali viene attribuito in ciascun paese un nome diverso. Anche l’esplorazione alpinistica è ben lungi dall’essere completa; molte delle ascensioni più importanti non sono ancora state ripetute, e numerosi problemi di primo ordine ancora attendono soluzione. Gli accessi però sono lunghissimi e faticosi, mancando ogni rifugio e punto di appoggio (fatta eccezione per il Rifugio Treviso, che serve per la parte più meridionale della Catena) e soprattutto a causa dei fittissimi mughi, senza alcuna traccia di sentiero, che dal fondo valle si inerpicano fino alla base delle pareti. Terreno quasi vergine quindi, che può dare grande soddisfazione agli appassionati del più serio alpinismo esplorativo.

I ghiacciai Al tempo di Castiglioni le Pale non erano bianche soltanto per via della dolomite. Incastonate in quel mare di roccia si nascondevano sette gemme di ghiaccio. Anche Ettore accenna ai ghiacciai delle Pale nella sua descrizione. Egli racconta che specialmente nella Catena Settentrionale non era raro scovare piccoli ghiacciai e nevai perenni. Oltre a queste minuscole formazioni nascoste nei canaloni più inaccessibili, il gruppo faceva anche sfoggio di un ghiacciaio più importante, quello della Fradùsta, che maestosamente occupava un intero lembo del grande Altipiano. Oggi molto è cambiato rispetto ad allora e il glacialismo sulle Pale è quasi scomparso. Entro certi limiti è

naturale che i ghiacciai si modifichino nel tempo. Se avessimo visitato le Pale ventimila anni fa, al culmine dell’ultima glaciazione, avremmo trovato una situazione opposta rispetto a quella attuale. Tutto il gruppo, come buona parte delle Alpi, fu allora sommerso da potenti colate di ghiaccio, come oggi accade solamente nelle regioni polari. Durante le glaciazioni, l’altipiano fungeva infatti da gigantesco serbatoio di neve e ghiaccio, dando vita a colate glaciali che dall’altipiano precipitavano verso le vallate circostanti, lasciando emergere dal ghiaccio solamente le cime più alte. Un’idea di come le Pale apparissero durante le epoche glaciali, è data dalla mappa a pagina 36. Dall’ultima glaciazione sono trascorse migliaia di anni e il clima della Terra è da allora profondamente cambiato. I ghiacciai alpini, fedeli alla loro indole di sentinelle climatiche, si sono lentamente ritirati verso più alte quote abbandonando il fondovalle. Ai primi del novecento, sette piccoli ghiacciai facevano capolino sulle Pale. Bruno li studiò con attenzione e nonostante le limitate dimensioni seppe astrarre dal loro comportamento nozioni glaciologiche di ampia validità. Nei quasi cento anni trascorsi dalle osservazioni di Bruno Castiglioni sulle Pale, il clima ha continuato la sua incessante evoluzione. In modo diverso rispetto a prima però, poiché l’uomo, con le sue attività sempre più invadenti, è nel frattempo diventato il responsabile di un cambiamento climatico che ha poco a che vedere con quanto accaduto in passato, quando il clima era governato soltanto da processi naturali e astronomici. Gli effetti di questo cambiamento sono molteplici e sempre più evidenti, anche sulle Pale di San Martino. Cosa

Pagina a fronte: Catena Meridionale. Sopra: la tetra parete ovest della Cima de la Beta (1925, dal gh. del Màrmor) e il giardino di pietra degli Sforcelloni (1927, dalla Pala della Madonna). In mezzo: il Sass de Camp, uno dei satelliti della Croda Granda (1926, salendo verso la Forcella d’Oltro) e il Sass d’Ortìga in Val Canali (1927, dal Passo Canali). Sotto: il massiccio della Croda Granda, osservato dal Sass d’Ortìga. Da sinistra si riconoscono: Cima del Coro, Cime del Màrmor, Cima dei Vani Alti, Croda Granda e Sass de Camp (1925).

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rimane di quei sette ghiacciai? Non molto: alcuni non esistono più, altri scompariranno nei prossimi anni. I loro segni sono però ancora evidenti e non soltanto nel paesaggio delle Pale, ma anche nelle storie e negli scritti di Bruno Castiglioni e di altri studiosi e appassionati che tra i valloni selvaggi delle Pale hanno saputo trovare qualcosa di importante. Cerchiamo di scoprire cosa. NOTE Fu probabilmente l’appassionato studioso di saghe dolomitiche Karl Felix Wolff, a coniare questa definizione. 2 La guida grigia del Cai-Tci Pale di San Martino - Gruppo dei Feruc - Alpi Feltrine di Ettore Castiglioni, 1935. 3 Oggi noto come Passo delle Faràngole. 1

Le Pale di San Martino durante l’ultimo periodo glaciale, culminato circa ventimila anni fa. Le frecce indicano la direzione del flusso delle colate di ghiaccio principali. Le Pale erano uno snodo importante, dove diversi flussi glaciali traevano alimento e fluivano verso alcuni dei grandi ghiacciai che occupavano le valli principali delle Alpi Orientali. Alcune si dirigevano a Sud (ghiacciaio del Cismòn e del Brenta), altre verso Nord (ghiacciai del Cordévole e del Piave) e altre ancora verso Ovest (ghiacciaio dell’Adige). Questa mappa è una elaborazione di una carta più ampia delle Alpi nel periodo glaciale disegnata da Bruno Castiglioni (1940, parte dell’Atlante Fisico ed Economico d’Italia, a cura di Giotto Dainelli).

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Il massiccio delle Pale di San Martino in una foto da satellite. Sono indicati i sette ghiacciai e i vari sotto-gruppi montuosi (elaborazione di Francesco Ferrarese).

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I SETTE GHIACCIAI DELLE PALE DI SAN MARTINO


Scendendo dalla cima della Vezzàna lo sguardo si apre sull’Altipiano delle Pae e sul ghiacciaio della Fradùsta (Agosto 1922).


IL GHIACCIAIO DEL TRAVIGNÒLO UNA RAMPA VERSO IL CIELO

M

ezz’ora di cammino seguendo un facile sentiero attraverso i pascoli. È questo l’impegno richiesto per ammirare quello che è sicuramente tra i panorami dolomitici più cercati e ritratti. Da Passo Rolle basta davvero poco per raggiungere la Val Venégia e baita Segantini, da lassù la vista che si apre sulla catena settentrionale delle Pale è indescrivibile e le fotografie di queste pagine difficilmente sapranno ricreare quell’atmosfera. Il Cimòn, la cima simbolo delle Pale, da Passo Rolle si mostra con una silhouette inconfondibile, tanto ardita da meritargli l’appellativo di “Cervino delle Dolomiti”. Tutte le vette più alte delle Pale sono qui riunite e insieme danno vita a un panorama grandioso. Le pareti rocciose si innalzano dai prati e senza esitazione puntano all’azzurro del cielo, perdendosi tra vuoti e vertigini che non lascerebbero indifferente nemmeno il più distratto dei visitatori. Incastonato tra le pieghe dolomitiche di questo scenario si nasconde una gemma di gelo: un ghiacciaio che, malgrado un clima sempre meno favorevole, difende tenacemente la propria posizione. È arroccato lassù,

dove il sole e i visitatori arrivano a stento, nonostante le frotte di turisti che si riversano ai suoi piedi. È il ghiacciaio del Travignòlo, dal nome del torrente generato dalle sue stesse acque di fusione. Da qualche anno è l’apparato glaciale più esteso delle Pale di San Martino, avendo rubato il primato al ghiacciaio della Fradùsta. Non è però soltanto il più grande, è anche quello che gode del miglior stato di salute. Ma non fraintendiamo: visti i tempi che corrono le sue condizioni non si possono certo dire buone. Il termine migliore è relativo e la sua salute è solo meno compromessa rispetto a quella degli altri ghiacciai delle Pale. I primi passi di un giovane glaciologo Il Travignòlo è stato il primo ghiacciaio delle Pale a essere descritto e visitato con una certa frequenza. Sul finire del XIX secolo, quando i ghiacciai alpini raggiunsero la massima espansione al termine della piccola età glaciale, il ghiacciaio non appariva nascosto 41


Il ghiacciaio del Travignòlo osservato da baita Segantini. La fotografia è dell’agosto 1925. Il ghiacciaio trabocca e quasi riempie il vallone scavato tra le cime della Vezzàna (la cima centrale più maestosa) e il Cimòn, qui non visibile.

come oggi ed era anzi ben visibile da Passo Rolle e dalla vicina strada carrozzabile. Sarà per questo che tanti glaciologi alla ricerca di inesplorati ghiacciai si soffermarono su di esso, riportandone accurate descrizioni già a partire dal 18881. Circa trent’anni più tardi sarebbe stato un geografo fresco di laurea ad ammirarlo, tracciandone un attento ritratto sul proprio diario di campo: Bruno Castiglioni. Per il giovane Bruno, quella che preparò nel 1922 osservando il ghiacciaio del Travignòlo, fu una descrizione speciale: era infatti la prima volta in cui egli si confrontasse con un ghiacciaio come studioso. Questo primo resoconto fu il capostipite di una lunga serie di relazioni compilate su tutto l’arco alpino da quello che sarebbe diventato uno dei massimi conoscitori della glaciologia. Vale sicuramente la pena ripercorrere questa pagina del diario di Bruno Castiglioni. 42

29-30 agosto 1922 Ghiacciaio del Travignolo; esaminato da poco a Est della sella a quota 2288 m della tavoletta2, a circa 2180 metri (aneroide3). Le due fronti giungono molto più in basso rispetto all’altitudine riportata da Marinelli4. Dal punto di osservazione le tangenti alla bussola sono [inclinate] rispettivamente di -3 e -2 gradi; ammettendo una distanza orizzontale (misurata su tavoletta) di m 1250 e m 1300, calcolo l’altitudine [delle due fronti del ghiacciaio] sul livello del mare5. Fronte Ovest 2143 m, fronte Est m 2154. Splendidi sistemi di crepacci e seracchi, specialmente sulla rupe mediana e sui due rami laterali. Oltre la fronte visibile il ghiaccio si prolunga sicuramente al di sotto della morena frontale, come anche in parte al di sotto di quella laterale in corrispondenza della fronte Ovest. Si vede anche a distanza [rispetto alla fronte] ghiaccio in parte scoperto a sinistra, più in basso rispetto alla fronte facilmente identificabile. Ed è questo il punto più basso che ho preso come riferimento per il calcolo dell’altitudine (vedi sopra). Morena laterale specialmente accentuata e regolare a destra della fronte Est, arcuantesi parzialmente davanti alla fronte; ma le altre sono tutte rimaneggiate da acqua corrente in argini longitudinali6. Morena laterale destra risale anche alta, galleggiante7, e si forma visibilmente in grande parte grazie al materiale tributato dai canaloni della Vezzàna e formante qualche cono detritico.

Descrizione e confronti Il ghiacciaio del Travignòlo occupa il vallone che divide la Vezzàna dal Cimòn, le due massime cime delle Pale di San Martino. Ai tempi di Bruno il ghiacciaio colmava tutto il vallone, estendendosi per oltre quarantacinque ettari e spingendosi verso l’alta Val Venégia con


Il ghiacciaio del Travignòlo oggi (2018). Esso è quasi irriconoscibile rispetto ai tempi di Bruno Castiglioni.

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A sinistra: La caratteristica rupe che domina il vallone del ghiacciaio del Travignòlo. Come si può vedere a pagina 43, il pilastro è oggi sgombro dal ghiaccio, ma ai tempi di Bruno Castiglioni (1922), il roccione era circondato dal ghiaccio. A destra: La Busa dei Camosci dopo una nevicata, osservata dalla sella che porta a Cima Silvano; a sinistra Cima dei Burelòni (1922).

una fronte dalla forma caratteristica. La presenza di una solitaria rupe rocciosa che si eleva per una cinquantina di metri al centro del vallone, obbligava infatti il flusso glaciale a biforcarsi, dando vita a due distinti lobi di ghiaccio che fluivano ai lati del pilastro e si spingevano a quote inferiori a 2200 m. Quando nei primi anni venti Castiglioni cominciò a frequentare le Pale di San Martino, la rupe era circondata dalla massa ghiacciata, come mostrato nelle fotografie di queste pagine. Il vigore dei flussi era tale che i due lobi dopo aver oltrepassato la struttura rocciosa, si ricongiungevano a valle di essa. Già pochi anni dopo le osservazioni di Bruno però, i due lobi cominciarono ad arretrare e presto si divisero, intraprendendo un’inarrestabile ritirata verso la parte superiore del 44

vallone. I segni di questo recente passato sono però ancora ben visibili sulla rupe, che appare arrotondata dall’azione erosiva del ghiaccio. Oggi il ghiacciaio è attestato al di sopra del pilastro, a una quota di circa 2400 m, ma è difficile valutare con precisione questo dato dal momento che la porzione inferiore dell’apparato è nascosta da uno spesso strato di detriti e non è facile capire dove termini realmente. Occasionali smottamenti rimuovono la coltre di detrito, rivelando che isolate lenti di ghiaccio morto8 sono ancora presenti intorno al pilastro. Al contrario, la quota massima del ghiacciaio corrisponde all’incirca a quella del Passo di Travignòlo, la sella che separa il Cimòn dalla Vezzàna a quota 2925 m. In passato il ghiacciaio raggiungeva il passo attraverso un ripido canalino


ghiacciato. Oggi, essendo quest’ultimo completamente secco durante l’estate, il collegamento non esiste più e il ghiacciaio si attesta poco sotto al passo. La scomparsa dei due lobi frontali non soltanto ha provocato la riduzione della superficie del ghiacciaio, passata da oltre quarantacinque ettari a meno di quindici nell’arco di novant’anni9. A modificarsi è stata l’intera struttura del ghiacciaio il quale perdendo la lingua glaciale biforcuta si è trasformato da ghiacciaio montano di vallone a ghiacciaio di circo. Quest’ultimi sono i piccoli ghiacciai che occupano le conche (circhi o, come spesso chiamati nelle Alpi Orientali, catini) presenti alla testata delle valli laterali. È la stessa azione erosiva e distruttrice del ghiaccio a creare tali depressioni che favoriscono la protezione dal sole e l’accumulo di neve durante l’inverno. I ghiacciai di circo sono i più semplici che esistano, essi mancano infatti di una lingua e sono definiti da un unico bacino dove si accumula la neve. Sono le formazioni glaciali più frequenti durante le fasi iniziali e terminali di un periodo di glacializzazione. Lascio al lettore indovinare in quale delle due situazioni ci troviamo ora. Il ghiacciaio del Travignòlo appare oggi come una massa di ghiaccio di dimensioni limitate e isolata rispetto alle formazioni glaciali minori che la circondano. Non è sempre stato così. Ancora oggi se si osservano i dintorni del vallone che ospita il ghiacciaio, è possibile individuare una serie di placche più o meno estese di ghiaccio e neve che sono evidenti anche durante le estati più calde. Queste formazioni secondarie non possono essere definite veri e propri ghiacciai, ma allo stesso tempo non corrispondono nemmeno a semplici depositi di neve. Glacionevato (o glaceret) è il termine che le definisce, rappresentando la categoria intermedia tra ghiacciaio e nevaio.

Il ghiacciaio del Travignòlo (1) e i suoi satelliti, un tempo riuniti a formare un unico sistema glaciale: (2) il glacionevato della Busa dei Camosci (in basso a destra è visibile la morena deposta dall’apparato) e quello del Passo di Val Strutt (3) che era a sua volta connesso al ghiacciaio di Val Strutt. Per completare il quadro citiamo il nevaio di Passo Travignòlo, un tempo collegato al ghiacciaio di Travignòlo ma qui non visibile.

Stabilire dei criteri precisi che permettessero di distinguere ghiacciai, nevai e glacionevati, non è stato né semplice, né immediato. Il problema fu per i glaciologi del primo ’900 un vero e proprio rompicapo dal momento che non appena veniva stabilita una regola, subito qualcuno citava un particolare ghiacciaio che sembrava violarla. Anche Bruno Castiglioni si occupò del problema, ma questa è una storia che incontreremo più avanti. Tornando al ghiacciaio del Travignòlo, gli apparati secondari che si trovano nelle sue vicinanze sono la Busa dei Camosci, ai piedi della Cima dei Burelòni, e 45


Coni di neve accumulati dalle valanghe sul ghiacciaio del Travignòlo. Essi sono la principale fonte di alimentazione di questo apparato. Il diverso colore della neve è legato alla successione di strati risalenti ad anni diversi. La neve anno dopo anno diventa più compatta e scura, trasformandosi prima in nevato (anche detto firn) e poi in ghiaccio. Osservando l’alternarsi degli strati è possibile ricostruire la recente storia di queste formazioni. La contemporanea presenza di neve risalente ad anni diversi è importante, poiché dimostra che alla fine dell’estate parte della neve caduta nell’inverno precedente è mantenuta, garantendo un accumulo netto che permette la sopravvivenza del ghiacciaio.

