Breccia - Primo numero - novembre 2023

BRECCIA La rivista

Primo numero Novembre 2023 Firenze

@movimento.breccia

MANI FESTO Una breccia è “un’apertura in una fortificazione, praticata per mezzo di macchinari o strumenti esplosivi, volta a facilitare il passaggio delle truppe assalitrici”.

Il Movimento Breccia è nato con l’idea di abbattere le rigide pareti delle tipologie e degli stilemi in cui l’espressione artistica è stata progressivamente ingabbiata : vogliamo eradicare il presupposto secondo cui l’arte viene prodotta esclusivamente dagli artisti canonici e canonicamente raccomandati, e vogliamo farlo offrendo uno spazio a chiunque voglia parlare attraverso il linguaggio dell’arte Non creiamo per Breccia, ma in Breccia. Il Movimento si presenta come un canale attraverso il quale la nostra espressione prende forma e viene promossa, ottenendo la possibilità di venire pubblicata con il sostegno e i consigli di tutta la comunità. Non ci interessano riflettori né fama, il progetto nasce come un circolo di mutua revisione artistica e scambio di idee.

Siamo infatti un gruppo di giovani eterogeneo, ma accomunato dal desiderio di comunicare qualcosa pur avendo pochi mezzi a disposizione. Abbiamo tra le nostre fila chi si interessa di musica, chi scrive e poeteggia, chi ha una propensione storica e chi invece è artista visivo e grafico. Amanti dell’arte in tutte le sue forme, nonché suoi fruitori e fruitrici che non si propongono di insegnarla sapienti ma fruitori e fruitrici), abbandoniamo l’idea che per abbattere l’elitarismo intellettuale sia necessario ripudiare la storia e i dettami dell’arte classica. Non abbiamo la presunzione di avanzare pretese nei confronti di uno studio delle discipline artistiche sempre più elitario e settario, senza essere noi le prime e i primi a viverlo per poterlo sconvolgere e piegare alle nostre esigenze espressive.

Con questi obiettivi abbiamo creato un portale attraverso il quale, mensilmente, vari artisti e artiste avranno la possibilità di pubblicare i loro lavori. Sarà accessibile gratuitamente tramite il nostro profilo Instagram @movimento.breccia e sul nostro sito web beacons.ai/ movimentobreccia .

Indice L’ora Blu di Emma Pacini Il gioco delle carte di Federico Maraziti Voragini di Gemma Petri Nel letto di Azzurra Falciani G di Anonimo [Senza titolo] di Anonimo Il re delle capre di Sara Bisori I tuoi occhi di Hanna Russo E’ possibile inferire l’esistenza a prescindere dall’esperienza? di Gemma Petri Enkadenz di Alberto Sanna L’Angelo Sterminatore di Simon Sartori Copertina ed impaginazione di Emma Crocetti

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Marta astratta (ritratto) di Matilde Cianchi

L’ORA BLU Rincorro l’ora blu, quando le nuvole si spengono e rinascono i lampioni, quando nel piangere i tuoi vuoti ti ritrovi più vuota di prima, quando il tempo s’assottiglia l’acqua ti sale alla gola, apri le branchie.

La ricerca del vero.

Persa, ormai sedotta dal reale.

di Emma Pacini

Il gioco delle carte Il rito di mescolare le carte Un’ultima volta, quando lo sguardo Assente indaga attento rocce Lontane, che nel silenzio severo Di respiri e cicale, paiono Irraggiungibili ad ogni passo.

di Federico Maraziti

Non ci resta che sussurrare per non Disturbare taciturni spiriti Nelle macchie.

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[Senza titolo] di Jacopo Lorenzi

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VORAGINI

Come bruci luna che mordi spietata i brandelli di tempo che mi rimane.

Folle colma questa voragine di inverno questa pagina muta, in cui frugo, dispersa.

Un’onda d’angoscia mi invade la bocca e non respiro che fine

di Gemma Petri

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Nel letto

Le tue dita delicate tracciano confini di nazioni sulla geografia del mio corpo Solcano mari, s’inerpicano su monti, affondano nel groviglio dei miei capelli.

Ad occhi chiusi mi godo lo spettacolo che mi offri Potrei ascoltare persino le tue cose peggiori adesso e non mi importerebbe.

Sei il latte bianco della domenica mattina.

di Azzurra Falciani

G

Stamattina sono uscita per il centro la mia pelle ha bevuto il sole pensando al tuo tocco sottile Ho cercato il tuo volto tra quelli disegnati dai madonnari Ti ho trovata: Bella come sempre, vestita d’azzurro Chiedevi pietà per il mondo di Anonimo

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Una donna di Hanna Russo

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[Senza titolo] di Jacopo Lorenzi

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E fu la notte in cui bevvi le stelle In cui salii sul tuo stesso vagone In cui annodai le mie vene e la pelle Senza dare loro una direzione Fui un cantore perso e delirante: Un visionario; tu una principessa, In fuga insieme dal male costante Verso una meta che forse è la stessa Vidi tre angeli cantare in coro Intorno a un nobile corpo velato Quando aprii gli occhi ero in mezzo a loro Ed il progetto mi fu mostrato Ho camminato nel cielo più dolce, Nei timpani ancora le chiare note Poi il buio si mangiò l’ultima falce Di luna; e, sui binari, le ruote.

