Altrestorie n. 40

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anno quindicesimo

numero quaranta

gen./apr. 2013

Esistenze, malattie e farmaci PosteItalianeS.p.A.-Spedizioneinabbonamentopostale-D.L.353/2003(conv.inL.27/02/2004n.46) -art.1,comma1,D.C.B.Trento-Periodicoquadrimestrale registrato dal Tribunale di Trento il 9.5.2002, n. 1132. Direttore responsabile: Sergio Benvenuti - Distribuzione gratuita - Taxe perรงue - ISSN 1720 - 6812


Interno della Farmacia Maturi di Condino (Trento) ora trasferita presso palazzo Eccheli-Baisi di Brentonico

Via Torre d’Augusto, 35/41 38122 TRENTO Tel. 0461.230482 Fax 0461.1860127 info@museostorico.it www.museostorico.it

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ALTRESTORIE – Periodico quadrimestrale di informazione Periodico registrato dal Tribunale di Trento il 9.5.2002, n. 1.132 ISSN 1720-6812 Comitato di redazione: Paola Bertoldi, Giuseppe Ferrandi, Patrizia Marchesoni, Rodolfo Taiani (segretario) Hanno collaborato a questo numero: Ilaria Pagano e Francesca Rocchetti Direttore responsabile: Sergio Benvenuti Progetto grafico e impaginazione: Graficomp – Pergine (TN). Stampa: Alcione – Lavis (TN) In copertina: L'apotecario di Pietro longhi, olio su tela, 1752 (Venezia, Galleria dell'Accademia). Mentre il cerusico interviene su una paziente, lo speziale annota la prescrizione. La rivista, o gli arretrati, possono essere richiesti, fino a esaurimento delle copie, presso i recapiti della Fondazione Museo storico del Trentino. I lettori interessati ad acquistare o a informarsi sull’insieme della pubblicazioni della Fondazione Museo storico del Trentino possono collegarsi all’indirizzo internet http://edizionimuseostorico.it o scrivere all’indirizzo di posta elettronica editoria@museostorico.it


anno quindicesimo

numero quaranta

gen./apr. 2013

Esistenze, malattie e farmaci

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Non solo peste e lebbra: malattie e popolazione in Trentino nei secoli XIV-XX di Alberto Folgheraiter

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Le farmacie trentine: XIV-XXI secolo di Francesco Micheletti

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Farmacopee e codici farmaceutici in Italia: secoli XV-XXI a cura di Rodolfo Taiani e Francesco Micheletti

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L’erbario di Trento di Ernesto Riva

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Natura, erbe e salute: la testimonianza di Pietro Andrea Mattioli di Rodolfo Taiani

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Lenire il tormento: note di storia della psicofarmacologia di Felice Ficco

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Farmaci e salute: interviste con Vittorio A. Sironi e Andrea Mandelli a cura di Paola Bertoldi

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I libri dello speziale: la cultura farmaceutica a Trento tra fine Seicento e inizio Settecento: i volumi a stampa della spezieria Crivelli di Marina Garbellotti

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Il grande business dei farmaci online di Alice Manfredi

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UNIFARM: una storia di successi di Edoardo de Abbondi

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Virgina Woolf e la malattia di Stefano Chemelli

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Infomuseo

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Edizioni Fondazione Museo storico del Trentino

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Esistenze, malattie e farmaci

Chi avesse l’opportunità di recarsi a Londra e visitare il British Museum vi potrà ammirare, oltre ai tanti e straordinari tesori di passate civiltà, anche un’affascinante e curiosa installazione: in una bacheca di svariati metri di lunghezza sono visibili tanti fili paralleli intrecciati con farmaci di varia tipologia (compresse, opercoli, supposte, fialette e via dicendo) e di diversa utilità (antidolorifici, antidepressivi, antinfiammatori, antibiotici ecc.). Si tratta di tutti i prodotti medicinali assunti nell’arco di una vita. Parallelamente a questa sorta di memoria medico-sanitaria si snoda il racconto, diversamente documentato, di alcuni passaggi particolarmente importanti o significativi: la nascita, i giochi dell’infanzia, le feste dell’adolescenza, le amicizie della gioventù, il matrimonio, il declino della vecchiaia, la morte. Un lungo percorso segnato da incontri e separazioni, da gioie e dolori, nel quale lo scorrere del tempo è scandito dall’assunzione dei farmaci corrispondenti alle necessità più o meno gravi del momento. Mobile di farmacia (Museo della farmacia di Sopron)

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Il titolo e i contenuti scelti per questo numero di Altrestorie trovano corrispondenza dunque in questa raffigurazione simbolica dell’esistenza e mirano a tratteggiare un itinerario attraverso la storia della farmacia e della sanità che interseca sì la nascita e l’evoluzione da un punto di vista storico-culturale del concetto di salute e di malattia, ma si sofferma molto di più sullo sviluppo di una professione, quella del farmacista, della conoscenza a questa sottesa e di una fiorente industria, quella del farmaco, che ha accompagnato nel bene e nel male entrambi i processi. I farmaci, dunque, come componenti di una diversa storia dell’uomo fondata sui progressi della ricerca scientifica, sul costante impegno dell’uomo rivolto a sconfiggere – se non a debellare – le tante malattie che in passato e ancor oggi continuano a minacciarne l’integrità fisica, ma anche sui grandi interessi che questa particolare sfera economica ha inevitabilmente smosso (rt).


Non solo peste e lebbra

di costruzione o di ripristino al La lebbra e la peste hanno culto, infatti, coincide spesso accompagnato e segnato la malattie e popolazione con una fiammata epidemica. storia degli uomini e delle ciUlteriori informazioni possoviltà. La lebbra mutilava, corin Trentino nei secoli XIV-XX no essere colte dalle pareti di rompeva, deformava il corpo taluni santuari più blasonati: trasformando il malato in un di Alberto Folgheraiter un esempio emblematico è “diverso”, come il pazzo, l’erappresentato dal santuario retico o l’ebreo. In Francia, al della Madonna di Caravaggio tempo della peste nera (1348), a Montagnaga di Pinè, realizgli Ebrei furono bruciati sul rogo assieme ai lebbrosi, poiché ritenuti colpevoli zato sull’onda emotiva prodotta dalle asserite visioni della diffusione del contagio. Se la lebbra era sino- della Madonna da parte di una giovane donna del nimo di morte civile a causa dell’espulsione dell’am- luogo, Domenica Targa. Costei, figlia di contadini, malato dal consorzio degli uomini sani, la peste era vissuta nella prima metà del XVIII secolo nel villagviatico per una morte reale in pochissimi giorni. Per gio della Varda (o Guardia), sul limite meridionale tre secoli la peste si propagò in Italia, esplodendo dell’altipiano di Piné, sostenne di aver visto la Main forma epidemica per cinque volte nella seconda donna per cinque volte in un periodo compreso tra metà del XIV secolo, due negli anni venti e settanta il 1729 e il 1730: ma di quale Madonna si trattava? Di del Quattrocento, due nello stesso periodo del Cin- quella venerata a Caravaggio, nel bergamasco. Il suo quecento e altre due nel Seicento. Nel Trentino si eb- culto era stato diffuso sull’altipiano da un certo Giabero devastanti contagi nel 553, 559, 566, 591, nel como Moser, che, ogni anno, guidava un drappello 1010, nel 1348, 1361, 1371, 1373, e via proseguendo di devoti dal pinetano a Caravaggio. Domenica non fino al secolo XVII, quando la peste insorgerà tra il vi aveva potuto partecipare a causa dell’opposizione 1630 e il 1636. Sulle epidemie di peste nel Trentino ci dei genitori, preoccupati per i suoi problemi di salute sono state tramandate alcune pagine fondamentali, (soffriva di epilessia), e anche perché si trattava di un come la “cronaca del canonico Giovanni da Parma” pellegrinaggio promiscuo, che durava una decina di sulla peste del 1348, il contagio descritto dal Boccac- giorni. A quel punto la giovane donna disse di aver cio e da altri autori. Conosciamo poi il resoconto di visto la Madonna in un prato, sulla porta di casa (il 14 Giovanni Zaccheletto sull’attività del medico venezia- maggio 1729); pochi giorni dopo anche nella cappelno Marco dalle Calze, chiamato a Trento nell’infuriare la della curazia a Montagnaga. Vi era andata giovedì dell’epidemia del 1574-1575. La malattia passò alla 26 maggio 1729 al vespro, poiché quel giorno era storia come la “peste di San Carlo”, poiché a Milano, la festa dell’Ascensione. Nei successivi dodici mesi, in quei frangenti, si prodigò tra i colpiti il vescovo altre tre visioni avevano suscitato l’interesse delle autorità religiose che decisero di imbastire un “proCarlo Borromeo. Per la peste di Levico del 1636 ci si è potuti avvale- cesso conoscitivo” al castello del Buonconsiglio. La re del diario tenuto da un nobiluomo, Alberto degli documentazione del dibattimento riporta la testimoAvancini, trasferitosi a Trento nell’attuale via Suffra- nianza di Domenica Targa su quegli avvenimenti, ma gio. Altri documenti fondamentali, ancorché limitati, la Chiesa non ha mai posto il sigillo dell’autenticità. sono i testamenti degli appestati di Preore, nelle valli Nella devozione superstiziosa del XVIII secolo il culto Giudicarie (riferiti al contagio del 1630) e taluni testa- alla “Madona de Pinè” era, tuttavia, dilagato. menti rogati a Trento, Pergine e Fiavé. Da queste pa- Erano gli ultimi anni delle cacce alle streghe e dei rogine si può ricostruire la mappa dei lasciti che passa- ghi. L’abate Girolamo Tartarotti (1706-1761) pubblicava sempre da chiese e cappelle e finiva con donazio- va a Rovereto Del congresso notturno delle Lammie ni collettive alla comunità di appartenenza del testa- (1749), opera con la quale combatteva vigorosamentore. Galede o altre misure di sale, olio e di farina di te i processi, ancora in atto, contro la stregoneria. Il siligine, o anche misure di vino, da distribui­re nell’an- religioso roveretano ammetteva, tuttavia, l’esistenza niversario della morte, o denari per tenere accese le della magia e ciò offrì il pretesto al veronese Scipiolampade davanti agli altari della chiesa del paese e, ne Maffei per avviare un’aspra polemica tra eruditi. In quasi sempre, all’altare di San Vigilio e dell’allora epoca preilluministica e postromantica il santuario di creduto “beato”, il piccolo Simone di Trento. Con la Piné, come altri santuari, fu l’analgesico e l’approdo farina doveva esser cotto pane sufficiente a sfamare per storpi e malati, per derelitti del corpo e dello spii partecipanti al rito di suffragio. Nella ricostruzione di rito. Dove la medicina non dava risposte sopperiva la una mappa dei contagi non si può prescindere dalla devozione. La maggior parte degli ex voto conosciuti realizzazione di altari di chiese e cappelle, soprattutto si riferisce, infatti, alla guarigione. se dedicati a San Rocco o san Sebastiano. La data Poi venne l’Ottocento, il secolo della secolarizzazio-

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ne del Principato vescovile e delle devastanti epidemie di colera. Su quelle infezioni esiste una buona documentazione medica (composta dalle relazioni dei sanitari al Capitanato distrettuale, come previsto dalla Legislazione austriaca), e dalle informative dei preti all’Ordinariato principesco vescovile di Trento. Le une e le altre offrono uno spaccato di vita (e di morte) della quasi totalità del territorio trentino. Se la mortalità annuale nella Diocesi di Trento si aggirava sulle diecimila persone (il doppio di oggi, ma con un terzo della popolazione in meno), negli anni del colera (1836-1855) i morti superarono le 15.000 unità. Una buona documentazione si trova anche sulla pellagra, malattia endemica nelle campagne, dove si consumava prevalentemente farina di mais, povera di vitamina del gruppo B e in particolare niacina (vitamina PP, acronimo di preventing pellagra), abbondante invece nella farina di grano. Le informazioni relative alla malattia sono dovute in massima parte a un medico roveretano, Guido de Probizer, il quale si batté come un leone per far approvare al Gubernium di Innsbruck una legge sulla pellagra. Cosa che avvenne nel 1904 con la successiva costruzione di forni per il pane, della cucina economica popolare a Trento (1907). La decisione più importante fu l’istituzione della Refezione scolastica. Si cominciò a Terragnolo, dove il 50% della popolazione risultava affetta da pellagra (più di ottocento i colpiti) e si proseguì con la costruzione del pellagrosario di Rovereto. La pellagra era segnalata nelle Giudicarie già nel 1843. Quindici anni dopo, un articolo de La Gazzetta di Trento annunciava l’espansione del morbo nella parte meridionale del Trentino. Con il 90% della popolazione ancorata alla terra, e una frammentazione fondiaria che spesso non riusciva a garantire neppure l’autosufficienza alimentare, il Trentino del secolo XIX (nel 1813 contava 269.529 persone) doveva importare un terzo delle granaglie. La rotazione agraria era pressoché sconosciuta, la concimazione largamente insufficiente. Il consumo del mais s’incuneò tra crisi cicliche e, dopo la grande carestia dell’inverno 1816-1817, divenne predominante nella seconda metà dell’Ottocento. La pellagra, che era presente ma non riconosciuta, diventò, quindi, un’endemia, al punto da costringere le autorità ad attuare un primo censimento (1888). I risultati, peraltro, furono giudicati inattendibili fin da subito. Soltanto dal 1896 si cominciò a delineare, pur se in modo ancora incompleto, l’ampiezza della crisi: nel distretto di Rovereto, dai 172 casi rilevati nel 1895, l’anno seguente si passò a 1.057 ammalati di pellagra, con 74 morti. Nel 1904

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saranno 4.609 i pellagrosi del Trentino meridionale, 8.053 i colpiti dalla pellagra nell’intero territorio provinciale. L’emigrazione contribuì in seguito a elevare il tenore di vita di talune popolazioni. Migliorato il vitto, era diminuita la pellagra. Inoltre, chi si trasferiva all’estero cambiava alimentazione con evidente beneficio per l’organismo, tant’è che taluni studiosi, oggi, sono portati a “interpretare” l’emigrazione dell’epoca anche come “terapia” per “la riduzione dell’incidenza di forme di patologia legate a cattive condizioni di vita, a insufficienze e distorsioni alimentari” (Ettore Sori, “Aspetti sanitari dell’emigrazione italiana tra Ottocento e Novecento”. In: Salute e classi lavoratrici in Italia dall’unità al fascismo. A cura di Maria Luisa Betri e Ada Carla Gigli Marchetti. Milano: Angeli, 1982: 607). La pellagra in Trentino continuò a serpeggiare sin dopo la prima guerra mondiale. In Italia fu debellata attorno alla metà degli anni cinquanta del XX secolo. Altro male sconfitto nel corso del Novecento, per la precisione negli anni sessanta, fu la tubercolosi, debellata grazie all’utilizzo di antibiotici e sulfamidici. Su questo tema sono state pubblicate ricerche fondamentali, soprattutto in quel di Arco dove la tubercolosi alimentò le speranze di migliaia di colpiti e una fiorente industria sanitaria che diede lavoro per alcuni decenni a più di mille persone. Nota Giorgio Cosmacini (Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia. Bari-Roma: Laterza, 1994: 425) che “l’ultima epidemia che chiude l’età delle epidemie sociali, aperta dalla peste del Trecento, non è un evento propriamente biologico”: la peste del Novecento è la guerra che, a sua volta, causa stragi tra i combattenti, carestia e fame. Meningiti, encefalite epidemica ma soprattutto la TBC. E la malaria che nel Lazio sarà combattuta con le grandi bonifiche dell’agro Pontino nel ventennio fascista. Sul finire della prima guerra mondiale divampa, infine, una violentissima epidemia di influenza, chiamata “spagnola”, che i tedeschi definiscono subito “catarro lampo” per la rapidità della diffusione. Causò nel mondo tra i quaranta e i cento milioni di morti. In Italia non meno di seicentomila vittime. Ebbene, su questa strana malattia, che assomiglia molto alle epidemie influenzali degli ultimi anni, cala il silenzio delle autorità militari. La documentazione al riguardo è pertanto piuttosto scarsa. Il resto è storia recente, quando non cronaca, con l’incubo non solo di una pandemia replicata come quella chiamata “spagnola” del 1918, ma della guerra nucleare.


Le farmacie trentine

Le farmacie attive sul territoconseguente a un progetto rio della Provincia di Trento sanitario di più ampio respiXIV-XXI secolo all’inizio del 2013 erano 146, ro, trovò realizzazione, come 122 private e 24 comunali, cui ricordato, solo in epoca sucvanno aggiunte altre 4 farmacessiva al Principato vescodi Francesco Micheletti cie succursali e 20 dispensari vile. Anche dal punto di vista farmaceutici. È il risultato di un statistico è pertanto difficile lungo e complesso percorso disporre di dati precisi elaboche ha consentito all’attuale rati dall’autorità politica; fu configurazione del servizio farsolo nel 1807, per ordine del maceutico trentino di raggiungere una buona artico- governo bavaro, che venne promosso il primo cenlazione sul territorio. Fino alla secolarizzazione del simento del personale sanitario che contò 53 speziali Principato vescovile (1803) le norme che regolavano attivi nel Circolo dell’Adige. la professione dello speziale in gran parte del terri- Nei primissimi anni dell’Ottocento sorsero poi altre torio corrispondente all’attuale provincia di Trento importanti spezierie tra cui Predazzo, Taio, Rumo, venivano spesso elaborate e attuate a livello locale: Strigno, Vezzano e Presson. Le farmacie che poteogni comunità disponeva di propri regolamenti che vano vantare alla propria guida un farmacista regosi limitavano perlopiù ad arginare i possibili abusi, larmente abilitato erano pochissime: i professionisti, ma che risultavano completamente scollegati da che pure si spostarono in diverse sedi nel corso deuna più ampia visione organizzativa. Per esercitare gli anni, raggiungevano a stento le dieci unità. la professione ‘farmaceutica’ non era richiesto alcun In moltissimi casi il medico circolare, autorità pretitolo di studio, ma era sufficiente un periodo di pra- posta al controllo e alla visita periodica delle farmatica svolto presso un altro perito speziale. cie, denunciò abusi e irregolarità. In questo quadro Dal punto di vista della distribuzione geografica l’uni- di scarsa applicazione delle norme non stupisce ca norma di cui si è a conoscenza, volta ad ampliare nemmeno la presenza di farmacie nelle quali, oltre e migliorare la diffusione delle farmacie, fu l’editto a preparare e vendere medicamenti si smerciavano promulgato nel 1761 dal Principe vescovo Alberti alcolici. Si parla, ad esempio, delle farmacie di Cemd’Enno, con il quale s’invitavano gli speziali in attivi- bra, Primiero e Lavis gestite rispettivamente da Luigi tà all’interno del Principato ad aprire sedi succursali Kofler, Gasparo Patuzzi, e Carlo Hoffmann. nei luoghi dove simili esercizi non esistevano. Per È ancora un editto del governo bavaro del 1807 a incentivare gli spostamenti veniva garantito a chi si imporre agli speziali privi di abilitazione l’obbligo di trasferiva il supporto della comunità prescelta, che recarsi a Innsbruck per sostenervi un apposito esas’impegnava ad accogliere lo speziale e la sua fami- me presso la facoltà medica della città. Ben presto si glia riconoscendogli il diritto di vicinia. I vantaggi as- affermò la necessità di impiegare in tutte le farmacie sicurati dal provvedimento vescovile furono uno dei almeno un soggetto che rispondesse ai requisiti di motivi che spinse la famiglia Graziadei, come ricor- legge, indipendentemente dalla posizione geogradano le memorie familiari, a trasferirsi, nel settembre fica, città o campagna, e dal grado con il quale lo del 1771, da Calavino a Caldonazzo. speziale operava nella stessa: titolare o provvisore. Le quaranta farmacie più antiche tra quelle attual- I principi individuati dalla normativa bavara trovaromente operanti in provincia di Trento vedono la no continuità e ulteriore sviluppo nel secondo perioloro fondazione tra il XIV e il XVIII secolo. Tra que- do di dominazione austriaca (1814-1918) durante il ste, le due farmacie di Borgo Valsugana, la farmacia quale le farmacie trentine s’inserirono all’interno di Dall’Armi di Trento, le farmacie di Cles, Tione, Riva e un impianto legislativo finalizzato alla realizzazione Mori risultavano avviate già prima del XVIII secolo. di un piano politico-sanitario tra i cui obiettivi princiLe altre spezierie, le cui prime testimonianze risal- pali rientravano l’istituzione delle condotte mediche, gono al Settecento sono quelle di Ala, Villalagarina, la soppressione di ogni abuso nell’esercizio delle Ledro, Brentonico, Storo, Cavedine, Arco, Lavis, professioni sanitarie, la formazione universitaria e il Avio, Fondo, Caldonazzo, Levico, Cavalese, Malè, rispetto delle regole igienico-sanitarie. Mezzocorona, Mezzolombardo, Pellizzano, Pergine, Nel 1830 il processo di crescita è ampiamente imRoncone, Calliano, Denno, Fiera di Primiero, Rovere- postato e appare ormai evidente. In Trentino risulto e Trento. Il numero di farmacie era evidentemen- tavano attive 52 farmacie, tutte gestite da personale te maggiore in ambito urbano che in quello rurale regolarmente abilitato. Facevano eccezione la farmae anche in questo secondo caso la collocazione era cia di Predazzo, il cui direttore Luigi Morandini era un perlopiù nei principali centri di fondovalle. chirurgo, la farmacia di Ala, dove il titolare GiovanLo sviluppo di un quadro normativo più articolato, battista Brachetti aveva svolto un semplice tirocinio

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XIV sec. > 1815 1816 > 19 1 8

1919 > 1 9 4 8 1949 > 2012

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Le farmacie trentine

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149 104 127 111 12 08 09 35 34 99 59 02 11 TRENTO 96 64 62 75 163 146 91 85 98 97 77 100 128 105

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All’inizio del 2012 le farmacie attive sul territorio della provincia di Trento erano 146 (122 private e 24 comunali), cui vanno aggiunte altre 4 farmacie succursali e 20 dispensari farmaceutici (1 stagionale). In questo computo non sono comprese le tre farmacie ospedaliere esistenti. Molte delle farmacie più antiche, ossia quelle 46 fondate fra il XIV secolo e il 1815, furono aperte nel corso della seconda metà del Settecento. Altre sorsero in periodo di governo austriaco, fra il 1815 e il 1918 (17), e nel periodo di governo italiano, 1919-1948 (9). Un’evidente accelerazione la si può osservare, tuttavia, registrato l’apertura di ben 102 nuove farmacie. La cartina esposta consente di osservare lo sviluppo cronologico della diffusione territoriale delle farmacie stesse nel territorio corrispondente all’odierna provincia di Trento; la legenda, divisa in quattro periodi, dà, invece, informazioni sui passaggi di proprietà dei vari esercizi ordinati per data di fondazione e località. Evidentemente gli elenchi e la rappresentazione farmacie la cui attività è cessata prima del 2012.

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Le farmacie trentine Fra queste si segnalano le seguenti otto:

All’inizio del 2012 le farmacie attive sul territorio della provincia di Trento erano 146 (122 private e 24 comunali), cui vanno aggiunte altre 4 farmacie C succursali e 20 dispensari farmaceutici (1 stagionale). In questo computo non sono comprese le tre farmacie D ospedaliere esistenti. Molte delle farmacie più antiche, ossia quelle 46 E fondate fra il XIV secolo e il 1815, furono aperte nel F corso della seconda metà del Settecento. Altre sorsero in periodo di governo austriaco, fra il 1815 e il 1918 G (17), e nel periodo di governo italiano, 1919-1948 (9). H Un’evidente accelerazione la si può osservare, tuttavia, dopo il 1948. Gli anni fino al 2012 hanno, infatti, I dati, non sempre completi e dettagliati e, dunque, registrato l’apertura di ben 102 nuove farmacie. suscettibili di correzioni e integrazioni, sono stati La cartina esposta consente di osservare lo sviluppo raccolti e aggregati sulla base delle informazioni cronologico della diffusione territoriale delle farmacie espunte dalla documentazione conservata presso l’archivio dell’Ordine provinciale dei farmacisti di Trento stesse nel territorio corrispondente all’odierna provincia e l’archivio dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari di Trento; la legenda, divisa in quattro periodi, dà, della provincia di Trento. invece, informazioni sui passaggi di proprietà dei vari mente cessate, richiederanno altri approfondimenti esercizi ordinati per data di fondazione e località. d’indagine presso archivi pubblici e privati. Evidentemente gli elenchi e la rappresentazione cartografica non comprendono quelle spezierie/ farmacie la cui attività è cessata prima del 2012. A B

Borzago , fondata negli anni novanta dell’Ottocento e chiusa negli anni dieci del Novecento (fra i titolari un certo Zamboni) Cles, fondata nel 1785 e chiusa nella seconda metà del XIX secolo (fra i titolari Romedio Bertolini) Creto (fondata nella prima metà del XIX secolo e chiusa nel 1960 (fra i titolari Antonio Baldrachi, Pietro Alimonta, Ernesto Alimonta, Giovanbattista Corazzola, Vittoria Corazzola) Cusiano, fondata nella prima metà del XVIII secolo e chiusa nel primo decennio del Novecento (fra i titolari Luigi Ravelli e Angelo Ravelli) Pieve di Bono (fondata nella seconda metà del XVIII secolo (fra i titolari Antonio Baldrachi) Lavis , fondata negli anni ottanta del secolo XIX e chiusa nel 1933 (fra i titolari Davide Daldosso e Mario Battisti) Mezzolombardo, fondata nella seconda metà del XIX secolo e chiusa negli anni 1892-1893 (nessuna segnalazione di titolari) Sanzeno , fondata nel 1806 e chiusa nella seconda metà del XIX secolo (fra i titolari Gasparo Sisinio Ziller, Gasparo Ziller).