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poco più in alto quello che si trova al di sotto del Passo di Val Strutt. Sono entrambi difficili da raggiungere e si hanno poche informazioni su di essi. La Busa dei Camosci è la più estesa delle due formazioni, essa occupa la conca incastonata tra Cima dei Burelòni e Vezzàna, a una quota compresa tra 2500 e 2600 m. La sua estensione raggiunge a malapena un paio di ettari. Negli anni ’20 era però talmente gonfia di neve e ghiaccio che Bruno Castiglioni la classificò come un minuscolo ghiacciaio dotato di una morena frontale. Lo identificò come il ghiacciaio dei Burelòni e nella guida alpinistica di suo fratello Ettore figura come l’ottavo ghiacciaio delle Pale10. Anche al Passo del Travignòlo era presente fino a poco tempo fa un nevaio perenne che si espandeva verso la Valle dei Cantoni fino a 2700 m, lungo il versante opposto rispetto a quello occupato dal ghiacciaio. Del nevaio ora scomparso è ancora visibile il sistema di argini morenici che lo orlavano, come testimoniato dalla fotografia a pagina 47. Durante la piccola età glaciale queste formazioni secondarie, insieme al ghiacciaio di Val Strutt che incontreremo nel prossimo capitolo, erano collegate al corpo principale del ghiacciaio del Travignòlo attraverso un sistema di ripidi canalini ghiacciati che consentivano un seppur minimo flusso di ghiaccio dagli apparati più alti a quelli più bassi, definendo un unico complesso glaciale. Il posto giusto Le fotografie delle pagine successive mostrano la trasformazione del ghiacciaio del Travignòlo negli ultimi novant’anni. Il declino è evidente e il ghiacciaio è irriconoscibile rispetto ai tempi di Bruno. Osservando


A sinistra: Il deposito morenico dell’alta Valle dei Cantoni, è stato accumulato dal nevaio che occupava il Passo del Travignòlo. Si tratta di una nivo-morena, ovvero una morena depositata da un nevaio e non da un ghiacciaio. La differenza tra le due è che la prima è creata dal materiale trasportato dal ghiacciaio, la seconda dal materiale che, precipitato dalle pareti sovrastanti, scivola sulla superficie della neve e si accumula ai piedi del deposito di neve. A destra: La parte superiore del ghiacciaio del Travignòlo. L’estesa crepacciatura che lo contraddistingue, provocata dal movimento del ghiaccio verso il basso, indica che questo ghiacciaio è ancora dinamico. Il movimento del ghiaccio può infatti mantenersi attivo solo laddove esso viene prodotto con continuità. I detriti rossastri in superficie sono dovuti ai crolli che interessano la friabile parete nord del Cimòn. Fotografia scattata dalla cima della Vezzàna, agosto 2017.

anche gli altri ghiacciai delle Pale, avremo modo di comprendere che in realtà il Travignòlo è l’apparato che meglio sta resistendo al cambiamento climatico. Perché? Il motivo è da ricercarsi nella sua particolare posizione. Al giorno d’oggi i ghiacciai di media montagna come quelli dolomitici, sopravvivono solamente laddove persistono condizioni climatiche e orografiche favorevoli. Favorevole per un ghiacciaio significa abbondante accumulo di neve e ridotta fusione estiva. Per soddisfare tali requisiti ci si può spostare alle alte quote, dove temperature rigide permettono la conservazione della neve e limitano la fusione estiva. Se però non ci troviamo in alta montagna, come nel caso delle Pale di San Martino, dove dobbiamo volgere lo sguardo per individuare i punti più adatti alla sopravvivenza di un ghiacciaio? Negli angoli bui e incassati,

dove il sole fatica ad arrivare e ripide pareti convogliano valanghe e slavine. Queste sono proprio le caratteristiche del vallone del ghiacciaio del Travignòlo. Esposto a Nord-Ovest e quasi interamente circondato da alte pareti, esso è ben protetto dal sole e la luce lo illumina poche ore al giorno prima del tramonto. Ma i ripidi versanti di Cimòn e Vezzàna, oltre a schermare i raggi del sole, facilitano anche la caduta di continue valanghe. È un fenomeno che interessa tutti i ghiacciai circondati da alte pareti. Man mano che queste si fanno più verticali, la neve sempre più difficilmente riesce a fermarsi su di esse e non appena l’accumulo diventa significativo, essa precipita. La corsa verso il basso si arresta sui piccoli ghiacciai che si sviluppano alla loro base, dove le pendenze si abbattono, permettendo alla neve di depositarsi nella forma di caratte47


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ristiche strutture chiamate coni (o conoidi) di neve. Osservando attentamente il ghiacciaio del Travignòlo, non è difficile individuare tali formazioni, come si può apprezzare qui a lato. Per i ghiacciai minori le valanghe sono fondamentali perché garantiscono un accumulo nevoso maggiore rispetto a quello che riceverebbero dalla semplice deposizione atmosferica. In un certo senso l’orografia e le valanghe permettono di ingannare il clima, assicurando in specifici punti la deposizione di enormi spessori di neve. Quest’ultimo tema venne affrontato in modo approfondito da Bruno Castiglioni. Egli comprese che il glacialismo minore, come quello dolomitico, è più strettamente legato alle condizioni geografiche e orografiche locali rispetto a quanto non accada confrontandosi con i ghiacciai più grandi, dove sono invece i fattori climatici e meteorologici a dominare le dinamiche glaciali. Oggi le cose sono però cambiate e i piccoli ghiacciai alpini si stanno ritirando a una velocità impressionante. Gli unici che possono anche solo parzialmente contrastare gli effetti del cambiamento climatico, sono proprio quelli che, grazie a una configurazione orografica particolare, ricevono un apporto di neve di valanga, come il ghiacciaio del Travignòlo. Un ghiacciaio per alpinisti Tra le tante peculiarità che questo ghiacciaio ha rispetto ai suoi vicini nelle Pale, vi è uno stretto rapporto con i primi alpinisti che esplorarono questi monti. Parliamo di storie che risalgono all’epoca degli alpinisti-esploratori che si aggiravano sulle Dolomiti nella seconda

metà dell’800. I protagonisti indiscussi di quell’epoca furono gli anglosassoni, cui dobbiamo la scoperta alpinistica e turistica di gran parte delle Alpi, comprese le Pale di San Martino. I primi visitatori inglesi raggiunsero le Pale nel 186211, ma è due anni più tardi che la loro fama avrebbe definitivamente valicato gli alti passi che fino ad allora le avevano celate. Nel 1864 l’alpinista ed esploratore irlandese John Ball visitò le Pale in cerca di problemi alpinistici da risolvere. Egli rimase subito colpito dal Cimòn de la Pala, definendolo il Cervino delle Dolomiti nella sua Alpine Guide. Il paragone con quella che era la più celebre, e allora inviolata, cima di tutte le Alpi, non poté che catalizzare l’attenzione su questo ardito picco, rimasto fino a quel momento ai margini delle cronache alpinistiche. Fu quindi di John Ball il merito di mostrare quali meraviglie di pietra si nascondessero in quella lontana regione delle Alpi Orientali. A suo ricordo una cima delle Pale e un vicino passo portano il suo nome12. Grazie ai suoi resoconti, la frequentazione delle Pale aumentò notevolmente e già nel 1870 il Cimòn de la Pala capitolò a opera degli inglesi Francis Fox Tuckett ed Edward Robson Withwell, accompagnati dalle guide Christian Lauener e Santo Siorpaes. Vinta questa cima, la brama di conquiste da parte degli inglesi non si affievolì. Due anni più tardi fu quindi il turno della splendida cima che affianca il Cimòn: la Vezzàna. Essa venne salita nel 1872 da Douglas William Freshfield e Charles Comyns Tucker, i quali giunsero in vetta senza l’aiuto di una guida, dal momento che quest’ultima tornò indietro spaventata dall’ambiente selvaggio («la vita più che la moneta», le sue testuali parole quando si trovò di fronte a un profondo crepaccio13).

Pagina a fronte: La classica veduta di Cimòn e Vezzàna da Baita Segantini. Le due fotografie sono state scattate rispettivamente nel 1922 e nel 2018. Il confronto rende evidente il ritiro del ghiacciaio: il vallone è come svuotato e il ghiaccio ne occupa oramai solamente la parte superiore, qui non visibile.

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La fronte del ghiacciaio nel 1933 e oggi. Il punto di osservazione è l’argine morenico che si sviluppa dalla base del pilastro centrale che un tempo divideva il ghiacciaio in due lobi distinti. Gli scatti d’epoca sono di Giulio Vianello e fanno parte dell’archivio del Comitato Glaciologico Italiano. A destra, in alto: Bruno Castiglioni e compagni lungo la via normale al Cimòn nel 1922. A sinistra si riconosce Bruno con lo zaino in spalla. In basso, il gruppo è sorpreso da una tormenta, si notino i vestiti incrostati di neve. Pagina a fronte: La Valle dei Cantoni (termine con cui vengono indicati gli speroni rocciosi caratteristici di questa valle), intagliata tra i massicci del Cimòn e della Vezzàna. La foto superiore (del 1926) mostra il Passo del Travignòlo completamente occupato da un ampio nevaio perenne in connessione con il ghiacciaio del Travignòlo. Oggi quello stesso vallone sul finire dell’estate è completamente sgombro dalla neve.

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Ciò che lega queste due imprese al ghiacciaio del Travignòlo è la scelta dell’itinerario seguito dai pionieri. In entrambi i casi gli alpinisti percorsero proprio il Travignòlo per salire in quota e sferrare l’attacco decisivo alle rocce delle due montagne. In un mondo quasi esclusivamente roccioso come quello delle Pale di San Martino, scegliere di affrontare il ghiacciaio più ripido e crepacciato di tutto il gruppo potrebbe sembrare poco logico. Bisogna però ricordare che a l’alpinismo era nato soprattutto sulle Alpi Occidentali, dove i ghiacciai hanno ben altra estensione rispetto alle Dolomiti. Per questo i primi alpinisti, plasmati dagli ambienti occidentali, erano più propensi ad affrontare il ghiaccio che non la roccia. Per quanto un pendio ghiacciato fosse ripido, era sempre possibile scalinarlo, ovvero scavare degli appoggi per i piedi a suon di piccozzate. Gradino dopo gradino verso la cima; fu così che vennero conquistate un’infinità di cime. Il ghiacciaio del Travignòlo non fu però un avversario così semplice da affrontare: nonostante le dimensioni limitate rispetto ai colossi di ghiaccio delle Alpi Occidentali, era un osso duro per gli alpinisti, come racconta Silvio Dorigoni14 nel resoconto della prima salita italiana alla Vezzàna (1883)15: Volgemmo verso nord, tagliando a mezzo monte il ripido pendio tutto composto di ghiaie mobili, minute e pungenti, che difficoltavano oltre modo l’incedere. Fortunatamente potemmo in breve raggiungere la morena laterale, sormontata la quale, in punto alle ore 5 antimeridiane, ponemmo piede sulla piccola, ma ripida e lacerata vedretta16. Il ghiacciaio del Cimòn della Pala, benché poco esteso e di quasi nessuna importanza, tuttavia presenta tutti i caratteri dei grandi ghiacciai delle Alpi Occidentali. I fianchi della breve ma ripida sua coda, irti di ceruleo ghiaccio,

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sono talmente squarciati e sconvolti, come se una forza sotterranea li avesse prima sollevati, e poi subissati. Viene poi un insidioso altipiano coperto di candida neve, sotto cui aprono la famelica bocca spaventosi crepacci, indi ecco il nevaio alimentatore, che scende da quella cresta frastagliata, piena di guglie e picchi inaccessibili che congiunge il Cimòn della Pala al gruppo della Vezzàna.

Il periodo d’oro del ghiacciaio del Travignòlo durò però pochi anni soltanto, perché improvvisamente gli alpinisti smisero di frequentarlo. Nuovi percorsi più sicuri furono tracciati per raggiungere Cimòn e Vezzàna e il ghiacciaio del Travignòlo ripiombò nel silenzio che lo aveva sempre accompagnato. NOTE La prima descrizione scientifica del Travignòlo compare nel volume del 1888 dedicato ai ghiacciai delle Alpi Orientali del geografo e geologo austriaco Eduard Richter, Die Gletscher der Ostalpen ovvero I ghiacciai delle Alpi Orientali. 2 Tavoletta IGM (Istituto Geografico Militare). Si tratta delle carte geografiche ufficiali del nostro paese, riconosciute dalle istituzioni internazionali. All’epoca erano l’unico strumento cartografico accurato e preciso disponibile, nonostante le prime versioni di allora presentassero non poche inesattezze. 3 Speciale tipologia di altimetro barometrico. Il termine aneroide deriva dal greco e significa «privo di umidità», la parola barometrico indica invece che il suo funzionamento è basato sulla misurazione della pressione atmosferica, grandezza direttamente legata alla quota. 4 Castiglioni si riferisce all’opera I ghiacciai delle Alpi Ve1


nete di Olinto Marinelli, 1910. Chiunque si dedicasse allo studio dei ghiacciai dolomitici doveva per forza di cose confrontarsi con questa opera pionieristica e fondamentale. 5 Bruno Castiglioni determina l’altitudine dei due lobi del ghiacciaio del Travignòlo impostando un problema di trigonometria grazie ai dati riportati nella tavoletta IGM e a quelli rilevati da egli stesso utilizzando bussola e goniometro. 6 Le morene sono formazioni fragili. Non appena il ghiacciaio che le ha deposte arretra, esse vengono intaccate dagli agenti atmosferici e dall’acqua che le smantellano, trasportandone i detriti verso valle. 7 Viene detta galleggiante una morena che poggia sulla superficie del ghiacciaio. 8 Per ghiaccio morto si intende una massa di ghiaccio isolata dal flusso principale del ghiacciaio. Non ricevendo più alimento dalle regioni superiori del ghiacciaio, il ghiaccio morto è destinato a scomparire più o meno rapidamente, a seconda della quantità di detrito superficiale che lo protegge dai raggi del sole. La presenza di ghiaccio morto è indicativa di una condizione di intenso ritiro glaciale. 9 Il primo dato è di Bruno Castiglioni, risale ai primi anni ’20. Il secondo è invece valutato sulla base dei dati ricavati dal catasto dei ghiacciai italiani del 2015 e dalle relazioni riportate nei bollettini annuali del comitato glaciologico italiano. 10 È questo l’unico documento dove Bruno Castiglioni descrisse la formazione come ghiacciaio vero e proprio. In

seguitò cambiò probabilmente idea e classificò la formazione come glacionevato. 11 I primi alpinisti che visitarono le Pale furono gli inglesi Josiah Gilbert e George Cheethmann Churchill, che arrivarono sulle Pale nel 1862. Raccontarono il loro viaggio nel volume The Dolomites Mountains del 1864, con cui resero note le Dolomiti al pubblico inglese. 12 La Cima e il Passo di Ball. Il passo mette in comunicazione la Val di Roda con la Val Pradidàli. 13 Si veda The Alpine Journal, vol. VII, 1874-1876, Cima della Vezzana di C.C. Tucker. 14 Alpinista e patriota italiano (1847-1900), partecipò come volontario alla terza guerra d’indipendenza e fu un importante fautore dell’irredentismo, nonché tra i primi presidenti della SAT, la Società Alpinisti Tridentini. 15 Tratto da Il Cimon de la Pala di Silvio Dorigoni, X annuario della SAT, 1883-1884. 16 Uno dei termini utilizzati per indicare i ghiacciai sulle Alpi. Come raccontato da Olinto Marinelli ne I ghiacciai delle Alpi Venete, la scelta del termine era in origine legata a motivi esclusivamente geografici: Firn nelle Alpi Centro-Orientali, Vedretta nelle Alpi Lombarde Orientali e in quelle Trentine, Ferner in quelle atesine, Kees ancora più a Oriente in Austria e Slovenia. Il termine vedretta ha assunto in un secondo momento un significato più specifico, essendo utilizzato per i ghiacciai di secondo ordine.

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Scendendo la Val Strutt, sull’omonimo ghiacciaio (1926).


I GHIACCIAI DELLE ZIRÒCCOLE E DI VAL STRUTT INCERTI ED EFFIMERI

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ue sono i motivi per cui questi ghiacciai siano considerati insieme: la posizione – distano poche centinaia di metri l’uno dall’altro – e la loro scoperta, avvenuta a opera di Bruno Castiglioni. I ghiacciai di Val Strutt e delle Ziròccole sono annidati alla testata di due valli laterali che confluiscono nella valle delle Comèlle, circa un chilometro a Nordest del ghiacciaio del Travignòlo. Le valli di cui stiamo parlando sono la Val Strutt e la Val Grande. La seconda gode oggi di una certa frequentazione, grazie al sentiero delle Faràngole (parte dell’Alta Via n. 2 delle Dolomiti), che risale la valle fino al passo delle Faràngole, (o Passo di Val Grande). Il ghiacciaio delle Ziròccole occupava la conca posta nella parte superiore della valle, non visibile percorrendo il sentiero. Per raggiungere la conca è infatti necessario uscire dal percorso segnato e seguire la traccia che porta alla via normale di salita di Cima Burelòni. Sicuramente meno frequentata è la Val Strutt. I visitatori che vi transitano sono perlopiù intenti a completare la traversata della Vezzàna dal Passo del Travignòlo a quello di Val Strutt, dove un tempo si

trovava il piccolo ghiacciaio omonimo. È un itinerario interessante e di grande soddisfazione, ma sicuramente non affollato. Per osservare i due ghiacciai non esistono punti di osservazione comodi, il che spiega anche le poche fotografie che li ritraggono prima del drastico declino. Per ammirarli è necessario mettere in conto diverse ore di cammino lungo percorsi faticosi e spettacolari, attraverso passi e vallate solitarie. Raggiungere quei luoghi alla soglia dei tremila metri immersi in un silenzio senza tempo è come scoprire un’altra dimensione. Lassù si avverte l’eco della storia geologica di queste montagne, possenti e maestose, ma in realtà in disfacimento da milioni di anni. Le rovine di un mondo diverso. Ingannevoli ghiacciai È un fatto che i ghiacciai delle Ziròccole e di Strutt siano esistiti “ufficialmente” per soli trentasette anni, dal 1925 al 1962. In realtà solamente il ghiacciaio di 55


Val Strutt è davvero scomparso. Quello delle Ziròccole sopravvive ancora, anche se non più come ghiacciaio ma come glacionevato. Essi sono i ghiacciai delle Pale esistiti sulla carta per il minor intervallo di tempo. Non fu il fatto di essere stati catalogati come estinti nel 1962 la ragione di questo primato, poiché anche i ghiacciai della Pala, del Màrmor e del Focobòn vennero declassati nello stesso anno1. Fu la tardiva scoperta a rendere la loro esistenza ufficiale tanto breve. Infatti, non vennero descritti che nel 1925. Il motivo del ritardo è da imputarsi alla posizione remota rispetto ai punti di accesso più battuti. La loro individuazione richiese quasi trent’anni e una successione di tentativi. Ripercorrere queste vicende permette di comprendere cosa significasse esplorare e studiare i luoghi impervi delle Alpi oltre cento anni fa. I primi inconsapevoli osservatori dei due ghiacciai furono i topografi militari incaricati di studiare il confine tra il regno austroungarico e il regno d’Italia, che fino alla prima guerra mondiale passava proprio tra le Pale di San Martino. Dopo queste prime timide frequentazioni, furono gli alpinisti a spingersi lassù. Il primo che perlustrò sistematicamente la catena settentrionale delle Pale di San Martino – un luogo per autentici alpinisti, come egli le definì – è stato l’austriaco Alfred von Radio-Radiis2. È sua la prima monografia dedicata a queste settore delle Pale3. Grazie a essa sappiamo con certezza che Radio-Radiis non solo ebbe modo di osservare i due ghiacciai, ma anche di calcarne la superficie, dal momento che per salire alcune cime transitò proprio su di essi. Un alpinista esperto come Radio-Radiis non avrebbe dovuto avere difficoltà nel distinguere un ghiacciaio da un accumulo di neve. Fu probabilmente il forte innevamento a confondergli le idee. Pochi anni dopo queste prime scorribande un altro importante personaggio fu ingannato dai due ghiac56

ciai. Se però all’austriaco si può riconoscere una scarsa conoscenza della glaciologia, lo stesso non vale per il geografo friulano Olinto Marinelli4. Egli era infatti il più profondo conoscitore dei ghiacciai dolomitici, come testimonia il suo volume del 1910, I ghiacciai delle Alpi Venete. Eppure, nemmeno Marinelli individuò i due ghiacciai. A seguito dei resoconti di Radio-Radiis, in cui si parlava di estesi campi di neve, Marinelli decise di andare a vedere di persona come stessero le cose, in modo da poter eventualmente aggiornare il suo volume, allora in fase di preparazione. Ecco la sua relazione5: ... I dott. Chiggiato e Feruglio6 richiamarono recentemente la mia attenzione sulla possibilità che uno o l’altro dei valloni della giogaia settentrionale delle Pale che si aprono verso le Comèlle, presentasse, anziché un semplice campo di neve, un vero ghiacciaio. […] Una escursione fatta per risolvere la questione qui accennata, il 5 settembre 1909, assieme allo stesso Feruglio, non portò ad alcun risultato sicuro, sia a causa della neve fresca che ricopriva il suolo, sia per una tormenta che c’investì mentre ci trovavamo nella conca che si abbassa a nord della cima ultimamente indicata e ad oriente di quella di Val Grande (3020 m. secondo il RadioRadiis)7. Potemmo solo constatare che l’inclinato (circa 35°) fondo della conca stessa era occupato da neve e che verso i 2800 m. si estendeva sul lato nord una zona detritica, che non escludo possa rappresentare una morena. Se realmente si tratta di un piccolo ghiacciaio la fronte dovrebbe scendere fin verso i 2780 metri. La questione rimane in ogni caso insoluta. Credo invece di poter affermare che lo sfondo della Val Strutt non presenta ghiacciai, ma nevai, essi stessi insignificanti; il disegno della tavoletta si riferisce evidentemente ad alcune falde di ghiaccio che rivestono la spalla orien-


tale della Vezzàna (m 3194), senza costituire tuttavia un ghiacciaio propriamente detto. Le osservai solo da lontano, ma non ho alcun dubbio sulla loro reale esistenza. Credo scendano in qualche punto fin sotto i 3000 metri.

Marinelli rimase quindi dubbioso circa l’esistenza del ghiacciaio delle Ziròccole, mentre escluse quella del ghiacciaio di Val Strutt. Per comprendere queste incertezze, oltre a considerare l’abbondante neve, bisogna tenere in conto le difficoltà affrontate nei primi rilievi in quota. Non bastava camminare diverse ore al di fuori dei pochi sentieri tracciati, affrontando dislivelli di oltre millecinquecento metri. Tutta la strumentazione andava trasportata a spalla, muovendosi attraverso terreni impervi e facendo affidamento sulle prime mappe, decisamente inaffidabili. Anche oggi per avventurarsi lassù sono richieste preparazione ed esperienza. Agli studiosi di inizio ’900 tutto ciò non sarebbe comunque bastato. Una volta raggiunto il luogo prescelto, essi si dedicavano ai rilievi, alle misurazioni, ai campionamenti e alla presa delle fotografie, non certo operazio-

La carta preparata da Bruno Castiglioni per descrivere i ghiacciai della catena settentrionale delle Pale di San Martino, dal suo articolo del 1925. Oltre ai ghiacciai delle Ziròccole e di Strutt appaiono anche gli altri ghiacciai della catena settentrionale delle Pale (evidenziati in blu). La perizia di Castiglioni e la sua conoscenza di queste montagne erano tali che riportò anche le formazioni glaciali secondarie: i nevai e i glacionevati, evidenziati in azzurro. In alto, a sinistra: Il Passo delle Faràngole, l’unico valico escursionistico che attraversa la catena settentrionale delle Pale. Si trova a 2814 m ed è il punto più alto raggiunto dall’Alta Via delle Dolomiti nr. 2 (1922).

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Dallo schizzo alla carta. Dal diario di campo di Bruno Castiglioni lo schizzo a mano del ghiacciaio delle Ziròccole. A destra la trasposizione su carta geografica in un particolare della mappa proposta alla pagina precedente.

ni semplici come oggi. Il tutto senza poter contare su alcun punto di appoggio o possibilità di soccorso. Un cambiamento improvviso del tempo sarebbe bastato per costringere gli sfortunati a una veloce ritirata. La fine della diatriba glaciologica arrivò nel 1925, grazie a Bruno Castiglioni. Quell’anno egli pubblicò un articolo dedicato ai ghiacciai dolomitici, dove riportò la descrizione dei ghiacciai di Strutt e delle Ziròccole che vennero quindi finalmente riconosciuti, catalogati e descritti8. L’esplorazione glaciologica delle Pale di San Martino era dunque conclusa.

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Descrizione Il Ghiacciaio delle Ziròccole, che occupa la testata del vallone detto La Burèlla, ramo iniziale destro9 della Valgrande, è ben visibile, da parecchie cime poste a N e ad E, dall’orlo settentrionale dell’altipiano delle Pale, e anche dal fondo della Val Cordévole, a Taibòn presso Àgordo. Invece il Ghiacciaio della Val di Strutt credo non si possa scorgere da nessun punto esterno a quel vallone, che non siano le creste del suo contorno. Questo ghiacciaio si osserva benissimo dalla Cima dei Burelòni e meglio ancora dalla Cima delle Ziròccole, che lo fronteggia sul lato sinistro della profonda Val di Strutt. Da questi punti infatti


io potei osservarlo nel 1922 e 1924, e prenderne alcune misure angolari10. Il ghiacciaio sarebbe raggiungibile senza difficoltà dalla Valle delle Comèlle, risalendo tutto il Vallone di Strutt. Più di frequente visitai il Ghiacciaio delle Ziròccole, spesso avversato dal maltempo; ne feci un rilievo approssimativo, del quale mi valgo per darne una raffigurazione nello schizzo della figura a pag. 3411. I due piccoli ghiacciai hanno molti punti di rassomiglianza: la giacitura orografica, l’esposizione, la forma ed i caratteri della fronte. Si nota in quello di Val Strutt una più forte inclinazione complessiva e quindi un’altezza della fronte notevolmente minore: ciò è dovuto alla maggiore ripidezza e profondità di quel vallone, rispetto al poco pronunciato avvallamento che discende a N della Cima delle Ziròccole. Quest’ultimo è limitato dalla parete rocciosa della Cima Valgrande (m. 3020 circa) e dal promontorio del Col della Burèlla, fra cui si deprime una larga insellatura (m 2820 circa), appena sollevata rispetto alla sponda destra del ghiacciaio. Quando esso era più sviluppato, poteva traboccare da questa parte verso l’alto ramo della Valgrande e difatti accumulò sulla sella un bel cumulo morenico. Va notato anche che dal versante settentrionale della Cima Vezzàna (m. 3191) precipitano nella Val Strutt molte valanghe, che devono avere cospicua importanza nell’alimentazione del ghiacciaio: scarso invece deve essere questo alimento per il Ghiacciaio delle Ziròccole, poiché la cima omonima si eleva solo da 30 a 80 m sopra l’orlo superiore del nevato e presenta, appena sotto la cresta terminale, un breve pendio, il quale certamente trattiene gran parte della neve che vi cade o che il vento vi accumula. È specialmente questo pendio nevoso, proprio presso la cresta terminale, che dà alla Cima delle Ziròccole un aspetto alquanto strano fra i monti dolomitici, e che può farla paragonare ad una vetta di altre regioni alpine di diversa struttura e più largamente ghiacciate,

come fece il Radio-Radiis che per primo l’ha salita, parlando di Eisgipfel12. Non è però da intendere che la cima stessa sia costituita da una calotta di ghiaccio o neve, giacché la cresta rocciosa è sempre alquanto sopraelevata alla neve, e dall’altra parte precipita a picco nel Val di Strutt. Esempi di cime ghiacciate nelle Alpi Venete dunque non ve n’è, all’infuori della Marmolada […]. Al margine occidentale della parte superiore di ambedue i ghiacciai si aprono larghe insellature: il Passo di Val Strutt (circa 2865 m), tra la Cima Vezzàna e il Campanile di Val di Strutt; e quella che si potrebbe denominare Forcella delle Ziròccole (m. 2967), compresa fra l’estremità occidentale della cresta delle Ziròccole e la Cima di Valgrande. A W della prima scende un ripido vallone – tributario pensile di quello assai maggiore che contiene il Ghiacciaio di Travignòlo – occupato da un nevato13. Un ripidissimo e stretto canalone ghiacciato si trova invece in stretto rapporto colla seconda insellatura citata, tra la Cima di Valgrande e la Cima dei Burelòni […]. Alla testata del canalone si trova il Passo dei Burelòni (m 3010 circa), e subito sotto, sulla destra, s’affaccia la cosiddetta Forcella delle Ziròccole. Ambedue le insellature ora descritte sono costituite da un’esile cresta rocciosa, emergente dalla neve. Però, se sotto la rispettiva forcella il Ghiacciaio delle Ziròccole scende regolarmente a NE con debole pendio, l’altro ghiacciaio presenta invece nella corrispondente posizione una zona pianeggiante, anzi alquanto rigonfiata, e più elevata della vicina forcella […]. La superficie ghiacciata si abbassa poi improvvisamente, a guisa di larga e ripida lingua dove vi si notano numerosi crepacci trasversali, nonché l’evidentissima zonatura, prodotta dall’emergenza degli strati di ghiaccio14 […]. Anche sul Ghiacciaio delle Ziròccole nella parte mediana s’accentua la pendenza, tuttavia più moderata che nel compagno; ed analogamente vi si formano parecchi crepacci e vi si osserva la

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Non sono molti i luoghi delle Pale di San Martino da cui sono ben visibili la Val Strutt e la Valgrande, alle cui testate si nascondevano i ghiacciai di Strutt e delle Ziròccole. La fotografia è stata presa dal Passo Antermarucòl (2334 m) nel settore nord-orientale dell’altipiano delle Pale. La traccia che taglia i ripidi pendii erbosi e si arrampica verso la Val Grande è il sentiero delle Faràngole. Pagina a fronte, in alto: La testata della Valgrande. Da sinistra si riconoscono: Cima dei Burelòni, Anticima di Valgrande, Campanile di Valgrande, Torre Cinque Dita e Campanile delle Faràngole. Tra quest’ultime il profondo intaglio del Passo delle Faràngole (o di Valgrande). In basso: La Torcia di Valgrande, la sentinella di roccia che sorveglia l’ingresso della Valgrande, separando quest’ultima dalla Val Strutt. Fu salita la pima volta nel 1934 dal fratello di Bruno, Ettore.

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bella zonatura. La lingua è più tozza e fortemente asimmetrica: la sponda destra a partire da 2850 m d’altezza, e la sinistra anche più in alto, sono accompagnate da fasce di detrito, in parte galleggiante. Alla fronte si scorge il ghiaccio fino a circa 2790 m, ma potrebbe continuare un poco oltre, sotto la morena, la quale va a confondersi col detrito di falda, giù pel Vallone della Burèlla; non è presente un vero e proprio arco frontale. Condizioni del tutto simili possiamo osservare, ancora una volta, nel Ghiacciaio di Val di Strutt. Il materiale morenico vi è un poco più abbondante, ma distribuito nello stesso modo. […] Sembra poi che lateralmente e anteriormente all’estremità della lingua scoperta, sotto un rivestimento detritico, il ghiaccio debba estendersi assai di più. Osservando l’andamento degli argini morenici, ne vediamo circoscritta un’area dalla forma tipica di una lingua glaciale, piegata quasi ad angolo retto verso destra, la cui fronte si spingerebbe parecchio al di sotto dei 2700 m, ed almeno 100 m più avanti del punto più basso (2738 m) del ghiaccio libero. Però questi lembi di ghiaccio sepolto

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sembrano indipendenti dal ghiacciaio, specie se si osservi il brusco cambiamento di profilo fra essi e la lingua viva15. Quanto al regime dei due ghiacciai si riscontrano notevoli diversità. Su quello settentrionale l’alimentazione per valanghe deve essere scarsa e relativamente piccola anche la protezione che la cresta della Cima delle Ziròccole può esercitare colla sua ombra. Il ghiacciaio vivrebbe cioè prevalentemente per nutrimento ordinario di precipitazioni nevose. In base ad osservazioni sulla scomparsa del ghiaccio in superficie e sui punti di emergenza del materiale morenico, propendo a credere che la zona di prevalente ablazione16 incominci poco sotto i 2900 m. […] Per contro, nel Ghiacciaio di Val di Strutt l’area sulla quale visibilmente si stendono le valanghe si limiterebbe alla ristretta zona superiore più ripida, ed a piccola parte della zona mediana pianeggiante. Su parte di questa stessa zona, e cioè a partire da circa 2975 m d’altezza, si troverebbe già in sopravvento l’ablazione. Vi è quindi una grande sproporzione in questo ghiacciaio fra le due parti di alimento e ablazione; sproporzione dovuta sia alla grande quantità di neve che vi si rovescia, per valanghe o perché spazzata dal vento sulla spalla rocciosa della Vezzàna, sia alla forte protezione orografica sulla lingua17. All’altezza del Passo di Val Strutt vi deve essere uno spianamento roccioso, per cui la corrispondente porzione del ghiacciaio è così pianeggiante. Che essa sia anche rigonfiata a sinistra, rispetto alla soglia del passo, sembra prodotto dalla provenienza trasversale delle valanghe alimentatrici.

Grandiosa vista del ghiacciaio di Strutt, ripreso nel settembre 1924 dalla cresta delle Ziròccole.

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Questo dettagliato brano è solo una parte della descrizione che Bruno Castiglioni fece dei due ghiacciai e che riportò nel suo articolo. Nonostante si trattasse del suo primo lavoro dedicato al glacialismo dolomitico, egli mostrò subito la precisione e l’accuratezza che lo avrebbero reso un apprezzato studioso. Nell’articolo Castiglioni non si limitò alla sola descrizione dei due


ghiacciai. Egli infatti non amava descrizioni fini a sé stesse: dai casi singoli deduceva concetti che avessero una valenza più ampia e applicò questo schema di ragionamento anche ai due ghiacciai in questione. Dalla loro osservazione trasse importanti riflessioni circa due concetti fondamentali della glaciologia: il limite climatico delle nevi e la distinzione tra ghiacciai e nevai. Piccoli ghiacciai per grandi concetti L’incertezza che accompagnò le prime osservazioni dei ghiacciai delle Ziròccole e di Val Strutt fu sicuramente legata alla loro difficile posizione, ma anche alla loro limitata dimensione. Oggi, dei due ghiacciai rimane solamente una piccola placca di ghiaccio aggrappata alla parete nord della Cima delle Ziròccole. Anche un secolo fa però, quando Bruno Castiglioni ebbe modo di osservare i due apparati, essi avevano una dimensione esigua; per entrambi egli indicò un’area di sette ettari. Secondo lo stesso Castiglioni non è raro trovare nelle Alpi dei semplici nevai cha abbiano una superficie più ampia. Come poté allora affermare con sicurezza che si trattasse di ghiacciai e non appunto di semplici nevai? Nel suo lavoro dedicò molte pagine alla questione. Innanzitutto, rigettò il criterio – allora ancora diffuso – che distingueva ghiacciai e nevai sulla base dell’estensione: strutture al di sotto di una certa soglia erano indicate come nevai, al di sopra di essa come ghiacciai. Tale definizione poneva il problema di scegliere la soglia e giustificarne la scelta. Ma è facile intuire che si tratti di una regola poco elegante, poiché non fondata su un processo quantificabile, bensì su qualcosa di arbitrario e soggettivo. Il primo a suggerire il modo di uscire dall’impasse fu Olinto Marinelli, il quale introdusse nella discussione

il concetto fondamentale di movimento. Egli ipotizzò che il tratto distintivo dei ghiacciai rispetto ai nevai fosse la presenza di crepacci e morene, entrambe caratteristiche legate al movimento del ghiaccio verso valle. Bruno Castiglioni fece però notare che la teoria di Marinelli non era compatibile con alcune eccezioni, dal momento che alcuni grandi nevai possono depositare piccole morene18 e presentare fenditure simili a crepacci dovute alla compressione e compattazione della neve. L’osservazione dei ghiacciai delle Ziròccole e di Strutt suggerì allo studioso una nuova definizione adatta anche a questi casi particolari: Ghiacciaio è ogni massa di neve o ghiaccio, in cui si distinguono una parte su cui ogni anno si accumula più neve di quella che può sciogliersi (zona di alimento, bacino collettore, nevato, vedretta), ed un’altra, complessivamente più bassa della prima, su cui si può sciogliere più neve di quanta se ne accumula (parte ablatrice, corpo di discesa)19.

Solo un ghiacciaio dotato di un flusso di ghiaccio dall’alto al basso può soddisfare questa elegante definizione. Identificare un caso che non la soddisfi porterebbe inevitabilmente a un assurdo, ovvero a un ipotetico ghiacciaio incapace mantenere un equilibrio di massa tra la parte superiore e inferiore dell’apparato. Inutile ricordare che la definizione non è adeguata a quei ghiacciai che oggi non sono in equilibrio con il clima attuale e sono destinati all’estinzione. Per questi apparati bisognerebbe forse parlare di fossili climatici più che di ghiacciai veri e propri. Rimane comunque incredibile che Bruno Castiglioni abbia formulato la sua definizione avendo come riferimento proprio i due piccoli e apparentemente insignificanti ghiacciai della catena settentrionale delle Pale. Dal piccolo al grande, un perfetto esempio di deduzione glaciologica. 63


Il ghiacciaio delle Ziròccole nel 1922 e nel 2018, osservato dal Col della Burèlla.

Un altro tema affrontato da Castiglioni prendendo spunto ancora una volta dai ghiacciai di Strutt e delle Ziròccole, fu il limite della neve, ovvero la quota minima al di sopra della quale almeno una parte della neve deposta nel corso dell’anno non scompare mai. Furono questi piccoli ghiacciai dolomitici a suggerirgli che localmente non è solamente il clima a determinare la quota di tale limite. Se si studia nel dettaglio una regione complessa come quella delle Pale, è facile osservare che sono i fattori orografici locali a diventare 64

predominanti. L’esposizione al sole, la protezione dal vento, l’accumulo di valanghe. Questi elementi possono abbassare notevolmente il limite della neve, permettendo a un ghiacciaio di svilupparsi anche laddove, da un punto di vista puramente climatico, non dovrebbe esistere. Questo concetto sarà visto in dettaglio nel capitolo dedicato ghiacciaio del Màrmor.


Il ghiacciaio di Strutt nel 1922 e nel 2017. Il punto di osservazione è la cresta rocciosa tra la cima delle Ziròccole e quella dei Burelòni.