Fra queste si segnalano le seguenti otto: Borzago, fondata negli anni novanta dell’Ottocento e chiusa negli anni dieci del Novecento (fra i titolari un certo Zamboni) B Cles, fondata nel 1785 e chiusa nella seconda metà del XIX secolo (fra i titolari Romedio Bertolini) C Creto (fondata nella prima metà del XIX secolo e chiusa nel 1960 (fra i titolari Antonio Baldrachi, Pietro Alimonta, Ernesto Alimonta, Giovanbattista Corazzola, Vittoria Corazzola) D Cusiano, fondata nella prima metà del XVIII secolo e chiusa nel primo decennio del Novecento (fra i titolari Luigi Ravelli e Angelo Ravelli) E Pieve di Bono (fondata nella seconda metà del XVIII secolo (fra i titolari Antonio Baldrachi) F Lavis, fondata negli anni ottanta del secolo XIX e chiusa nel 1933 (fra i titolari Davide Daldosso e Mario Battisti) G Mezzolombardo, fondata nella seconda metà del XIX secolo e chiusa negli anni 1892-1893 (nessuna segnalazione di titolari) H Sanzeno, fondata nel 1806 e chiusa nella seconda metà del XIX secolo (fra i titolari Gasparo Sisinio Ziller, Gasparo Ziller). A

I dati, non sempre completi e dettagliati e, dunque, suscettibili di correzioni e integrazioni, sono stati raccolti e aggregati sulla base delle informazioni espunte dalla documentazione conservata presso l’archivio dell’Ordine provinciale dei farmacisti di Trento e l’archivio dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari della provincia di Trento. Altre notizie, specie su spezierie/farmacie definitivamente cessate, richiederanno altri approfondimenti d’indagine presso archivi pubblici e privati.

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pratico presso la farmacia Cristofori di Rovereto e la farmacia di Storo, in cui il titolare Berti era stato esaminato solo da una delegazione vescovile nel 1802. Nei centri più importanti come Ala, Arco, Borgo, Cles, Pergine e Riva erano attive stabilmente due farmacie; a Trento e Rovereto, i centri più popolati, le farmacie sono rispettivamente cinque e quattro. Solo 13 delle farmacie attualmente esistenti in Trentino sono state fondate nel periodo compreso tra il 1814 e il 1918. 46 sono più antiche e 91 sono sorte in epoca successiva (senza contare i 20 dispensari farmaceutici). Uno sviluppo così limitato può essere spiegato tenendo in considerazione diversi fattori: una crescita demografica contenuta, i costi elevati che comportava l’apertura di una nuova farmacia e i limiti imposti dall’applicazione della nuova legislazione austriaca; in epoca asburgica il permesso di aprire una nuova farmacia poteva essere concesso solo dal Governo provinciale. La nuova farmacia doveva essere situata in modo da avere un’estensione di affari proporzionata e il richiedente doveva ovviamente dimostrare di essere in possesso di sufficienti risorse economiche, nonché dei titoli di studio necessari. Altro discorso era quello dei diritti di farmacia. Una disposizione di legge del 1816 distingueva già i diritti delle farmacie in diritto reale radicato, diritto reale alienabile e diritto personale. Nel 1830 il Governo provinciale incaricò i circoli di Trento e Rovereto di riferire a quali farmacie spettassero i diritti sopracitati. Per ottenere il diritto reale radicato il proprietario di una farmacia doveva produrre i documenti necessari a dimostrare che l’esercizio era stato svolto senza interruzione nella medesima casa almeno dal 1733. Era invece considerata di diritto reale alienabile una farmacia che semplicemente esisteva già prima del 22 aprile 1775, data in cui venne emanato in Austria un importante regolamento farmaceutico. Il diritto di tutte le altre farmacie di epoca successi-

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va era considerato personale e terminava pertanto con la morte del titolare. Alle vedove era concesso semmai il permesso di continuare l’esercizio individuando un direttore titolato a gestire la farmacia fino a eventuale nuovo matrimonio. Un diritto personale non poteva comunque essere alienato. Nel 1830, ad esempio, il farmacista di Trento Dionigio Ceschini, intenzionato a cedere stabilmente la propria attività al farmacista Antonio Santoni, vide respinta dall’autorità la propria richiesta di cessione in attesa che si dimostrasse il diritto reale della sua farmacia. Nel corso dell’Ottocento e nei primissimi anni del Novecento, molti farmacisti trentini riuscirono a dimostrare, con non poche peripezie, il diritto reale della loro farmacia. Nel 1897, ad esempio, il farmacista Giuseppe Bettanini di Borgo Valsugana riuscì a ottenere il riconoscimento del diritto reale della propria farmacia, grazie a un cippo in pietra appartenuto a uno dei possessori della farmacia, Giacomo Dal Prato o Dal Prà. Costui lo aveva fatto preparare come sostegno di un pestino di bronzo e vi aveva fatto incidere la data di realizzazione (1773) e le sue iniziali. Una delle iniziative più importanti per la rivendicazione di tali diritti fu quella promossa dal farmacista di Rovereto Quintilio Perini, che nel 1905 pubblicò due brevi saggi, nei quali illustrava schematicamente, sulla base di alcuni documenti d’archivio rinvenuti ad Innsbruck e relativi al censimento del 1830, la data di fondazione delle farmacie trentine allora in attività. Con la nuova legge farmaceutica del 18 dicembre 1906 le farmacie austriache, e quindi anche quelle trentine, vennero divise in concesse e reali. La concessione aveva un carattere esclusivamente personale e perciò non poteva essere trasmessa agli eredi, mentre il numero delle farmacie reali non poteva essere aumentato oltre quello già esistente. Diventava pertanto ancora più difficile l’apertura di nuove farmacie. Al farmacista che intendesse aprire ex novo una farmacia, oltre alla laurea e ai successivi cinque anni di servizio, venivano richiesti dieci anni di pratica. Un ostacolo ben maggiore allo sviluppo di nuove officine farmaceutiche era dato però dal diritto di veto che poteva essere esercitato dai proprietari delle altre farmacie vicine, qualora avessero ritenuto di subire dei danni commerciali dalla nuova apertura. Anche le camere mediche potevano esprimere la propria opinione in merito, col rischio di tutelare esclusivamente gli interes-


si dei vecchi armadi farmaceutici. Come constatato amaramente in alcuni articoli apparsi sui giornali farmaceutici dell’epoca, la creazione di nuove farmacie era resa quasi impossibile, il tutto a vantaggio delle vecchie farmacie reali, di cui aumentava in maniera sproporzionata il valore. Prova ne sia il fatto che tra il 1906, data di entrata in vigore della nuova legge farmaceutica, e il 1918, non fu aperta nessuna nuova farmacia. Un periodo di transizione si apre con il passaggio del Trentino al Regno d’Italia al termine del primo conflitto mondiale. Molte delle farmacie trentine dovettero essere ricostruite in seguito ai notevoli danni subiti a causa dei bombardamenti. Negli anni venti del Novecento vengono aperte le farmacie di Baselga di Pinè, Folgaria, Cavareno, Mattarello, Grigno, Lomaso-Ponte Arche-Comano, Pinzolo e una nuova farmacia nella città di Trento; l’apertura di queste nuove farmacie va di pari passo con l’aumento demografico che si registra in Trentino. In questi anni la popolazione presente sul territorio è pari a 404.237 abitanti. Tra il 1935 e il 1950, nonostante l’approvazione nel 1934 del Testo unico delle Leggi Sanitarie nel quale vengono menzionate le norme per l’apertura e l’esercizio del servizio farmaceutico e la promulgazione nel 1938 del regolamento del servizio farmaceutico, non si registra l’apertura di nuove farmacie. Dagli anni cinquanta si assiste a un profondo mutamento della professione farmaceutica e del concetto stesso di farmaco; la nuova società dei consumi coinvolge anche questi settori aumentando notevolmente la domanda di nuove farmacie. A queste necessità corrisponde l’adattamento, da parte del governo nazionale e regionale, del quadro normativo. Tra le leggi nazionali vale la pena ricordare la n. 221 del 1968, la cui portata è rivoluzionaria: si distinguono formalmente le farmacie urbane da quelle rurali, che a loro volta vengono divise in ordinarie, e sussidiate. Le prime sono situate in centri con più di 3.000 abitanti, mentre le seconde sono poste in luoghi con popolazione inferiore. Nello stesso anno la legge n. 475 introduce, dopo il Regio Decreto 2578 del 1925 che aveva istituito le farmacie comunali, il diritto di prelazione da parte dei Comuni sulle farmacie vacanti o di nuova istituzione. Il maggiore sviluppo della rete farmaceutica sul territorio trentino si ha però a partire dagli anni settanta del Novecento: vi contribuiscono diversi fattori sia di carattere politicoistituzionale, l’entrata in vigore dello statuto di autonomia provinciale del 1972, sia di carattere socioeconomico, un forte incremento demografico, sia di carattere tecnico-scientifico, le continue scoperte in ambito medico. Negli ultimi decenni si è pertanto assistito alla creazione di oltre cento presidi farmaceutici distribuiti su tutto il territorio provinciale.

Le farmacie comunali, gestite da farmacisti selezionati attraverso apposito concorso, sono ventiquattro: Lavis, San Cristoforo al Lago, Riva del Garda, Bolognano d’Arco, Pietramurata, Tenno, Volano, Pomarolo, Besenello, Isera, Castelnuovo, tre a Rovereto e dieci situate nel Comune di Trento. La prima farmacia comunale aperta in Trentino fu quella di Via Vittorio Veneto a Trento nel 1968. Vale la pena ricordare altre due tipologie di farmacie, ovvero le succursali e i dispensari. Con il termine succursale s’indica la bottega che resta aperta per un limitato periodo dell’anno e la cui gestione può essere affidata solamente a farmacisti titolari di farmacie già presenti nel comune: esse sono previste dall’articolo 116 del Testo unico delle leggi sanitarie. Attualmente esistono in Trentino quattro farmacie di questo tipo: Campitello di Fassa, Dimaro Folgarida, Vermiglio e Mezzana. I dispensari farmaceutici sono invece regolati dalla legge 221 del 1968: si tratta di strutture situate in comuni o frazioni con un numero di abitanti inferiore a 5.000. La loro presenza è autorizzata solo nel caso in cui non vi siano altre farmacie pubbliche o private attive sul territorio di riferimento: attualmente sono diciannove. Il primo dispensario farmaceutico del Trentino è stato aperto nel 1981 a San Lorenzo in Banale. Caso a parte, ma degno di nota soprattutto per l’economia turistica del Trentino e per la presenza sul territorio di località termali, sono i dispensari stagionali; l’unico attivo in territorio trentino si trova a Marilleva, nel comune di Mezzana. Analizzando la crescente diffusione delle farmacie è evidente il legame tra il numero di esercizi e la popolazione residente; il criterio demografico è ancora oggi fondamentale per la creazione di nuove farmacie ed è stabilito a 3.300 abitanti, dalla legge n. 27 del 24 marzo 2012, "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, recante disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività".La legge nazionale, però, lascia spazio normativo alle regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano per la creazione di altre farmacie, se presenti particolari esigenze dettate da condizioni topografiche o di viabilità. In campo normativo l’influenza dell’Unione Europea, e ancor prima della Comunità economica europea, appare evidente. Il decreto legislativo 258 del 1991, nel quale si elencano le attività professionali che si possono svolgere con il titolo di farmacista, anche ottenuto in un altro stato appartenente alla Comunità europea, i requisiti per l’autorizzazione all’esercizio della professione, i diplomi e le certificazioni necessari, si riferisce all’"Attuazione delle direttive n. 85/432/CEE, n. 85/433/CEE e n. 85/584/CEE, in materia di formazione e diritto di stabilimento dei farmacisti".

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Farmacopee e codici farmaceutici in Italia

Il termine “farmacopea” indicodice emesso dall’istituzioca un codice nel quale sono ne competente allo scopo di elencati e definiti i prodotti uniformare la prescrizione e la medicinali. In particolare illupreparazione dei medicamenti, secoli XV-XXI stra i metodi di preparazione, stabilendo regole precise che di identificazione e di verifica lo speziale doveva rispettare a cura di Rodolfo Taiani della loro composizione. Tale nell’esercizio di una professiostrumento si è affinato nei sene che si distingue da quella del e Francesco Micheletti coli grazie all’evolversi della semplice droghiere.Alla prima conoscenza farmaceutica, ma seguirono altre otto edizioni nel anche al consolidarsi dell’azio1550, 1567, 1571, 1597, 1623, ne statale nell’ambito del con1670, 1696 e nel 1789. trollo sulla sanità pubblica. Gli Di farmacopee e codici farmaceutici 1574, Antidotario bolognese autori di riferimento per la pre- si occupa la mostra temporanea alle- La prima compilazione di queparazione dei farmaci furono, stita presso palazzo Eccheli-Baisi di sto famoso Antidotario è atfino alla soglia dell’età moder- Brentonico fino al 30 settembre 2013. tribuita a Ulisse Aldrovandi na, i grandi classici, fra i quali In mostra anche alcuni volumi di pro- (1522-1605), prestigiosa figura Ippocrate (460-377 a.C.), Gale- prietà della famiglia Boni di Tione e di naturalista, botanico e prono (129-216), Mesue (777-857), ancora oggi conservati nella biblioteca tomedico della città di Bologna, Avicenna (980-1037) e così storica della farmacia insieme ad altri che dedicò all’impresa ben via. Qualcosa, tuttavia, iniziò a oggetti professionali. Si evidenziano dodici anni. Aldrovandi fu fra cambiare dal 1498, anno di edi- così gli strumenti di lavoro dei quali coloro che accompagnarono il zione del Ricettario fiorentino, si avvalse una famiglia di antica tradi- veronese Francesco Calzolari considerato il prototipo di tut- zione farmaceutica attiva in Trentino (1522-1609) nelle sue escursiote le farmacopee successive. dalla seconda metà del Settecento. ni sul Monte Baldo nel 1554. Da questo momento, infatti, fu L’Antidotario, offerto a papa un continuo proliferare di ricettari e formulari, che Gregorio XIII (Ugo Buoncompagni, 1502-1585), riafsegnarono un progressivo allontanamento dalla tra- fermava l’obbligo da parte degli speziali di sottostadizione del passato. Non tutti, però, ebbero identica re all’autorità dei medici ed è diviso in due parti: la fortuna: alcuni, pur fregiandosi di una titolarità istitu- prima contiene ricette, composizioni, usi, dosi e virtù zionale, vennero scarsamente considerati e utilizzati; delle diverse sostanze; la seconda fornisce indicaaltri, invece, conobbero un’ampia diffusione poten- zioni sui pesi e sulla validità nel tempo dei diversi do beneficiare del prestigio riconosciuto ai loro au- medicamenti. I 547 medicamenti elencati contribuitori.Di seguito ne viene proposta una breve rassegna scono a fare dell’antidotario bolognese, nonostante lungo la linea del tempo che dal 1498, anno per l’ap- il primato della farmacia galenica, una delle prime punto di pubblicazione del Ricettario fiorentino, arri- espressioni della farmacia chimica. Edizioni succesva fino al 1965, anno di uscita della settima edizione sive comparvero nel 1574, 1606, 1615, 1641, 1674, della Farmacopea ufficiale della Repubblica italiana. 1750, 1776, 1770, 1783. 1728, Il lessico farmaceutico chimico di Giovan Bat1498, Il Ricettario fiorentino Si tratta del ricettario più diffuso in Europa nei se- tista Capello coli XVI-XVIII. Fu pubblicato a Firenze dal Collegio La fortuna di questo lessico, sostenuta dalla grande dei medici per iniziativa del Collegio degli speziali. reputazione di cui godeva l’Autore (?-1764), memFormato di 88 carte il Ricettario è articolato in tre li- bro di una famiglia nobile veneziana, nonché titolare bri: nel primo si tratta, secondo l’uso fiorentino, del- e conduttore egli stesso di una spezieria, fu tale da le erbe, semi, fiori, radici e cortecce che lo speziale vanificare per tutto il Settecento il tentativo da parte dovrebbe raccogliere mese per mese con particola- della Repubblica veneta di adottare un analogo testo re attenzione nei confronti delle corrette modalità di ufficiale. Il Lessico era frutto della diretta esperienza conservazione; nel secondo si descrivono le modali- dell’Autore, che propose in quest’opera una seleziotà di esecuzione delle singole composizioni, sempre ne delle ricette dotte e popolari raccolte nel corso soggette alla prescrizione medica; nel terzo, infine, della sua attività. Il testo conobbe grande successo si illustrano le azioni e le attrezzature necessarie alla anche fuori da Venezia, anche perchè esso, nella pricorretta preparazione dei vari medicinali. Questo te- ma parte, conteneva tutte le istruzioni per superare sto riveste un ruolo fondamentale nella storia della l’esame di abilitazione alla professione. Seguiva poi medicina e della farmacia, in quanto si tratta di un il trattato delle droghe, in cui l’Autore svelava sia le

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ricordato, comparve nel 1794 e rimase esatte dosi sia le istruzioni pratiche per rein vigore fino al 1812. Da ricordare la alizzare i prodotti medicinali. Chiudeva quarta edizione del 1834, scritta in il volume una minuziosa descriziolingua latina con la traduzione in ne dei semplici e un’interessante italiano e tedesco. L’indice comdissertazione sulla porpora e sul plessivo conteggia 1.350 voci, suo utilizzo come colorante. numero assai vicino a quello La prima edizione del testo fu di altre farmacopee coeve. seguita nel giro di pochi anni da altre undici: l’ultima fu del 1777, Il ricettario sanese 1745. Compilato da Pompilio Faleri e Giovanni Domenico 1736, La farmacopea torineOlmi già nel 1765, questo se ricettario fu adottato ufficialRedatta dal Collegio dei memente e pubblicato solo nel dici di Torino per ordine del 1777. Il Ricettario è diviso in Re di Sardegna, Carlo Emadue tomi: il primo comprende nuele III di Savoia (1701-1773), le istituzioni di farmacia (vasi, questa farmacopea fu imposta strumenti, pesi, misure e abbrea tutte le farmacie del Regno. È viazioni) e i medicamenti galenici; suddivisa in due parti. Nella prik ma, che comprende i semplici divisi ola 81 il secondo i medicamenti chimici e us -1 7 2 il catalogo delle droghe medicinali più secondo la loro origine, sono elencati Jo se p (17 h v o n J a c q u in usate. Per quanto riguarda i medicamenti 616 prodotti: 517 vegetali, 39 minerali e 60 galenici vengono descritte le operazioni semplianimali. La seconda parte, suddivisa in ventuno capitoli, tratta invece dei medicamenti composti e ci, tra le quali la polverizzazione per contusione o per delle varie operazioni richieste: dal dodicesimo capi- pestatura, la stacciatura, la macinazione a porfido, tolo in avanti sono descritti i composti chimici. Uno l’estrazione, l’infusione, la decozione, la depuraziospecifico capitolo è dedicato alle varie tipologie di oli ne. Per quanto riguarda invece i medicamenti chie alle gelatine o emulsioni che vi si possono ottene- mici sono descritti i procedimenti della soluzione, re. Gli ultimi due capitoli comprendono unguenti ed dell’estrazione, della fermentazione, della distillazioempiastri. L’opera, pur di carattere prevalentemente ne, della cristallizzazione dei sali, della precipitaziochimico-farmaceutico, indugia ancora su qualche in- ne, della calcinazione, della fusione, della cementigrediente del passato quali la polvere di mummia, ficazione, della vetrificazione, della riduzione e della animali vivi e cranio umano. Riproposta in più edi- revivificazione. Una seconda edizione del ricettario zioni, l’ultima e più innovativa fu quella del 1833. Fu fu pubblicata nel 1795. sostituita dalla farmacopea per il Regno di Sardegna 1799, La farmacopea di Antonio Campana del 1846 che ne aggiornò i contenuti. Antonio Campana (1751-1832), professore a Ferrara di fisica sperimentale e chimica, pubblicò 1774, Pharmacopoea Austriaco-provincialis L’elaborazione di questa farmacopea, valida anche questo testo spinto dalla constatazione che nel per i territori italiani soggetti alla corona austriaca, Dipartimento del Basso Po mancava una qualsiaquali il Lombardo-Veneto, deve molto a Nikolaus Jo- si farmacopea. Il suo lavoro produsse dunque una seph von Jacquin (1727-1817), professore di botani- sorta di codice ufficiale adottato per oltre mezzo ca e chimica all’Università di Vienna. La Pharmaco- secolo non solo a Ferrara, ma anche in altre repoea Austriaco-Provincialis, che sostituì il ricettario gioni dell’Italia centrale, quali la Toscana e il Lazio. viennese in uso dal 1729, introdusse un concetto Va evidenziato come nel volume si associ alla semmoderno di farmacopea. Vi sono elencate, infatti, le plicità d’esposizione della materia farmaceutica un piante e gli animali secondo la nomenclatura intro- rigoroso criterio scientifico. dotta nel 1735 da Linneo (1707-1778) e, nella suc- La prima parte, dedicata ai medicamenti semplici cessiva edizione del 1794, le sostanze chimiche se- antichi e moderni, riporta la denominazione officinacondo quella descritta nel 1787 da Antoine-Laurent le e quando possibile quella linneiana. La seconda de Lavoisier (1743-1794). Inoltre fu ridotto il numero parte riguarda invece i medicamenti composti con dei componenti anche in relazione all’eliminazione formule suggerite dall’esperienza. Questa farmacodi preparazioni giudicate obsolete e di scarsa effi- pea conobbe numerose riedizioni: le più importanti cacia. La farmacopea austriaca conobbe numerose sono quelle del 1803, 1808 e 1826. La quindicesima edizioni. Quella immediatamente successiva, come edizione fu stampata nel 1840.