Confronti In queste pagine sono mostrati i confronti fotografici dei due ghiacciai. Negli anni ’20 il ghiacciaio delle Ziròccole invadeva tutto il vallone posto ai piedi di Cima Ziròccole. Per raggiungere le cime dei Burelòni e delle Ziròccole era necessario attraversarlo, rendendo quelle salite complete dal punto di vista alpinistico: roccia, ghiaccio, tanto dislivello e sviluppi notevoli. Oggi la traccia di salita si mantiene invece completamente al

di fuori del ghiacciaio e attraversa un pendio detritico. Tante ascensioni sulle Dolomiti sono andate incontro a questo destino. Fino a qualche anno fa era normale portare piccozza e ramponi nello zaino anche a stagione inoltrata, ora non più e il panorama dolomitico estivo sta diventando esclusivamente roccioso. L’angolo occupato dal ghiacciaio delle Ziròccole è un luogo particolare delle Pale, selvaggio e bellissimo, dove non sono arrivati nemmeno i segnavia dei sentieri. La cima che si impone al termine del vallone del ghiac65


sicuri? Forse non tutto è davvero perduto, una traccia del ghiacciaio potrebbe esistere ancora oggi. Osservando il pendio detritico nei dintorni del passo, si notano (evidenziate nella fotografia recente dalla sagoma tratteggiata) delle strutture lobate che suggeriscono uno scivolamento della massa detritica verso valle. Ciò indicherebbe la presenza di ghiaccio sepolto sotto al detrito in lento movimento verso valle. Il ghiacciaio della Val di Strutt si sarebbe quindi trasformato in un rock-glacier, un ghiacciaio di roccia. Essi sono strutture intermedie tra i ghiacciai veri e propri e il permafrost, ovvero il terreno ghiacciato tipico delle regioni polari e di alta quota. I ghiacciai alpini che subiscono questo tipo di trasformazione sono ogni anno più numerosi. Paesaggi diversi per climi diversi. Una bella veduta del ghiacciaio delle Ziròccole dalla cima del Focobòn (1925).

ciaio è quella dei Burelòni che con i suoi 3130 metri è la terza vetta per altezza nel gruppo delle Pale. Ne consiglio la salita a chi, dotato di allenamento e buona esperienza di montagna, sia in cerca di un’esperienza autentica e d’altri tempi. Dalle fotografie recenti è evidente che il ghiacciaio delle Ziròccole non sia più definibile tale: è ormai un glacionevato. Il declassamento è inevitabile poiché non è più possibile individuare alcun segno di movimento del ghiaccio dall’alto al basso. Alla pagina precedente è invece mostrato il ghiacciaio di Strutt, osservato dalla cresta delle Ziròccole. Non rimane traccia del ghiacciaio. Un tempo il Passo di Strutt, che costitutiva la porzione superiore del ghiacciaio, era una sella glaciale e due brevi colate scendevano da entrambi i suoi versanti. Sembra che oggi non rimanga nemmeno una minuscola placca di ghiaccio a testimoniare quella condizione. Ne siamo però davvero 66

NOTE Furono dichiarati estinti nel Catasto dei Ghiacciai Italiani del 1962, pubblicato dal Comitato Glaciologico Italiano. I ghiacciai dolomitici sono trattati nel IV volume dell’opera: Ghiacciai delle tre Venezie e degli Appennini. 2 Da alpinista Alfred von Radio-Radiis (Firenze, 1875-Vienna, 1957) si occupò specialmente delle montagne tirolesi e dei gruppi dolomitici di Brenta e delle Pale di San Martino. Dopo la giovinezza si interessò ad automobili e motori, divenendo uno dei pionieri dell’industria automobilistica austriaca e del trasporto turistico sulle Dolomiti. 3 Der Nordzug der Palagruppe (trad. La catena settentrionale delle Pale di San Martino), in Zeitschrift des Deutschen und Österreichischen Alpen-Vereins 34, 1904. 4 Olinto Marinelli (Udine, 1874-Firenze 1926) è stato un importante geografo, figlio di Giovanni Marinelli, altro personaggio fondamentale per la geografia italiana. Duran1


te la sua attività di ricerca si occupò di molti e variegati temi, ma in particolare dello studio dell’Italia nordorientale e dell’ambiente di montagna. La sua opera più importante fu L’Atlante dei Tipi Geografici, stampato nel 1922 e ripubblicato diverse volte fino al 1948. Egli fu l’autore de I ghiacciai delle Alpi Venete (1910), opera fondamentale – citata molte volte in queste pagine – per chiunque si accingesse a studiare i ghiacciai dolomitici. 5 O. Marinelli, op. cit. 6 Giovanni Chiggiato (Venezia, 1876-Venezia, 1923) fu un alpinista veneto, presidente della sezione di Venezia del Cai e responsabile della costruzione del rifugio Volpi al Mulàz. Giuseppe Feruglio fu un geologo, stretto collaboratore di Marinelli di cui fu allievo, autore di alcuni articoli scientifici e della Guida turistica del Cadore zoldano e agordino del 1910. 7 Si tratta della conca un tempo riempita dalla massa del ghiacciaio delle Ziròccole. 8 Alcuni ghiacciai nelle Dolomiti e il loro ambiente orografico e climatico, Bollettino del Club Alpino Italiano vol. XLII, N. 75, 1925. 9 In ambito geografico destra e sinistra si riferiscono alla destra e sinistra idrografiche. 10 Grazie alla trigonometria è possibile convertire delle misure angolari, facilmente rilevabili sul campo, in misure spaziali. Per farlo è necessario disporre di carte e mappe che siano il più possibile precise. 11 La carta proposta a pagina 57. La versione manoscritta è invece mostrata a quella successiva. 12 Dal tedesco, cima di ghiaccio.

Il nevaio del Passo di Val Strutt di cui si è parlato nel capitolo precedente. 14 Per zonatura si intende l’effetto dovuto all’emersione in superficie di strati di ghiacciaio di diverse stagioni. A causa della maggior quantità di impurità e all’effetto della fusione, il ghiaccio estivo è più scuro e compatto di quello invernale. La successione e l’emersione degli strati stagionali provoca la comparsa di bande regolari, appunto definite zonatura. 15 Questo quadro è simile a quanto oggi accade presso il ghiacciaio del Travignòlo, dove il ritiro provoca la formazione di placche di ghiaccio morto. Ciò suggerisce che negli anni ’20 il ghiacciaio di Val Strutt stesse vivendo un periodo di ritiro. 16 Ablazione è il termine che indica l’insieme dei processi che rimuovono il ghiaccio dai ghiacciai. Tra di essi il più importante è sicuramente la fusione, ma non è l’unico, ad esempio bisogna considerare anche l’asportazione meccanica (crollo di seracchi, frane di ghiaccio). All’opposto dell’ablazione vi è l’accumulo, inteso come accumulo netto di neve o ghiaccio. È l’equilibrio tra le due voci a determinare il bilancio di massa di un ghiacciaio e quindi il suo comportamento. 17 Un ghiacciaio alimentato dalle valanghe è caratterizzato da un grande accumulo di neve in aree limitate, facendo sì che la zona di accumulo del ghiacciaio sia molto meno estesa rispetto a quella di ablazione. 18 Sono le cosiddette nivo-morene; un esempio è mostrato a pagina 47. 19 Dal citato articolo di Bruno Castiglioni del 1925. 13

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Le due cime che dominano il margine settentrionale delle Pale di San Martino. Sopra il Focobòn (3054 m) con i satelliti che lo circondano (anno 1922); in basso il massiccio del Mulà z (2906 m, anno 1926).


IL GHIACCIAIO DEL FOCOBÒN GHIACCIO NATO DAL FUOCO

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hi ha frequentato le Pale di San Martino avrà sicuramente sentito parlare del rifugio Volpi al Mulàz, spesso chiamato semplicemente il Mulàz (anche se non ho mai sentito nessuno pronunciare il nome con l’accento originale). Val Venégia, Passo Vallés, Falcàde, Passo Rolle, non importa quale sia il punto di partenza, tutti i sentieri che conducono ai 2571 m del rifugio sono pietre miliari dell’escursionismo dolomitico. Le conche che circondano Passo Rolle e Passo Vallés racchiudono paesaggi notevoli. Dopo i racconti sui ghiacciai del Travignòlo, di Strutt e delle Ziròccole, ci troviamo per un’ultima volta nella catena settentrionale delle Pale, sebbene in un settore diverso, dove non sono più Cimòn e Vezzàna a dominare la scena. A imporsi sono altre affascinanti cime: il Focobòn e il Mulàz. L’estrema propaggine settentrionale delle Pale, dove si trovano queste montagne, ha una caratteristica particolare: il contrasto. I picchi qui sono tanto slanciati da sembrare le tetre guglie di un’enorme cattedrale rocciosa, sorretta però da solidissimi contrafforti. Basta però abbassare lo sguardo per incontrare interi versanti rico-

perti da una vegetazione lussureggiante. Artefice di ciò non è stato il caso. Tale contrasto di forme e strutture rispecchia una varietà nascosta, ma allo stesso tempo profondamente radicata nelle viscere di questi monti. Antiche vicende hanno fatto sì che qui si trovassero a contatto rocce con caratteristiche e origini diverse. È per questo che il paesaggio qui è così variegato. Un simile contesto ha avuto profondi effetti sull’evoluzione di queste montagne, anche inaspettati, come ad esempio permettere che il ghiacciaio del Focobòn esistesse. Ghiacciai, geologia e paesaggi Le Pale di San Martino si stagliano ben al di sopra dei 2000 metri, in alcuni casi superando i 3000, ma non è sempre stato così. Circa 240 milioni di anni fa al loro posto avremmo trovato un atollo tropicale. A quell’epoca le cime e le vallate delle Alpi orientali non esistevano e il paesaggio era dominato da una successione di lagune marine, non troppo diverse da quelle che 69


A sinistra, un filone eruttivo (la fascia di roccia scura a sinistra del nevaio) che attraversa la mole del Focobòn. Il disfacimento di queste formazioni è testimoniato dai ciottoli scuri che si rinvengono tra i ghiaioni di dolomite ai piedi delle pareti (sopra). L’alone rugginoso che circonda il masso è provocato dall’azione della pioggia che ha intaccato i minerali vulcanici.

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potremmo osservare oggi alle Bahamas. Acque calde, poco profonde e ben illuminate, favorirono la crescita di gigantesche strutture simili alle attuali barriere coralline. Presto però – tenendo a mente che nel mondo geologico sono i milioni di anni a scandire lo scorrere del tempo – il fondale marino cominciò a sprofondare a causa dei movimenti tettonici che di continuo modificano la struttura della crosta terrestre. Gli organismi costruttori per fuggire il mare profondo – povero di luce, a loro essenziale – si svilupparono verso l’alto, nel tentativo di bilanciare lo sprofondamento e rimanere a contatto delle acque superficiali. Fu grazie a questa rincorsa verso la superficie che i depositi raggiunsero spessori incredibili, superiori al chilometro. Decine di milioni di anni più tardi essi sarebbero stati sollevati, dando vita alle Pale di San Martino e agli altri gruppi Dolomitici1. Terminata la fase di crescita e sedimentazione delle piattaforme carbonatiche, se ne aprì una nuova, caratterizzata da un’intensa attività vulcanica sottomarina che si sviluppò nei dintorni dell’area oggi compresa tra Predàzzo e la Marmolàda. I suoi effetti si fecero sentire anche nelle Pale di San Martino, specialmente lungo il loro fianco settentrionale. Un’enorme massa di materiale vulcanico si solidificò ai margini del gruppo, creando quelli che oggi sono i massicci della Cima di Pape (o Sansòn) e del Cimòn della Stìa, a ridosso del Focobòn. Ma il magma non si limitò ad accumularsi intorno alle barriere, riuscì a penetrarne l’interno, invadendo le fratture che già all’epoca le attraversavano. Fu così che si formarono i tanti filoni vulcanici2 che troviamo nella catena settentrionale delle Pale e specialmente nei sottogruppi del Focobòn e del Mulàz. Le rocce vulcaniche intercalate nella dolomia sono facilmente riconoscibili dal colore: passeggiando tra i ghiaioni ai piedi di queste montagne è impossibile non notare i

Il rifugio Volpi al Mulàz (1935).

ciottoli scuri in mezzo ai frammenti dolomitici. Essi sono quanto rimane delle colate di magma che invasero queste montagne. Rocce diverse hanno diverse proprietà ed è proprio la varietà della roccia la principale responsabile della moltitudine di forme e paesaggi che rende uniche le Dolomiti. Il ghiacciaio del Focobòn – oggi scomparso – dovette la propria esistenza a questi fenomeni. Secondo la definizione data da Olinto Marinelli esso era un ghiacciaio di falda, privo di lingua e «che si trova a piè delle alte pareti rocciose3». L’apparato era alimentato dalle valanghe precipitate dalle pareti del Focobòn e di Cima Campìdo. Fin qui nulla di eccezionale, il ghiacciaio del Travignòlo, per esempio, è tuttora governato da dinamiche molto simili. Ciò che rendeva unico il ghiacciaio del Focobòn era la ragione per cui tali valanghe erano accumulate così efficacemente. Esse non si limitavano a precipitare dalle pareti, ma erano 71


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La conca occupata dal ghiacciaio del Focobòn. Sembra impossibile che fosse invasa dal ghiaccio meno di cento anni fa. L’unico segno che testimonia la presenza del ghiacciaio è il cordone morenico che appare in basso a sinistra. Si tratta della struttura dal profilo ondulato, simile a un serpente. Essa corrisponde al limite raggiunto dal ghiacciaio durante l’ultima avanzata di fine ’800. Pagina a fronte: Le due fotografie ritraggono i particolari del ghiacciaio di Focobòn. Risalgono al luglio 1922. In quella superiore appare evidente l’accumulo di materiale morenico ai margini dell’apparato, in basso sono invece ben visibili i crepacci che ne fendono la superficie.

convogliate lungo gli intagli corrispondenti ai filoni di roccia vulcanica che attraversano queste montagne. La roccia vulcanica dei filoni è più tenera rispetto alla dolomia ed è erosa intensamente dagli agenti atmosferici. Per questo i filoni si sono disgregati, producendo profonde incisioni (si veda la fotografia di pagina 70) che, oltre a plasmare la forma dei rilievi, hanno anche aiutato l’accumulo della neve di valanga.

Il ghiacciaio del Focobòn, scomparso da oltre cinquant’anni, mostra come il terreno alpino sia stato scolpito dall’interazione di tanti e diversi processi. Grazie alla complessità delle vicende geologiche in questo angolo delle Pale due elementi opposti come il fuoco e il ghiaccio hanno saputo riconciliarsi.

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e che si trattasse di un nevaio. Ciò è anche più verosimile se si considera che la sua posizione non è remota come nel caso dei ghiacciai delle Ziròccole o di Strutt. Chiunque abbia raggiunto il rifugio Volpi prima degli anni ’60 deve per forza aver posato lo sguardo su di esso, ma stranamente le fotografie in circolazione sono assai poche. Non dobbiamo però disperare, perché in realtà Bruno Castiglioni fotografò il ghiacciaio, anche se si soffermò sui suoi particolari invece di riprenderlo nella sua interezza. Basta un’occhiata alle immagini di pagina 72 per capire che si trattava di un ghiacciaio. Esso presentava infatti i chiari segni del movimento del ghiaccio: numerosi crepacci ed evidenti accumuli di detrito morenico nei pressi delle fronti. Come già discusso, il movimento è l’elemento chiave che distingue i nevai e i glacionevati dai ghiacciai veri e propri. D’altronde lo stesso Bruno Castiglioni non ebbe dubbi a riguardo del ghiacciaio del Focobòn e difatti lo indicò chiaramente nella sua carta della catena settentrionale delle Pale (vedi pagina 57) e inoltre ne preparò una descrizione, datata 9 agosto 1922 e qui parzialmente riportata: Non avendo a disposizione una fotografia che ritragga il ghiacciaio del Focobòn nel suo insieme prima che scomparisse, per fare un confronto dobbiamo compiere uno sforzo di immaginazione. Usando i documenti di Castiglioni, le sue fotografie parziali e soprattutto i segni lasciati sul paesaggio, è possibile “disegnare” il ghiacciaio (in alto) su una fotografia scattata in tempi recenti (in basso). Da sinistra: Campanile Alto dei Lastèi, Cima Zopèl, Cima di Campìdo e Focobòn.

Segni di oggi e del passato Purtroppo non esistono molte fotografie che immortalino il ghiacciaio del Focobòn prima del declino. Vista la mancanza di documentazione si sarebbe quasi portati a credere che il ghiacciaio non sia mai esistito 74

Il fianco destro del circo4 di Focobòn è caratterizzato da lunghi e verticalissimi canaloni nevosi alla cui base si trovano diversi coni di neve, fondenti in circo a formare il piccolo ghiacciaio di Focobòn. Questo si appoggia specialmente alla sponda Sud del circo, che non al suo fondo, e fuoriesce dal circo stesso, cadendo da destra verso il sottostante circo di Col dei Pidocchi5. È un ghiacciaio di falda, in quanto formato essenzialmente dalla fusione di coni nevosi. La parte superiore del ghiacciaio, considerata da sola, sarebbe un grande nevaio privo di crepacci, alimentato specialmente dal largo canalone nevoso che scende da Cima Focobòn. Da questo cade grande quantità di materiale detritico che


ci permette di immaginare l’estensione del ghiacciaio a quel tempo e azzardare una sua ricostruzione, come mostrato alla pagina precedente. Qui a fianco sono invece mostrati i minuscoli glacionevati che hanno preso il posto del ghiacciaio del Focobòn oggi. NOTE Si tratta di una semplificazione, le Dolomiti sono il risultato di più cicli di accumulo di materiale bio-costruito che si sono susseguiti per decine di milioni di anni. Le Pale costituiscono uno dei nuclei più antichi. 2 In geologia un filone è una vena di roccia vulcanica costituita da un’intrusione di magma all’interno di una roccia preesistente, come è possibile osservare a pagina 70. 3 Da I ghiacciai delle Alpi Venete, 1910. 4 Castiglioni intende con circo del Focobòn tutta la testata della valle al cui centro si trova il rifugio Volpi al Mulàz. 5 Una seconda conca, di origine glaciale, che si trova più in basso lungo la valle di Focobòn. 6 La fotografia è una di quelle proposte a pagina 72. 1

Placche di ghiaccio e nevato aggrappate alla parete nord del Focobòn: sono tutto ciò che rimane dell’omonimo ghiacciaio.

le acque piovane trasportano e spargono sul ghiacciaio come depositi torrentizi. […] La parte mediana del ghiacciaio presenta invece una serie di grandi crepacciate trasversali parallele, perpendicolari all’orlo morenico (foto6). La parte più a valle, sotto le rocce di Cima Campìdo, è naturalmente più riparata e protetta, come i visibili conoidi fusi sotto i canaloni, suggeriscono.

Il ghiacciaio del Focobòn è oggi scomparso, eppure ha lasciato una traccia di sé. Sto parlando della morena che depose al termine della sua ultima avanzata, avvenuta alla fine del XIX secolo. Essa è ancora perfettamente conservata (si veda la fotografia di pagina 73) e 75


La fronte orientale del ghiacciaio della FradĂšsta; sullo sfondo la catena settentrionale delle Pale di San Martino (agosto 1922).


IL GHIACCIAIO DELLA FRADÙSTA COLATE DI MIELE IN QUOTA

E

ora è doveroso spendere qualche parola riguardo a un’altra regione altrettanto straordinaria, il grande altipiano delle Pale. Questo luogo curioso e selvaggio va dalla Fradùsta al Cimòn della Pala, rimanendo a una quota di circa 2700 metri. Se non ricordo male con passo svelto ho impiegato poco più di un’ora per attraversarlo. La sua larghezza all’incirca equivale la lunghezza e l’intera superficie è irregolarmente piana. Dico irregolarmente perché in realtà lo scorrere dei tanti ruscelli che vagano lassù senza meta, hanno scavato qua e là delle depressioni e allo stesso tempo i ghiacciai hanno arrotondato tutti i rilievi che ora appaiono come cupole, simili a rigonfiamenti di roccia. Il ghiacciaio che scende dalla cresta della Fradùsta si allarga verso la superficie del grande altipiano, come del miele versato su una tavola, e per quanto mi è stato possibile osservare, sembra che l’acqua di fusione si diriga in due o tre direzioni diverse. Gli alvei dei torrenti sono però quasi sempre asciutti, una caratteristica comune a tutta questa regione. Anche i ruscelli più impetuosi velocemente scompaiono nelle fessure nascoste tra le rocce. Alcuni degli avvallamenti

erano riempiti di neve, la cui fusione ha creato piccole ed effimere pozze d’acqua. A parte quest’ultime, l’altipiano è una distesa di roccia desolante, un luogo sterile e selvaggio. Attraversandolo si godono vedute meravigliose verso i monti più distanti, anche se il tempo nuvoloso ha ostacolato il mio sguardo. Il ricordo più vivo che porto in me dell’altipiano può essere riassunto da questa riflessione: tra tutti i luoghi che ho visto fino ad ora, questo è sicuramente l’ultimo dove vorrei essere sorpreso da una tormenta. Durante le belle giornate i monti circostanti offrono sufficienti riferimenti per l’orientamento, ma se dovessero essere nascosti dalle nuvole e un’impetuosa tempesta confondesse uno sfortunato viaggiatore e ne intorpidisse gli arti, sarebbe un problema molto serio vagare a così alta quota per l’altipiano. Lassù non c’è alcuna protezione se non quella offerta da qualche raro masso, e non ci sono nemmeno creste capaci di rompere la forza della tempesta1.

Con queste parole l’alpinista Leslie Stephen descrisse il maestoso altipiano delle Pale di San Martino. Si coglie 77


la meraviglia e lo stupore che quel luogo seppe provocare in lui, nonostante avesse frequentato le Alpi in lungo e in largo. Come raccontato da Stephen, nascosto tra le pieghe calcaree dell’altipiano si trovava un gioiello di ghiaccio, il ghiacciaio della Fradùsta, che egli paragonò a una colata di miele a causa delle dolci pendenze e della quasi completa assenza di crepacci. Tra i ghiacciai delle Pale, quello della Fradùsta, è la celebrità indiscussa, l’unico la cui fama abbia valicato i confini di queste montagne. Il motivo di ciò è presto detto: per estensione era il secondo ghiacciaio delle Dolomiti, superato solamente da quello della Marmolàda. Usare il passato è d’obbligo: a causa di un ritiro a dir poco impressionante, quello che era un grande ghiacciaio è oggi prossimo alla scomparsa. Sembrerebbe la solita storia, simile a quelle che abbiamo incontrato con i ghiacciai di Strutt, delle Ziròccole e di Focobòn. A ben vedere però, il caso della Fradùsta è diverso. Anche quando raggiunsero la massima espansione, i ghiacciai di cui sopra erano piccoli apparati e la loro posizione remota ha fatto sì che il loro declino avvenisse nel silenzio degli alti valloni. Per il ghiacciaio della Fradùsta è vero tutto il contrario. Esso era un ghiacciaio maestoso e la sua imponenza era capace di dare una sfumatura artica all’altipiano delle Pale. Basti dare uno sguardo alle fotografie di queste pagine. Le dimensioni di questo ghiacciaio erano tali da renderlo difficilmente confrontabile con gli altri ghiacciai del gruppo. All’inizio del ’900 la superficie della Fradùsta superava infatti quella di tutti gli altri ghiacciai delle Pale considerati insieme, raggiungendo i cento ettari. Potrà sembrare un controsenso, ma è stato proprio il più grande dei ghiacciai di questo gruppo dolomitico a subire il ritiro più marcato. Come vedremo il motivo di ciò è da ricercarsi nelle sue particolari caratteristiche. 78

Oltre che dalla grandiosità, il ritiro della Fradùsta è stato (e continua a essere) contraddistinto dalla consapevolezza. Esso è il ghiacciaio delle Pale più osservato, fotografato, e in un certo senso vissuto. Ciò è dipeso dalla posizione centrale che esso occupa. Grazie alla facilità con cui lo si raggiunge, ogni anno migliaia di escursionisti si appostano nei suoi dintorni e ammirano uno sfacelo glaciale sconvolgente. Tra di essi non ci sono solamente turisti, ma anche studiosi: sono ormai decenni che questo ghiacciaio viene misurato annualmente, monitorandone in modo quantitativo l’evoluzione e il declino. Tra i ghiacciai delle Pale, i ricercatori hanno scelto la Fradùsta a questo scopo perché da questa prospettiva è un ghiacciaio emblematico. Esso mostra chiaramente a quale futuro andranno incontro centinaia e centinaia di ghiacciai alpini. Chi non avesse ancora avuto il piacere di ammirarlo dovrebbe affrettarsi: non rimangono molte estati per farlo. Unico nel suo genere Quello della Fradùsta era un ghiacciaio particolare. Al massimo dell’espansione le sue caratteristiche lo rendevano più simile agli apparati delle regioni polari (sebbene in piccolo) che non agli altri ghiacciai alpini. Il ghiacciaio occupava una vasta superficie poco pendente e degradava dolcemente dalla Cima della Fradùsta verso l’altipiano delle Pale di San Martino. La pendenza dolce favoriva il lento fluire del ghiaccio, limitando la formazione dei crepacci. Grazie a queste caratteristiche Leslie Stephen lo paragonò a una colata di miele versato su una tavola, evocando l’immagine di un ghiacciaio esteso ma placido e semplice da affrontare. I glaciologi di inizio ’900 lo classificarono come ghiacciaio d’altipiano, riprendendo una definizione coniata per i gran-


di apparati delle regioni polari, i cosiddetti ghiacciai scandinavi. Secondo Ardito Desio2, quest’ultimi sono: Ghiacciai di altipiano dai quali si dipartono potenti colate di ghiaccio che si protendono sul fondo dei fiordi raggiungendo spesso il mare3.

Fu lo stesso Desio a notare che in realtà questa descrizione non rispecchiasse le caratteristiche del ghiacciaio della Fradùsta. Quest’ultimo non solo non terminava in mare per ovvi motivi geografici, ma non presentava nemmeno le colate di ghiaccio di cui si parla nella definizione. I ghiacciai di tipo scandinavo sono infatti costituiti da una calotta da cui si sviluppano più colate poco inclinate che si esauriscono in mare. Osservando le fotografie è facile capire che in realtà il ghiacciaio della Fradùsta non risponde a questa descrizione. Esso si estendeva lungo un pendio che, per quanto poco inclinato, non può essere definito un altipiano. È però anche vero che un ghiacciaio come questo non potesse nemmeno essere classificato come di circo o di vallone, le categorie che più spesso ritroviamo nelle Alpi. Non occupava alcuna depressione scavata alla testata di una valle (gh. di circo) e allo stesso tempo era privo di una lingua sviluppata (gh. di vallone). Ardito Desio commentava così la possibilità che sulle Alpi potessero esistere ghiacciai d’altipiano: Conviene riservare il termine ghiacciai d’altipiano a quei ghiacciai che occupano i grandi altipiani sul tipo di quelli scandinavi, ghiacciai a forma di piatte e vaste cupole da cui la roccia non emerge e dai quali si separano insensibilmente le lingue marginali. Nelle Alpi il frazionamento orografico è troppo intenso e il limite delle nevi è troppo elevato perché possano formarsi ghiacciai di quel genere. Si hanno invece esempi di regioni sommitali se non

Il ghiacciaio della Fradùsta osservato dall’altipiano delle Pale (1935).

pianeggianti, perlomeno poco inclinate e di una certa estensione, le quali, anche se sono spesso abbastanza accidentate, possono essere designate col nome di pianoro o di ripiano. […] Potremmo quindi creare una nuova categoria di ghiacciai di pianoro e ripiano.

Anche Bruno Castiglioni si interessò al ghiacciaio della Fradùsta. Trovare un apparato così ampio sulle Dolomiti, era sicuramente motivo di grande interesse. Il ghiacciaio della Fradùsta era – ed è ancora, anche se in termini molto ridotti – la principale riserva di acqua presente sull’altipiano delle Pale. Esso era l’unico 79


Ciò che rimane della Fradùsta: una placca di ghiaccio priva di copertura nevosa. La cresta sommitale che protegge il ghiaccio è la cima della Fradùsta (2939 m). A destra un particolare del ghiacciaio: sono evidenti due diverse striature sulla superficie. Le più marcate vanno dall’alto al basso seguendo la massima pendenza e sono incisioni create dall’acqua di fusione e dalla pioggia. Le seconde sono orizzontali e sono dovute alla zonatura del ghiaccio (vedi nota 14 a pagina 67).

ghiacciaio, insieme al Travignòlo, che potesse influire significativamente sulla portata dei torrenti che nascono dalle Pale di San Martino. Per questi motivi Bruno si recò numerose volte alla fronte del ghiacciaio, monitorandone le dimensioni, le quote di riferimento, gli arretramenti e gli avanzamenti. Questa l’accurata descrizione che compilò nel 1922: 15 agosto, ghiacciaio della Fradùsta. Non avendo con me la pianta del ghiacciaio del Marinelli4 non ho potuto compiere le solite accurate osservazioni riguardo alle variazioni del ghiacciaio. I commenti che seguono perciò non sono totalmente sicuri. Poi, riguardo i dati altimetrici ottenuti con l’altimetro aneroide, una grave fonte d’errore è lo squilibrio altimetrico verificatosi durante le ore

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delle osservazioni. Al Passo di Rosetta, alle ore 9.30, l’aneroide segnava 40 metri in più rispetto alla quota reale5. Tornato al rifugio Rosetta verso le 15, l’aneroide segnava 80 metri in più della quota esatta, il che mi convince nel ritenere che si sia verificato un profondo abbassamento barico, pari a quasi 3 mm6. Nel frattempo, il cielo era venuto improvvisamente coprendosi e s’avvicinava un grosso temporale, sfogatosi subito dopo verso il Passo Rosetta e il Vallone di Comèlle, oltre che a San Martino. Per questi motivi i dati d’altezza rilevati non hanno alcun valore se non approssimativo. Risalendo il ghiacciaio ho trovato ghiaccio completamente scoperto7 per 20 metri d’altezza; poi alquanto coperto da chiazze nevose; poi la zona pantanosa8 tra 2710 e 2750 metri; poi neve d’anna-


ta che non si scioglieva a causa di maggiore inclinazione e quindi del minor angolo d’incidenza del sole9. Invece nella parte alta del ghiacciaio di nuovo la neve si scioglieva rapidamente, con numerosi ruscelli superficiali, forse per la miglior esposizione al sole durante il mattino. La testata del ghiacciaio si appoggia alla cresta rocciosa della Fradùsta che in centro si solleva sopra il ghiaccio per alcune decine di metri. La parte superiore del ghiacciaio è ripidissima e presenta numerosi crepacci trasversali paralleli e crepacciate terminali multiple. Il ghiacciaio espandendosi verso nord si abbassa con diverse fronti in ognuna delle cavità carsiche (doline10) dell’altipiano antistanti. (prima fronte) La fronte principale, ovvero quella che si spinge più avanti verso nord e a quota più bassa e che occupa la cavità più ampia e profonda, arriverebbe a 2623 m per Marinelli e 2630 m per il mio aneroide, da cui però sarebbero da togliere alcune altre decine di metri! La fronte cioè, dal 1909 si sarebbe discretamente avanzata11. Parte della conca occupata dalla lingua di ghiaccio è allagata dall’acqua di fusione scendente attraverso numerosi torrenti superficiali incassati nel ghiaccio e da condotti sotterranei. L’acqua accumulata scola poi verso ovest, unendosi con piccoli salti al torrente più abbondante che esce dalla porzione occidentale del ghiacciaio e si riversa in un laghetto. (seconda fronte) Si trova poco a ovest della precedente, sullo schizzo di Marinelli appare troppo ridotta. Anche questa fronte si allunga in una dolina, separata dalla precedente da un’altura, contro la quale il limite del ghiacciaio si solleva a 2680 metri. L’estremità inferiore di questa fronte secondo Marinelli si abbassa a circa 2670 metri, secondo me giunge invece a 2620-2630 m. Che sia occorso un avanzamento tanto maggiore per questa

Il ghiacciaio della Fradùsta nella carta di Léo Aegerter delle Pale di San Martino (1931).

fronte? Altre lingue secondarie che si abbassano lungo il contorno del ghiacciaio sono una a nordovest (terza fronte) che termina a circa 2640 m, e una veramente poco importante a nordest (quarta fronte), con anteposto laghetto e separata dalla fronte principale da un dorso roccioso. Le abbondanti acque di fusione uscenti dalle varie fronti penetrano nelle cavità dell’altipiano e scompaiono subito dopo aver formato piccoli laghetti. L’altipiano è come una spugna che assorbe tutta l’acqua con cui entra in contatto.

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Durante la salita verso la Fradùsta. Un tempo era necessario attraversare tutto il ghiacciaio per raggiungere la cima, oggi non più. Anche in questa fotografia (di Bepi Mayerild, agosto 2017) è ben visibile la zonatura del ghiaccio. In alto: Il desolato altipiano delle Pale: un luogo davvero unico. Riuscite a trovare il ghiacciaio della Fradùsta? Sta diventando sempre più difficile..

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La descrizione fa capire come un secolo fa il ghiacciaio della Fradùsta fosse altra cosa rispetto a oggi. Il dinamismo e le trasformazioni stagionali cui era soggetto testimoniano che il ghiacciaio fosse a quei tempi all’apice del suo sviluppo. Un ghiacciaio in buona salute è in continua evoluzione: accumula neve e ghiaccio durante l’inverno e diventa una fonte di acqua in estate. Come ben descritto da Castiglioni, la Fradùsta spandeva la propria massa ghiacciata in tante direzioni verso l’altipiano, riempiendo le doline che incontrava e allargandosi verso l’altipiano. Dalle sue fronti nei mesi estivi si liberava una quantità di acqua, proveniente sia dalla superficie del ghiacciaio che dalle sue profondità. Considerando che l’altipiano è un ambiente arido e desolato, tutta quell’acqua destava sicuramente impressione, anche perché per quanto i torrenti glaciali fossero vigorosi, nello spazio di poche centinaia di metri scomparivano, inghiottiti dalla natura carsica dell’altipiano delle Pale.


Chi osservi il ghiacciaio oggi trova uno scenario silenzioso e statico. Da un centinaio di anni la massa glaciale della Fradùsta subisce un declino inarrestabile. La neve accumulata in inverno immancabilmente scompare nel mezzo dell’estate, lasciando il ghiaccio esposto ai raggi solari per diverse settimane ogni anno. Osservando i confronti di queste pagine, si comprende perché per questo ghiacciaio si possa davvero parlare di sfacelo. È stata la morfologia particolare, a determinarne un arretramento tanto marcato. Altri ghiacciai delle Pale, come quello del Travignòlo, hanno tratto vantaggio dalla protezione data dalle pareti rocciose, sia rispetto alla radiazione solare che all’accumulo di valanghe convogliate dai pendii. Al contrario, la Fradùsta, a causa della debole pendenza e dell’assenza di versanti nelle zone circostanti, è direttamente esposta ai raggi del sole e non beneficia di alcuna valanga. Ghiacciai di domani Il ghiacciaio della Fradùsta è un modello che mostra il destino cui andranno incontro centinaia di ghiacciai disseminati lungo l’arco alpino. La conseguenza più ovvia del loro continuo e inarrestabile ritiro è ovviamente la diminuzione della loro estensione. Si stima che negli ultimi cinquant’anni la superficie totale dei ghiacciai in Italia sia diminuita di circa un terzo, passando da 530 km2 nei primi anni ’60 del secolo scorso, a meno di 370 km2 nel 201612. Ciò non riguarda solamente i ghiacciai italiani e alpini, ma tutti i ghiacciai continentali del pianeta. Aldilà della riduzione della superficie glacializzata, ci sono altri processi connessi al declino dei ghiacciai alpini. Uno dei meno intuitivi è l’aumento del loro numero. Il fatto che il ritiro dei ghiacciai sia

Il ghiacciaio della Fradùsta nel 1926 e nel 2017. Per quanto esso fosse esteso, il ghiacciaio della Fradùsta non ha mai raggiunto spessori di ghiaccio notevoli, specialmente nella parte che si estendeva verso l’altipiano. La fusione lo ha intaccato velocemente anche per questo motivo.

responsabile della “nascita” di nuovi ghiacciai potrebbe sembrare un controsenso, ma pensateci bene: il ritiro di un ghiacciaio non è un processo lineare e uniforme. La fusione del ghiaccio avviene a velocità diverse, sia considerando lo spazio che il tempo. Ogni apparato glaciale presenta zone più vulnerabili rispetto ad altre, soggette a tassi di fusione maggiori. Quando tali aree fondono completamente, il ghiacciaio originario si frammenta dando vita a ghiacciai indipendenti. Ecco 83


Un secolo fa (nel 1922) Bruno Castiglioni raggiungeva la cima della Vezzàna e ammirava il panorama; il ghiacciaio della Fradùsta, ben visibile nella fotografia, faceva bella mostra di sé al centro dell’altipiano. Oggi (2018) non più. Da sinistra: Cima Lastèi, Fradùsta, Cima Canali, Pala di San Martino e Sass Màor. In alto, a destra: Ghiacciaio della Fradùsta (luglio 1923).

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spiegato l’arcano. L’aumento del numero di ghiacciai sulle Alpi non è affatto sintomo di buona salute per il glacialismo, significa anzi che i ghiacciai si stanno letteralmente frantumando, creando apparati sempre più fragili. Nel 1962 in Italia si contavano 835 ghiacciai, oggi il numero è lievitato a 903. La tendenza cambierà presto: al periodo delle frammentazioni seguirà presto quello delle estinzioni. Un altro fenomeno molto diffuso è la comparsa di nuovi laghi d’alta quota laddove prima si estendevano i ghiacciai. La ragione è dovuta all’interazione tra l’erosione operata dai ghiacciai e il loro ritiro. Come abbiamo visto, la definizione stessa di ghiacciaio, compresa quella formulata da Bruno Castiglioni13, sottende il concetto di movimento della massa ghiacciata. Migliaia di tonnellate di ghiaccio che scivolano verso valle esercitano un potere erosivo notevole, superiore a quello di qualunque altro agente naturale. È stato stimato che un ghiacciaio attivo eroda diversi centimetri di roccia ogni anno; immaginate cosa possa succedere nell’arco dei millenni. Quando i ghiacciai si ritirano,


Vista sul ghiacciaio dalla cima della FradĂšsta. Il biancore della dolomia fa risaltare i laghi formati nelle doline un tempo occupate dal ghiaccio. Fotografia di Bepi Mayerild (agosto 2017).

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Immaginate un grande lago delimitato da una morena deposta da pochi decenni. In così poco tempo i sedimenti glaciali non hanno potuto consolidarsi e la loro resistenza meccanica è scarsa. La morena potrebbe cedere all’improvviso, provocando un’inondazione distruttiva per gli insediamenti nelle vicinanze, come purtroppo capita tra le montagne asiatiche e sudamericane. E il ghiacciaio della Fradùsta in tutto questo cosa c’entra? Nel suo piccolo riassume tutto ciò. Frammentazione e nuovi laghi d’alta quota, basta dare uno sguardo alle fotografie di queste pagine per apprezzare con i propri occhi le trasformazioni cui stanno andando incontro i paesaggi glaciali sulle Alpi.