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1802, La farmacopea di Valentino Brugnatelli L’ideazione di questa farmacopea maturò all’interno dell’ambiente pavese. L’autore fu Luigi Valentino Brugnatelli (1761-1818), amico personale di Alessandro Volta (1745-1827) e titolare della cattedra di chimica generale e farmaceutica presso l’Università di Pavia, dove la farmacia aveva rivestito da sempre un ruolo primario. Scopo del trattato era quello di aprire sempre di più la farmacia alla chimica moderna. Lo si intuisce se non altro dalla distribuzione stessa delle pagine: solo quaranta sono dedicate all’elenco delle droghe vegetali e animali, mentre sono più di cinquecento quelle utilizzate per elencare in ordine alfabetico tutte le preparazioni, in prevalenza iatrochimiche. Particolarmente interessanti appaiono le parti dedicate alle aquae aromaticae che propongono disquisizioni approfondite sull’aroma e sull’odore aromatico. Alla prima edizione del 1802 ne seguirono altre dodici (l’ultima del 1817), stampate, oltre che a Pavia, a Palermo, Napoli, Padova, Venezia e Parigi. 1858, Codice farmaceutico per gli stati parmensi Il codice, redatto da un’apposita commissione formata anche da farmacisti, fu voluto e fatto adottare dalla reggente Luisa Maria Teresa di Borbone (18191864). Rispetto a quelli coevi, tale codice introdusse numerose innovazioni; prima fra tutte l’adozione della lingua italiana. Accanto al nome italiano rimaneva comunque il corrispettivo latino e venivano introdotte le formule chimiche eliminando le precedenti denominazioni. Tra i medicamenti chimici troviamo metalli e metalloidi, corpi binari e cianuri, sali minerali, acidi organici e loro composizioni, alcaloidi e loro sali, sostanze neutre o indifferenti, alcool ed eteri, prodotti pirogenici e acque minerali artificiali. Nonostante la modernità cui è improntato l’intero codice, non mancano, come in altri casi, riferimenti a medicamenti del passato: fra questi, ad esempio, l’elettuario teriaca e altri curiosi empiastri, come quello adesivo dell’ospedale di Piacenza, il depilatorio di Martins e la polvere dentifricia a base di carbone vegetale. 1868, Il codice farmaceutico romano Il trattato teorico-pratico, noto come codice farmaceutico romano, è stato uno dei più utilizzati da farmacisti, medici e studenti fino all’introduzione della prima farmacopea ufficiale del Regno d’Italia nel 1892. Ordinata e approvata da papa Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti, 1792-1878) questa farmacopea riporta nella prima parte un’ampia descrizione delle droghe vegetali con tavole e disegni raffiguranti le singole piante. Nella seconda parte chimico-farmaceutica sono illustrati i composti chimici con una presentazione dettagliata dei caratteri, del processo

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di preparazione e delle apparecchiature necessarie. Per ogni mese dell’anno sono indicate le preparazioni officinali e le scorte di semplici cui il farmacista avrebbe dovuto diligentemente provvedere. Sono descritti 47 rimedi d’urgenza tra cui l’acqua emostatica, il nitrato d’argento fuso o pietra infernale, la canfora e la manna. Molto precisa anche la catalogazione dei reattivi, ben 103, basata sulle modalità di impiego e sul possibile utilizzo. 1892, La farmacopea del Regno d’Italia Alla fine del Settecento quasi ogni stato d’Europa possedeva una propria farmacopea nazionale. La penisola italiana, suddivisa in una miriade di piccoli stati, contava una gran quantità di farmacopee pubbliche e private. Bisognerà attendere il completamento del processo unitario prima che anche in Italia s’inizi a parlare di un’unica farmacopea nazionale, ma saranno necessari più di trent’anni prima di poterla realizzare. I motivi di questo ritardo sono da individuare nelle particolari condizioni socio-sanitarie del neonato stato italiano e nell’impegnativo lavoro richiesto dallo sforzo di armonizzare in un unico corpus le tante tradizioni farmaceutiche espresse dalle preesistenti farmacopee ancora in uso. La farmacopea del 1892 sarà dunque il primo codice ufficiale italiano a esporre i metodi di indagine, le caratteristiche dei diversi farmaci, le avvertenze di preparazione, le caratteristiche di purezza delle sostanze; a stabilire la conservazione separata di alcuni farmaci, per quanto non fosse ancora prevista la divisione tra veleni e stupefacenti; a descrivere i medicamenti galenici e la loro preparazione. Altre edizioni seguiranno nel 1902, 1909, 1920, 1929, 1940. 1965, La farmacopea della Repubblica italiana La farmacopea italiana conosce un passaggio particolarmente innovativo nel 1965, quando fu pubblicata la settima edizione della farmacopea nazionale, la prima del periodo repubblicano. Si tratta di una vera e propria rivoluzione. La nuova edizione accoglie, infatti, i farmaci scoperti negli anni cinquanta e le tecniche analitiche di dosaggio per rendere i farmaci stessi più sicuri ed efficaci. La farmacopea del 1965, inoltre, non è più pensata come uno strumento di lavoro utile soprattutto al farmacista, ma anche come codice di riferimento utile sia all’industria, sia agli organi di controllo dell’amministrazione pubblica. Il numero delle droghe vegetali fu drasticamente ridimensionato a vantaggio dei prodotti di sintesi chimica e la creatività e manualità del farmacista saranno via via sacrificate alle ragioni della grande industria farmaceutica. Le edizioni successive della farmacopea italiana vedranno la luce nel 1971-1981 (ottava), nel 1985-1991 (nona), nel 1998 (decima), nel 2002 (undicesima) e nel 2009 (dodicesima).


L’erbario di Trento

Con la nascita dell’Universimente curiose e affascinanti tà di Padova, erede indiscusper la loro fattura fantastica e sa della Scuola salernitana, allegorica che avvicina piutiniziò una sorta di revisione tosto il codice a quella nutrita di Ernesto Riva preumanistica delle antiche letteratura di “erbari minori” opere di materia medica che ben lontani dalla nuova impocondizionò fortemente gli erstazione amanuense legata bari d’ispirazione dioscoridea all’osservazione naturalistica prodotti nell’area veneta. La maturata nella scuola veneta più antica e significativa prodel XV secolo. duzione degna di nota fu una traduzione volgare di È evidente che i quattro erbari finora conosciuti, apun trattato di botanica medica di Serapione il giova- partenenti alla scuola veneta, abbiano applicato un ne scritto da un monaco padovano di nome Jacopo criterio di revisione alquanto radicale, orientato al reFilippo e dedicato a Francesco Carrara, signore di cupero dell’originale significato scientifico di questa Padova. È il Liber Agregà, oggi conservato alla Bri- materia sia dal punto di vista dei contenuti, strettatish Library (Egerton 2020), noto anche con il nome mente legati agli originali dioscoridei, sia dal punto di “Erbario Carrarese”. di vista figurativo, il più possibile fedele all’aspetto Più vasto e interamente illustrato è invece il cosid- reale. Anche nei contenuti che accompagnano le imdetto “Codice Rinio”, così definito perché apparte- magini il nostro erbario tende a discostarsi da questa nente al medico veneziano Benedetto Rinio, vissuto linea, avvicinandosi piuttosto alla vasta produzione tra il XIV e il XV secolo, in realtà opera di tale Nicolò medievale, sicuramente di maggiore attrattiva, fatta Roccabonella, medico proveniente dall’Ateneo pa- di dichiarazioni fantastiche intrise di magia e superdovano. Decisamente povero nel disegno è invece il stizione. Per talune erbe, tuttavia, e particolarmencosiddetto “Herbarium” di Antonius Guarnerinus de te per quelle facilmente riconoscibili, le indicazioni Padua compilato nella città di Feltre nel 1441 e ora sono piuttosto di carattere pratico e di impronta denella Biblioteca comunale di Bergamo. cisamente popolare. Ciò riporta il nostro erbario alla Il cosiddetto “Codex Bellunensis”, compilato nella parte medico-pratica del repertorio terapeutico elencittà di Belluno agli inizi del Quattrocento e ora pres- cato nelle 23 carte della seconda parte. so la British Library, sembra essere ugualmente di La seconda parte del manoscritto, completamente fonte padovana. Il codice è stato compilato indub- diversa dall’erbario dipinto che abbiamo appena debiamente in questa città, viste le numerose annota- scritto, rispecchia probabilmente lo stato della matezioni relative ai monti della vallata bellunese e ai luo- ria erboristica a conclusione di un processo secolare ghi di reperimento delle piante descritte che hanno e soprattutto l’evoluzione dei ricettari medico-pratici tutta l’aria di essere state riprodotte dal vero con illu- nella loro integrazione con gli erbari. strazioni tutt’altro che modeste. Uno dei più popolari ricettari del medioevo elaboraL’“Erbario di Trento”, infine, pur nascendo in que- to in questo contesto culturale fu il “Thesaurus pausto spazio temporale e in questo contesto culturale, perum” scritto da Pietro Ispano, portoghese di nascisembra mostrare, invece, degli aspetti alquanto di- ta, poi papa Giovanni XXI. Costui sin dai primi giorni versi. Il manoscritto, che misura 290x205 mm, è co- del suo pontificato mise a frutto le sue doti di mestituito da 66 carte: le prime 43 recano i disegni di 86 dico, filosofo e scienziato ponendosi al servizio dei piante medicinali con relative proprietà terapeutiche derelitti. Il suo “Thesaurus pauperum” fu appunto un e luogo di crescita, mentre le manuale di cure mediche ad rimanenti 23 contengono un uso dei poveri. L’”Erbario di Trento”, ms. 1591, fa parte ricettario con una chiara imNell’incipit della seconda pardelle raccolte provinciali d’arte deposipostazione da repertorio tete del nostro erbario, dedicatate presso il castello del Buonconsiglio rapeutico. ta al ricettario, l’intento del di Trento. Origini, percorso e contenuti I disegni sono piuttosto rucopista è chiaro: “in questo di questo codice sono descritti dettagliadimentali. Certamente non mio principio intendo distintamente da Michelangelo Lupo nel voluriproducono la pianta dal tamente descrivere uno el me L’Erbario di Trento (Trento, Provincia vero e sono ricopiati presuqual è chiamato Texauro delli autonoma di Trento, 1978). L’”Erbario di mibilmente da altri erbari. Alpoveri, el qual è extrato fuora Trento” è stato anche riproposto in edicune piante raffigurate sono delli secreti delli savij antixi et zione facsimilare da Priuli e Verlucca nel obiettivamente riconducibili amaistradi medixi”. E compie 2013. alla realtà; molte altre invecosì un intelligente lavoro di ce sono irriconoscibili, certaaggregazione tra il comples-

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so e a volte indecifrabile mondo degli antidotari e quello disordinato e spesso capzioso degli erbari, seguendo la linea guida suggerita dall’opera di Pietro Ispano. Nelle 23 carte che integrano l’erbario sono, infatti, elencati con elegante scrittura e con raffinate capolettere miniate ben 88 capitoli dedicati alle malattie, ognuno di questi provvisto di una serie di rimedi curativi contenenti ovviamente anche le erbe elencate nella prima parte. L’amanuense non riporta tutta l’opera di Ispano, come d’altra parte egli stesso afferma nell’incipit, ma ne trascrive le parti utili al contesto dell’erbario, senza però tralasciare le indispensabili fonti bibliografiche che alla fine risultano essere almeno una trentina tra autori e opere di medicina universalmente riconosciute dal mondo scientifico di allora. Le citazioni di Dioscoride sono moltissime, almeno metà dei capitoli ne riporta la testimonianza, come pure quelle di Galeno, che sono circa 29, e stanno a indicare l’impronta decisamente galenica del ricettario, indirizzato tuttavia alla cosiddetta “medicina dei semplici”, dove la testimonianza di Dioscoride di Anazarba non poteva certo mancare. Compaiono spesso citazioni di autori arabi della levatura di Avicenna, Albucasis e Razes e non mancano i riferimenti a coloro che furono i capisaldi della cultura medica siglata dai cosiddetti “antidotari” scritti da Nicolò Salernitano e Matteo Plateario. I frequenti riferimenti ai “Circa Instans”, autentiche pietre miliari della cultura erboristica, dimostrano quanto peso venga dato dal nostro autore alla cultura medico-pratica medievale maturata negli ambienti salernitani del secolo XI. Complessivamente il ricettario segue però l’impronta prevista da Pietro Ispano, ovvero quella dell’antidotario classico ricco di medicamenti ricavati dal regno vegetale, animale e minerale. Alcuni aspetti rivelano come questo elenco di ricette sia stato pensato soprattutto per la gente Foglio dell'erbario di Trento

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comune: innanzitutto per l’uso della lingua volgare e poi per il suggerimento di ricette di semplice esecuzione, ben lontana dai complicati medicamenti tipici degli antidotari ad uso di medici e speziali. Rimane il fatto che neppure questo ricettario si esime dall’utilizzo di quell’armamentario animale e di quei rimedi caratteristici di un ambiente culturale dove magia e religione convivevano nella vita quotidiana. Tutti i procedimenti medico-pratici per ottenere dei risultati terapeutici o estetici, procedimenti che a noi risultano obiettivamente irrazionali, erano conseguenza di una legge naturale familiare alla mentalità degli antichi e al loro modo di concepire la natura del corpo umano e le sue malattie. La scelta delle droghe era, dunque, fatta in base a concetti “signaturistici”: la forma, il colore, la struttura e il comportamento di un animale o di una pianta dovevano suggerire in qualche modo un’indicazione terapeutica particolare e specifica. Rimaneva poi il convincimento che tali rimedi potessero dare all’ammalato o alla parte del corpo ammalata quella forza e vigoria tipica dell’animale adoperato. Il ricettario, tuttavia, riporta anche una considerevole quantità di formule fatte di erbe e di medicamenti semplici, anche di origine animale e minerale, perfettamente coerenti con le prescrizioni medico-pratiche di quei tempi. Queste dunque alcune delle ricette più significative e di facile esecuzione elencate nella seconda parte del manoscritto che termina con una utilissima “tavola delle erbe” dove, in ordine alfabetico, sono elencati i nomi di tutte quelle erbe disegnate nella prima parte con relativo numero di carta di appartenenza. In conclusione si tratta di un manuale medico-pratico alquanto originale e di stampo divulgativo, con tanto di elencazione delle malattie con gli opportuni rimedi e i riferimenti alle proprietà medicamentose delle erbe descritte e disegnate nella prima parte, per quanto queste possano essere riconoscibili da disegni alquanto approssimativi.


Natura, erbe e salute

La volontà di reprimere ogni consolidata consuetudine comportamento intriso di elealla caccia, all’allevamento la testimonianza di menti giudicati superstiziodel bestiame e alla sua tutesi o paganeggianti espressa la, che rappresentano, con Pietro Andrea negli atti conclusivi del Conl’osservazione del comportaMattioli cilio tridentino, sostenuta nei mento istintivo animale che successivi Sinodi diocesani e queste pratiche implicano, riaffermata nelle disposizioun innegabile riferimento per di Rodolfo Taiani ni finali delle visite pastorali, molte conoscenze di tipo tenon mancò di far pesare la rapeutico. propria influenza anche sulla Ragioni di tipo politico-relisfera della terapeutica popogioso e particolari atteggialare. L’imposizione a fedeli e componenti del basso menti del clero locale concorrono, dunque, a deterclero di una più attenta osservanza dei Sacri Cano- minare nel trattamento della salute umana risposte ni e la sistematica condanna di ogni atteggiamento singole o collettive che, in un certo senso, possono deviante rispetto a queste norme possono, infatti, essere definite più “razionali” che altrove; a loro volta spiegare la particolare connotazione che ha assunto, condizioni ambientali e scelte di tipo economico fanspecialmente in Trentino, la tipologia degli operato- no sì che il regimen sanitatis sia saldamente ancorari empirici. Costoro sembrano accostare alle proprie to alla conoscenza e allo sfruttamento della proprietà competenze più che la sfera della bassa magia ce- dei semplici. rimoniale quella della sperimentazione fitoterapica. Tra le fonti che con maggiore ricchezza d’informaL’interpretazione del tipo di tutela della salute messa zioni e attendibilità testimoniano per il passato l’arin atto in questa zona non può prescindere, tuttavia, ticolazione e la globalità del patrimonio conoscitivo dalla valutazione di altri motivi che a vario titolo po- botanico delle genti trentine, vi è da annoverare l’otrebbero aver concorso nel determinare un quadro pera di Pier Andrea Mattioli (1501-1577), Dei discordi risposte che si intuisce complesso e articolato. si nelli sei libri di Pedacio Dioscoride, edita la prima L’azione di contenimento delle pratiche extraliturgi- volta nel 1527. L’illustre naturalista senese, che sogche, portata avanti con la mediazione specifica del giornò e percorse a lungo le valli trentine, testimonia sacerdote, costituisce, infatti, un elemento di com- comportamenti alimentari, diverse abitudini terapeuprensione senz’altro importiche, alcune denominaziotante, ma non l’unico. Vi è ni specifiche e svariati usi di innanzitutto la singolare consostanze vegetali previsti sia trapposizione tra illegittimità per un consumo strettamente di quanto è ai margini del repersonale sia per un mercato ligioso o del superstizioso e più vasto. liceità (palesata dal clero seIl bisogno e la ricerca di cibo colare e regolare) di quanto sono senza dubbio due tra i è in campo terapeutico tratto motivi più importanti che sodalla natura e, in termini ortospingono le popolazioni locadossi, messo a disposizione li ad esplorare la natura cirdell’uomo dalla bontà divina. costante. La fame costringe In secondo luogo la ricchezza talora i contadini a utilizzare dell’ambiente, sicuramente erbe che agli stomaci non nota ai residenti ed enfatizabituati possono provocare zata dal reiterato passaggio disturbi non lievi. È il caso di studiosi che in Trentino del “blito” che “chiamasi nel vengono con il preciso scoterritorio di Trento […] biedopo di conoscere e vedere ciò ne e mangiasi nei cibi spesse che altrove non c’è – la vavolte”. L’attento ricercatore rietà della flora, dei minerali non tralascia di registrare la e della fauna che caratterizricetta utile a comprendere za l’ambiente trentino – offre l’attenzione usata per rendere una perdurante molteplicità commestibili cibi non proprio di soluzioni a singoli probledelicati. Le foglie delle barbami di malattia. Vi è infine la Pietro Andrea Mattioli (1501-1577) bietole venivano prima lessa-

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te, successivamente fritte in padella ed infine condite. Nonostante ciò il “blito” risultava indigesto “come posso fare io vero testimonio, lesso fa vomitare genera dolor di stomaco e di budella e parimente flussi di corpo, movendo la colera”. Altrove un lavoro particolarmente faticoso e che obbliga a lunghe permanenze montane richiede, dal punto di vista alimentare, cibi non deteriorabili, ovviamente poveri, e che, a detta di chi ne fa uso, hanno elevati poteri nutritivi. È il caso dei “boschieri che fanno il carbone et tagliano la legna nel territorio di Trento, i quali non vivono di altro, che di mangiare con il latte e la polenta fatta di farina di miglio, impero ché non possono durare a quella fatica con altro cibo”. Alle consuetudini alimentari si alternano nelle pagine del Dioscoride alcune annotazioni riguardanti terapie che lo spirito critico del dotto giudica rozze e pericolose. Il frutto della “camelea” e della “timelea”, piante che nascono “copiosissime nei monti […] della giurisdizione di Trento è denominata dai villani del paese per esser molto acuto, pepe montano; perciocché quando è secco, si rassomiglia al pepe ed è ancora egli non poco acuto […] usano questo i villani per purgarsi quando si sentono amalati […] non accorgendosi che fanno poi cantare i preti e sonare le campane. Senza giungere a incidenti di simile gravità è, tuttavia, evidente che per Mattioli ogni rimedio utilizzato su sola base empirica, ignorandone cioè la classificazione delle proprietà, è da considerarsi pericoloso: “I contadini […] si curano la febbre terzana e quartana beendo il decotto dell’asaro fatto nel vino, con mele […] et così non solo cacciano gli umori del corpo per di sotto ma per vomito hancora spesse volte […]. Ma questo è proprio rimedio de contadini e da uomini robusti et gagliardi ma non ha da essere accettato da chi si vuol curare sicuramente con la ragione”. Precise indicazioni sul grado di competenza delle popolazioni rurali in fatto di erbe emergono, inoltre, dal campo delle denominazioni. Mattioli registra, ad esempio, il nome dato al “hiosciamo” in alcuni luoghi del Trentino e dice che “meritatamente lo chiamano disturbio perciocché disturba egli veramente tutti i sentimenti del corpo” e aggiunge di aver più volte visto in valle Anaunia “fanciulli che avevano mangiato il seme […] e davano a credere i padri loro fossero spiritati”. Oppure a proposito di quella pianta che ritiene di poter chiamare genziana minore riporta il nome attribuitole ancora in Anaunia e che è “pettinborsa”, ma aggiunge di credere che “coloro che la chiamano così v’abbiano corrotto il nome; perciò che mettinborsa si dovrebbe ella chiamare a venga che per le molte virtù sue sia degna, come cosa pretiosa, d’essere tenuta serbata tra l’oro nelle borse”. Le pagine del Dioscoride, infine, racchiudono in or-

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dine sparso usi specifici che, travalicando la sfera del corporeo, denotano diversamente la ricchezza di competenze vegetali, applicate in mestieri o attività nella soddisfazione di esigenze domestiche che possono essere adottate quali ulteriori prove dell’antica sedimentazione di questo sapere. È forse interessante rilevare che l’annotazione di Mattioli è in questo caso priva di qualsiasi commento, quasi che le ragioni dell’uso, pur letto da sì grande competenza, sfuggano. Il seme bianco prodotto da un particolare tipo di senape che è meno acuto di tutti gli altri, messo “nel mosto che non abbia ancor bollito, lo mantiene così dolce assai giorni. Et però l’adoprano color che portano i mosti dolci del Trentino per venderli in Alemania”. Altrove l’acume dell’esperienza è però apertamente dichiarato e riconosciuto valido. Accade così quando trattando degli alberi il naturalista sottolinea le proprietà di un legno, quello della betulla, avvalendosi di molteplici esempi tutti tratti dalla vita rurale: “Nasce la betulla abbondantissima per tutte le montagne del Trentino, il cui legno, è di forte tenace, e arrendevole, che i cerchi, che se ne fanno per le botti del vino non hanno pari in bontà. Quelli che abitano la valle Valle Anaunia, e quella del Sole, non solamente fanno dei suoi bedolli cerchia infinite, e carboni per liquefare il ferro, e altri metalli nelle fornaci migliori, che ritrovare si possono, ma si servono molto della corteccia per fare lume la notte: perciocché per esser piena di un certo liquore bituminoso abbruscia molto meglio della teda”. La conoscenza delle ricchezze naturali si esplica spesso in una sistematica attività di raccolta in grado di assicurare alle popolazioni locali una vera e propria forma d’introito. I mercati urbani mostrano, infatti, di apprezzare prodotti quali castagne, funghi, ribes, mirtilli o nocciole. Di questi ultimi due generi alimentari già Mattioli attesta il flusso montagna-città: “Mangiansi i mirtilli di pastori e da molti altri come le fragole onde si vendon pubblicamente sulle piazze”, dice a proposito degli uni, e, “copia infinita di avellane salvatiche […] se ne vede per tutte le montagne della Giurisditione di Trento ove con sacchi se le ricolgono i villani quando son mature”, afferma a proposito delle altre. Per dare l’idea di quanto questa attività potesse essere effettivamente praticata anche per generi di utilità farmaceutica, varrà la pena ricordare che essa dovette costituire una delle risorse a disposizione delle popolazioni locali per riuscire a integrare il proprio misero reddito. Nei “Cenni topografico-medici del distretto di Tione”, del primo quarto del secolo XIX, è attestato un traffico significativo di piante “medicinali, che raccolte da vari erbajuoli qual genere di non limitato comercio vengono trasportate nell’Italia e altrove”. Le piante maggiormente ricerca-


te, che risultano dall’elenco riportato nel manoscritto, sono l’angelica, l’arnica, la brionia, la cariofillata, la centaurea, la genziana, l’elleboro, l’imperatoria, il lichene, il napello, la valeriana, l’uva orsina, e la resina del terebinto. Poiché il rilievo è relativo al distretto di Tione, e l’anonimo estensore dei “Cenni” sostiene l’assoluta identità dal punto di vista del “regno vegetabile” con i distretti vicini, è ipotizzabile che il fenomeno di ricerca e smercio di piante medicinali fosse ugualmente diffuso in tutto il territorio del Tirolo. Ne è prova la raccolta delle resine – di cui fa parte, ad esempio, la “terebinthina” – che, svolgendosi in un settore di conflitto fra interessi demaniali e speculazione commerciale, dà luogo, con l’avvento della nuova amministrazione austriaca, a prese di posizione ufficiali. In precedenza già Mattioli aveva rilevato la tecnica differenziata dei raccoglitori riguardo ai prelievi dal larice e dall’abete: “Chiamano i paesani […] la ragia che distilla dal larice largà […]. Non esce questo per alcun tempo fuori per sé stesso e perciò coloro che lo ricolgono pertugiano il tronco dell’arbero una spanna, over due di scosto da terra, con grosso et lungo succhiello, fino al midollo, onde poscia distillando la state il liquore, se ne scende dall’albero in certi vasi fatti di corteccia di pezzo; il più splendido è quello che si cava dagli alberi giovani”. L’abete invece “fa quel liquore eccellentissimo che volgarmente è chiamato da chi lagrimo e da chi Olio di Avezzo […]. Questo si raccoglie dalla corteccia dell’Abete tanto in sul tronco quanto in sui rami, aprendo certe vesciche le quali gonfiandosi fanno segno che qui vi sia il liquore il quale vi si ritrova dentro generato tra scorza e scorza”. Così il naturalista senese sottolinea il largo uso dei due prodotti e testimonia, al tempo stesso, la diffusione di una comune attività di raccolta, in parte diretta all’uso privato, ma in parte sicuramente volta anche a soddisfare una domanda più estesa. Mattioli, infatti, non solo ammette d’aver lui stesso provve-

duto a raccogliere l’Olio d’Avezzo per i suoi personali bisogni, ma ricorda il rischio di contraffazione “imperochè per vendersi questo molto più caro, non manca chi vi mette della ragia del larice per accrescere il guadagno e la mercantia insieme”. Il traffico commerciale doveva estendersi poi ben oltre il confine del Principato vescovile di Trento se sempre nei Discorsi, parlando di altra pianta, il terebinto, è scritto: “nasce il vero terebintho a Trento copioso in sul monte di Castel Trento […] et da questi ho io più volte raccolto il frutto, i cornetti, e la ragia: la quale quantunque sia la migliore di tutte, non è però gran tempo c’ella si comincia a portare a Vinegia”. Trattandosi, in questo caso, di un tipo di raccolta devoluta non soltanto a usi alimentari o farmaceutici, ma anche industriali, il fenomeno acquista dimensioni di proibizione con l’insediamento del nuovo governo asburgico. Sarà probabilmente l’ampliarsi e il consolidarsi di questo mercato, ancora agli esordi al tempo in cui Mattioli scrive, a persuadere l’amministrazione austriaca dell’opportunità, finanziaria ed economica, di emanare nel febbraio 1817, nuove norme e divieti concernenti la raccolta delle resine. “Questa si faceva a salva mano giacché che le Comuni, o privati possessori di boschi, o da sé se la raccoglievano, o tolleravano che altri contro infine corresponsioni lo facessero”. Tale fatto – secondo un capoufficio forestale – dipendeva dalla scarsa attenzione che i Principi vescovi, possessori di gran parte dei boschi del Tirolo, avevano prestato alle leggi forestali e anche dalla contenuta domanda che la “produzione naturale” non provocata era chiamata a soddisfare. Essendo cresciuta dal finire del Settecento però la “fabbrica del catrame” ed essendo la resina utilizzata per “fabbricarlo e purgarlo” erano aumentate progressivamente le qualità raccolte, accumulate ora per mezzo di “maliziosi metodi” a causa del progressivo deterioramento del patrimonio silvestre.

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Lenire il tormento

Una delle prime testimocofarmacologia fu il tratnianze letterarie dell’imtamento dell’insonnia. Nel note di storia della piego di una sostanza 1857 Charles Locock (1799(farmacon) con azione 1875) utilizzò il bromuro, psicofarmacologia psicofarmacologica la troche si dimostrò comunque viamo nell’Odissea. Siamo poco efficace e alquanto di Felice Ficco a Sparta e, nel ricordare tossico. Nel 1868 l’idrato di Ulisse, Telemaco, Menelao cloralio fu impiegato come ed Elena vengono presi da farmaco per indurre e manuna crisi di pianto irrefrenatenere il sonno. L’acido bile. Allora Elena “gettò un barbiturico fu sintetizzato nel 1864, ma l’impiego in farmaco nel cratere in cui ambito medico avvenne soltanto nel 1903. Il primo si beveva; questa sostancaso di dipendenza da barbiturici si è avuto durante il za aveva il potere di calmaprimo anno di utilizzo del farmaco, ma è solo intorno re il dolore e la collera e di al 1950 che il fenomeno della dipendenza da barbidissolvere tutti i mali. Una turici fu studiato in ambito sperimentale e affrontadose nel cratere impediva, to. Nonostante ciò, la prescrizione di barbiturici è per una giornata intera, a chi proseguita ancora per diversi anni. la beveva di versare una lacriNel 1912 fu sintetizzata l’anfetamina, il cui imma anche se avesse perduto il piego nel trattamento della narcolessia (sonnopadre o la madre”. Nei poemi lenza frequente e improvvisa) avvenne nel omerici il rimedio della malinco1935 col nome di benzedrina. Il problema nia era il nepente, un miscuglio di della dipendenza da anfetamina erbe egizie i cui principi attivi erafu segnalato due anni dopo no in grado di “lenire il tormento”. il suo impiego, ma il probleSempre per la malinconia nell’anma sociale della dipendentichità veniva proposto l’estratto za esplose dopo la di elleboro (contenente alcaloidi seconda guerra sedativi e ipotensivi) e l’estratto di mondiale. radice di Mandragora (i cui principi Negli anni trenattivi sono rappresentati dall’atropina ta del XX secolo e dalla josciamina). Con l’estratto di iniziano a comelleboro ci si proponeva l’eliminazioparire i primi ne della bile nera attraverso l’intestino lavori che con(la sostanza, infatti, provoca diarrea); sentiranno di dil’estratto di mandragora veniva invece scostarsi sempre impiegato per la sua azione sedativa ed più rapidamente ansiolitica e per indurre il sonno nei melandalle cure impieconici agitati. gate per tanti secoIl termine psicofarmacologia fu impiegato per li. Nel 1931 due psila prima volta nel 1548 da Reinhard Lorichius chiatri indiani, Gananath (1500-1564), nell’opera Psychopharmakon, hoc est Sen e Kartick Chandra Bose, descrismedicina animae e lo ritroviamo, in un’accezione si- sero in un loro studio gli effetti antipsicotici di una mile a quella odierna, quasi quattro secoli dopo, nel pianta: la Rauwolfia. Nonostante questo studio fosse 1920, nell’opera del farmacologo David Israel Macht stato pubblicato in lingua inglese e su una rivista di(1882-1961). Il termine psicofarmacologia trova in- stribuita anche in Occidente, esso non ebbe alcuna fine pieno riconoscimento nel 1960 in un lavoro di risonanza per oltre vent’anni. Sherman Ross (1919*) e Jonathan O. Cole (1925- Fino a quando, dopo diversi tentativi fatti in vari labo2009) intitolato Psychopharmacology. ratori per estrarre gli alcaloidi attivi della Rauwolfia, La storia della psicofarmacologia più vicina a noi nel 1953 Hugo Bein non riuscì a isolare la reserpina. parte da importanti scoperte nel campo della chimi- Rapidamente alcuni psichiatri cominciarono numeca organica. Il suo inizio viene fatto risalire all’anno rose sperimentazioni con la reserpina, sia in Svizze1848, quando venne impiegata per la prima volta ra che negli Stati Uniti. Tra essi anche Nathan Kline l’anestesia a base di etere e cloroformio. Dopo la (1916-1983), uno dei pionieri della moderna psicoterapia del dolore, l’obiettivo successivo della psi- farmacologia. L’impiego della reserpina in ambito

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psichiatrico calò a causa dei suoi effetti ipotensivi e del fatto che, assunta nel tempo, determinava la comparsa di quadri depressivi. L’interesse maggiore della reserpina nella storia della psicofarmacologia sta nell’impulso decisivo che ebbero gli studi sul suo meccanismo d’azione ai fini delle decisive scoperte sul funzionamento delle sinapsi e delle amine biogene (neurotrasmettitori). S’iniziò a impiegare un ragionamento di questo tipo: non sappiamo come mai insorge il disturbo depressivo, ma sappiamo che vi sono sostanze in grado di indurlo. Studiando cosa accadeva a seguito dell’assunzione di reserpina, si osservò che tale sostanza era in grado di bloccare l’immagazzinamento delle catecolamine (noradrenalina e dopamina) e della serotonina a livello delle terminazioni presinaptiche. L’ipotesi era dunque che a determinare l’esordio di un disturbo depressivo fosse la carenza di sostanze come la dopamina, la noradrenalina e la serotonina. Di conseguenza, nacque quel filone di ricerca che portò alla sintesi di sostanze che fossero in grado di agire su specifici sistemi neurotrasmettitoriali con finalità terapeutiche. La psicofarmacologia moderna nasce negli anni cinquanta del secolo scorso con la scoperta fortuita di tutte le classi principali dei farmaci psicotropi: gli antidepressivi (triciclici e inibitori delle monoamino ossidasi), gli antipsicotici (fenotiazine, butirrofenoni), gli ansiolitici (benzodiazepine) e gli stabilizzanti del tono dell’umore (sali di litio). È quindi a partire dalla seconda metà del XX secolo che la chemioterapia come trattamento delle malattie mentali divenne un importante campo di ricerca e pratica. La maggior parte delle scoperte psicofarmacologiche sono state il frutto della serendipità. Con tale termine (mutuato da quello inglese, serendipity) si definisce una scoperta fortunata dovuta al caso. Questa strana parola fu coniata da un certo Horace Walpole, il quale, in una lettera a un amico scritta nella metà del Settecento, citava una fiaba persiana, I tre principi di Serendip (o Ceylon, oggi Sri Lanka), dove i sagaci eroi s’imbattono e scoprono accidentalmente cose che non cercano. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) un farmaco è una “qualsiasi sostanza che introdotta nell’organismo ne può modificare le funzioni”. Definiamo psicofarmaci quelle sostanze che, agendo sul Sistema nervoso centrale (SNC), modificano le alterazioni responsabili dei sintomi, determinando un miglioramento che può manifestarsi a livello del pensiero, delle emozioni e della condotta. Intorno al 1959 le neuroscienze erano dominate prevalentemente dal seguente paradigma: la comunicazione tra neuroni (le cellule del cervello) avviene attraverso segnali elettrici. La conseguenza di tale assunto era che le malattie

mentali fossero dovute a turbe della trasmissione elettrica, che solo le terapie come l’elettroshock potevano ristabilire. Nel corso degli anni tale ipotesi è stata smentita e, al presente (2013), l’ipotesi più accreditata è quella che i neuroni comunichino tra loro attraverso sostanze denominate “neurotrasmettitori” o “neuromediatori”. In questo caso l’assunto è che le malattie mentali sono dovute ad alterazioni di questi neurotrasmettitori. Quindi gli psicofarmaci, agendo su questi neurotrasmettitori, determinano un miglioramento dei sintomi presenti nei diversi disturbi. Alla fine degli anni quaranta lo psichiatra australiano John Cade (1912-1980) descrisse il trattamento dell’eccitamento maniacale con il litio (oggi ancora uno dei più efficaci farmaci nel disturbo bipolare come stabilizzatore dell’umore). Mentre stava conducendo esperimenti su animali, Cade notò quasi incidentalmente che il carbonato di litio rendeva gli animali letargici; ciò gli suggerì di somministrare il farmaco ad alcuni pazienti psichiatrici agitati. Antipsicotici. Se la scoperta delle attività psicotrope del litio fu fatta da uno psichiatra alla ricerca di un’anomalia biologica nelle urine dei pazienti con malattia maniaco-depressiva, quella della clorpromazina-largactil (una fenotiazina alifatica antipsicotica), sintetizzata da Carpentier nel 1950, fu fatta da un neurochirurgo militare francese di stanza in Tunisia, un certo Henri Laborit (1914-1995). Anche questa scoperta avviene per caso, all’inizio degli anni cinquanta: svolgendo alcune ricerche per conto della casa farmaceutica Rhone-Poulene relative a nuove sostanze antistamiche nella speranza di trovare farmaci in grado di calmare i pazienti prima dell’induzione della vera e propria anestesia e contemporaneamente di potenziarne gli effetti, Laborit resta sorpreso dalla tranquillità e dal distacco con cui i pazienti che hanno assunto clorpromazina reagiscono alle cruenze dei ferri, per di più senza risultarne sedati. Il neurochirurgo consiglia il farmaco ai colleghi psichiatri e lo esporta, abbastanza in sordina, all’ospedale militare parigino di Val de Grace. Jean Deley (1907-1987) e Pierre Deniker (1917-1998), due psichiatri parigini più risoluti, fortunati o disinvolti di Laborit, sperimentano con maggior sistematicità la sostanza ottenendo risultati sorprendenti: il farmaco sembra ripulire la mente dei pazienti schizofrenici, annullandone irrequietezza e deliri, senza tuttavia produrre sedazione o amnesie. Accade qualcosa di particolare nel loro cervello, qualcosa che incomincia ad assomigliare, per la prima volta in psichiatria, a una terapia specifica per un sintomo specifico. Possiamo affermare che la clorpromazina rappresenti il progenitore di tutti i neurolettici e il primo vero psicofarmaco. La sua scoperta segna l’inizio della psicofarmacologia moderna.

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La clorpromazina venne presto introdotta nella psichiatria americana e da allora sono stati sintetizzati molti farmaci di uguale efficacia, come l’aloperidolo (un antipsicotico butirrofenonico), scoperto nel 1958 da Paul Janssen (1926-2003). Oggi sono utilizzati in misura minore in quanto, da oltre vent’anni, sono stati introdotti nella cura dei disturbi psicotici nuovi psicofarmaci, i cosiddetti antipsicotici atipici (tra i quali abbiamo l’olanzapina, la quetiapina, il risperidone ed altri), per contraddistinguerli dai precedenti definiti antipsicotici tipici. Il vantaggio di questi nuovi psicofarmaci rispetto agli altri è dato da un’azione terapeutica più o meno equivalente ma, in teoria, con minori effetti collaterali. Antidepressivi (AD). I triciclici sono stati a lungo la classe principale di antidepressivi (AD), cosiddetti di prima generazione. Progressivamente soppiantati dagli AD serotoninergici, cioè inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), detti anche AD di seconda generazione, preferiti ai primi per i minori effetti collaterali. Gli SSRI agiscono inibendo in maniera selettiva la ricaptazione della serotonina a livello cerebrale, mettendo quindi a disposizione delle sinapsi neuroniche una quantità maggiore di serotonina. Tra i triciclici più noti si può citare l’imipramina (Tofranil). Mentre tra i serotoninergici il più noto è certamente la fluoxetina (il famoso Prozac). Il Prozac fa la sua comparsa nelle farmacie nel 1987 e, dopo soli tre anni, diventa il farmaco più prescritto dagli psichiatri statunitensi, dopo quattro anni il farmaco più venduto al mondo. Ricorderete forse la band “punk” Prozac +, nota per il tormentone “Acidoacida”, il cui successo musicale si esaurì nel giro di un anno. Ansiolitici. Tutti i farmaci che abbassano il “livello” d’ansia. Noti anche come tranquillanti minori, sono quasi tutti in grado di indurre sonno e sono detti per questo anche ipnoinduttori o ipnotici.

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La maggior parte degli ansiolitici agisce sul sistema neurotrasmettitoriale dell’acido gamma amino butirrico (GABA): la stimolazione al rilascio di questo neurotrasmettitore induce una progressiva diminuzione dell’eccitabilità del sistema nervoso centrale con conseguente diminuzione dell’ansia e tendenza all’addormentamento. La principale classe di ansiolitici è costituita dalle benzodiazepine che da circa quarant’anni hanno soppiantato i barbiturici nel trattamento delle forme ansiose, dell’insonnia e di alcune malattie epilettiche. L’ansiolitico più conosciuto è senza dubbio il Valium (diazepam) seguito dal Tavor (lorazepam). Il Valium entra in commercio nel 1963 sulla scorta degli studi che Leo Sternbach (1908-2005), chimico della multinazionale Roche, conduce negli anni precedenti sulla molecola diazepam. La leggenda vuole che alla Roche non abbiano grande fiducia nelle proprietà tranquillanti del Valium, fino a quando la molecola non mostra ciò di cui è capace, intervenendo sulle insopportabili turbe postmenopausali della suocera di uno dei dirigenti.


Farmaci e salute interviste con Vittorio A. Sironi e Andrea Mandelli a cura di Paola Bertoldi

Vittorio A. Sironi, medico, storico e antropologo, specialista in neurochirurgia e in storia della medicina, insegna Storia della medicina e della sanità nella facoltà di Medicina e Chirurgia dell’università di Milano Bicocca, dove dirige il Centro studi sulla storia del pensiero biomedico (www.cespeb.it). Autore di numerosi saggi inerenti la storia della medicina, le neuroscienze e le culture popolari (22 libri e 250 articoli su riviste nazionali e internazionali) ha fondato e dirige con Giorgio Cosmacini la collana Storia della medicina e della sanità dell’editore Laterza. È vicepresidente dell’International and Interdisciplinary Association on the Pharmaceutical Life Cycle, membro del comitato scientifico della Revue internationale sur le médicament e coordinatore del Gruppo di studio per la storia della neurochirurgia dalla Società italiana di neurochirurgia.

Andrea Mandelli è titolare di farmacia a Monza dal 1995. Nel 1990 è stato eletto nel Consiglio dell’Associazione dei giovani farmacisti di Milano (AGIFAR) dove ha ricoperto per due mandati la carica di Vicepresidente. Nel triennio 1996-1999 è stato Presidente della Federazione nazionale, FENAGIFAR. Eletto per la prima volta Consigliere dell’Ordine dei farmacisti delle province di Milano e di Lodi nel 1993, vi ha ricoperto per più mandati, fra il 2002 e il 2014, la carica di presidente. Nel 2001 entra a far parte del Comitato centrale della FOFI divenendone vicepresidente nel 2006 e successivamente presidente dal 2009 a oggi. Da fine 2010 è membro di diritto del Consiglio Superiore di Sanità; dal 6 aprile 2011 è componente della Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive. Il 25 marzo 2013 è stato eletto Senatore della Repubblica Italiana.

Vittorio A. Sironi: “Una collaborazione leale tra industrie farmaceutiche e nazioni in luogo di uno scontro distruttivo potrebbe aiutare a migliorare la salute di tutti”.

lattia era causata da un difetto o da un eccesso di uno dei quattro umori presenti nel corpo (sangue, bile nera, bile gialla e flegma) –, veratro, elleboro nero, belladonna e ruta erano le sostanze più comunemente impiegate per preparare i farmaci adatti a curare i malati: purganti, narcotici, diaforetici, diuretici ed emetici. Questa fitoterapia, che si basava su una farmacologia vegetale arricchita durante il Medioevo dalla sapienza araba e dall’esperienza dei monaci aromatari che all’interno dei loro conventi scoprivano le capacità curative delle erbe coltivate con cura nel “giardino dei semplici”, rimase per più di due millenni il cardine della terapia medica. Il Rinascimento, rinnovando la cultura europea, costituì un punto di svolta anche in ambito farmacologico. Paracelso (1493-1541) contestò in modo radicale il pensiero e i metodi curativi della concezione ippocratico-galenica. Egli proponeva una terapia protochimica, basata sulla trasformazione alchemica dei metalli e dei mi-

Quando e in che modo nasce la farmacologia come la intendiamo oggi e quali furono i suoi principali protagonisti? Da quando cioè possiamo parlare di farmaco moderno? La ricerca di rimedi efficaci contro il dolore e le malattie è sempre stata una preoccupazione costante dell’uomo sin dall’epoca preistorica. Il casuale riscontro empirico delle proprietà benefiche di una procedura o di un’erba le assegnava automaticamente il ruolo di rimedio efficace. Olio di ricino, melograno, tannino, oppio, aloe e menta erano parte integrante del comune bagaglio farmacologico degli Egizi, mentre nella medicina greca, che si rifaceva alla “concezione umorale” di Ippocrate (460-377 a. C.) – secondo la quale la ma-

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nerali ricavati scavando in miniera nel ventre della terra, in contrapposizione alle cure che utilizzavano i rimedi vegetali: una farmacologia di rottura nei confronti del passato. Una contestazione analoga avvenne due secoli dopo, quando la concezione “meccanica” degli eventi morbosi cedette il posto a una visione più “chimica” dei fenomeni patologici, premessa fondamentale per la nascita di una farmacologia razionale (chimica e non più solo alchemica) e sperimentale (verificata e non più solo empirica) dei rimedi terapeutici. Una farmacologia che, come la medicina, fu profondamente rinnovata nell’Ottocento da due eventi: da un lato l’isolamento e la determinazione della struttura chimica dalle piante medicinali del “principio attivo” responsabile dell’effetto terapeutico (morfina dall’oppio, caffeina dal caffè, chinina dalla china, nicotina dal tabacco); dall’altro la proposta di rigorose metodologie di ricerca e di nuovi modelli interpretativi delle malattie: la medicina sperimentale di Claude Bernard (1813-1878), la patologia cellulare di Rudolf Virchow (1821-1902) e la teoria dei germi di Robert Koch (1843-1910). Nella seconda metà del secolo la nascita di farmaci sintetici costituì la vera novità in ambito farmacologico. I farmaci non erano più estratti di sostanze vegetali, animali o minerali presenti in natura, ma composti “costruiti” artificialmente in laboratorio per sintesi chimica. Questa fu la “rivoluzione farmacologica” che diede vita ai primi veri farmaci moderni (Piramidone, Fenacetina, Aspirina) avviando il processo di industrializzazione della produzione farmaceutica, facendo del farmaco un rimedio innovativo per le sue enormi capacità curative e per la sua ampia e facile disponibilità, ma anche un prodotto in grado di determinare un rilevante profitto economico e, come tale, sottoposto alle rigide regole del mercato commerciale. Nel percorso che nel corso del Novecento porta alla nascita della farmacologia moderna quale noi oggi la conosciamo occorre ricordare, per il contributo determinante che essi hanno saputo dare, quattro scienziati: Paul Ehrlich (1854-1915), il primo vero assertore dell’importanza della chemioterapia nella lotta contro le malattie – in particolare quelle infettive – e lo scopritore dei recettori, cioè dei ponti chimici attraverso i quali i farmaci entrano nelle cellule per espletare la loro azione; Gerhard Domagk (18951964), colui che riuscì a produrre i primi veri chemioterapici antimicrobici efficaci, i sulfamidici; Alexander Fleming (1881-1955), lo scopritore della penicillina; Daniel Bovet (1907-1992), padre nobile della farmacologia moderna e iniziatore del processo di esplosione farmacoterapica del secondo dopoguerra grazie alle sue fondamentali scoperte sull’istamina

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e i suoi derivati e sul meccanismo d’azione dei curari. La medicina occidentale ha conosciuto impostazioni e orientamenti teorici molto diversi da quella orientale. In che modo queste differenze hanno determinato il peso del farmaco e l’approccio al suo impiego? La cultura occidentale, da Cartesio (1596-1650) in poi, ha sviluppato una dicotomia tra corpo e anima che ha inevitabilmente condizionato i suoi saperi culturali, scientifici e filosofici. Se il corpo in tutte le sue accezioni – quindi anche quelle relative alla salute e alla malattia – doveva essere l’oggetto di studio della scienza, lo spirito entrava invece obbligatoriamente nel campo d’indagine della filosofia e della teologia. Il corpo malato doveva essere curato con i farmaci naturali, vegetali, minerali o animali e poteva essere guarito dai medici, mentre lo spirito alterato perché peccaminoso poteva essere emendato con la preghiera solo dai teologi o dai filosofi. La cultura orientale non ha mai concepito l’uomo alla luce di questa divisione, ma al contrario ha sempre visto materia e spirito come espressioni di una stessa unitaria realtà. Ecco allora che i rimedi dovevano agire sulla totalità dell’uomo, fatto di corpo e anima.

L'alchimista, opera di autore tedesco ignoto, secolo XVIII


Perciò l’agopuntura o la maxibustione cinese, i farmaci della medicina ayurvedica indiana e le tecniche di massaggio e/o di manipolazione giapponese costituivano (e ancora oggi costituiscono) modalità terapeutiche differenti da quelle occidentali, perché agiscono a tutto campo per ricomporre l’equilibrio alterato tra yin e yang, ridanno ordine all’energia scompaginata dei meridiani, bilanciano il malfunzionamento delle singoli parti dell’unità corpo-spirito. Secondo lei il farmaco e la sua storia come hanno contribuito nel tempo a trasformare il rapporto medico-paziente? Nell’antichità per molti secoli restò normativa l’indicazione di Galeno (192-212 d. C.), secondo la quale il medico non solo doveva prescrivere la terapia più adeguata, ma egli stesso doveva preparare il farmaco e somministrarlo al malato. Solo nel 1240 il re di Sicilia Federico II stabilisce per legge una precisa distinzione tra il medico, cioè colui che prescrive i rimedi, e lo speziale, colui che deve preparare e fornire al malato i farmaci prescritti dal medico. Questo passaggio, pur importante ai fini di una migliore “competenza professionale” è anche destinato a cambiare profondamente il rapporto tra medico e malato: prima diretto e immediato, senza intermediazione alcuna, ora indiretto e mediato dallo speziale. Qualche secolo dopo Paracelso (1493-1541), in una prospettiva nuova di solidarietà tra simili (cioè tra uomini, il medico dispensatore di salute e il malato bisognoso di terapia), ripropone un rapporto diretto tra medico e malato, al punto tale che il medico è destinato a essere egli stesso la prima medicina (effetto placebo). In tempi a noi più vicini il rapporto tra medico e malato resta indiretto, ma viene modulato dal farmaco in una dimensione che potremmo definire “triangolare”: il medico indica al paziente il farmaco da assumere che viene dispensato dal farmacista il quale però, a sua volta, non è più il produttore ma semplicemente il dispensatore di un prodotto realizzato dall’industria farmaceutica. Ne consegue un’ulteriore “perdita di contatto” tra medico e paziente, poiché spesso il primo diventa semplice prescrittore e il secondo semplice consumatore di un rimedio che è solo “elemento di contrattazione” in una dialettica diagnostico-terapeutica assai asettica, attenta alla malattia più che al malato. In che modo secondo lei il farmaco e la sua storia hanno contribuito alla definizione dell’attuale concetto di salute? Per molti secoli la salute è stata intesa inizialmente come sopravvivenza in un ambiente ostile e poi come assenza di malattia. In questo senso lo sforzo di trovare farmaci in grado di alleviare i sintomi più gravi (dolore, febbre, diarrea, vomito per citarne al-

cuni) e di far guarire i malati affetti da gravi patologie (come per esempio le malattie infettive o i tumori) ha caratterizzato le tappe più importanti dell’evoluzione farmacologica. Dal secondo dopoguerra del Novecento si è passati a una concezione più estensiva e positiva di salute intesa come benessere psicofisico: una visione eccessivamente ottimistica e abbastanza utopica, ma significativa sul piano dell’intervento farmacologico, perché accanto all’impiego di rimedi in grado di alleviare i sintomi ed eliminare le cause delle malattie, si è iniziato ad utilizzare farmaci anche per prevenire l’insorgenza di processi patologici o modificare la storia naturale di molte malattie (si pensi ad esempio all’uso di farmaci antipertensivi o antidiabetici capaci di permettere al paziente una lunga convivenza con la sua malattia evitandone le complicanze letali). Quando poi, in questi ultimi anni, si è incominciato a utilizzare farmaci biotecnologici o terapie genetiche, si è aperta la prospettiva di poter modificare le condizioni estrinseche (ambientali) e intrinseche (ereditarie) alla base di numerose condizioni patologiche. In tal modo il concetto di salute si è ulteriormente modificato: oggi significa realmente evitare di ammalarsi e tentare di eliminare alla radice le cause di molte malattie per poter effettivamente avere una condizione esistenziale di vero benessere fisico e psichico. Le vicende storiche hanno sicuramente influenzato il processo di diffusione e affermazione dei farmaci. Quali collegamenti più significativi secondo lei si possono evidenziare nei vari paesi europei e nelle varie epoche fra evoluzione della farmacologia e della società, includendo in questo termine tutte le componenti sociali, culturali, economiche, politiche e religiose? Negli ultimi due secoli troviamo ottimi esempi per comprendere come l’influenza sociale, economica e religiosa abbia inciso sulla nascita, sulla diffusione e sull’uso dei farmaci moderni. Quando, come abbiamo già detto, verso la metà dell’Ottocento nascono i farmaci di sintesi e, con questi, inizia il processo di industrializzazione della produzione farmaceutica, si può rilevare come queste nuove modalità di produzione dei farmaci rispondevano anche ai bisogni emergenti dalla rapida trasformazione che la società stava subendo in seguito all’industrializzazione iniziata a fine Settecento: inurbamento della popolazione, aumento dell’incidenza delle malattie infettive, peggioramento della qualità della vita, necessità di mantenere al massimo integra la forza-lavoro. Le differenti modalità con cui l’industria farmaceutica si sviluppa in paesi come la Germania e la Svizzera rispetto ad altri, come l’Italia e la Francia, sono fortemente influenzate non solo da