NOTE Il ghiacciaio della Fradùsta nel 2008 (fotografia di Giuseppe Lovato). Il ghiacciaio è già diviso in due porzioni indipendenti e il ritiro di quella inferiore lascia spazio alla comparsa di un nuovo lago glaciale.

lasciano libere aree profondamente incise ed erose che rapidamente raccolgono l’acqua di fusione creando nuovi laghi di origine glaciale. Erosione, ritiro, abbondanza di acqua: gli ingredienti perfetti per creare nuovi laghetti di montagna dai colori incredibili. Anche questo è infatti un merito dei ghiacciai: i colori vivaci dei laghetti glaciali sono provocati dalla presenza di sedimenti minerali fini prodotti dall’erosione; essi diffondono la luce, creando sfumature particolari. Sulle Alpi questi fenomeni sono perlopiù innocui, ma non è così in altre regioni del pianeta, dove i laghi neoglaciali rappresentano un pericolo per le comunità insediate ai piedi delle montagne. 86

Sono parole di Leslie Stephen (1832-1904), dal suo articolo The peaks of Primiero pubblicato nel numero del 1870 dell’Alpine Journal. Egli è stato uno degli alpinisti inglesi che intorno alla metà dell’800 esplorarono le Alpi. Stephen frequentò soprattutto quelle Centrali e Occidentali, ma conosceva molto bene anche le Dolomiti. Nelle Pale è stato il primo alpinista a conquistare una cima (Cima di Ball nel 1869, chiamata così proprio da Stephen in onore del suo compagno di avventure John Ball, citato nel capitolo dedicato al ghiacciaio del Travignòlo) e il suo nome è ricordato dalla forcella posta tra la cima di Ball e quella di Val di Roda (forcella Stephen). 2 Ardito Desio (1897-2001) è stato tra i più importanti geologi e geografi italiani del novecento. Vista la vicinanza anagrafica e scientifica, Ardito Desio e Bruno Castiglioni furono in contatto (si veda anche la fotografia di pagina 24). Essi seguirono percorsi simili, specie in gioventù, cimentandosi nello studio dei ghiacciai alpini: 1


Castiglioni privilegiando le Dolomiti, Desio le Alpi Giulie. Presto però i piccoli ghiacciai alpini non soddisfecero più la loro curiosità ed espansero i propri interessi alla geografia e alla geologia in senso lato. Raggiunta la maturità scientifica seguirono percorsi diversi e le loro strade si allontanarono. Ardito Desio rimase fedele alla glaciologia allargando il suo campo di studio alle montagne di tutto il pianeta; Bruno Castiglioni spostò invece l’attenzione alla geomorfologia e alla geografia umana. La fine prematura di quest’ultimo ci impedisce di proseguire nel confronto. Sono però convinto che se l’esistenza di Castiglioni non fosse stata interrotta nel 1945, oggi il suo nome sarebbe celebre tanto quanto quello del collega Desio. 3 Dall’opera di A. Desio I ghiacciai dell’Ortles-Cevedale, 1967. È la più completa monografia glaciologica mai pubblicata in Italia, un piccolo (ma nemmeno troppo viste le oltre mille pagine) capolavoro, un prodotto scientifico e divulgativo d’altri tempi. 4 Mappa presente nella citata opera I ghiacciai delle Alpi Venete (1910). 5 L’altimetro aneroide è uno strumento che misura le variazioni della pressione atmosferica. Essa è influenzata dall’altitudine, ma anche dalle condizioni meteorologiche e dalle loro brusche variazioni, tanto comuni in montagna. 6 Tante unità di misura sono utilizzate per la pressione atmosferica, qui si fa riferimento ai millimetri di mercurio, una delle più antiche (mmHg o torr).

Completamente privo dello strato di neve superficiale. Dove la neve, a causa della fusione è impregnata di acqua liquida. 9 Dalla pendenza dei versanti dipende l’esposizione alla luce solare. Tanto è maggiore e tanto più ridotta è la quantità di energia solare incidente sulla superficie. 10 Depressioni del terreno tipiche negli ambienti carsici. Sono provocate dal crollo di cavità sotterranee create dall’azione dell’acqua. Il termine carsismo (dalla regione del Carso, dove è tipico) si riferisce a un fenomeno che caratterizza le superfici dove affiorano rocce carbonatiche, come la dolomite e il calcare. Esse reagiscono chimicamente con l’acqua piovana, dissolvendosi progressivamente. L’erosione chimica favorisce la formazione nella roccia di fessurazioni, inghiottitoi e doline. Queste spaccature raccolgono le acque superficiali e le convogliano in profondità, rendendo l’ambiente superficiale arido. Per questo l’altipiano delle Pale è un deserto di pietra. 11 Al giorno d’oggi questa è fantascienza. Un glaciologo che misura un ghiacciaio alpino sa con quasi totale certezza che registrerà un ritiro; all’epoca non era scontato. 12 I dati discussi in questo paragrafo sono tratti dal Nuovo catasto dei ghiacciai italiani, a cura di Claudio Smiraglia e Guglielmina Diolaiuti, 2016. Liberamente scaricabile dal sito: http://users.unimi.it/glaciol/. 13 Vedi pagina 63. 7 8

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Il ghiacciaio della Pala nell’agosto 1927.


IL GHIACCIAIO DELLA PALA RASCHIARE IL FONDO DEL CATINO

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n estate la funivia della Rosetta funziona senza sosta, catapultando migliaia di persone ai 2654 metri del grande altipiano delle Pale di San Martino. Quando le porte della cabina si aprono, ci si trova sospesi in un mondo di bianche distese rocciose, silenzi e suggestioni. Se il sole splende, la dolomia con il suo pallore fa risaltare i colori del cielo; quando arriva la nebbia ogni riferimento è perduto. Molti degli escursionisti che raggiungono l’altipiano si dirigono alla vicina Cima Rosetta, da cui si gode una splendida vista del gruppo delle Pale, dell’altipiano e di San Martino di Castrozza. Un simile panorama distoglie però l’attenzione dal ghiacciaio della Pala che dalla Rosetta è ben visibile. È questo un piccolo apparato, per molti versi simile a quello del Travignòlo. In primis, sebbene entrambi possano essere osservati dai luoghi più frequentati delle Pale, solo pochi rivolgono ad essi lo sguardo, confusi forse dalle tante altre bellezze alpine. Vi sono poi altre analogie tra i due ghiacciai, ma anche qualche differenza.

Diversamente simili I contesti che contornano il ghiacciaio del Travignòlo e quello della Pala sono simili: entrambi sono confinati in profondi valloni, protetti da ripide pareti rocciose che li schermano dai raggi del sole e aiutano l’accumulo della neve di valanga. Il primo dei due ghiacciai si trova tra Vezzàna e Cimòn, il secondo riempie l’anfiteatro che si apre tra il versante settentrionale della Pala di San Martino e l’orlo meridionale dell’altipiano. Occupare angoli nascosti e riparati non è una caratteristica esclusiva di questi due ghiacciai: a parte la Fradùsta, tutti i ghiacciai delle Pale si trovavano in luoghi incassati e solitari, dove le condizioni locali erano favorevoli alla conservazione di neve e ghiaccio. Eppure, nonostante le evidenti somiglianze, non è poi così difficile trovare delle differenze tra il Travignòlo e il ghiacciaio della Pala. Innanzitutto, il primo si trova nella catena settentrionale delle Pale, quello della Pala in quella di San Martino, più a sud di qualche chilo89


metro. Vi sono poi anche delle differenze morfologiche: il ghiacciaio del Travignòlo occupa un vallone ben definito che con un unico salto collega i tremila metri di Passo Travignòlo alla Val Venégia, mille metri più in basso. Tale morfologia favorì lo sviluppo di una lingua glaciale evidente, facendo sì che il ghiacciaio fosse classificato come di vallone. Il contesto morfologico che caratterizza il vallone del ghiacciaio della Pala mostra delle caratteristiche meno mature. Esso non è infatti ben sviluppato e non raggiunge direttamente il fondovalle, ma confluisce nella Val di Roda all’altezza del dosso roccioso noto come Colle delle Fede. Altro segno di immaturità morfologica è la pendenza irregolare. Nel vallone della Pala si distinguono due regioni: quella superiore, occupata dal ghiacciaio, è ampia e relativamente spianata, quella inferiore è invece ripida e impervia. Osservare delle conche caratterizzate da scarse pendenze e circondate da ripide pareti non è insolito negli ambienti glaciali, il termine corretto per descrivere tali strutture è circo o catino (cadino nelle Dolomiti). Essi sono delle depressioni a forma di anfiteatro, spesso separate dalle vallate sottostanti da una soglia rocciosa più o meno pronunciata. Essa può essere un dosso di pochi metri o una vera e propria parete che rende difficoltoso l’accesso al circo. Nel caso del ghiacciaio della Pala la soglia è evidente: è posta un centinaio di metri al di sotto dell’attuale fronte glaciale e per essere superata richiede alcuni passi delicati. Una volta superatala si giunge però ad A sinistra: Il ghiacciaio della Pala nell’agosto 2017. L’apparato occupa il fondo di un evidente catino ed è abbondantemente ricoperto di detrito. Pagina a fronte: Da una certa distanza sembrerebbe che il ghiacciaio della Pala abbia lasciato posto a una distesa di detriti. Avvicinandosi è però chiaro che la copertura detritica nasconde uno spessore di ghiaccio notevole, capace di dar vita a crepacci e inghiottitoi.

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Particolari del ghiacciaio della Pala, immortalati nell’agosto 1925. Le fotografie a sinistra mostrano la zona frontale dell’apparato: si apprezza la zonatura del ghiaccio ed evidenti crepacci. A destra il vallone del ghiacciaio osservato dal sentiero che risale la Val di Roda e raggiunge l’altipiano delle Pale.

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un ampio anfiteatro, un vero e proprio tempio della montagna selvaggia. Salendo il vallone, l’atmosfera che aleggia è quasi opprimente, poiché da ogni parte lo sguardo è chiuso da pareti tetre, solcate da colate nere che sottendono stillicidi e umidità perenne. Un vento gelido soffia da monte e non è possibile trovare un masso illuminato dove sostare per scaldarsi, perché tutto è in perenne ombra. Lo scenario però cambia non appena si oltrepassa la paretina che definisce la soglia del catino. Una volta superatala si entra in un vasto pianoro dove i raggi del sole filtrano tra le cime: è il catino del ghiacciaio della Pala. A prima vista sembrerebbe che il ghiacciaio sia scomparso, lasciando dietro di sé un cumulo di detriti, ma a ben vedere sotto ai massi si nasconde ancora una mole di ghiaccio considerevole, come si può vedere a pagina 91. Nel caso del ghiacciaio del Travignòlo la tipica struttura a circo, sebbene presente, è meno facilmente individuabile, così come assente è la soglia rocciosa che separa la parte alta del vallone da quella inferiore. Queste differenze morfologiche hanno fatto sì che i due ghiacciai fossero classificati diversamente: di vallone quello del Travignòlo, di circo quello della Pala, anche se quest’ultimo è stato dichiarato estinto ed è ora considerato un glacionevato. Alla pagina successiva è mostrata l’evoluzione del ghiacciaio della Pala nell’arco dell’ultimo secolo. È evidente che la massa di ghiaccio è diminuita; un tempo l’apparato era gonfio di ghiaccio e in procinto di superare la soglia del catino con una colata. Un secolo di fusione ha però intaccato quel patrimonio di acqua solida e lo spessore del ghiacciaio si è ridotto a poche decine di metri incollate al fondo dell’anfiteatro. Stiamo ormai raschiando il fondo, ancora qualche anno e anche il ghiacciaio della Pala scomparirà.

Alpinismi d’altri tempi Non sono solo le caratteristiche glaciologiche e morfologiche a rendere simili i ghiacciai del Travignòlo e della Pala, anche gli alpinisti con le loro prime imprese esplorative hanno contribuito a intrecciare la storia dei due ghiacciai. Il Cimòn de la Pala che incombe con le sue guglie sul ghiacciaio del Travignòlo, fu vinto nel 1870 da Tuckett, Whitwell e guide, sfruttando il ghiacciaio per innalzarsi sulla montagna e sferrare l’attacco decisivo. Forse non tutti sanno che due giorni prima, Whitwell, insieme alle stesse guide (Lauener e Siorpaes), aveva rivolto le sue attenzioni a un’altra cima inviolata della Pale: la Pala di San Martino, – allora nota come Palle di San Martino, per via di un errore di traduzione –. Gli alpinisti tornarono sui propri passi ben prima di calcare la cima, bloccati da un gigantesco masso che sbarrava il canalone prescelto per il tentativo. Evidentemente la sconfitta non li scoraggiò visto che due giorni più tardi conquistarono il Cimòn. Tra questo primo tentativo e la conquista della Pala trascorsero otto anni, durante i quali tante cordate assediarono la vetta da ogni versante. L’attenzione era dovuta sì alla severa bellezza di questa cima, ma anche a un errore dei topografi austriaci che indicarono per essa una quota di oltre 3300 m, rendendola una delle cime dolomitiche più alte. L’errore fu corretto solo negli anni 1870, ma la corsa alla cima era ormai stata lanciata. L’attacco vittorioso fu sferrato nell’estate del 1879 dal tedesco Julius Meurer e dall’austriaco Alfred von Pallavicini, guidati dal solito Santo Siorpaes (la stessa guida a capo della cordata che vinse il Cimòn) e Arcangelo Dimai, entrambe celebri guide ampezzane. La comitiva impiegò un’intera settimana per individuare la via di salita migliore. Era chiaro che l’unico modo 93


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per vincere la Pala sarebbe stato quello di studiarla con metodo scientifico, ispezionandone ogni versante, cresta e parete. Nulla andava improvvisato, ma come in una partita a scacchi, ogni volta che gli alpinisti tentavano una mossa per approcciare la montagna, questa rispondeva con nuove difficoltà impreviste. A sbloccare l’impasse fu il minuscolo ghiacciaio della Pala, nascosto ai piedi della cima. Come il ghiacciaio del Travignòlo aveva rappresentato la porta di accesso per il Cimòn de la Pala, allo stesso modo quello della Pala fu la soluzione alla salita della omonima cima. Meurer e compagni lo percorsero interamente, riducendo il più possibile le difficoltà su roccia e innalzandosi verso la cima. Ripercorriamo il racconto dello stesso Meurer, pubblicato nel nono volume dell’Alpine Journal (1878-1880): Partimmo1 il 23 di giugno alle quattro antimeridiane da San Martino con il portatore Michele Bettega di San Martino2; raggiungemmo – aggirando il basamento di Cima Rosetta e percorrendo il ripido pendio che si cela dietro di esso – il termine del ghiacciaio che era in quei giorni ancora ben coperto dalla neve. Dopo aver risalito il ghiacciaio, avendo arrampicato per quattro ore, eravamo già molto in alto, abbarbicati al ghiaccio che si nasconde nei recessi della parete che unisce la Pala di San Martino alla Rosetta3. Questo ghiacciaio si esaurisce nella sua parte superiore in un ripido canale che corre sulla parete nord della Pala stessa, fino all’intaglio che separa quest’ultima dalla Cima Rosetta4. La salita continuò poi in uno stretto e ripido canalino alla destra del ghiacciaio, non senza considerevoli difficoltà. Ci spostammo ancor più verso destra per attraversare un piccolo Bergschründe5 che richiese attenzione. All’improvviso ci trovammo di fronte a una parete verticale. Il suo superamento è in effetti, non tanto in salita quanto

Il versante orientale del massiccio della Pala, osservato da Bruno Castiglioni nell’agosto 1926 dalla Cima da Lago. Da sinistra: Campanile Pradidali, Cima Pradidali, Cima Immink, Pala di San Martino. Il canalone che divide Cima Immink dalla Pala di San Martino fu il teatro del primo tentativo di salita alla Pala a opera di Whitwell e compagni nel 1870. Pagina a fronte: Il ghiacciaio della Pala ripreso dalla Cima Rosetta nel 1922 e nel 2017. Il catino è ormai quasi sgombro dal ghiaccio.

in discesa, il tratto più pericoloso dell’intera salita. Al di sopra della parete la salita procedette spedita attraverso facili roccette, ma ben presto dovemmo affrontare una nuova difficoltà. Avendo superato una sottile cresta al culmine di una ripidissima parete, trovammo la strada sbarrata da un orribile colatoio di sfasciumi che sembrava impossibile da aggirare. Fu solo dopo un’attenta ricerca che la coraggiosa guida Santo Siorpaes, trovò una via d’uscita attraverso un angusto camino. Nel superare questo difficile tratto la guida Dimai fu colpita in testa da una pietra smossa dallo scorrere della corda – un incidente che avrebbe facilmente potuto avere

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La Pala e il torrente alimentato da ciò che rimane del ghiacciaio.

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serie conseguenze. Da lì in poi il percorso si mantenne molto ripido, ma meno pericoloso rispetto al passaggio precedente. Infine, fu raggiunta una placca di ghiaccio e da qui in un quarto d’ora fummo in cima. Era mezzogiorno e la Pala era conquistata.

E così la Pala fu l’ultima delle cime principali delle Pale di San Martino a essere conquistata. Il ritardo e il numero di tentativi che furono necessari non dipendono dalle sole difficoltà che questa cima seppe opporre. Infatti, la salita alla vetta fu presto giudicata di media difficoltà e pochi anni dopo la conquista le ripetizioni erano già numerose. Fu la conformazione della montagna a tenere gli alpinisti lontani dalla vetta. Da ogni lato la Pala oppone pareti verticali e gli unici punti deboli sono dei ripidi e tetri colatoi spesso intasati da neve e ghiaccio che non invitavano certamente alla salita. I vincitori riuscirono però a individuare quello più facile da raggiungere grazie alla presenza del ghiacciaio. Proprio come nel caso del Cimòn, anche la prima via di salita alla Pala venne abbandonata ed è oggi dimenticata. Entrambi i percorsi erano oggettivamente pericolosi, inoltre il ritiro dei due ghiacciai rese sempre più problematico il passaggio dal ghiaccio alla roccia. Non appena fu trovata una via più sicura, entrambi gli itinerari vennero ignorati.

NOTE Meurer, Pallavicini, Siorpaes e Dimai. In pochi anni Michele Bettega sarebbe diventato una delle più celebri guide dolomitiche. 3 Le indicazioni sono imprecise. Meurer si riferisce alla bastionata che unisce il versante settentrionale della Pala al bordo dell’altipiano; la Rosetta rappresenta in effetti il culmine orientale di tale bastionata, ma è ben distinta rispetto alla mole della Pala da un evidente intaglio (Passo di Val di Roda) e una serie di cime secondarie (Roda, Rodetta, delle Scarpe). 4 Anche qui si tenga in considerazione che l’autore indica con Rosetta l’intero margine sudorientale dell’altipiano. Il passo è in realtà l’intaglio tra la cresta NW della Pala e la calotta sommitale. 5 In tedesco nel testo, «crepaccio terminale». 1 2

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La fronte del ghiacciaio del Mà rmor. Nonostante le dimensioni minime, questo ghiacciaio aveva un fascino unico grazie alla grande grotta di ghiaccio che lo contraddistingueva. La fotografia (del 1907) è di Olinto Marinelli ed è presentata nel suo I ghiacciai delle Alpi Venete del 1910.


IL GHIACCIAIO DEL MÀRMOR GHIACCIO SEPOLTO DALLA ROCCIA

N

ella catena settentrionale delle Pale di San Martino abbiamo incontrato quattro ghiacciai: del Focobòn, delle Ziròccole, di Strutt e del Travignòlo. Più a sud, nel settore centrale del gruppo, fanno capolino i ghiacciai della Fradùsta e della Pala. Per completare la rassegna rimane da studiare un’ultima sezione del gruppo montuoso: il massiccio della Croda Granda e dell’Agnèr (o Catena Meridionale). Si trovava qui il settimo e ultimo ghiacciaio delle Pale, quello del Màrmor, nascosto tra pareti severe e poco conosciute, ai margini orientali di queste montagne. Anche i più preparati conoscitori delle Pale potrebbero avere delle difficoltà a collocare sulla cartina il ghiacciaio del Màrmor. Non ci si deve sorprendere: è un ghiacciaio misterioso. Quando cominciai a raccogliere informazioni sugli apparati glaciali delle Pale di San Martino, rimasi sorpreso nel leggere della sua esistenza: non ne avevo mai sentito parlare. Eppure, pensavo di conoscere bene queste montagne. La prima cosa che feci fu recuperare qualche sua fotografia e non fu facile. Dopo aver cercato in lungo e in largo, riuscii a trovare

due scatti d’epoca. Entrambi, come era da aspettarsi, portano la firma di Olinto Marinelli, e ritraggono il ghiacciaio all’inizio del XX secolo. Uno di essi è proposto qui sotto: basta uno sguardo per cogliere il senso di mistero che ne scaturisce. Quella oscura caverna che si apre nel ghiaccio – enorme se confrontata alle dimensioni dell’apparato – dove porta? Come si è creata? Esiste ancora? Tante domande ispirate da una fotografia. Non esagero nel dire che siano state proprio queste impressioni a convincermi una volta per tutte a dedicarmi a questo lavoro. Nel ghiacciaio del Màrmor ho colto l’emblema stesso dei ghiacciai delle Pale di San Martino: piccoli e selvaggi, ma allo stesso tempo affascinanti e ricchi di storia, sebbene poco conosciuti. L’oscurità della grotta di ghiaccio andava illuminata. Màrmor. Rispetto ai tipici toponimi delle Pale di San Martino, il nome di questo ghiacciaio è insolito. Focobòn, Cimòn, Mulàz; tra queste montagne, a cavallo tra Veneto e Trentino, buona parte dei toponimi è tronca, con l’accento sull’ultima vocale. Màrmor al 99


Uno schizzo del massiccio della Croda Granda preparato da Bruno Castiglioni. Dal suo diario di campo del giugno 1924. In alto: La valle di Angheràz e le cime che la coronano. A sinistra si riconosce l’inconfondibile Agnèr, alla testata della valle svetta invece la Croda Granda con i suoi innumerevoli satelliti. Il ghiacciaio del Màrmor non è semplice da individuare a causa dei tanti nevai. Corrisponde alla macchia di neve più estesa, a sinistra, che occupa il canalone tra le Cime del Màrmor e quella del Coro (anni 1920).

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contrario, ha l’accento sulla prima sillaba suggerendo un’origine diversa. Questo nome ha infatti origine latina: Marmor indicava il marmo, una roccia scintillante come la neve. Ecco quindi svelata l’origine di questo toponimo. Esiste un’altra celeberrima vetta delle Dolomiti il cui nome ha una derivazione simile: la Marmolàda, che con il grande ghiacciaio è sicuramente la più bianca delle cime dolomitiche. Il ghiacciaio del Màrmor si trovava alla testata della valle di Angheràz (o Angoràz), il ramo superiore della Valle di San Lucano, nella parte centrorientale delle Pale. È una delle regioni più solitarie del gruppo. La severità delle pareti che qui si ergono dal fondovalle – tra cui vale la pena citare la più alta parete di tutte le Dolomiti, la nord dell’Agnèr – ha impedito il proliferare dei sentieri, limitando fortemente la frequentazione di questi monti. Gli escursionisti che si avventurano fin qui, percorrono le poche ferrate che raggiungono gli spalti rocciosi. Per il resto, la catena definita dai due massici della Croda Granda e dell’Agnèr, è il regno degli alpinisti e di chi ama avventurarsi fuori sentiero. A testimonianza di ciò i tanti personaggi di prim’ordine che hanno lasciato un segno tra queste cime. Primo fra tutti il fratello di Bruno, Ettore Castiglioni, ma egli non è certo il solo, a fargli compagnia ci sono personaggi del calibro di Emilio Comici, Reinhold Messner, Alfonso Vinci e tantissimi altri che hanno scelto le pareti delle Valli di San Lucano e di Angheràz per aprire importanti vie di arrampicata. Queste montagne hanno attratto l’élite dell’alpinismo per oltre un secolo, ma anche in tempi più recenti hanno stuzzicato l’interesse di importanti interpreti dell’alpinismo esplorativo.


Primati di un piccolo ghiacciaio Il ghiacciaio del Màrmor riempiva il ripido canalone che si incunea tra le tre cime del Màrmor, la cima del Coro e quella di Alberghetto. L’ambiente in cui si sviluppava era molto protettivo: tre lati su quattro del ghiacciaio erano sovrastati da pareti, mentre l’unico lato scoperto era rivolto a nord. Il ghiacciaio era perciò in ombra per buona parte della giornata e la neve poteva conservarsi efficacemente sulla sua superficie. Condizioni così favorevoli spiegano perché il ghiacciaio del Màrmor fosse il ghiacciaio situato alla quota più bassa di tutte le Dolomiti. Sia Olinto Marinelli

che Bruno Castiglioni stimarono che la posizione della sua fronte si trovasse a poco più di 2000 metri e che la parte superiore del ghiacciaio non superasse i 2500 m. Sono valori davvero eccezionali che testimoniano condizioni microclimatiche particolari; basti pensare che a 2000 metri spesso si incontrano i larici solitari, non certo il ghiaccio perenne. Per trovare dei ghiacciai che potessero competere con quello del Màrmor da questo punto di vista, era necessario spostarsi dalle Dolomiti alle Alpi Giulie, dove l’influenza dei gelidi venti balcanici e l’abbondanza delle nevicate garantivano agli apparati di questa regione1 quote frontali molto basse. Il basso limite glaciale di questi apparati

Il ghiacciaio del Màrmor: un ripido scivolo di ghiaccio. Da questa fotografia è facile osservare come le cime circostanti proteggessero l’apparato dal sole, permettendo alla neve di conservarsi a lungo (1935).

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Il trittico delle cime del Màrmor, osservato dai pendii che portano alla Croda Granda. Il ghiacciaio non è visibile poiché si trova sul versante opposto a quello immortalato. In basso è mostrato lo schizzo che Bruno Castiglioni riportò sul retro della fotografia (speculare rispetto a essa): data e ora di scatto, toponimi, quote, tutto è indicato con scrupolo. Da questi dettagli si coglie la precisione di Castiglioni. Grazie ad essi non è stato difficile inquadrare le centinaia di scatti che prese tra le Pale. L’unica cima non indicata (quota 2728 m., a sinistra nella fotografia e a destra nello schizzo) è la Cima dei Vani Alti.

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era dovuto ai fattori favorevoli che caratterizzavano il loro bacino di accumulo. Nel caso del Màrmor abbiamo già parlato della presenza di ripide pareti che facilitavano le valanghe e proteggevano l’apparato dai raggi solari, bisogna però anche considerare che il ghiacciaio era posto in un settore periferico delle Pale, rivolto verso le Prealpi e la pianura veneta. Anche questa era una caratteristica importante poiché garantiva nevicate più abbondanti rispetto ai settori interni del gruppo. È infatti comune che le precipitazioni siano maggiori ai margini dei gruppi montuosi rispetto al loro interno. Ciò è dovuto al fatto che i margini dei massicci montuosi sono vere e proprie barriere per le correnti d’aria e le obbligano a risalire verso l’alto, provocando un repentino raffreddamento e facilitando le precipitazioni. Nelle parti interne dei gruppi alpini le correnti d’aria giungono quindi dopo aver già scaricato parte della loro umidità. Per questo è tipico che la quantità totale di precipitazioni al suolo sia maggiore nelle zone periferiche dei gruppi montuosi rispetto alle regioni più interne. Bruno Castiglioni studiò questi fenomeni, tentando di quantificare quanto il contesto locale favorisse il ghiacciaio del Màrmor. Confrontandolo con gli altri apparati delle Dolomiti, egli stimò che le condizioni ambientali e microclimatiche determinavano nei dintorni di questo ghiacciaio un abbassamento del limite locale delle nevi di circa 600 metri. In altre parole, il Màrmor, grazie a caratteristiche particolari, era in grado di conservare la neve con la stessa efficacia di un ghiacciaio situato 600 m più in alto, ovvero un apparato la cui fronte si trovasse intorno a 2600-2700 m. Pochi altri ghiacciai dolomitici potevano contare su condizioni al contorno tanto favorevoli: sempre secondo Castiglioni, questi erano il ghiacciaio Basso


di Popèra, quello Orientale di Sorapìss e il minuscolo apparato della Val d’Arcia nel gruppo del Pelmo2. All’inizio del ’900 Olinto Marinelli indicava per il ghiacciaio del Màrmor una superficie di soli sette ettari. Tra gli anni ’20 e ’30, Castiglioni segnalava una superficie di cinque ettari. Ciò significa che il ghiacciaio del Màrmor poteva essere ospitato all’interno di un piccolo parco cittadino. D’altronde un ghiacciaio sviluppato a una quota così bassa non poteva certamente raggiungere dimensioni maggiori. L’influenza del microclima favorevole che ne garantiva la sopravvivenza si limitava al fondo di quell’unico vallone che occupava. Al di fuori di quell’ambiente localizzato le condizioni cambiavano repentinamente, rendendo impossibile la conservazione di neve e ghiaccio perenni. Si potrebbe pensare che un ghiacciaio così piccolo fosse insignificante da un punto di vista glaciologico. Niente di più sbagliato. Per renderci conto del dinamismo e della diversità di forme che lo caratterizzavano riprendiamo la prima descrizione di questo ghiacciaio. Autore ne fu Giovanni Chiggiato3, il quale insieme al geografo e glaciologo Olinto Marinelli e alla guida Serafino Parissenti4 raggiunse il ghiacciaio nell’agosto 1907. Ecco il racconto di quella giornata, una suggestiva commistione di scienza e alpinismo5: Ho fatto tanto alpinismo semplicemente per mio svago, per dirmi, fra i miei ricordi, «su quella cima ci son salito, e fu per me una bella giornata» e non altro, che quando uno scienziato di ben chiara fama mi annunziò una sua escursione nel gruppo delle Pale per istudiarne i ghiacciai e propose a me, profano, d’essergli buon compagno in tale impresa, dapprima la mia meraviglia fu grande, poi, accettando, mi parve di dare a quelle mie predilette montagne la maggior prova d’amore. Quell’invito lo dovevo alle salite da me compiute l’anno

precedente su alcune cime della catena settentrionale del gruppo, allora, prima della costruzione del rifugio del Mulàz, quasi ignote agli alpinisti italiani. Non sono proprio sicuro di aver reso un grande servigio alla scienza, ma so ora per certo d’aver fatto un grande piacere a me stesso, quando nell’agosto scorso presi quella deliberazione, che quasi mi parve coraggiosa. Fra i miei ricordi di vita alpina poche giornate furono al pari di queste piacevoli, varie, piene, intense, ferventi. Merito delle Pale stupende e del cielo benevolo; ma più che tutto, e vada a lui da queste pagine il mio ringraziamento, merito di Olinto Marinelli. Rimanemmo insieme una settimana e visitammo i ghiacciai del Marmor, della Fradusta, della Pala, di Travignolo e del Focobòn, e da Cortina di Ampezzo i nevai (non ghiacciai, come molti li credono) delle Tofane. Poi il congresso di Varallo mi richiamò al Monte Rosa, e dovei rinunziare alla cara compagnia. In attesa che l’amico e consocio, che è anche Presidente della Società Alpina Friulana, pubblichi i risultati scientifici di questa e delle sue precedenti esplorazioni in una monografia6, a cui egli lavora assiduamente da parecchi anni, credo bene dar qui relazione di quella fra le nostre traversate, che a mio avviso assunse vera importanza alpinistica. E ciò tanto più mi pare opportuno, trattandosi di un gruppo di montagne che nella letteratura alpina sembrano oggi spettare esclusivamente, per diritto di conquista, ai nostri buoni colleghi tedeschi. La mattina del 20 agosto da Belluno partimmo per Agordo, dove ci aspettava Serafino Parissenti, una delle migliori tra le guide agordine, le quali, come si sa, sono poi le migliori del Veneto, a merito specialmente di Tomé, che, come presidente di quella sezione del C.A.I., volge a tal problema le più intelligenti cure. Compiuto il nostro approvvigionamento, una carrozzella a due cavalli ci portò nel pomeriggio a Taibòn e su per l’erta e stretta strada della Valle di San Lucano fin oltre il villaggio di Prà. Prima

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delle case di Col proseguimmo a piedi, svoltando subito a sinistra. Ci si apriva così di fronte da N a S la lunga e misteriosa val d’Angoràz, fiancheggiata a Ovest dalle ripide pareti rocciose che con un salto di più che mille metri calano dall’altipiano delle Pale; a Est dalla catena quasi rettilinea che dall’Agnèr mette alla Croda Grande attraverso le masse e i pinnacoli dei Lastèi dell’Agnèr, del Sasso delle Capre, della Cima della Beta; e a Sud sbarrata dalle Cime del Màrmor, dalla Cima del Coro e dalla Cima d’Alberghetto, formidabile muraglia che la separa dalla Val Canali. […] Fra la cresta delle Cime del Màrmor e quella di Cima dell’Alberghetto s’adagia un piccolo ghiacciaio, ben visibile dalla valle e non mai finora esplorato dagli studiosi della glaciologia delle Alpi Orientali. Era esso la cagione della nostra venuta in Val d’Angoràz. Ma al tema scientifico s’intrecciava un problema alpinistico e turistico, che ci parve di singolare interesse non solamente per noi: raggiunto il ghiacciaio, anziché ritornare per la medesima via, era possibile scoprire nella cresta terminale di val d’Angoràz una forcella, donde calare in val Canali? Basta dare uno sguardo a una carta della regione per notare come la val di Canali, molto battuta dagli alpinisti, specialmente dopo che la Sezione di Dresda del C.A. Tedesco-Austriaco vi costruisse un rifugio, apparisca come la continuazione naturale della val d’Angoràz. Se un valico accessibile a tutti collegasse direttamente le due vallate, tornerebbe inutile d’ora innanzi, per andare al rifugio Canali, seguire nelle sue lunghe aggirate il sentiero monotono, interminabile, segnato di rosso, che parte da Taibòn e va a raggiungere prima la forcella di Miel e poi quella di Canali. […] Conversando di tutto ciò e dolendoci insieme per il fatto di non aver portato con noi la relazione, che solo più tardi ci riuscì di rintracciare, dei nostri predecessori7, in meno di due ore risalimmo per dolci pendii i sentieri

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della valle, tutta boscosa d’abeti, che però si van diradando nella parte alta. Non vi sono in tutta la valle che due casere, e di queste una, la casera più alta (m 1309), che avevamo prescelto per passarvi la notte, la trovammo disabitata e abbandonata. Non piccola delusione per chi si aspettava un po’ di latte per la sua sete e un po’ di fieno per giaciglio. Ma, delusione anche maggiore: niente acqua nelle vicinanze della casera. Buona scuola di pazienza la montagna! […] Dopo una notte passata sul duro tavolato, durante la quale un ostinato stillicidio ci ammonì troppo spesso che il tempo minacciava di mandar a monte, non noi, ma la nostra gita, e che il tetto della casera mancava di qualche scandola, alle 5,30 del 21 lasciammo la casera con la speranza, che presto si fece certezza, d’una bella giornata di sole. La nostra via era già stata da noi riconosciuta per buona nel primo tratto, e imboccammo il ripido canalone, coperto di neve dura. […] Superammo il canalone abbastanza rapidamente ed agevolmente e con molta soddisfazione osservammo che alla sua sommità (m 1800 circa) si apriva alla nostra destra un seguito di cenge, sulle quali era facile spingersi obliquamente in direzione del ghiacciaio invisibile. Non ci eravamo sbagliati nel segnarci la via. E di là da un ripido costolone, che prometteva buona la salita, era facile indovinare la presenza del ghiacciaio, tanto più che da quel lato ci giungeva di tratto in tratto un fragore di cannonata, che non sapevamo a che mai attribuire. Alle 12,15, superata la morena destra, la nostra compagnia, molto lieta della mezza vittoria già conseguita, toccava il limite inferiore del ghiacciaio. È questo uno dei ghiacciai che più scendono in basso nelle Alpi Venete, poiché non eravamo che a m. 2091. E anche uno dei più variati e caratteristici, perché, piccolo com’è, presenta riuniti e, direi, condensati nel breve spazio, i fenomeni dei suoi più illustri fratelli maggiori, i più complicati crepacci,


Vedute ravvicinate del ghiacciaio del Màrmor. Sulla sinistra la grotta di ghiaccio che ne distingueva la fronte. La grotta appare notevolmente trasformata da quando la visitò Olinto Marinelli (si veda la fotografia di pagina 98): è meno profonda e definita. Causa di ciò fu il ritiro che il ghiacciaio subì tra quella prima visita e le successive di Castiglioni e Vianello negli anni ’20 e ’30. Queste fotografie furono scattate da essi proprio durante quei rilievi (archivio del Comitato Glaciologico Italiano).

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tutte le gradazioni dell’azzurro della Grotta Azzurra, e una grande caverna che risuscita dai terrori della nostra infanzia l’idea di un mostro con le fauci spalancate, e tanto più se di tanto in tanto il mostro vomita una grandinata di frammenti di ghiaccio, come ci avvenne d’osservare due volte. Erano questi i rombi misteriosi che avevamo avvertiti prima, cammin facendo. Rimanemmo lassù un paio d’ore: ma non furono ore d’ozio. Prima di tutto la colazione sulla sponda sinistra del ghiacciaio; poi la misurazione di esso, in senso proprio e non figurato, di venti in venti metri, e della sua inclinazione; poi due segni rossi sulle rocce laterali a 2112 e 2156 m. Così, se il ghiacciaio avanza o si ritira, lo sapremo fra qualche anno da Olinto Marinelli in uno dei suoi magistrali studi sulle Alpi Venete. Confesso che se il ghiacciaio si ritirasse anche di pochi metri mi dorrebbe, perché oramai gli sono affezionato. E poi, oltre a tutto questo, galoppa, fantasia; apriti, anima! Non mi sarei mai saziato di ammirare di lassù la val d’Angoràz, così verde, così selvatica, e di ammirare di laggiù quella corona di cime superbe che tagliavano il cielo zaffiro… Ogni cima un progetto di salita, una nuova via da intraprendere, una promessa di ritornare, perché oramai è troppo tardi per tentare la Cima meridionale del Màrmor, o la Cima del Coro, o la Cima di Alberghetto, e, nell’incertezza di poter passare in val di Canali, non vogliamo che la sera ci colga su quelle rocce. A miglior tempo, dunque: vette, ritornerò; ghiacciaio del Màrmor, ci rivedremo! Alla seconda parte della nostra giornata non avrebbe potuto meglio sorridere la fortuna. Dopo altre misurazioni, in due ore di facile traversata, scollinando (dicono i toscani delle loro montagne) per ghiareti cosparsi di zolle erbose dapprima, poi per un seguito di scaglioni, senza bisogno di legarci, senza aiuto delle mani se non a un’ultima cengia, dove la roccia è friabilissima, giungemmo alla sella che nella tavoletta è segnata m. 2362

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e che avevamo appunto intravveduto la sera prima dalla val d’Angoràz. La vittoria è piena: una rapida scivolata, e siamo sul sentiero che scende dalla forcella dei Canali, un breve riposo, e via. Alle 17,30 solenne ingresso nel rifugio di Val Canali8.