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fattori economici, ma anche da diverse condizioni culturali e religiose. I paesi di lingua e cultura tedesca furono quelli dove, per il concorrere di molteplici elementi (presenza di un’importante tradizione di studi chimici, innovativa visione medico-biologica, disponibilità economica di grandi capitali, forte capacità imprenditoriale legata alla religione calvinista), l’industria farmaceutica si sviluppò come continuazione o filiazione di quella chimica dei coloranti: Bayer e Hoechst (1863), BASF (1865) e Schering (1871) in Germania, CIBA e Geigy (1884), Sandoz (1886) e Hoffman-La Roche (1894) in Svizzera sono le prime e principali industrie di coloranti e di farmaci che sorgono in quegli anni. Nei paesi di lingua latina l’industria farmaceutica prese invece avvio dalla trasformazione dei numerosi laboratori che affiancavano le botteghe degli speziali. Questo dipese da condizioni culturali ed economiche differenti e dalla presenza di un substrato religioso più conservatore. La grande tradizione fitoterapica che aveva fatto dell’Italia per oltre un millennio il punto di riferimento della cultura farmaceutica europea, la gestione domestica delle farmacie derivate dalla trasformazione delle botteghe speziali che si ereditavano di padre in figlio per diverse generazioni, la limitata disponibilità economica di queste imprese a carattere familiare, la religione cattolica – elemento conservatore di coesione comunitaria ma anche di freno al progresso – contribuirono a far sì che, in questo humus, i farmacisti più intraprendenti (come a Torino Giovanni Battista Schiapparelli nel 1823, a Milano Carlo Erba nel 1853, Ludovico Zambeletti nel 1864 e Roberto Giorgio Lepetit nel 1868) riuscirono a dar vita a importanti stabilimenti farmaceutici, che seppero poi imporsi non solo a livello nazionale ma anche internazionale. In questi ultimi anni l’imprintig religioso come elemento in grado di influenzare profondamente, più ancora dell’estrazione sociale di appartenenza e del livello culturale posseduto, il rapporto coi farmaci è stato messo in evidenza da una ricerca svolta dall’antropologa france-

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se Sylvie Fainzang. In un recente libro, di cui ho curato l’edizione italiana insieme alla sociologa Mara Tognetti, l’autrice esplora le differenze sul modo in cui i pazienti di diversa estradizione culturale e religiosa (cattolici, protestanti, ebrei e musulmani) accolgono la prescrizione medica e assumono la terapia proposta. I risultati di questa indagine sono sorprendenti: cattolici e musulmani non discutono la ricetta che il medico scrive, mentre ebrei e protestanti “contrattano” col medico le loro prescrizioni. Molti farmaci prescritti vengono comprati, ma non sempre vengono assunti. Spesso la sola presenza in casa della confezione (anche se intatta) può assumere valore terapeutico, come nel caso dei musulmani. Questi ultimi poi, come gli ebrei e i cattolici, rifiutano l’assunzione di farmaci dal cattivo sapore. I protestanti non vogliono assumere psicofarmaci. I cattolici spesso non terminano la terapia prescritta e spesso tendono a “passare” ai familiari i farmaci loro prescritti quando ritengono che essi abbiano sintomi o malattie simili a quelle per le quali erano stati loro prescritti quei farmaci, mentre per i protestanti i farmaci sono strettamente individuali e non devono essere assunti da nessun altro. Il libro aiuta a capire anche come l’uso dei farmaci costituisca un parametro importante per analizzare i comportamenti degli individui e i cambiamenti sociali, dimostrando come l’utilizzazione dei farmaci cambi radicalmente all’interno della stessa società quando la multietnicità ne diventa un tratto saliente. Questo porta a pensare, come ho scritto nell’introduzione all’edizione italiana del libro, che biologia, cultura e società interagiscano attivamente nel determinare l’azione curativa (o non curativa) del farmaco, rompendo lo schema lineare del rapporto causa-effetto tra rimedio e risultato – sino ad ora utilizzato per valutare l’efficacia di un trattamento terapeutico – a favore di una prospettiva circolare che evidenzia la necessità di indagare il dinamismo esi-


stente tra rimedio, interazione individuo-ambienteconoscenza-aspettativa e risultato. Una “rivoluzione copernicana” per consentire di osservare il farmaco quale esso è realmente: un poliedrico protagonista della scena terapeutica. La storia del farmaco è spesso rappresentata come un continuo percorso di scoperte, di superamento di vecchie tradizioni, di studi pionieristici. Quale peso assume in questo processo, sempre che esista, o nella rappresentazione che se ne vuol dare, la componente etica? Una corretta etica della ricerca di rimedi efficaci e un sostanziale rispetto etico verso il malato sofferente si sono intrecciati con un’altrettanto importante etica economica in vari momenti della storia del farmaco. La medicina ippocratica imponeva al medico il precetto primum non nocere (per prima cosa non dare nulla al malato che gli possa nuocere, piuttosto astieniti da ogni azione che possa risultare dannosa) e la regola di assecondare, nelle prescrizioni farmacologiche, la magna vis medicatrix naturae (la grande forza guaritrice che è già insita nella natura stessa). Questo modo di procedere era da un lato espressione di grande attenzione etica verso il malato (che veniva curato gratuitamente) e dall’altro di un rigore farmacologico che costringeva a usare solo rimedi sicuri. Il medico ippocratico doveva tenere sempre presente che il pharmacon poteva essere sia una pozione benefica che un veleno e che quindi esso doveva essere utilizzato con grande cautela. Nel Medioevo anche i monaci aromatari possedevano questa triplice dimensione etica, alla quale si aggiungeva, nel loro caso, anche l’elemento caritativo derivante dall’appartenenza alla chiesa cattolica. Sia pure nella logica commerciale che caratterizzò le prime industrie farmaceutiche, ritroviamo, anche in questo frangente storico, la presenza di una dimensione etica, determinata da un lato dalla sincera aspirazione di essere veri artefici della scoperta di nuovi farmaci realmente in grado di cambiare la storia delle malattie e di guarire i malati, e dall’altro dal fatto che l’imprenditore si sentiva sovente più impegnato a migliorare la società che a trarre esclusivamente ed egoisticamente solo profitto dalla sua impresa. Questo spirito pionieristico e innovatore, che spingeva la nascente industria farmaceutica a investire in termini scientifici, umani ed economici nella ricerca del “progresso medico-farmacologico”, si è oggi smarrito in una dimensione industriale, quella dalla big pharma (le multinazionali del farmaco), che ragiona quasi esclusivamente in termini di logica finanziaria fine a se stessa. Se ci occupiamo di storia dei farmaci si parla necessariamente anche di storia di imprese e quindi di aziende rivolte al perseguimento di profitto. I

farmaci però non sono normali beni di consumo. Come possono dialogare questi due aspetti? È utopistico pensare di assegnare all’industria del farmaco una funzione di utilità sociale che la svincoli dalla finalità di lucro? E in tal senso possono le più recenti sentenze contro la Bayer, la Novartis e la Roche in favore del governo indiano rappresentare una sorta di precedente? I farmaci non sono normali mezzi di consumo perché sono prodotti dotati del potere intrinseco di poter donare la salute: un valore aggiunto quindi che giustifica il fatto che essi debbano essere messi a disposizione a condizioni eque di chiunque ne abbia bisogno perché malato. Nonostante ciò è giusto che ad esso sia attribuito un valore di mercato, perché le industrie farmaceutiche non sono enti non profit ma aziende commerciali. Il farmaco poi è sempre più un “prodotto complesso”. Lo è non solo perché sono cambiate le modalità della sua evoluzione interna (il passaggio con la rivoluzione farmaceutica ottocentesca dai farmaci empirici naturali ai farmaci mirati sintetici che ha costituito la base di sviluppo per realizzare oggi quei farmaci “intelligenti” biologici che hanno poi portato al superamento dei “farmaci per tutti” in favore di nuovi “farmaci individuali su misura”), ma anche perché i fattori sociali esterni (influenze ambientali, situazione economica, condizioni culturali e credo religioso) possono significativamente incidere sul rapporto del malato col farmaco e sull’azione terapeutica che quest’ultimo svolge. Il farmaco è diventato sempre più uno “strumento” che esplica la sua azione terapeutica mediante un uso non solo farmacologicamente determinato, ma anche culturalmente mediato. In questa prospettiva si devono leggere anche le recenti sentenze contro Novartis, Bayer e Roche del governo indiano, che ha negato l’autorizzazione a queste industrie di brevettare molecole che in realtà, nonostante alcuni ritocchi “cosmetici” delle loro formulazioni, erano già presenti sul mercato da almeno due decenni. Tentare di conciliare l’esigenza dei malati, che ovunque si trovino debbono poter accedere alle terapie efficaci disponibili, e quella della big pharma (le multinazionali farmaceutiche) che pure, senza esagerare nell’acquisizione dei loro profitti – come troppo spesso accade – o di rinverdire un vecchio prodotto per rimetterlo sul mercato come “nuovo” (tecnica dell’evergreening), hanno necessità di tutelare i loro brevetti di farmaci innovativi, richiede uno sforzo comune per la ricerca di soluzioni inedite. Come quella di pensare di vendere lo stesso prodotto a prezzi differenziati su mercati forzatamente contraddistinti da fasce di mercato diverse, in rela-

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zione alle reali possibilità economiche delle tipologie di utenti, magari attraverso accordi nazionali individualizzati. In tal modo si potrebbe salvaguardare una ricerca industriale che oggi non osa più rischiare grandi investimenti (che ammontano a centinaia di miliardi di dollari) per produrre una nuova molecola. Mancano farmaci efficaci contro le malattie degenerative del sistema nervoso centrale, da decenni non escono nuovi antibiotici e anche la ricerca di terapie antitumorali efficaci non registra risultati eclatanti. Una collaborazione leale tra industrie farmaceutiche e nazioni in luogo di uno scontro distruttivo potrebbe aiutare a migliorare la salute di tutti. Nella prefazione del suo libro Le officine della salute: storia del farmaco e della sua industria in Italia viene citata una domanda di Coulter: “La necessità dell’industria di brevettare sempre nuovi farmaci produce effettivamente la salute pubblica?” Quale risposta lei si sentirebbe di dare oggi? Purtroppo bisogna rispondere in maniera negativa. Come ho in parte già accennato prima, sono mancati negli ultimi vent’anni farmaci realmente innovativi e farmaci per malattie assai diffuse, ma poco “redditizie” in termini di mercato. Le grosse industrie farmaceutiche sono indirizzate a fare ricerca e a produrre farmaci solo per patologie presenti nei paesi industrializzati, che coinvolgono una parte limitata ma ricca della popolazione, che quindi può acquistare a prezzo di mercato questi farmaci con ottime possibilità di guadagno per l’industria. Farmaci per patologie gravi, spesso letali e molto diffuse nei paesi poveri del Terzo Mondo – si pensi alla lebbra, alla malaria, al tracoma, solo per citare alcuni esempi –, non interessano l’industria perché non hanno mercato. Quindi, anche se la ricerca in questi settori potrebbe portare alla scoperta di nuovi efficaci farmaci in modo relativamente semplice, questo non viene fatto. Sicché non si può certo affermare che la necessità dell’industria di brevettare nuovi farmaci sia un effettivo vantaggio per la salute pubblica. La farmacologia oggi “gode di buona salute”? Le persone hanno ancora fiducia nei farmaci di sintesi chimica oppure è cresciuta la diffidenza nei loro confronti? Oggi la ricerca di “farmaci alternativi” (verdi, rispetto a quelli chimici), così come il ricorso a medicine non convenzionali rispetto alla biomedicina, sono “mode” molto diffuse. Questo è dovuto a vari motivi. La crescente dicotomia da un lato tra tecnologia e antropologia nella gestione della malattia da parte del medico, e dall’altro tra attese e risultati da parte del malato, ha causato in questi ultimi decenni una crisi culturale della biomedicina, sempre più avvertita da ampie fasce di medici.

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A questo divario tecnologia/antropologia si è aggiunto anche un altro corollario: il crescente problema della “medicina patogena”, vale a dire degli effetti iatrogeni che pratiche mediche e farmaci possono indurre negli individui che cercano di curare: malattie o danni prodotti da quegli stessi operatori o da quegli stessi mezzi che li dovrebbero guarire. Infine, in un mondo sempre più globalizzato, la biomedicina non può sottrarsi al confronto con altre medicine, nate e sviluppatesi in altri contesti geografici e culturali (come ad esempio le medicine orientali – medicina tradizionale cinese, ayurveda, agopuntura) o in altri momenti storici (come ad esempio l’osteopatia, la chiropratica, l’omeopatia o la medicina antroposofica) che utilizzano criteri di lettura della realtà fisiologica e patologica degli esseri viventi diversa da quella biomedica e che rispondono a esigenze culturali e ideologiche assai presenti oggi nella nostra società (dimensione ecologica, attenzione olistica, visione multiculturale). E ciascuna di queste medicine ha i suoi farmaci tradizionali che non coincidono con quelli della biomedicina. Quali sono secondo lei le prospettive future? In ambito farmacologico stiamo già vivendo una terza rivoluzione, dopo la prima determinata dalla nascita dei farmaci di sintesi a metà Ottocento e la seconda legata alla scoperta degli antibiotici e all’esplosione farmacoterapica di metà Novecento. Agli inizi del Terzo millennio l’impiego di farmaci biotecnologici e della terapia genica, l’uso di farmaci “personalizzati” grazie alla farmacogenetica e alla farmacogenomica, la farmacologia di genere (farmaci maschili e femminili) e d’età (farmaci per bambini e per anziani) e la possibilità di utilizzare nanofarmaci aprono la strada a una farmacologia molecolare destinata a cambiare il nostro attuale concetto di farmaco. In ambito farmaceutico le crescenti difficoltà e la scarsa flessibilità (economica ma soprattutto scientifica e culturale) delle grandi maxindustrie (big pharma) hanno favorito la creazione e la proliferazione, soprattutto inizialmente negli Stati Uniti, ma ora anche in Europa, di migliaia (circa 200 in Italia) di laboratori di ricerca di piccole dimensioni o di minuscole aziende basate su pochi progetti promettenti dal punto di vista biofarmacologico in grado di attrarre capitali privati per consentirne la realizzazione (biotech companies). Sono aziende che hanno avuto origine separandosi da un’industria più grande o dall’università (spin-off) oppure società fondate da un gruppo di ricercatoriimprenditori con lo scopo di elaborare un progetto nuovo (start-up). Sono di fatto inventori di farmaci virtuali e venditori di idee alle grandi industrie. La loro agilità economica e culturale permetterà a queste piccole e dinamiche aziende biotecnologiche, se


i loro progetti avranno successo, di essere le protagoniste del mondo farmaceutico del futuro, dedicandosi anche a settori di nicchia, come quello delle malattie rare e dei farmaci orfani. Andrea Mandelli: “Quando si ha di fronte una richiesta di salute di un cittadino si deve guardare la persona nel suo complesso”. Farmaci e salute non sono certo sinonimi, ma è senz’altro vero che oggi questi due termini raramente vengono usati in modo disgiunto. Fino a che punto sussiste una simile relazione? La risposta non è semplice. D’acchito si deve dire sì, la relazione esiste, perché da decenni malattie che parevano curabili soltanto con interventi chirurgici oggi trovano una cura farmacologica, oppure perché la stessa terapia farmacologica è divenuta meno invasiva, anche restando a patologie meno gravi: più raramente si ricorre, per esempio, a terapie antibiotiche iniettive. Questo innegabile progresso, però, ha fatto sì che si creasse la convinzione che per qualsiasi condizione giudicata spiacevole, magari nemmeno attinente la salute in senso stretto, esista il farmaco risolutore: purtroppo così non è. L’avvento di Internet ha rappresentato una svolta nella circolazione delle informazioni: nessun altro strumento di comunicazione può competere con il web da questo punto di vista e “medicina” è una della parole più diffuse sulla rete. Questo nuovo strumento come ha influenzato secondo lei la percezione, le modalità e il concetto stesso di farmaco? Ha contribuito a consolidare una domanda di farmaci e una corrispondente offerta guidate solo dalla capacità di persuasione della pubblicità sul potenziale acquirente? Si può parlare, anche solo tendenzialmente, di progressiva demedicalizzazione del farmaco? Il fenomeno che si descriveva prima si è formato sotto la spinta di diversi fattori e uno dei più importanti è appunto il più facile accesso alle informazioni sui farmaci reso possibile dai nuovi mezzi di comunicazione. È possibile senz’altro che abbia contribuito a rafforzare la fiducia nel farmaco e anche la domanda di alcuni farmaci, ma non lo vedrei come un fenomeno a senso unico: in molti casi ha operato anche a diminuire la fiducia in questa o quella terapia, quando addirittura non ha contribuito all’affermarsi di tendenze irrazionali. E qui si entra nel punto fondamentale: il canale ha caratteristiche uniche rispetto ai mezzi del passato, ma resta il discrimine tra buona informazione e cattiva informazione. Poi c’è l’aspetto della demedicalizzazione. Da un certo punto di vista sì, il medicinale più ancora che demedica-

lizzato è stato banalizzato, complice anche il fatto di averlo sottratto almeno in parte a un ambito sanitario, la farmacia, e di averlo portato tra i banchi del supermercato. Insomma si è diffusa la convinzione che prendere una compressa se si ha il mal di testa sia la stessa cosa che usare lo smacchiatore su una giacca, mentre in realtà resta sempre un atto importante, che può avere conseguenze anche gravi. D’altra parte si è tentato anche di medicalizzare altre tipologie di prodotti, attribuendo loro effetti addirittura curativi. In realtà la situazione è molto complessa e richiede, nella pratica professionale, la capacità di essere “informati sulle informazioni” in possesso del paziente, di ristabilire i confini, per esempio, tra l’automedicazione e il fai da te incontrollato, di ristabilire anche aspettative realistiche nei confronti del farmaco o del prodotto salutare. Secondo lei come è cambiato nel tempo il ruolo del farmacista? Una recente indagine dice che per gli italiani è fondamentale il consiglio del farmacista quale figura di riferimento in grado di indirizzare verso un certo prodotto e garantirne la qualità e la corretta assunzione. Quanto è importante questo rapporto di fiducia e quanto dev’essere reciproco? Condivide l’affermazione di chi, farmacista da lunga data, si sente di affermare che bisogna intervenire in soccorso di qualsiasi persona ricordando sempre di non trovarsi davanti a una malattia ma a un individuo affetto da un’infermità? Credo di aver risposto già in parte per quanto riguarda gli aspetti tecnici; quanto al rapporto fiduciario è fondamentale e, fortunatamente, la reciprocità c’è e il farmacista è consapevole che si tratta di uno dei suoi “strumenti” più preziosi. È altrettanto vero che quando si ha di fronte una richiesta di salute di un cittadino si deve guardare la persona nel suo complesso. Questo è vero sul piano medico e farmacologico, perché quando viene richiesto un analgesico o un digestivo si deve sempre considerare, nel consigliare, se la persona che si ha di fronte assume altri medicinali e quali, se ha malattie che rendono controindicate certe classi di farmaci anche da banco. Faccio un esempio: chi soffre di asma non dovrebbe assumere FANS. Poi c’è la necessità di considerare la persona nella sua complessità, anche perché può emergere che chi si ha di fronte, magari, ha bisogno non di un farmaco ma semplicemente di un consiglio, di uno scambio col professionista. Come si è evoluto nel tempo il concetto di etica all’interno della professione farmaceutica? Quali influenze ha subito e a quali principi s’ispira oggi il rispettivo codice deontologico? In tutta sincerità non credo che i principi ispiratori dell’etica professionale siano mutati. Primum non ledere era un principio fondamentale in epoca classi-

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ca e resta tale. Poi è evidente che i principi generali oggi vanno declinati in funzione del contesto concreto in cui vengono a calarsi, ma si tratta, appunto, della loro applicazione. Credo in generale che oggi tutti i professionisti della salute – il farmacista come il medico o l’infermiere – debbano soprattutto considerare che il rapporto paternalistico con il paziente è entrato in crisi da tempo, per tutte le ragioni che abbiamo discusso: oggi si deve essere aperti a un confronto meno asimmetrico, nonché cogliere ragioni e desideri di chi si ha di fronte. Che cosa pensa dell’iter formativo previsto oggi in Italia per giungere a esercitare la professione di farmacista? Quali sono i punti di forza, quelli di debolezza e le differenze rispetto ad altri Paesi europei? Il farmacista ha avuto e ha come punto di forza la polivalenza, ma è innegabile che oggi al farmacista si prospetta la necessità di assumere un ruolo più attivo nel processo di cura sul territorio, sia nella farmacia di comunità, sia nell’ospedale con l’istituzione del farmacista di dipartimento. Questo comporta la necessaria attribuzione di un peso proporzionalmente maggiore alle discipline cliniche come la farmacologia, rispetto a quelle chimiche, giustamente preponderanti quando il farmacista era in primo luogo colui che preparava il farmaco. Vi sono poi due aspetti metodologici da tenere presenti: il primo è che se il contatto con il paziente diverrà sempre più frequente il farmacista dovrà, oltre che sapere, sapere fare,

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cioè erogare la sua prestazione al paziente. Non è un mutamento da poco, ma a questo se ne deve per forza di cose affiancare un altro e cioè la specializzazione. Come ha dimostrato una ricerca condotta dall’Osservatorio FOFI-SDA Bocconi, ormai si sta passando dalla professione di farmacista alle professioni del farmacista, nel senso che si stanno creando, all’interno dell’industria, della distribuzione, del Servizio sanitario e della farmacia stessa, nuovi ruoli che il farmacista può e deve ricoprire ma che richiedono competenze e nozioni specialistiche. Quindi si impone una riforma del corso di laurea e prevedere una formazione post laurea in funzione delle nuove richieste del comparto sanitario e farmaceutico. Peraltro è un obiettivo che tutta l’Unione europea si pone, come prova la partenza del Progetto Pharmine, che altro non è se non la ricognizione, voluta dalla Commissione Europea, dei fabbisogni formativi del farmacista. Quali frontiere si stanno aprendo nel campo della ricerca sui farmaci? E, allo stesso tempo, quali sono le problematiche che frenano l’innovazione? Senza entrare nei dettagli, mi sembra che le linee di tendenza fondamentali siano due. La prima è che il farmaco di sintesi abbia esaurito le sue possibilità di creare innovazione: ci potrà essere miglioramento, perfezionamento dell’esistente, ma è chiaro che oggi è il farmaco biotecnologico a spostare più in là la frontiera tra ciò che si può curare e ciò che non ammette un trattamento. Ma si intravvede già il passo successivo, cioè la personalizzazione del farmaco, sia al momento di individuare il nuovo medicinale giusto per quella malattia di quel paziente – compito della farmacogenomica –, sia per scoprire il modo migliore di impiegare un farmaco, vecchio o nuovo che sia, nel paziente portatore di un corredo genetico che determina una risposta particolare al trattamento, che è quanto ci garantisce la farmacogenetica. Oggi assistiamo a un fenomeno duplice: da un lato le persone ricorrono sempre più massicciamente ai farmaci, dall’altro aumenta la sfiducia nei confronti della medicina ufficiale (con il ricorso a discipline diverse quali omeopatia, naturopatia, riflessologia ecc). Come si può spiegare questa apparente contraddizione? Non la spiego, nel senso che è sempre esistita e credo sia da riferire alla legittima speranza di ciascuno di poter sempre risolvere le sue difficoltà. E questo senza nulla togliere o aggiungere al valore delle singole discipline citate. È comprensibile che si sia creata la convinzione che si possa curare tutto in tutti i casi, visti gli innegabili progressi della medicina, e che di fronte a inevitabili insuccessi si cerchi un’altra strada. Dal tradizionale all’alternativo, ma anche viceversa.


Come giudica la prospettiva di affidare alle farmacie sparse sul territorio anche funzioni di primo intervento sanitario, ossia di sportello presso il quale qualsiasi cittadino possa rivolgersi non solo per l’acquisto di farmaci, ma anche per interventi di vario genere, dalla prestazione infermieristica alla misurazione della pressione, dai prelievi alle prime analisi di laboratorio? Non posso che giudicarla positivamente, visto che questa della farmacia dei servizi è stata una proposta federale, presentata già nel 2006, nel nostro documento sull’evoluzione della professione. Oggi l’imperativo è spostare l’assistenza sul territorio, abbandonando il modello centrato sull’ospedale, che ha la funzione primaria di trattare il paziente acuto. Trattare le malattie croniche nell’ospedale, infatti, rappresenta un esborso, in termini economici ma anche di risorse, oggi non più sostenibile anche per il progressivo invecchiamento della popolazione. Ma curare sul territorio significa necessariamente avvalersi delle farmacie anche per altre prestazioni sociosanitarie oltre alla dispensazione del farmaco. Oltre a quelle che lei cita, vanno poi considerate tutte le prestazioni legate a migliorare l’aderenza del paziente alle prescrizioni del medico, uno dei nodi centrali non soltanto per favorire il trattamento stesso, ma anche per evitare aggravamenti e ricadute che comportano il riscorso a prestazioni di alto livello, con evidenti costi umani, sociali e anche economici. La Federazione degli Ordini, a questo proposito, ha patrocinato in quattro province la sperimentazione sul campo del MUR, la revisione dell’uso dei medicinali introdotta nelle farmacie britanniche nel 2005. Lo scopo di questa prestazione avanzata è migliorare la conoscenza della malattia e del trattamento ricevuto, migliorare il rispetto delle indicazioni del medico, evitare le interazioni farmacologiche e, in una parola, migliorare le possibilità di successo della cura. La Legge 69/2009, che ha introdotto la possibilità di nuovi servizi e nuove prestazioni, attualmente è in una fase di stallo per quanto riguarda la sua applicazione, ma da parte nostra, anche grazie al peso dei dati scientifici ottenuti dalle nostre sperimentazioni, è forte la volontà di superare questa fase. La tutela della salute è sempre più promossa attraverso campagne di sensibilizzazione tese a incentivare comportamenti virtuosi nel campo sia dell’alimentazione sia delle abitudini di vita (dal vestiario all’abitazione, dal movimento fisico al riposo). Tutto questo significa adeguarsi a uno stile di vita che non tutti sono in grado di permettersi. Il diritto alla salute, tanto decantato e perseguito nelle parole, diventa così, nei fatti, un lusso per pochi. I grandi interessi economici che ruotano intorno all’industria della salute (farmacie comprese) non stanno

forse contribuendo anch’essi a depauperare inconsapevolmente la popolazione, e la corrispondente nazione, di un valore ideale ed economico ancor più importante come quello della salute stessa? Come dare più garanzie ai cittadini, talvolta schiacciati dall’orientamento al profitto imposto dall’industria farmaceutica? In realtà questo rischio vale per tutti i diritti fondamentali riconosciuti nelle società occidentali, la salute come l’istruzione. Scindendo la risposta: per quanto riguarda la prevenzione è verissimo che non tutti possono permettersi alcuni aspetti di uno stile di vita sano. Ma non fumare, consumare alcol con moderazione, muoversi a piedi più spesso e altri aspetti basilari prescindono dalle disponibilità economiche. Credo che sia un gap culturale, prima ancora che economico. Se è vero che in Gran Bretagna, per esempio, seguire la dieta mediterranea può essere costoso, non lo è in Italia. Senza trascurare, poi, che quando si forma una domanda, il mercato prima o poi risponde: penso che molti avranno notato che oggi è possibile trovare alimenti “bio” anche nella grande distribuzione o a prezzo contenuto. Dubito che qualche anno fa sarebbe stato ipotizzabile. Quanto agli interessi economici che ruotano attorno al farmaco, è facile rispondere che sempre da quel mondo economico vengono anche i generici, oltre che i farmaci costosi perché più innovativi, e sarebbe sbagliato pensare che un farmaco solo perché datato nella scoperta debba essere considerato di serie B. Infine, l’ultimo punto, quello delle garanzie ai cittadini. Oggi dobbiamo mettere al primo posto l’appropriatezza delle prestazioni sanitarie e, di conseguenza, il risparmio che deriva evitando spese inutili. Poi la lotta agli sprechi, ai comportamenti scorretti o anche semplicemente alle scelte irrazionali. Non credo, infine, che il cittadino sia schiacciato dall’orientamento al profitto dell’industria farmaceutica; oggi mettere a punto un nuovo farmaco richiede investimenti fortissimi e il ritorno economico di questi investimenti sarà sempre più lungo, visto che è tramontata l’epoca dei medicinali blockbuster, cioè quelli rivolti a una platea enorme di pazienti. Inoltre non va dimenticato che il welfare così come lo intendiamo oggi è vittima del suo successo: si vive più a lungo e malattie che prima conducevano alla morte oggi sono divenute croniche; richiedono quindi un trattamento per tutto l’arco della vita. Questi e altri fattori ancora rendono sempre più intrinsecamente costosa qualsiasi politica di assistenza sanitaria universalistica, anche sanando le criticità cui accennavo prima. Occorre, quindi, pensare a modalità nuove e anche a una maggiore responsabilizzazione del singolo nei confronti della salute.

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I libri dello speziale

In antico regime l’arte delmedico nel comporre e nel la farmacopea si apprensomministrare le sostanze la cultura farmaceutica a Trento deva prevalentemente in medicinali. bottega. Qui il tirocinante Nella Trento del Sei – Settra fine Seicento e inizio familiarizzava con le erbe tecento, infatti, erano attive Settecento: i volumi a stampa e le droghe, osservava e sette farmacie e i nomi dei della spezieria Crivelli memorizzava i nomi, la titolari, quali gli Eggen, gli quantità e la sequenza delAmadori, i Crivelli, i Borle sostanze che servivano zi, gli Adami, ricorrono nel di Marina Garbellotti per preparare i medicinali; corso degli anni, tramane le biografie dei farmacisti dandosi di generazione in più noti, che passavano da una città all’altra e da una generazione la bottega e l’esperienza di una vita passpezieria all’altra per “rubare” i segreti dell’arte, lo sata tra sostanze ed elementi curativi. testimoniano ampiamente. Il periodo di formazione Per avere una percezione tangibile della cultura fare i requisiti richiesti per esercitare l’arte variavano da maceutica che circolava nel territorio trentino di fine città a città. A Venezia, ad esempio, per aprire una Seicento, grazie a un inventario risalente al 1692 spezieria l’interessato doveva dimostrare di aver la- possiamo entrare virtualmente in una delle spezievorato presso una farmacia per cinque anni, termina- rie della città di Trento, in quella di Antonio Crivelli, ti i quali si presentava prima al Collegio degli speziali collocata in contrada Longa e nel 1692 data in affitto per essere esaminato e poi alla Giustizia Vecchia per allo speziale roveretano Giovanni Francesco Altamer ottenere la licenza d’esercizio (Roy Palmer, Pharmacy (Archivio di Stato di Trento, Fondo Pretorio, b. 7, in the Republic of Venice in the Sixteenth Century, in n. 96, cc. 3r-23r). Il pavimento era ricoperto da due A. Wear, R.K. French, I.M. Lonie (eds.), The Medical tappeti turchesi consunti e rattoppati, compariva il Renaissance of the Sixteenth Century, Cambridge, bancone che separava i clienti dallo speziale, qualCambridge University Press, 1985, pp. 103-104). A che armadio. Non si accenna alla stanza ad uso di Trento gli speziali non crearono un collegio e ciò non laboratorio, in genere contigua al negozio, dove lo sorprende se si considera che nemmeno i medici speziale si dedicava alla preparazione dei compofisici riuscirono nell’impresa. Il compito di rilasciare sti; e non corre cenno nemmeno all’orto che alcuni le licenze di esercizio e di vigilare sull’attività di me- speziali possedevano nelle vicinanze della bottega e dici, chirurghi ed empirici spettava alla magistratura nel quale coltivavano le piante officinali più comuni consolare della città. Così quanti desideravano esse- per averle sempre fresche e a portata di mano. Nella re riconosciuti speziali affiancavano per un periodo bottega si trovavano dei mobili e numerosi conteninon precisato uno speciale esperto, che al momento tori di vetro di varie grandezze. Un’occhiata fugace opportuno avrebbe rilasciato un attestato nel quale bastava per comprendere che era necessario posseerano dichiarate le competenze acquisite dal tiroci- dere molta familiarità per muoversi con dimesticheznante. Con questo certificato il candidato si presen- za in quell’alveare di vasi e vasetti. Sommando gli tava davanti alla magistratura cittadina o alle autorità elementi semplici, quelli composti, le droghe animali e quelle minerali, gli elettuari, le pillole, i minerali, le locali competenti e otteneva la licenza d’esercizio. Questa procedura si legge ancora in un proclama polveri, gli sciroppi, gli unguenti, i balsami, le acque risalente al 1743, volto a definire i requisiti e gli ob- distillate, il negozio conteneva all’incirca 800 sostanblighi di medici, chirurghi e speziali e vale la pena di ze. Una spezieria discretamente fornita rispetto al nusoffermarsi su questo documento, uno dei pochi in mero delle droghe riportate da una delle farmacopee materia, perché riporta le poche norme che regolava- secentesche più accreditate quali la Pharmacopoea no l’attività degli speziali (Archivio di Stato di Trento, londinensis (1618), che ne elencava 1254. Libri copiali, serie II, n. 13, c.s). Stando a questo do- Vi erano poi bottiglie di vetro, alberelli di maiolica (il cumento gli speziali erano chiamati a fissare i prezzi classico vaso in maiolica, ancora esposto in qualche dei medicinali in base a quelli correnti a Venezia, a di- farmacia) utilizzati per conservare sostanze viscose; spensare rimedi esclusivamente dietro prescrizione mortai di piombo, in pietra e di bronzo con pestelli medica, a conservare per almeno due anni le ricette, in ferro o in legno; padelle, recipienti in piombo, in “ciò per ogni caso di criminosità in aversi adoprati rame e soprattutto in stagno per contenere medicamedicamenti sospetti”, ad impiegare correttamente menti liquidi, unguenti, elettuari; bende; vasetti per i veleni che potevano essere venduti solo “a qualche mettere le medicine da consegnare ai clienti; bilancapo famiglia di buon nome” oppure su ordine del ce, un bilancino, una pietra di paragone, alambicmedico. In sostanza ciò che si chiedeva agli spezia- chi, brente per le mele, per il carbone, stampi per le li era di seguire scrupolosamente le indicazioni del cere colorate. E ancora un martello, una tenaglia, un

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mantice, coltelli, crivelli, mestoli, spatole di ottone e di legno, un cucchiaio d’argento “a uso di bottega”. Accanto a strumenti del mestiere compaiono anche oggetti destinati alla vendita, come sacchetti di panno, bicchieri d’argento e di cristallo, vasi in maiolica, piatti in peltro da dispensa, uno stampo in legno per preparare lo zucchero rosato, due piastre in rame per i biscotti, mazzi di carta da “scrivere”, quaderni, un paiolo, fiaschi di maiolica per l’acqua, orinali. Nella bottega si trovavano anche 23 “libri”, una “biblioteca” che rispecchiava la cultura farmaceutica dell’epoca informata alla tradizionale medicina galenica e alla più recente medicina chimica. Trattati quali il Luminare maius di Giovanni Giacomo Manlio de Bosco, apparso in prima edizione nel 1494 a Venezia e le opere di Giovanni Mesuë sono testi che si collocano nella tradizione della medicina greco-araba. Le sostanze elencate e le modalità per manipolare e comporre i medicinali, infatti, esposti in modo agile e manualistico, sono proprie della medicina galenica. I decotti, gli sciroppi, le tinture, le emulsioni, così pure le conserve, le gelatine, le pillole, gli olii, gli unguenti, i fiori e le farine, di cui peraltro la spezieria Crivelli era ben fornita, servivano a ripristinare l’equilibrio dei quattro umori. Sangue, flemma, bile gialla e bile nera dovevano mantenere una perfetta armonia: qualunque alterazione di uno degli umori comportava un’indisposizione, cioè una malattia, che poteva essere curata solo ristabilendo il giusto equilibrio. In questa tradizione si inseriscono a pieno titolo anche i Discorsi (Venezia 15441) di Pietro Andrea Mattioli, gli Avertimenti nelle compositioni de’ medicamenti per uso della spetiaria (Venezia 15751) di Giorgio Melichio, il Delle considerationi di Antonio Berthioli, Il tesoro della sanità (Roma 15861) di Castore Durante da Gualdo, così pure i Precetti necessari ad un perfetto speciale (Venezia 16171) di Curzio Marinello. In alcuni di questi trattati, come in Delle osservationi dello speziale parmigiano Girolamo Calestani, sono descritte le qualità dello speziale ‘ideale’. Nelle prime pagine l’autore chiarisce che l’obiettivo dell’opera non è quello di promuovere gli speziali a medici – lo speziale, infatti, doveva rimanere subordinato al medico e al suo sapere – e poi passa a tratteggiarne le qualità caratteriali: lo speziale doveva essere mediocremente ricco, “più che altri avere animo grande & liberale, & lontano da ogni avaritia & sordidezza”, profondamente devoto – “considerando che la sua fede, più che ogni thesoro

vale” –, sollecito e prudente nel preparare i medicamenti, coscienzioso nel gettare le sostanze avariate; non essere dedito al gioco e al vino, avere moglie e figli e possedere un’abitazione adatta per la conservazione delle sostanze medicinali. Doveva inoltre conoscere la lingua latina per essere in grado di leggere i trattati di farmacopea e di conoscere le virtù dei semplici (G. Calestani, Delle osservationi di Girolamo Calestani parmigiano…, Venezia, Francesco de’ Franceschi, 1589, cc. A1v, A2r). I tratti elencati profilano una persona onesta, che non deve abusare del suo mestiere per arricchirsi a scapito degli ammalati e che deve essere dotato di quei mezzi economici indispensabili per assicurare un buon servizio. Accanto a testi di indirizzo classico la biblioteca della spezieria possedeva trattati sulla farmacopea spagirica di derivazione paracelsiana. I sostenitori di questo pensiero fondavano la teoria e la terapia medica su principi rivoluzionari che contrastavano con la medicina galenica. Secondo Paracelso, infatti, era la chimica la chiave per comprendere la natura intera e il funzionamento del corpo umano e, non convinto dell’impiego dei semplici e dei composti, si preoccupò di estrarre dalle sostanze il principio attivo. L’applicazione delle teorie elaborate dal medico tedesco richiedevano nuove operazioni, come l’estrazione, la sublimazione, la fumigazione, la mercurificazione, più articolate tecniche di calcinazione, oltre alla disponibilità di nuovi elementi. Composti di mercurio, arsenico, oro, argento, piombo, ferro, rame, antimonio divennero elementi usuali nelle farmacopee scritte dai sostenitori delle teorie paracelsiane. Tra i più noti possiamo menzionare le opere di Joseph Duchesne, altrimenti detto Quercetano, presenti nella biblioteca della spezieria Crivelli. Tra gli altri libri compare Il tesoro della sanità di Castore Durante, un esempio di letteratura a carattere medico indirizzata al lettore comune, “nel quale si da il modo da conservar la sanità & prolungar la vita & si tratta della natura de’ cibi & de i rimedij de i nocumenti loro”. I suggerimenti sono di varia natura: si legge di piccole cautele per migliorare il vivere quotidiano, come quelle sull’abbigliamento da indossare a seconda della stagione, sulla postura da assumere, sui luoghi più idonei per conciliare il sonno, e non mancano le indicazioni per correggere l’aria che, tra gli elementi naturali che potevano alterare i nostri corpi, occupa il primo posto. Segue poi l’elenco delle sostanze con

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i rispettivi “giovamenti” e “nocumenti” (C. Durante, Il tesoro della sanità. Nel quale si da il modo da conservar la sanità & prolungar la vita & si tratta della natura de’ cibi & de i rimedij de i nocumenti loro, Roma, Francesco Zannetti, 1586, p. 24). Un’opera divulgativa, quindi, che tuttavia tornava utile a quegli speziali che potevano così dispensare adeguati consigli per condurre una vita sana. Un altro testo che compare nell’elenco dei libri di medicina, e che conobbe numerose edizioni, sono I secreti di Isabella Cortese (Venezia 1561), forse una nobildonna veneziana, tra le poche donne alchimiste a dare alle stampe la sua opera. Tranne il primo libro, nel quale sono esposti rimedi contro i veleni, per curare le ferite, la sifilide e certe malattie che colpivano l’apparato genitale femminile e maschile, negli altri quattro sono raccolti prevalentemente sostanze e composti per la cura della persona, soprattutto femminile. Si danno ricette per preparare profumi, ciprie, rossetti, belletti, ma anche spiegazioni per confezionare perle artificiali e altra bigiotteria, sostanze e materiali per i quali l’autrice si serve di nozioni alchemiche. Consultando questo trattato, lo speziale poteva soddisfare le esigenze di una clientela femminile dispensando consigli di cosmesi. I libri presenti nella spezieria Crivelli mostrano uno spettro di conoscenze alquanto vario che si riflette nella tipologia delle sostanze

messe in vendita. Essa infatti era fornita di elementi propri della farmacopea chimica quali l’ammonio, l’antimonio, il mercurio, sali di vetriolo e di tartaro, per citarne alcuni, di sostanze come il cranio umano e il corno di cervo nelle due forme, preparato e intero, utilizzati per la preparazione di sali volatili che si diffusero soprattutto nel Seicento. Naturalmente si trovavano anche semplici e composti, tipici della farmacopea classica, quali le acque distillate aromatiche, le acque medicamentose e quelle per uso cosmetico; sciroppi infusi o decotti dolcificanti con miele e zucchero, usati come medicamenti; elettuari di vario genere compresi quelli più famosi, come il mitridato e la teriaca, in consistente quantità; conserve, zuccheri e mieli aromatizzati; pillole auree, oli di rose, di viole, di giglio, di ruta, di mandorle, di carni, di zolfo, “legno santo”; cerotti, ovvero una sorta di impiastri più consistenti; unguenti di vario genere tra cui quello di alabastro – forse quello di Nicolò Miresio con il quale si credeva la Maddalena avesse unto il corpo di Cristo –; sostanze dalle mirabili virtù, talvolta magiche, come l’antidoto universale bezoar, una concrezione che si formava nell’apparato digerente di alcuni animali, e l’unicorno (in realtà si trattava del dente del narvalo), anch’esso dotato di poteri miracolosi e impiegato soprattutto come antidoto contro i veleni.

Proposte di lettura a cura della Biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino Giovanni Berlinguer, Storia della salute: da privilegio a diritto, Milano, Giunti, 2011. Questo libro nasce da una collazione di brevi scritti in cui Giovanni Berlinguer, protagonista dell’impegno bioetico, ha fermato le proprie riflessioni e idee, annotando fatti e riferimenti raccolti nei suoi vasti studi e letture. Questo mosaico di informazioni e di pensieri ci permette di approfondire un tema che tocca tutti: quello dei legami fra medicina e società, fra evoluzione scientifica e limiti etici. Sono tutti argomenti che vengono affrontati mettendo in evidenza quanto lo sviluppo delle più moderne discipline – e la medicina più di altre – sia strettamente legato al sociale, all’economia e alla coscienza collettiva.

Vittorio A. Sironi, Le officine della salute: storia del farmaco e della sua industria in Italia dall’Unità al mercato unico europeo (1861-1992), Roma-Bari, Laterza, 1992. Rimedi per curare le malattie sono sempre esistiti, ma medicinali realmente efficaci compaiono solo nella seconda metà dell’Ottocento, quando la "rivoluzione farmacologica" determinata dalla nascita dei farmaci di sintesi, avvia il processo di industrializzazione della produzione farmaceutica. In Italia l’industria del farmaco si sviluppa parallelamente alla realizzazione dell’unità territoriale della penisola, a partire dai numerosi laboratori che affiancano le botteghe dei farmacisti. il volume ripercorre il cammino di queste "officine della salute" e dei loro intraprendenti fondatori, analizzando le influenze reciproche tra industrie, imprenditori e vicende della storia sanitaria, economica, sociale e politica dall’Unità ad oggi. Ne emerge una suggestiva e inedita "storia sociale" del farmaco e della sua industria nel nostro paese.

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Il grande business dei farmaci online

Sequestri di farmaci, casi di insenza barriere il numero magtossicazioni, operazioni internagiore di contenuti. Nessun altro zionali. La cronaca ci ha da anni strumento di comunicazione può abituati a fatti di questo tipo. competere con il web da questo Grande scalpore ha per esempio punto di vista. Chiaramente quedi Alice Manfredi suscitato un caso del marzo 2012. sto aspetto riguarda anche la meIn quel periodo un ambulatorio dicina e la ricerca di informazioni privato di Barletta sottopose tre di questo tipo online. “Medicina” pazienti ad un test per le intolleè una della parole più diffuse sul ranze alimentari. A questo web. Secondo una recente scopo venne utilizzata una ricerca realizzata dal CENsostanza – il sorbitolo – acSIS nell’ambito delle attiviquistata su eBay. Purtroptà del Forum per la ricerca po il sorbitolo conteneva biomedica, un italiano su nitrito di sodio, autorizzato tre cerca informazioni sulsolo per la conservazione la salute in rete. Di questi, della carne, ma altamente oltre il 90% effettua ricertossico e letale se ingerito che su specifiche patolodall’uomo. Due delle tre gie, il 59% cerca medici donne vennero curate per e strutture cui rivolgersi, avvelenamento, mentre per il 15% prenota visite ed la terza non ci fu il tempo, esami attraverso la rete, il perse la vita. Il sorbitolo in 14% frequenta chat, forum realtà non è un farmaco e, e web community dedicaa differenza di questi ultite ai temi sanitari e un po’ mi, anche in Italia può esmeno del 3% cerca farmaci sere liberamente venduto online. Dunque, così come e comperato online. Nonostante ciò questo caso è in altri settori, l’opportunità che internet offre di conspesso preso come esempio del rischio di contraf- dividere informazioni, problemi e soluzioni, è ampiafazione delle sostanze chimiche vendute online: un mente utilizzata. forte campanello d’allarme anche per la vendita sul Detto questo, però, il fenomeno della ricerca e delweb dei medicinali. La notorietà di questo evento è la vendita dei farmaci online ha ovviamente a che dovuta non solo al suo risvolto tragico, ma anche al fare con un’altra caratteristica del web. E cioè, bafatto che coinvolse uno dei siti maggiormente utiliz- nalmente, quella di consentire consistenti profitti. La zati per gli scambi online. vendita di farmaci online spesso assume i contorni E sui giornali e nei telegiornali trovò spazio alcuni dello scambio economico perfettamente lecito e remesi più tardi l’operazione “Pangea V”. Come dice il golare, in accordo con la normativa di molti paesi nome, l’intervento fu internazionale e non fu il primo che, a differenza dell’Italia, consentono questo tipo con queste caratteristiche. L’operazione, coordinata di operazione. dall’Interpol, durò una settimana – dal 25 settembre Nondimeno è spaventosa la percentuale di vendite al 2 ottobre 2012 – e si interessò di circa 4.100 “far- di farmaci su web che costituiscono truffe o sono macie” online. Nel complesso portò al sequestro di pericolose per la salute. Su questi temi sta lavoran3.750.000 farmaci contraffatti e pericolosi, per un to- do eCrime, un gruppo della facoltà di Giurisprudenza tale di 10.500.000 dollari, all’arresto di 80 persone e dell’Università di Trento. Il progetto si chiama “Fakealla chiusura di 18.000 siti internet. Numeri riportati care”; è realizzato in collaborazione con AIFA (Agensul sito della Food and drug administration, un’agen- zia italiana del farmaco), Interpol e IRACM (Institute zia del Dipartimento della Salute degli Stati Uniti che of Research against Counterfeit Medicines) e finanha varie competenze, ma, soprattutto, si occupa di ziato dalla Commissione europea. Obiettivo: identifiregolamentazione e supervisione sulla sicurezza de- care le “farmacie online” illegali e mappare i farmaci gli alimenti e dei medicinali (www.fda.gov). più appetibili dal mercato illegale. I risultati di questo Caratteristiche del fenomeno singolo progetto non sono ancora pubblici, ma le inQuando si parla di internet è spesso facile appassio- formazioni su questo tema non mancano. narsi a una visione del mezzo come strumento di de- Tipologie di farmaci reperibili online mocrazia. Dopotutto, tra i media, è quello che con- Praticamente qualsiasi tipo di farmaco che richiede sente di raggiungere in modo rapido e praticamente la prescrizione è reperibile, senza prescrizione, onli-

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ne. Ad affermarlo non è una qualche voce allarmista ma l’Organizzazione mondiale della sanità in un report dedicato alla sicurezza su internet pubblicato nel 2011 (Safety and security on the Internet). Nel 2006 un gruppo di ricercatori osservò che era molto facile procurarsi online oppioidi (R. F. Forman … [et al.], "The availability of web sites offering to sell opioid medications without prescriptions". American Journal of Psychiatry, 2006, n. 163: 1233-1238). Gli oppioidi, utilizzati come antidolorifici, possono dare dipendenza e pericolosi effetti collaterali. Nonostante questo, Forman e gli altri studiosi rilevarono che oltre 300 siti consentivano di procurarsi con estrema facilità queste sostanze. Con ogni probabilità, però, il farmaco più diffuso online è il sildenafil. Utilizzato per trattare certe forme di ipertensione arteriale è di gran lunga più noto come rimedio per le disfunzioni erettili. Un primo studio sull’accessibilità di questo farmaco online risale al 1999. Già allora i ricercatori trovarono 4.400 siti che facevano riferimento al prodotto; di questi 86 consentivano di comperarlo senza l’intervento di un medico (Armstrong K, Schwartz J. S., Asch D. A., "Direct sale of sildenafil (Viagra) to consumers over the Internet". The New England Journal of Medicine, 1999, n. 341: 1389-1392). Il sildenafil si ritrova anche tra i farmaci sequestrati durante l’operazione “Pangea V”. In buona compagnia. È, infatti, molto varia la tipologia delle sostanze sequestrate. Alcuni, come un farmaco contro l’acne, sono regolari ma venivano venduti senza prescrizione quando invece necessitano di essere assunti solo sotto stretta sorveglianza medica. Altri, ritirati dal mercato “off-line” perché pericolosi, avevano acquisito nuova vita su internet. Altri ancora, infine, contenevano un principio attivo diverso da quello dichiarato e potenzialmente pericoloso per la salute. Ma non è tutto. Ci sono dati e osservazioni più sconvolgenti che dimostrano la totale mancanza di scrupoli di chi specula sulla salute attraverso internet. La tipologia di farmaci venduti online è variata nel tempo e muta in relazione alla posizione geografica del destinatario. Partiamo dell’evoluzione temporale. Se è vero che, per esempio, la vendita di sildenafil online certo non è diminuita, essa è però stata affiancata da altri mercati. In un’inchiesta del Wall Street Journal, i due giornalisti Jeanne Whalen e Benoit Faucon rilevano che il nuovo business dei contraffattori è legato ai farmaci antitumorali che garantiscono un ricavo economico molto maggiore. Se, per esempio, una pillola per il deficit erettile costa tra i 15 e i 20 euro, una fiala da 400 milligrammi di un antitumorale ne costa circa 2.400 (Jeanne Whalen and Benoit Faucon, "Counterfeit Cancer Medicines Multiply". Wall Street Journal, 31 dicembre 2012).