Osservare i ghiacciai Nonostante le dimensioni limitate, il ghiacciaio del Màrmor è stato capace di attrarre numerosi glaciologi. Questo non è però così insolito. Spesso tanto più piccolo e caratteristico è un ghiacciaio e tanto più è forte l’attaccamento che si crea tra il ghiacciaio e chi si assume l’incarico di monitorarlo. Per i non addetti ai lavori ciò potrebbe sembrare strano, per non dire bizzarro. Provare attaccamento per un ghiacciaio? Sono sicuro che gli appassionati di questi temi sappiano di cosa stia parlando. Anche Giovanni Chiggiato, quando racconta che sarebbe stato addolorato dal ritiro del ghiacciaio del Màrmor, ci dà una dimostrazione di ciò. Queste reazioni sono tipiche per gli studiosi e per i volontari che ancora oggi raggiungono le fronti dei ghiacciai per misurarne le variazioni. La ragione del legame tra i piccoli ghiacciai e i loro osservatori è duplice. Da un lato i ghiacciai minori sono i più vulnerabili nei confronti del cambiamento climatico: è dato per certo che – a meno di un’improbabile sterzata climatica – i piccoli ghiacciai alpini presto scompariranno. Si può forse rimanere indifferenti nei confronti di ambienti così fragili e compromessi? L’altro fattore che ci lega ai piccoli ghiacciai è la loro posizione, spesso nascosta in angoli selvaggi, dove si coglie un senso di bellezza incontaminata. Spingersi lassù dove il ghiaccio sta scomparendo, sprigiona emozioni complesse, che si fanno a ogni ritorno più forti. Se negli ultimi cento anni noti e famosi


glaciologi si sono dedicati allo studio dei ghiacciai delle Pale di San Martino, lo dobbiamo anche a queste motivazioni e non soltanto all’interesse scientifico. Se così non fosse sarebbe arduo comprendere perché Bruno Castiglioni visitò decine di volte queste montagne. Tra i tanti collaboratori che lo affiancarono durante le attività di monitoraggio, merita una menzione particolare il trevigiano Giulio Vianello, detto anche el Dotòr (Treviso, 1874-Treviso, 1955). Questi era il più fidato e attivo compagno di Bruno Castiglioni durante i rilievi dei ghiacciai delle Pale. Nonostante i percorsi professionali diversi – Castiglioni era un geografo, Vianello un medico – e oltre vent’anni di età di differenza, i due erano uniti da una profonda passione per la montagna, per la glaciologia e per le Pale di San Martino. Vianello oltre che medico e glaciologo dilettante, era un attivo membro della sezione del Cai di Treviso, di cui fu fondatore e primo presidente. Il settore delle Pale che prediligeva era proprio quello che fa da contorno al ghiacciaio del Màrmor. Il suo nome è oggi ricordato dall’itinerario che collega la Valle di Angheràz alla Val Canali, che è infatti noto come il Sentiero del Dottor (o Ferrata dell’Orsa). Il nome non è stato però scelto soltanto per ricordare Vianello. Il sentiero è detto del Dottor a buon diritto, poiché fu egli stesso che negli anni 1920 tracciò, realizzò e attrezzò questo itinerario. Giulio Vianello era un medico, ma nel tempo libero amava dedicarsi alla montagna, all’alpinismo e allo studio della glaciologia. Per questo entrò in contatto con Bruno Castiglioni, il quale negli anni ’20 era l’incaricato ufficiale del Comitato Glaciologico Italiano (CGI9) per il monitoraggio dei ghiacciai dolomitici. Visto l’entusiastico interessamento, Castiglioni invitò Vianello a collaborare. El Dotòr si assunse il compito di “sorvegliare” il ghiacciaio del Màrmor. Egli lo conosceva bene, visto che do-

po Marinelli e Chiggiato, era stato il primo a raggiungere quell’angolo delle Pale nell’estate del 1913. Come già successo ai predecessori, anche Vianello fu stregato dal ghiacciaio del Màrmor e per buona parte della sua vita si occupò del suo monitoraggio. Ma sul finire degli anni ’30 Vianello accettò di buon grado l’invito di Bruno Castiglioni a occuparsi del monitoraggio non soltanto del Màrmor, ma di tutti i ghiacciai delle Pale. Fu quindi chiamato a redigere le descrizioni annuali da inviare al CGI, ancora oggi conservate presso l’archivio del comitato. Con queste parole Giuseppe (Bepi) Mazzotti ricordava Giulio Vianello: Lo abbiamo sempre visto così, asciutto, anzi magro, vestito di scuro, i capelli bianchi, corti, i baffi a punta bianchi e gialli per via del fumo: due occhi vispi, un buon sorriso sul volto rugoso di colore piuttosto rosso. Sempre così vestito: coi calzoni lunghi, colletto bianco e cravatta nera, in montagna come in città. Niente calzoni di velluto a coste, niente giubbetti corti, ma colletto duro e calzoni lunghi, estate e inverno. E niente piccozza, neppure ai bei tempi quando questa si usava anche sulle Dolomiti: un bachèt, cioè un ramo d’albero, bastava a traversare qualunque falda di neve. E via di corsa, anche a settant’anni, bravo chi gli teneva dietro. In tasca le provviste. Una scatola di sardine, ottime per la sete, e un pezzo di pane. Questo per un’intera giornata. Per una semplice gita di otto ore bastava anche meno: per esempio un carciofo.

Dove è finito il Màrmor? Il ghiacciaio del Màrmor non esiste più. Anche in questo caso il cambiamento climatico ne ha decretato la fine. Nulla di nuovo, questo epilogo sembrerebbe piut107


Il ghiacciaio del Màrmor osservato dalla forcella del Mièl. In alto come appariva il ghiacciaio nell’estate del 1930, in basso nel 2017. A sinistra un particolare che ritrae la Cima Meridionale del Màrmor; nell’immagine del 2017 è evidente la nicchia di distacco che testimonia il crollo di una grande frana.

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tosto scontato; d’altronde dei sette ghiacciai che un tempo ornavano le Pale, ne rimangono quattro. Il caso del Màrmor presenta però delle particolarità. È vero, anche per esso la scomparsa è da imputarsi al cambiamento climatico, ma la causa primaria che ne ha determinato la definitiva estinzione non va cercata solamente nella fusione eccessiva e nello scarso accumulo di neve. Per il Màrmor il discorso è diverso. Fino a qualche anno fa il ghiacciaio resisteva nella forma di una piccola, ma tenace, placca di ghiaccio, incassata sul fondo del canalone che un tempo empiva. Per fare un paragone, la situazione del ghiacciaio non era così diversa rispetto a quella del ghiacciaio della Pala: entrambi avevano subito una drastica diminuzione dello spessore, ma data la particolare conformazione, la loro superficie non si era ridotta altrettanto significativamente. Quando però ho posato gli occhi sul canalone del Màrmor nell’estate del 2017, non ne ho trovato alcuna traccia, il ghiacciaio sembrava scomparso nel nulla. Avendo visto delle fotografie risalenti a pochi anni prima dove l’apparato era ancora ben visibile, ho subito pensato che dovesse essere successo qualcosa. È vero, i ghiacciai si stanno ritirando, ma non scompaiono nel nulla nell’arco di una manciata di anni. Cos’era successo? Per trovare risposta basta osservare il confronto fotografico proposto alla pagina precedente. A parte la completa scomparsa del ghiacciaio, ciò che attira l’attenzione nella foto del 2017 è un particolare della Cima del Màrmor Meridionale. La cima è stata interessata da un grande crollo che ne ha sconvolto la parete nord. La macchia di roccia chiara che ora caratterizza il versante corrisponde alla nicchia di distacco da cui la frana ha tratto origine: un’intera fetta della montagna si è staccata ed è precipitata sul ghiacciaio. Non esistono notizie di questo crollo, ma ciò non sorprende vista la posizione remota della cima.

Studiando le fotografie disponibili è stato almeno possibile circoscrivere temporalmente l’accaduto: la frana è avvenuta tra l’estate del 2013 e del 2017. I detriti hanno spazzato e riempito il canalone del Màrmor, di fatto cancellando ciò che rimaneva del ghiacciaio. A ben vedere però, la fusione e i crolli di roccia sono entrambi fenomeni legati al medesimo processo, il cambiamento climatico. L’aumento delle temperature è infatti responsabile tanto della fusione accelerata del ghiaccio, quanto della degradazione di quello che viene chiamato permafrost. Questo termine identifica il suolo o la roccia la cui temperatura rimane per almeno due anni costantemente al di sotto degli zero gradi. È un tipo di terreno diffuso alle alte latitudini e alle alte quote. Sulle Alpi è presente specialmente nei versanti rivolti a nord e può raggiungere quote inferiori rispetto a quelle delle fronti glaciali. La sua importanza sui rilievi è legata alla stabilità che conferisce ai versanti. Il potere cementante del ghiaccio contenuto nel permafrost funge infatti da collante per i versanti ripidi, mantenendoli stabili. Il riscaldamento provocato dal cambiamento climatico ha un effetto negativo sul permafrost. La degradazione provocata da temperature sempre più alte, indebolisce i versanti, poiché il potere cementante del gelo si fa man mano più debole, favorendo crolli e frane che diventano sempre più frequenti, specialmente durante l’estate. Il grande distacco avvenuto sulla Cima del Màrmor Meridionale potrebbe essere stato innescato da questi meccanismi.

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Sebbene il ghiacciaio del MĂ rmor non esista piĂš, vale ancora la pena percorrere i sentieri che conducevano ad esso; attraversano ambienti di rara bellezza.

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NOTE Ghiacciai del Canìn, del Cogliàns e del Montàsio. Quest’ultimo sopravvive ancora ed è riconosciuto come il più basso delle Alpi. 2 Questi ghiacciai esistevano grazie a un abbassamento locale del limite delle nevi che Bruno Castiglioni stimò compreso tra 550 e 600 m. Tali informazioni non furono pubblicate in modo organico, ma esistono degli appunti di Castiglioni nella sua copia de I ghiacciai delle Alpi Venete di Marinelli (conservata presso la fondazione Giovanni Angelini – Centro Studi sulla Montagna di Belluno). 3 Abbiamo già incontrato Giovanni Chiggiato parlando dei ghiacciai di Strutt e delle Ziròccole (vedi pagina 56). Egli fu un importante esponente dell’alpinismo esplorativo delle Dolomiti nella prima parte del 1900. Affiancò spesso Olinto Marinelli durante i rilievi dei ghiacciai delle Alpi Orientali. 4 La più famosa guida alpina di Agordo nel periodo che precedette la prima guerra mondiale (nato a Frassenè Agordino nel 1860, la data della morte non è nota). 1

Pubblicato nella rivista mensile del Cai del 1927, vol. 27, n. 5. Il titolo originale del racconto è La forcella dell’Orsa nel gruppo delle Pale. 6 Neanche a dirlo, si tratta del volume I Ghiacciai delle Alpi Venete. 7 Chiggiato e compagni non furono i primi a percorrere questo itinerario, una cordata tedesca, era riuscita pochi anni prima nell’impresa. 8 Oggi Rifugio Treviso, all’epoca era un rifugio gestito dal Club Alpino Austro-Tedesco di Dresda. 9 Il Comitato Glaciologico Italiano è nato nel 1913 grazie a un’iniziativa congiunta del Cai e della Società Italiana per il Progresso delle Scienze, sostituendo la più antica Commissione per lo Studio dei Ghiacciai del Cai. Il Comitato è attivo ancora oggi e molte informazioni circa le sue attività, le pubblicazioni e i risultati delle campagne glaciologiche sono reperibili al sito: www.glaciologia.it. 10 Tratto da Le Alpi Venete, n. 2, 1949. È possibile recuperare l’articolo nel volume Alpinismo Veneto, dai 150 anni del Club Alpino Italiano 1863-2013, di Gasparetto, Rovis, Scandellari, 2013. 5

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L’alpinista triestino Fabio Schwarz in cima alla Croda Granda (1924).


PER CONCLUDERE

S

ette ghiacciai per sette storie che ci hanno permesso di ripercorrere le tracce lasciate da Bruno Castiglioni e dagli altri personaggi che frequentarono le Pale di San Martino un centinaio di anni fa. Aldilà dei luoghi, dei ghiacciai e dei rapidi cambiamenti che stanno avvenendo, queste pagine sono state scritte con il desiderio di raccontare del profondo sentimento che legò esploratori, studiosi e alpinisti alla montagna e in particolare alle Pale di San Martino. Le Pale non sono un gruppo facile, sono vaste, complicate e faticose e proprio per questo hanno un fascino particolare, che può stregare. Si potrebbero spen-

dere tante altre parole per raccontare la loro dimensione unica, ma l’unico modo per immergercisi davvero è allacciare gli scarponi e mettersi in cammino. Spero che questi racconti invoglino qualcuno ad aprire una carta e a pianificare un’escursione tenendo d’occhio quei lembi bianchi usati per rappresentare i piccoli ghiacciai sulle mappe. Sicuramente la loro estensione non sarà aggiornata e molti di quei ghiacciai non esisteranno più. Ciò non significa però che essi non abbiano più nulla da raccontare e che non valga la pena raggiungerli.

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RINGRAZIAMENTI

A Giorgia, che se n’è andata troppo presto

C’

è voluto qualche anno per portare a termine questo lavoro. Prima ho esplorato le Pale, dedicando diverse estati a percorrerne i sentieri, e poi, durante gli inverni, ho messo insieme i materiali necessari per studiare e conoscere i sette ghiacciai. Il tempo è stato sicuramente la risorsa più difficile da trovare, ma da solo non sarebbe comunque bastato. Ci sono alcune persone senza il cui aiuto questo lavoro non sarebbe mai arrivato a compimento. Giovanni Battista e Benedetta Castiglioni sono sicuramente i primi che voglio ringraziare. Chissà cosa pensò Benedetta quando le mandai la prima strana mail per chiederle notizie di suo nonno Bruno. La ringrazio perché ha sempre incoraggiato questo lavoro e non avrei potuto ricevere maggiore disponibilità da lei e dalla sua famiglia. Trascorrere qualche pomeriggio con Giovanni Battista è stato un regalo che porterò sempre con me. La passione che bruciava in lui per la montagna non aveva limiti, come d’altronde la sua conoscenza di essa. Grazie anche a sua moglie Giovanna per l’ospitalità e per essere stata tra le prime ad aver letto e corretto queste pagine. Un altro grandissimo aiuto è arrivato da Mauro Varotto e dal

Museo di Geografia di Padova. Ringrazio Mauro per aver creduto in questo lavoro fin dal nostro primo incontro e per i tanti consigli che mi ha dato. Non posso non ricordare anche gli amici Gino Taufer e Bepi Mayerild; se ci sono due persone più appassionate delle Pale del sottoscritto, sono sicuramente loro. È stato bello condividere con voi delle giornate lassù e vi ringrazio per i materiali introvabili che avete condiviso con me. Grazie anche alla Società Storica per la Guerra Bianca e a Marco Balbi per l’aiuto che mi hanno dato con le scansioni delle fotografie di Bruno Castiglioni. Gli ultimi che ringrazio sono le persone che mi hanno insegnato ad andare in montagna tenendo sempre gli occhi aperti, perché ci sono tante cose che non si vedono alla prima occhiata. Il primo è mio padre, che ha iniziato a portarmi per monti quando ancora non sapevo quanto fosse bello; Michele Cutuli, che mi ha accompagnato per anni nella natura e ha incoraggiato da subito questo lavoro; e infine Luca Biagini e Valentina Casellato, che mi hanno mostrato come anche sul terreno ripido siano nascoste mille storie. 115


dicembre 2020 cierre gruppo editoriale via Ciro Ferrari, 5 37066 Caselle di Sommacampagna, Verona www.cierrenet.it Stampato da cierre grafica tel. 045 8580900 - fax 045 8580907 grafica@cierrenet.it per conto di cierre edizioni tel. 045 8581572 - fax 045 8589883 edizioni@cierrenet.it distribuzione libraria a cura di cierrevecchi srl via Breda, 26 35010 Limena, Padova tel. 049 8840299 - fax 049 8840277 fornitori@cierrevecchi.it

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7 16,00


Fino a pochi decenni fa sette piccoli ghiacciai si na-

scondevano tra le pieghe rocciose delle Pale di San Martino, sulle Dolomiti. Oggi di essi rimane ben poco: alcuni sono ormai estinti, altri sono ridotti a placche di ghiaccio sporco e immobile. I ghiacciai stanno abbandonando la montagna dolomitica: presto nei remoti valloni un tempo occupati dal ghiaccio rimarranno solo morene e detriti instabili dilavati dalle intemperie. Assieme ad essi rischia di essere dimenticato chi per primo li ha scoperti, studiati e percorsi. L’intento di questo volume è impedirlo ricordando la figura di Bruno Castiglioni, massimo conoscitore dei ghiacciai delle Pale di San Martino, da lui perlustrati tra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso. Castiglioni, fratello del celebre alpinista Ettore, era un esperto del glacialismo dolomitico e, grazie alla varietĂ e al dinamismo dei ghiacciai di queste montagne, seppe astrarre da essi concetti di ampia validitĂ . Il volume ripercorre, a 75 anni dalla sua tragica scomparsa, le tracce lasciate da Bruno Castiglioni, ricomponendo la storia dei sette piccoli apparati. Gli ultimi sussulti degli antichi ghiacciai hanno ancora molto da raccontare.


Giovanni Baccolo (1988) si occupa di glaciologia

all’Università di Milano-Bicocca. Studiando i ghiacciai delle Alpi, dell’Antartide e della Groenlandia, si è accorto che nelle profondità del ghiaccio non sono conservate solamente informazioni climatiche nella forma di segnali chimici e fisici, ma anche storie e memorie di vicende passate che, almeno sulle Alpi, andranno presto perdute. I ghiacciai e le montagne sono come libri che aspettano di essere letti: l’intento dell’autore è riscoprire e raccontare alcune di quelle pagine.


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