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Le differenze geografiche di acquisto di farmaci contraffatti reperibili online sono, se possibile, ancora più agghiaccianti. Ad evidenziarli è uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità (Medicines: counterfeit medicines. Geneva: World Health Organization, 2010). Nei paesi sviluppati, i medicinali contraffatti sono farmaci contro il cancro oppure ormoni costosi, e quelli che in inglese si chiamano farmaci life style. Nelle zone in via di sviluppo, invece, i prodotti contraffatti più venduti mutano. Ai primi posti ci sono gli antimalarici, farmaci per combattere la tubercolosi o quelli per il virus dell’HIV/AIDS. Questioni aperte La contraffazione sembra essere nella percezione comune il rischio maggiore. I dati, del resto, sembrano confermare questa valutazione. Nel 2008, l’organismo di controllo europeo EAASM (European Alliance for Access to Safe Medicines) denunciò, in un suo rapporto, che il 62% dei farmaci venduti online era contraffatto oppure non conforme agli standard, cioè scaduto o confezionato e trasportato in modo improprio. Nel tempo la situazione non sembra essere migliorata in modo significativo. Il Sole 24 Ore, in un articolo dello scorso anno, riporta un dato dell’AIFA (Agenzia italiana del farmaco), secondo cui, escludendo le farmacie completamente false, i farmaci comperati su internet risultano contraffatti in oltre la metà dei casi (Antonio Larizza, "Farmaci online, uno su due è contraffatto", Il Sole 24 Ore, 26 marzo 2012). Inoltre solo l’1% delle 40.000 farmacie censite online sarebbe legale, ovvero controllato dalle autorità competenti. La Repubblica, in un recente articolo si spinge anche oltre e, per dare un’idea del volume del mercato della contraffazione in questo settore, chiama in causa un’osservazione empirica. Secondo gli autori, le industrie farmaceutiche avrebbero iniziato già da tempo a sguinzagliare veri e propri “cacciatori” alla ricerca delle fabbriche asiatiche dove si producono i farmaci contraffatti. In particolare, la città cinese di Guangzhou sarebbe uno dei più importanti luoghi di origine di questi pseudo farmaci. I veri prodotti finali di centinaia di aziende ufficialmente dedite alla lavorazione di più innocue sostanze chimiche, e, perciò, svincolate da certi controlli (Elvira Naselli, "Mondo Tarocco". La Repubblica, 11 febbraio 2013). Ma se la contraffazione è il rischio più avvertito, certamente non è il solo e sarebbe un errore considerarlo tale. C’è, per esempio, anche la difficoltà – o talvolta l’impossibilità – di conoscere la localizzazione delle farmacie che vendono i loro prodotti online. Secondo alcuni studi realizzati nel 2009 e nel 2010 meno delle metà di questo tipo di farmacie dichiara un indirizzo (G. Orizio … [et al.], "Cyberdrugs: a cross-sectional


study of online pharmacies characteristics". European Journal of Public Health, 2009, n. 19: 375-377). In linea con questi dati, l’Organizzazione mondiale della sanità riporta molti casi in cui non c’è alcuna coerenza tra indirizzi dichiarati, indirizzi da cui vengono spediti i prodotti, valuta utilizzata e altri dati. Nel caso di irregolarità, tutto ciò rende ovviamente molto difficile individuare i trasgressori. C’è poi un’altra questione che ha che fare con i confini geografici. Una questione insita nelle caratteristiche stesse di internet. Un mezzo come questo sfugge a qualsiasi regolamentazione locale. Il fatto cioè che la vendita online di un determinato prodotto in un certo paese sia vietata, non ne implica l’inaccessibilità. L’utente riuscirà comunque e reperirla e acquistarla senza troppe difficoltà. I ricercatori hanno poi rilevato altri problemi legati all’integrità del packaging e questo non è di poco conto. Nella vendita online il confezionamento e il foglietto illustrativo sono spesso, infatti, le sole informazioni riguardanti le modalità di assunzione che l’acquirente ha a disposizione. Infine, c’è un ultima questione da tener presente che forse è meno intuitiva e nota delle precedenti. Molti siti di vendita di farmaci online hanno iniziato a introdurre dei questionari che precedono l’atto dell’acquisto. Questi strumenti contengono domande sulla salute del potenziale cliente. Molto spesso, però, mancano i quesiti su eventuali fattori di rischio molto comuni, come le allergie e, ancora peggio, risposte che implicano la pericolosità del prodotto per un certo paziente non sono determinanti, cioè non ne bloccano la vendita. Queste osservazioni hanno portato i ricercatori ad affermare che tali questionari sono piuttosto trovate di marketing per veicolare un senso di sicurezza che degli strumenti per verificare lo stato di salute e l’effettiva necessità del prodotto (L. M. Memmel, L. Miller, J. Gardner, "Over-theInternet availability of hormonal contraceptives regardless of risk factors". Contraception, 2006, n. 73: 372-375). Osservazioni come questa hanno portato l’Organizzazione mondiale della sanità a concludere nel suo rapporto che, allo stato attuale, i rischi dell’acquisto online superano i potenziali benefici per i consumatori.

E i benefici? Nonostante ciò, alcuni vantaggi per gli acquirenti sembrano esserci. In particolare, vantaggi economici e di accessibilità. È, infatti, possibile trovare su internet medicinali a minor costo e farli recapitare quasi ovunque. Anche per questi motivi, le organizzazioni internazionali si stanno muovendo in due direzioni. Da una parte hanno costituito agenzie e task force in grado di combattere la contraffazione. Dall’altra stanno sviluppando sistemi per tutelare le farmacie online regolari. L’unica soluzione finora individuata sembra essere quella di redigere liste di siti accreditati e marchi da inserire nelle loro pagine. Un’agenzia che fa questo genere di certificazione è la National Association of Boards of Pharmacy. Resta però un importante problema di fondo. I potenziali utilizzatori conoscono questo strumento prima di averne bisogno? Percezione diffusa A questo punto è d’obbligo un’ulteriore domanda. Che percezione c’è di questo fenomeno? E quanto è utile per le persone l’acquisto di farmaci online? In Italia, nel 2011, Gfk Eurisko, per conto di ANIFA (Associazione nazionale dell’industria farmaceutica dell’automedicazione), ha condotto un’indagine su questo tema. Tale indagine è stata realizzata attraverso una ricerca qualitativa su due focus group e una quantitativa con un campione di 1.000 individui. I risultati indicano anzitutto che sono due i fattori che gli italiani considerano importanti nell’acquisto di farmaci da banco: da una parte, l’immediata disponibilità del farmaco quando se ne ha bisogno; dall’altra, il consiglio del farmacista quale figura di riferimento in grado di indirizzare verso un certo prodotto e garantirne la qualità e la corretta assunzione. Considerati questi due fattori, i risultati successivi non sorprendono. Oltre l’80% degli italiani non considera utile il potenziale acquisto di medicinali online. Solo il 13% si dice eventualmente disponibile a reperire farmaci da banco attraverso internet. C’è un ultimo dato, infine, interessante. La stragrande maggioranza degli italiani non sa dire se la vendita online di questo tipo di prodotto nel nostro paese sia consentita o meno. Solo il 16% afferma con certezza che in Italia non è ammessa. Insomma, un dato emblematico, nella percezione diffusa di questo fenomeno, sembra regnare: la confusione.

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UNIFARM

Il crescente numero di farmacie attive sul territorio corriuna storia spondente all’odierno Trentino ha posto fin dall’inizio del Novecento un grosso probledi Edoardo ma di approvvigionamento del farmaco. Le farmacie potevano, infatti, contare su alcuni grossisti del Veneto, su un piccolo magazzino all’interno del SAIT, sulla ditta Bertagnolli e sulla Gallo Farmaceutici, oltre che sulle produzioni della ditta Foletto di Pieve di Ledro. In realtà nessuna di queste era, però, in grado di fornire un servizio di distribuzione adeguato. La distribuzione dei farmaci rimaneva sporadica, non organizzata e rivolta soprattutto alle grandi farmacie situate sull’asta dell’Adige. Di norma la merce doveva essere ritirata dal farmacista stesso e/o veniva spedita tramite i mezzi di linea. Anche le condizioni economiche variavano molto a seconda delle capacità finanziarie delle farmacie. Alcuni farmacisti, sensibili alle istanze e alle esigenze della categoria tutta, si assunsero il compito e il rischio di fronteggiare tale situazione (vedremo poi chi nel dettaglio) e di trovarvi una soluzione. Nel 1970 nove farmacisti diedero vita a UNIFARM subito seguiti da altri sessantotto, per un totale di settanasette fondatori. Lo spirito era quello della cooperativa in un’ottica di servizio. Le modalità, vere novità per quei tempi, erano quelle di praticare lo stesso sconto a tutte le farmacie, grandi o piccole, vicine o lontane e di rifornirle tutte almeno una volta al giorno (comprese le valli più disagiate), dal Brennero a Borghetto. A sostegno di questo servizio si richiese la partecipazione di ogni farmacia proporzionalmente alle sue capacità finanziarie. I primi tre anni trascorsero nel convincere i colleghi della bontà dell'operazione e nell'intensa attività di organizzazione del lavoro. Nel giro di quattro anni, tra il 1970 e il 1974, il magazzino deve essere ampliato e in otto anni si progettano automatizzazioni del sistema di rifornimenti (1978). I primi dividendi si iniziano ad avere a dieci anni dalla fondazione e nel 1981 UNIFARM passa da srl a SpA. Questo passaggio molto importante fu necessario per garantire lo sviluppo di UNIFARM e permettere una sua ulteriore crescita sia economica che in termini di soci. Lo statuto della SpA prevede che le azioni possano essere acquistate e scambiate solo da farmacisti iscritti all’Albo. Contestualmente viene deliberato un aumento di capitale. In questi anni inizia anche a servire Farmacie fuori regione a seguito di una specifica richiesta da parte di colleghi del territorio bellune-

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se. All’espansione delle utenze corrisponde una parallela di successi implementazione dei servizi, vari ampliamenti del magazzino con forti automatizzaziode Abbondi ni e un incremento delle voci gestite. Ampliamento non solo quantitativo, ma anche qualitativo, coinvolgendo ogni settore insistente sulla farmacia. Un notevole impulso venne anche dato allo sviluppo informatico, sia all’interno dell’Azienda, sin da subito, che in tutte le farmacie consociate a partire dal 1989. UNIFARM era partita con un elaboratore IBM con 8kb di memoria. UNIFARM oggi si struttura come un gruppo, avendo creato nel suo cammino anche altri importanti società, quali FINAFARM nel 1981, per dotarsi di un braccio operativo/finanziario, E-Pharma nel 1993 per il desiderio e la necessità di confrontarsi con la produzione di farmaci e di integratori, UNIFARM Sardegna nel 2012. Tutto questo è stato possibile grazie alle condizioni storiche e al contesto in cui è nata e cresciuta UNIFARM. Il 12 ottobre 1970, nella sede dell’Ordine dei farmacisti della provincia di Trento, allora in via Oss Mazzurana, si ritrovarono i farmacisti Franco Boni, Sergio Bonifazi, Romano Cainelli, Silvano Campagnola, Rolando Gadotti, Ivo Monauni, Giuseppe Mutalipassi, Luigi Ottavini e Karl Trientbacher. In questo incontro fondarono l’Unione Farmacisti Trentino Alto Adige (UNIFARM) srl. Per farlo si assunsero personalmente il rischio e sottoscrissero una fideiussione di 100 milioni di lire presso la Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto. Fin da subito, fin dal nome, si capisce il desiderio di abbracciare l’intero territorio regionale superando difficoltà sia geografiche che linguistiche. Un altro segno importante di unità e di eguaglianza viene dato dalle provenienze dei soci fondatori, non da ultimo il coinvolgimento delle farmacie comunali sin dall’inizio. Questi fattori sono in gran parte ascrivibili alla caparbietà del dottor Romano Cainelli. Le estrazioni dei nove colleghi firmatari rispecchiano quanto affermato. Le valli erano presenti con Franco Boni di Tione, Ivo Monauni di Pergine, Giuseppe Mutalipassi di Tesero, Luigi Ottaviani di Brentonico. La città di Trento era presente con Romano Cainelli, della farmacia Gallo, e Rolando Gadotti della farmacia Sant’Antonio; Silvano Campagnola ha la farmacia a Mezzolombardo, le Farmacie comunali (di Rovereto) erano presenti con Sergio Bonifazi e il trade-union con l’area tedescofona era garantito da Karl Trientbacher di Salorno. L’importanza della coesione tra Trentino e Alto


Adige viene anche sottolineata dall’alternarsi alla Presidenza di colleghi di madrelingua italiana e tedesca. Il pieno e convinto appoggio fu dato subito anche dagli Ordini e dalle Associazioni, i cui presidenti s’impegnarono nella promozione il progetto. Il Presidente dell’Ordine di Trento, Carlo Tamanini, in particolare, vi ha riversato la sua esuberanza e tutto il suo entusiasmo. Il dottor Paul von Aufschnaiter, nella sua lunga Presidenza di UNIFARM (tre mandati dal 1976 al 1986) ha legato fortemente l’Alto Adige e ha conferito la vera svolta verso una società di servizi moderna. La riuscita e la realizzazione del progetto sono state determinate anche da persone che hanno affiancato i farmacisti nel loro agire. Desidero citarne almeno tre di fondamentale importanza. Il commercialista, dottor Remo Tamanini per la sua capacità professionale nella costruzione giuridica della società. Il signor Bruno Raab, Maestro del Lavoro, fin da subito presente in azienda, per la sua capacità di coordinare il lavoro di centinaia di persone, per la conoscenza del magazzino e l’indiscussa bravura nel rapportarsi con le aziende produttrici, il tutto con una rara disponibilità e umanità nei rapporti interpersonali. Ultimo, ma non per importanza, l’ingegner Paolo Bertoldi, entrato in direzione di UNIFARM nel 1978. Costui ha saputo dare all’azienda un fondamentale impulso grazie alle sue intuizioni e doti di organizzatore e programmatore. L’ingegner Bertol-

di ha compreso sin da subito la peculiarità e la delicatezza del mondo della farmacia, coniugando con rara maestria la professione di farmacista con il mondo dell’economia e le sue regole. UNIFARM oggi si presenta come una delle più importanti realtà economiche e di servizio del Trentino-Alto Adige, operante in tutto il nord-est e in Sardegna. Per dare un’idea quantitativa dello sviluppo vi cito i dati dei fatturati e dei dipendenti: negli anni settanta il fatturato era di 2,28 miliardi di lire con 32 dipendenti. Negli anni ottanta, 21,4 miliardi e 91 dipendenti, anni novanta, 177 miliardi e 157 dipendenti, anni 2000 340 miliardi e 210 dipendenti, ad oggi 308 milioni di euro e 305 dipendenti. La sua natura originaria, sempre difesa e portata avanti con tenacia da tutti i soci, ne fa una realtà stimata ed esemplare per tutti i farmacisti e il mondo che vi gravita attorno. A conclusione di questo excursus voglio riportare un pensiero del Presidente di UNIFARM Paolo Zanini: “nell’Unifarm di oggi si riconoscono tre anime, interessanti dal punto di vista culturale: l’anima trentina, portata alla coesione sociale e alla cooperazione; quella altoatesina, votata all’eccellenza e al rigore; quella veneta che porta la sensibilità al mercato e quindi all’ascolto dei bisogni dell’utente della farmacia. Messe insieme ci portano a essere solidali e competitivi assieme, che è la forza che abbiamo oggi. In più ci mettiamo l’innovazione”.

Proposte di lettura a cura della Biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino Giovanni Ceccarelli, Medici, malati, malattie e farmaci nella storia dell’arte, Roma, Aracne, 2013. L’arte teme la scienza, perché potrebbe detronizzarla. Talora la combatte, talaltra la imita o stabilisce con essa una competizione, ma la teme. La scienza non teme l’arte, perché non le potrà mai nuocere. L’uomo non può fare a meno né della scienza né dell’arte, ma senza la scienza è perduto, senza l’arte, semplicemente, si rattrista. Senza la medicina, che della scienza si nutre, può morire; senza l’arte, sopravvive, ma si sente meno umano. L’artista malato cerca il medico per non morire. Il medico cerca l’artista malato, o il soggetto malato da lui creato, per capire di più sulla propria disciplina e su quella dell’artista. Il fascino del libro di Ceccarelli, al di là degli argomenti trattati, sta nel non porsi un obiettivo univoco, una surplus di interpretazione in chiave di analisi clinica o storico-artistica, ma piuttosto nel movimento ondulatorio tra i due tipi di analisi. Quando avverte di essere sul punto di divenire dogmatico, l’Autore si smonta con una sottile ironia.

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Virgina Woolf e la malattia

Le pagine più straordinarie, sul“Il corpo interviene giorno e la malattia, raccolte in un saggio notte: si smussa o si affila, si breve, sono forse da ascrivere colorisce o scolora, si volge in a Virginia Woolf. Bisognerebbe cera nel calore di giugno, s’inriportare il passo che introduce durisce come sego nell’oscuridi Stefano Chemelli la sua riflessione sulla malattia tà di febbraio. La creatura che (On Being Ill, 1930 L. e V. Wovi sta rinchiusa può solo vedeolf, London) in quel scintillante re attraverso il vetro, imbrattae mosso inglese così screziato to o roseo; non può separarsi e lucente, inatteso e irresistibile dal corpo come il coltello dalla che le è proprio, ma già una buona traduzione con- guaina o il seme dal bacello per un solo istante; deve duce verso l’estasi della parola, è un attacco parago- attraversare tutta l’interminabile successione dei nabile alle straordinarie schegge di esperienza che mutamenti, il caldo e il freddo, l’agio e il disagio, la Rilke ci ha donato nel Brigge: fame e la soddisfazione, la salute e la malattia, finché “Considerato quanto comune sia la malattia, di quali arriva l’inevitabile catastrofe: il corpo va in briciole proporzioni il mutamento spirituale che essa produ- e l’anima (si dice) fugge. […] La malattia spesso si ce, quanto stupefacenti, allorché le luci della salute traveste da amore, e ti gioca gli stessi tiri. Infonde in si spengono, i territori vergini che allora si dischiu- certi volti un’aria divina, ci dispone ad aspettare, ora dono, quali lande deserte dell’anima esponga un dopo ora, con le orecchie dritte lo scricchiolio di una piccolo attacco di influenza, quali precipizi e prati, scala, e attribuisce ai visi degli assenti (oltremodo sparsi di vividi fiori, riveli un minimo aumento della modesti quando si sta bene) un nuovo significato, temperatura, quali antiche e resistenti querce siano mentre la mente intesse attorno a loro mille leggensradicate in noi dall’atto della nausea, come preci- de e storie d’amore per cui, quando si sta bene, non pitiamo nel pozzo della morte e sentiamo le acque avrebbe né il tempo né il gusto […] l’amore si ritiri della dissoluzione chiudersi sopra le nostre teste e ci davanti a quaranta di febbre; la gelosia lasci posto svegliamo pensando di trovarci alla presenza degli agli attacchi di sciatica; l’insonnia prenda la parte del angeli e degli arpisti quando ci tolgono un dente e cattivo e l’eroe sia un liquido bianco dal sapore dolritorniamo alla superficie nella poltrona del dentista ciastro – quel Principe valente con gli occhi di falena e confondiamo il suo ‘Sciacqui la bocca, sciacqui la e i piedi piumati, uno di cui nomi è Chloral”. bocca’ con il saluto della Divinità che, chinandosi, Il primo sonnifero evoca, sin dal 1832, primo anno ci dà il benvenuto in Paradiso – quando pensiamo di commercializzazione, l’impatto dell’industria fara tutto questo, come spesso siamo costretti a fare, maceutica, ma in che termini qui ci è presentato: appare davvero strano che la malattia non figuri in- non esiste ancora una solida filosofia per introdurre sieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi nella letteratura il tema della malattia, addirittura la principali della letteratura”. lingua inglese non possiede, a detta della Woolf, i voÈ un periodo che toglie il fiato per la messe di solle- caboli necessari per raccontarla, definirla, circuirla, citazioni e di immagini che produce, con un’ondula- bisognerebbe secondo lei rivolgersi agli statunitenzione musicale delle subordinate e una padronanza si per avere la speranza di un linguaggio specifico immacolata della materia: il corpo come protagoni- e conforme, che si adatti a rappresentare in modo sta assoluto di un’indagine primaria, di una riflessio- adeguato uno stato di eccezione; una posizione che ne ad hoc sotto la luce abbagliante della scrittura di riconosce agli americani una predisposizione innauna delle più accese sensibilità del secolo. ta al nuovo, anziché un riposizionamento del noto, Veniva, la Woolf, nel 1925, dalla lettura totale di maggiormente confacente agli inglesi. Proust, una sorta di faro anticipatore del tema, capa- Nelle parole della Woolf c’è già l’intuizione, in quel ce di spargere centinaia di pagine sull’infermità nella corpo che va in briciole, la percezione esatta della Recerche, ma soprattutto da una fortissima interio- malattia, sperimentata sul campo, provata e descritrizzazione del malessere. Emicranie, svenimenti, in- ta con piena contezza. Pochi ne avevano parlato, ansonnia, febbre provocati da angoscia e depressione, cor meno scritto (più recentemente Starobinski ha ma anche qualche problema ai polmoni, a quanto tracciato una straordinaria storia della malinconia). sostiene una delle più informate biografe, Hermione La malinconia è un segno che la Woolf traccia in Lee, non intralciavano una prolificità eminente: Mrs modo deciso, inequivocabile. Ma si spinge oltre. Dalloway, la prima raccolta di saggi intitolata The Nello stato di malattia ben poco il decoro della saCommon Reader, To the Lighthouse, tenendo in de- lute può arginare: “Noi fluttuiamo con i ramoscelli bita considerazione la prorompente vitalità nella rela- della corrente; confusi con le foglie morte del prato, zione con Vita Sackville-West, avviata in quegli anni. irresponsabili e disinteressati e capaci, forse la pri-

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ma volta dopo anni, di guardare intorno, di guardare su – di guardare, per esempio, il cielo”. È un flusso di coscienza che ci rende più umani, quasi disarmati, ma ulteriormente consapevoli di ciò che ci circonda: “Ora, mentre te ne stai a giacere (splendido latinismo), guardando in su, scopri che il cielo è qualcosa di così diverso da tutto questo che quasi ti sconvolge. Dunque accadeva di continuo senza che noi ce ne accorgessimo!, questo incessante tirare su forme e poi buttarle giù, questo cozzare di nuvole, e disegnare immensi treni di navi e di vagoni dal nord al sud, questo incessante Virginia Woolf (1882-1941) su e giù di sipari di luce e buio, questo interminabile esperimento di dardi dorati e ombre azzurre, velare il sole e svelarlo, creare bastioni di roccia e spingerli lontano – questa interminabile attività, che solo la distesa del cielo sa a quanti milioni di cavalli vapore equivalga, ha operato a nostra insaputa anno dopo anno”. Potrebbe essere una prosa di una lettera della Dickinson, in un saggio breve sulla malattia compare una letizia speciale, un elogio all’immobilità che ci rende migliori, siamo in un dramma, con altre venature, altre ragioni. Virginia Woolf, dopo aver offerto una strepitosa descrizione di una rosa, tesse una sorprendente mixture accostando i fiori ai poeti: “Eccoli lì; di questi, che sono di tutte le cose le più autosufficienti, le più immobili, gli esseri umani hanno fatto i loro compagni; questi ne simboleggiano le passioni, ne ornano le feste e stanno posati (come se loro conoscessero il dolore) sui cuscini dei morti. Straordinario a dirsi, i poeti hanno trovato una religione della natura; le persone vivono in campagna per apprendere la virtù dalle piante. Proprio nella loro indifferenza trovano conforto. Quel campo innevato della mente, dove l’uomo non ha messo piede, è visitato dalla nuvola, baciato dal petalo che cade, come in un’altra sfera, sono i grandi artisti, i Milton e i Pope, quelli che

consolano, non perché pensino a noi, ma perché non ci hanno in mente”. È uno stato particolare di coscienza individuale, abbiamo una scrittrice che parla scrivendo e rivolgendosi ai grandi (Milton era colui che faceva “piangere di bellezza” il nostro Tomasi di Lampedusa tra le pagine del suo Paradiso), la malattia diventa qualcosa che ci trasporta in un’altra dimensione, avviene un’amplificazione dei nostri sensi, una qualità che costituisce la cifra e la fibra della letteratura, e tornano alla mente certe battute dei Quaderni di Rilke (“Siedo e leggo un poeta. Nella sala c’è molta gente, ma non si avverte. Sono nei libri. A volte si muovono tra le pagine come persone che dormono e si rigirano tra due sogni”). Siamo in questa dimensione, a questa altezza, “abbiamo bisogno che i poeti immaginino per noi”, scandirà Virginia Woolf, perché la malattia esige sintesi, intensità, la parola nella lettura assume qualcosa di mistico come le nuvole di Shelley (“che vagano a gruppi lungo le montagne/custodite dal pigro riluttante vento”). Ciò che è incomprensibile, da malati, ci pare più vicino, meno oscuro, “le parole liberano il loro profumo e distillano il loro aroma”, l’incoscienza consente di avvicinarci ai grandi, a Shakespeare, a Goethe, a Dante. Virginia cita solo il suo Shakespeare, ed è straordinaria l’osservazione attenta propria della lettrice non comune, della Hermione Lee, nella sua splendida biografia: solo lei si è accorta che Virginia Woolf cita esclusivamente Shakespeare in relazione a un solo argomento, il suicidio. La percezione acustica potenziata dalla condizione della malattia ci permette di dedicarci più alle forme che ai significati. Lo sgomento che tanto contraddistingue lo stato depressivo di Virginia Woolf ha dato frutti insperati, in una vita votata alla scrittura; essa trarrà le conseguenze estreme una volta compreso che i suoi doni erano giunti a esaurimento.

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bito del progetto biennale “Trentino Italia storie pop” una tavola rotonda sul tema “La storia a fumetti: esperienze e prospettive a confronto”. Vi hanno partecipato Nicola Spagnolli, Walter Chendi, Claudio Gallo, Marco Pellitteri e Roberto Bianchi.

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Una mostra, un documentario e un concerto dedicati ai Mondiali di sci nordico in Val di Fiemme

Il 24 gennaio il Comune di Ziano di Fiemme, in collaborazione con la Fondazione Museo storico del GENNAIO Trentino, il Comitato organizzatore Campionati del mondo di sci norRassegna cinematografica a dico 2013 e la Provincia autonoma Brentonico di Trento, ha inaugurato presso “Un grande sonno nero: vita e Villa Flora a Ziano di Fiemme la morte di Guido Rossa, alpinista e mostra “Mondiali in Fiemme”. operaio” (regia di Micol Cossali e Matteo Zadra) e “Il mio paese” (regia di Daniele Vicari) hanno concluso rispettivamente il 10 e il 17 gennaio la rassegna di proiezioni organizzata a Brentonico nell’ambito del progetto biennale “Trentino Italia storie pop”.

febbraio a Trento nella suggestiva cornice delle Gallerie di Piedicastello. La Giornata della memoria e il ricordo di Monsignor Nicolini Il 25 gennaio Palazzo Geremia a Trento ha ospitato la tradizionale celebrazione ufficiale del Giorno della memoria, promossa dal Comune di Trento, dall’Associazione Museo storico in Trento e dalla Fondazione Museo storico del Trentino. In particolare è stata ricordata la figura di mons. Giuseppe Placido Nicolini, vescovo di Assisi, riconosciuto tra i “Giusti tra le nazioni” per aver salvato la vita di numerosi ebrei durante i terribili anni della seconda guerra mondiale. Le principali vicende biografiche di Nicolini sono state oggetto della mostra “Giuseppe Placido Nicolini (1877-1973)”, curata da Luca Nicolodi.

La mostra “Ritorno sul Don 19411943” a Brescia La Fondazione Museo storico del Trentino, in occasione del 70° anniversario della battaglia di Nikolajewka, ha inaugurato il 12 gennaio a Brescia, presso il Palazzo della Loggia, un allestimento ridotto della mostra “Ritorno sul Don 1941-43: la guerra degli italiani in Unione Sovietica” a cura di Quinto Antonelli, Lorenzo Gardumi e Giorgio Scotoni. È seguita il 19 gennaio, presso l’Auditorium Santa Barnaba di Brescia, una conferenza di Quinto Antonelli e Lorenzo Gardumi sul tema “26 gennaio 1943: storiografie a confronto”.

In serata, presso il teatro parrocchiale di Ziano, è stato proiettato il filmato “Non solo bisonti: storie di una gara e due valli” dedicato alla Marcialonga, prodotto dalla Fondazione Museo storico del Trentino a cura di Giuseppe Ferrandi e Lorenzo Pevarello. Alla proiezione è seguito un concerto dei musicisti di Oslo (Hans Kristian Daviknes, Chapman StikPetter Nataas, Francesco Hyggen) e musicisti trentini Una tavola rotonda sul rapporto (Giordano Angeli, Corrado Bungaro, Carlo La Manna). Identico contra storia e fumetto certo è stato replicato, con qualIl 17 gennaio si è svolta nell’am- che piccola variazione, il 16 e il 25

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Trento come Auschwitz Tra le iniziative organizzate in occasione del Giorno della memoria, l’artista Valentina Miorandi ha ideato per il 27 gennaio l’evento “175 ettari: Trento come Auschwitz”:


assieme a un folto gruppo di persone ha percorso le vie della città di Trento segnando con una spessa linea bianca di gesso un’area pari a quella a quella che racchiudeva il campo di sterminio nazista di Auschwitz-Birkenau. L’installazione, realizzata con il contributo del Comune di Trento e promossa dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia, ha ricevuto il patrocinio del Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, della Fondazione Museo storico del Trentino, della Presidenza del Consiglio della Provincia autonoma di Trento

La storia della Facoltà di Sociologia in un documentario La sera del 30 gennaio è stato proiettato presso il cinema Astra di Trento il film-documentario “Non fu per caso”, che ha ripercorso la storia della facoltà di Sociologia di Trento a cinquant’anni dalla sua istituzione. Sullo schermo sono scorse fra le tante le testimonianze di Renato Curcio, Franco Ferrarotti, Paolo Prodi, Luigi Chiais e Luigi Berlinguer. Scritto da Andrea Andreotti, Giovanni Agostini, Andrea Giorgi e Leonardo Mineo per la regia di Andrea Andreotti, il film è stato prodotto dalla FilmWork e finanziato dalla Fondazione Museo storico del Trentino.

Il Giorno del ricordo Circolo ricreativo ente Regione Trentino-Alto Adige (CRER) e l’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), in collaborazione con l’Associazione Museo storico in Trento, hanno organizzato in occasione della ricorrenza del Giorno del ricordo l’incontro “La tragedia degli italiani dell’Istria e della Dalmazia dalle foibe all’esodo nella storia del confine orientale”. Alla conferenza, svoltasi il 31 gennaio presso il palazzo della Regione a Trento, hanno partecipato Giancarlo Ianes, presidente del CRER, Luigi Chiocchetti, assessore regionale, Anna Maria Marcozzi Keller, presidente dell’ANVGD e Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo storico del Trentino. Roberto De Bernardis ha avuto il ruolo di moderatore. Al termine è stato proiettato il filmato “Volti di un esodo”, realizzato nel 2004 da Lorenzo Pevarello e prodotto dalla Fondazione Museo storico del Trentino.

ca “Geschichte und Region/Storia e regione” con l’Università di Innsbruck, l’Università di Trento, l’Archivio provinciale di Bolzano e la Fondazione Museo storico del Trentino.

Una mostra sulla storia del trasporto pubblico in Trentino

Il 15 febbraio è stata inaugurata presso le Gallerie di Piedicastello la mostra “Andata e ritorno: dal 1907 ad oggi”, promossa da Trentino trasporti e Trentino trasporti esercizio, in collaborazione con la Fondazione Museo storico del FEBBRAIO Trentino. La mostra - aperta fino al 2 giugno 2013 – propone un viaggio attraverso la storia del traUn volume sui confini sporto pubblico nella provincia di Il 13 febbraio è stato presentato Trento, fatta non solo di mezzi, ma presso la biblioteca della Fonda- soprattutto di persone che hanno zione Museo storico del Trentino creduto in un grande progetto che il volume “Al confine: sette luoghi ha contribuito a cambiare radicaldi transito in Tirolo, Alto Adige e mente il Trentino dal punto di vista Trentino” a cura di Andrea Di Mi- sociale, culturale ed economico. chele, Emanuela Renzetti, Ingo Schneider e Siglinde Clementi (Bolzano, Rætia, 2012). Moderati dal direttore della Fondazione Un documentario sul torrente Museo storico del Trentino Giu- Maso in Valsugana seppe Ferrandi, sono intervenuti Il teatro Don Bosco di Telve ValsuLuigi Blanco dell’Università degli gana ha ospitato, il 27 febbraio, studi di Trento e Andrea Di Mi- la presentazione e proiezione in chele dell’Archivio provinciale di anteprima del documentario “La Bolzano. Il volume è il risultato di difesa del territorio: storia del torun progetto che ha visto la col- rente Maso in Valsugana”, di Malaborazione del gruppo di ricer- rio Cerato e Lorenzo Pevarello.

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Il 15 marzo a Rovereto, la FondaRassegna di film d’animazione a Un convegno sulle circoscrizioni zione Opera Campana dei Caduti Brentonico nell’Italia unita e la Fondazione Museo storico Dal 28 febbraio al 18 aprile si è La Libera Università degli Studi del Trentino hanno organizzato il svolta a Brentonico la rassegna di Maria SS. Assunta di Roma, il Di- seminario “Carte di pace: per un film d’animazione prevista all’in- partimento di Sociologia e ricerca archivio dell’Università internazioterno del progetto biennale “Tren- sociale dell’Università di Trento e nale delle istituzioni dei popoli per tino Italia storie pop”. Le otto se- la Fondazione Museo storico del la pace (UNIP)”. Sono intervenuti rate, tutte aperte da omaggi agli Trentino hanno organizzato il se- per la Fondazione Museo storico autori Bruno Bozzetto, Cristina minario “Orizzonti di cittadinanza: del Trentino il direttore Giuseppe Lastrego e Francesco Testa, han- per una storia delle circoscrizioni Ferrandi e Marco Giovanella. no svolto i seguenti temi: “Risor- amministrative nell’Italia unita”, tegimento”, “Seconda guerra mon- nutosi a Trento presso la Facoltà di “Europeana 1914-1918” approda diale”, “Ritratto satirico dell’Italia Sociologia il 2 marzo. a Forte Cadine del consumismo”, “Politica e so“Europeana 1914-1918”, il grande cietà contemporanea”, “Il Trentino Una conferenza e una mostra sulprogetto europeo che intende conell’animazione”, “Marco Pavo- le trasformazioni del paesaggio struire un archivio digitale nel quane”, “Poesia della cultura italiana le far confluire la storia delle perIl quarto appuntamento del ciclo dell’animazione”, “Miscellanea”. sone coinvolte nel primo conflitto “Incontri sul paesaggio: riflessioLa medesima rassegna è stata rimondiale è approdato il 16 marzo ni sul futuro del Trentino a partire proposta ad Ala dal 24 aprile al 19 al forte di Cadine (Trento). Qui si dai progetti del Fondo del paegiugno. saggio” si è tenuto a Trento il 13 è tenuta una giornata di raccolta e marzo presso le Gallerie di Piedi- digitalizzazione di lettere, fotogracastello. L’incontro, organizzato da fie, diari, cimeli e altro materiale MARZO Trento school of management in risalente alla Grande Guerra, che collaborazione con la Fondazione andrà ad arricchire il sito internet Una mostra sulle donne nella coMuseo storico del Trentino, è sta- dedicato al progetto. operazione to dedicato al tema del recupero La mostra itinerante “Storie di ge- delle cave esaurite. Nell’occasione nere: l’altra metà della coopera- è stata inaugurata la mostra “Pazione”, curata da Alberto Ianes e esaggi scavati: dalla lettura alle Paola Antolini, è stata allestita dal strategie di trasformazione” che, primo al 15 marzo presso l’ex ca- attraverso le fotografie di Paolo seificio di Olle di Borgo Valsugana. Sandri, ha proposto una visione originale delle ferite e delle incisioni sul territorio. Un convegno sull’archivio dell’Università per la pace

APRILE

In copertina: Fiavé (TN), dipendenti della Famiglia cooperativa: la prima a destra (Fiavé, Archivio privato Nina Zambotti9

Rassegna Trento

Ingresso libero Orari di apertura: lunedì-giovedì 17.00-20.00 venerdì-domenica 10.00-12.00 e 17.00-21.00

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La mostra sarà itinerante, contattaci se vuoi ospitarla nel tuo paese: 0461 1747012 / cesc@museostorico.it 0461 898672 / donne@ftcoop.it

cinematografica

a

È iniziata presso la biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino la rassegna di proiezioni cinematografiche prevista dal progetto “Trentino Italia storie pop” e


già proposta nelle biblioteche di Ala, Brentonico e Lavarone. Fino al 14 maggio sono stati proiettati i documentari delle sezioni “Uomini e territorio” e “Uomini e industria”. Le successive sezioni del ciclo riprenderanno a partire dall’1 ottobre. Una mostra sulla Resistenza La Fondazione Museo storico del Trentino e l’ANPI del Trentino hanno inaugurato il 10 aprile presso le Gallerie di Piedicastello, la mostra “Resistenza italiana: dalla nascita del fascismo alla Costituzione”, aperta fino all’8 maggio. In occasione dell’inaugurazione il gruppo interpretativo musicale “I Poesica” ha proposto il racconto musicale “Abbiam sognato assieme primavera” sulla lotta partigiana nel Trentino, tratto dal libro di Giuseppe Sittoni “Uomini e fatti del Gherlenda”.

berto Folgheraiter e Rodolfo Taiani hanno presentato le loro relazioni, dedicate rispettivamente a “Malattie e popolazione in terra trentina: considerazioni di studio su alcuni temi di storia sanitaria” e “Per una storia della sanità in ambito locale: l’esperienza trentina”. Al termine si è tenuta una tavola rotonda cui hanno partecipato l’assessore Ugo Rossi, Alberto Aloisi (presidente Ordine dei medici veterinari della provincia di Trento), Bruno Bizzaro (presidente Ordine dei farmacisti della provincia di Trento), Giuseppe Ferrandi (direttore Fondazione Museo storico del Trentino) e Giuseppe Zumiani (presidente Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Trento).

co presente in sala ha potuto votare il proprio video preferito.

Un volume su Francesco Moranino Il 22 aprile la biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino ha ospitato la presentazione del volume di Massimo Recchioni “Francesco Moranino, il comandante ‘Gemisto’: un processo alla Resistenza” (Roma, DeriveApprodi, 2013). Con l’autore è intervenuto Lorenzo Gardumi, ricercatore della Fondazione Museo storico del Trentino

Verso il centesimo anniversario della prima guerra mondiale A un anno dall’avvio delle celebrazioni per il Centenario dello scoppio della prima guerra mondiale la Provincia autonoma di Trento ha presentato lo stato di avanzamento delle iniziative e delle proposte che si intendono attuare in vista di questa importante ricorrenza. Nei giorni 12 e 13 aprile a Rovereto, presso la Fondazione Opera Campana dei Caduti, si è tenuto il forum “Verso il centenario della Grande Guerra” cui ha partecipato La premiazione del concorso “Hianche la Fondazione Museo stori- story Lab 3x3” co del Trentino. Nel pomeriggio di sabato 13 aprile, presso le Gallerie di Piedicastello, Un confronto sulla storia della sa- la Fondazione Museo storico del nità in Trentino Trentino ha proposto la proiezione Il confronto pubblico “Per una sto- di tutti i video che hanno parteciria della sanità in Trentino: percor- pato al concorso “History Lab 3x3, si e strategia di ricerca condivisi” che prevedeva la realizzazione, in si è tenuto alle Gallerie di Piedica- soli 3 giorni, di un video della dustello il 12 aprile. Dopo gli indirizzi rata massima di 3 minuti, dedicato di saluto dell’assessore provincia- al tema del lavoro. La Giuria ha poi le alla salute e politiche sociali, Al- comunicato i 3 vincitori e il pubbli-

25 aprile Giovedì 25 aprile 2013 Trento ha celebrato il 68° anniversario della Liberazione. Alla cerimonia di commemorazione, presso Palazzo Geremia, sono intervenuti Alessandro Andreatta, sindaco di Tren-

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to, Bruno Dorigatti, presidente del Consiglio della Provincia autonoma di Trento, Giuseppe Ferrandi, direttore della Fondazione Museo storico del Trentino, Sandro Schmid, presidente dell’ANPI del Trentino.

EDIZIONI

NOVITÀ Lorenzo Pevarello (regia di), Giovanni Hippoliti: l’Accademia nel bosco, a cura di Mario Cerato, DVD, 65’, € 8,00

nell’insegnamento e nella ricerca, operando prevalentemente sul campo. Il video è arricchito da filmati e documenti di repertorio di proprietà dell’Università degli studi di Firenze, che ha scelto di depositarli presso la Fondazione Museo storico del Trentino perchè fossero conservati, tutelati e valorizzati. Mario Cerato e Lorenzo Pevarello (a cura di), La difesa del territorio: storia del torrente Maso in Valsugana, DVD, 57’, € 8,00

La fabbrica delle donne “La fabbrica delle donne”, il documentario della regista Micol Cossali, prodotto dalla Fondazione Museo storico del Trentino, è stato selezionato nel programma del Trento Film Festival 2013 ed è stato proiettato il 29 aprile presso il Cinema Modena a Trento. In questo documentario tredici donne di età diversa, che hanno lavorato nello stabilimento dagli anni quaranta fino alla sua chiusura nel 2008, raccontano la storia della Manifattura Tabacchi di Rovereto.

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Giovanni Hippoliti, primo docente universitario in Italia a ricoprire la cattedra di meccanizzazione forestale e successivamente di utilizzazioni forestali, racconta, in un’articolata e appassionata videointervista, la propria esperienza professionale che lo ha portato ad ottenere importanti riconoscimenti, quali il titolo di accademico dell’Accademia italiana di scienze forestali, ma soprattutto ampia fama nell’ambiente forestale nazionale e particolarmente trentino per aver saputo coniugare mirabilmente teoria e pratica

Il torrente Maso, il maggior affluente del fiume Brenta, ha costituito una minaccia costante per il territorio a causa delle sue frequenti alluvioni. Si tratta di un corso d’acqua con un bacino idrografico che interessa la difesa dei territori di numerosi Comuni e direttamente la sicurezza degli abitati di Castelnuovo e Scurelle. Il documentario illustra il lungo e difficile lavoro di costruzione delle opere di regimazione del torrente Maso e gli interventi di sistemazione delle frane e dei dissesti all’interno della val Campelle e della val Calamento: azioni di consolidamento risalenti, in alcuni casi, a oltre


due secoli fa e rinnovate in occasione dei gravi danni provocati dalle grandi alluvioni, in particolare quelle del 1882 e del 1966.

Alessandro de Bertolini, Giuseppe Ferrandi, Roberta Tait (a cura di), Ski past: storie nordiche in Fiemme e nel mondo, pp. 335, € 15,00

Micol Cossali (regia di), La fabbrica delle donne, DVD, 57’, € 8,00

La storia della Manifattura Tabacchi di Rovereto rivive nelle testimonianze di tredici donne, le quali raccontano la personale esperienza lavorativa. Dalla produzione dei toscani fino a quella delle sigarette, attraverso processi sempre più meccanizzati, s’intersecano così alcune delle fasi storiche attraversate dallo stabilimento fra gli anni quaranta del Novecento e il 2008, anno della chiusura definitiva. La manifattura è sempre stata la fabbrica delle donne, reclutate per le loro abilità manuali, ma anche per il loro basso costo. Nel corso degli anni le condizioni di lavoro sono migliorate e anche nella fabbrica si sono affacciate le grandi trasformazioni socio-culturali che hanno investito l’intera società e in particolare la vita delle donne. Fanno parte di questa storia le testimonianze e le fotografie, ma anche l’odore stesso del tabacco che ancora oggi impregna di sé ogni ambiente dell’edificio.

Il volume raccoglie e riorganizza i materiali presentati alla mostra “Ski past: storie nordiche in Fiemme e nel mondo” esposta presso le Gallerie di Trento dal 15 ottobre 2012 al 30 giugno 2013 in occasione dei Campionati del mondo di Fiemme 2013, e rappresenta un contributo alla storia dello sci e delle sue origini in relazione al contesto alpino, trentino e della Val di Fiemme ma non solo. Stefano Girola and Rolando Pizzini (edited by), Nagoyo: the life of Don Angelo Confalonieri among the Aborigines of Australia 18461848, pp. 238, € 18,00 Versione inglese del volume di Rolando Pizzini “Nagoyo: la vita di don Angelo Confalonieri fra gli Aborigeni d’Australia 1846-1848”, pubblicato nel 2011. Nella sua pur breve vita, Angelo Confalonieri (1813-1848) ha scritto una pagina importante nella storia dei contatti fra le culture europea e aborigena d’Australia e, più in generale, fra missionari cattolici e popoli indigeni.

I contributi raccolti in questo volume, elaborati da studiosi di diversa estrazione disciplinare, hanno svelato sia i tratti di una vicenda di straordinario spessore culturale, religioso e umano sia la ricchezza della personalità di un missionario trentino che nella prima metà dell’Ottocento decise di dedicare la propria vita alle popolazioni aborigene e alla loro evangelizzazione.

P R E S E N TA Z I O N I 12 aprile 2013, Rovereto 19 aprile 2013, Trento Il volume “Da tante storie una storia: confronto tra archivi ed esperienze di donne per una storia viva”, curato dall’Osservatorio Cara Città, è stato presentato a Rovereto presso la Fondazione Caritro. Sono intervenute Giovanna Sirotti, assessore del Comune di Rovereto e Giovanna Covi, docente presso l’Università di Trento. Si è parlato dello stesso libro a Trento, nella biblioteca della Fondazione Museo storico del Trentino, assieme a Barbara Poggio, docente dell'Università di Trento, Isa Cubello della Commissione provinciale pari opportunità e Patrizia Marchesoni della Fondazione Museo storico del Trentino.

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itinerariattraverso attraversolalastoria storia itinerari dellafarmacia farmaciatrentina trentina della BRENTONICO(TN) (TN) BRENTONICO

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Palazzo Eccheli-Baisi Palazzo Eccheli-Baisi Mantova, ViaVia Mantova, 44 VISITE GUIDATE PRENOTAZIONE VISITE GUIDATE SUSU PRENOTAZIONE

Biblioteca comunale di BrentonicoTel. Tel. 395059 | E-mail: biblioteca@comune.brentonico.tn.it Biblioteca comunale di Brentonico 04640464 395059 | E-mail: biblioteca@comune.brentonico.tn.it Azienda il turismo Rovereto e VallagarinaTel. Tel. 395149 | E-mail: brentonico@visitrovereto.it Azienda per per il turismo Rovereto e Vallagarina 04640464 395149 | E-mail: brentonico@visitrovereto.it Fondazione Museo storico del TrentinoTel. Tel. 1747000 | E-mail: info@museostorico.it | www.museostorico.it Fondazione Museo storico del Trentino 04610461 1747000 | E-mail: info@museostorico.it | www.museostorico.it Mostra realizzata dalla Mostra realizzata dalla

Con la collaborazione di Con la collaborazione di

Con la partecipazione di Con la partecipazione di

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PROVINCIA AUTONOMA PROVINCIA AUTONOMA DI TENTO DI TENTO


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