Seduta, guardi il nulla che si perde Nel traffico di mezzanotte e mezza Formiche schiave della luce verde E noi, che viaggiamo in una carrozza Ti urla addosso, quello spettro sudato, Resti concentrata come d’incanto: Sai che non è con te che è arrabbiato, Ma con lo spettro che ti viaggia accanto Per tutte le urla gridate al mondo Per quella segreta frase infuocata Nei tuoi occhi lucidi il girotondo Della tristezza che ti ha incarcerata Ogni secondo che passa condanna Ogni momento ricorda la croce Per il dolore una ninna-nanna Te la canterò finché avrò voce [Senza titolo] di Anonimo

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Il re delle capre di Sara Bisori

Su brulli scogli ti innalzi, antico re di questa terra.

Il lamento del mare non turba Il tuo popolo; L’arsura È placata Dalle dolci fonti d’acqua.

Un solo nemico minaccia il tuo regno; È l’essere osceno Che all’alba Richiede un tributo di sangue.

Ne aspetti, Esione, l’arrivo Legata agli scogli.

Non è un mostro, ma un uomo Colui che ti strappa la vita Con due colpi.

Al mattino Dalle brulle scogliere Il cacciatore torna a casa Con la sua capra.

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E assetati i miei occhi mi chiedono dove tu sia, cosa tu faccia.

Se sei vera linfa, o vegetale o altro assortimento di disagio.

E mi chiedo chi ci sia nascosto nella neve, Dove si poggia l’avvenire che si accorcia e si deteriora.

Amo ancora Te, il profumo della tua pelle e la danza dei tuoi pensieri che fuggono l’impossibilità di amare.

E mi chiedo come tu possa essere così tanto, e mostrare così poco.

Perché la reale connessione non si perda nelle divagazioni di un cuore leggero, che non sia un passatempo o un gingillo.

E mentre cresci i tuoi occhi si fanno schivi e poco disponibili, i pensieri più labirintici, i sorrisi più rari.

E tutto sembra pesantissimo e pietrificato, ma ritorna spontaneo e inaspettato l’innesco del riso, che rischiara l’amore, ricaccia il dolore.

I tuoi occhi

di Hanna Russo

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‘È possibile inferire l’esistenza a prescindere dall’esperienza?’ di Gemma Petri

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Secondo un criterio della verità realista metafisico, le credenze, per poter accedere al campo della conoscenza, devono trovare una corrispondenza nella realtà, che sussista indipendentemente dal modo soggettivo di interpretare il mondo esterno. I fatti oggettivi della realtà esistono a prescindere dai processi cognitivi del soggetto.

In particolare, Descartes cerca di giustificare l’esistenza di un mondo esterno attraverso un metodo riflessivo, rivolto esclusivamente al soggetto stesso. Dal fondamento del cogito giunge a inferire la propria esistenza in quanto ente pensante (res cogitans), titolare di idee: “E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa […]” (Discorso sul metodo).

Tuttavia, poco più tardi, Hobbes giudicherà indebita l’inferenza dall’evidenza delle idee all’evidenza del soggetto, tacciandola di “sostanzializzazione”: l’atto di “pensare” non può trasformarsi in sostanza solamente per la sua evidenza, per il suo modo di manifestarsi.

Nella quinta Meditazione Descartes sostiene l’esistenza di Dio fornendone la prova ontologica già introdotta da Anselmo d’Aosta. “Risulta palese che dall’essenza di Dio l’esistenza non può venir separata più che […] dall’idea di monte l’idea di valle; per cui non è meno contraddittorio pensare Dio, ossia l’ente sommamente perfetto, privo dell’esistenza – vale a dire di una perfezione – che pensare un monte senza valle”.

Contro l’argomento a priori a sostegno dell’esistenza di Dio, si pronuncerà Kant, affermando nella Critica della Ragion Pura, che “cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili”. Se si considera l’esistenza come “modo d’essere reale/di fatto” (secondo la definizione dell’Abbagnano) la differenza non risiede negli attributi dei due concetti, ma nel sussistere o meno di una corrispondenza con la realtà. L’equazione tra “perfezione” e “esistenza”, mutuata dalla tradizione scolastica, per cui il concetto di “perfezione” si caratterizza come “assenza di mancanza” e dunque include analiticamente la “proprietà” dell’esistenza, relaziona impropriamente enti differenti tra loro, che afferiscono uno al campo della possibilità (perfezione), l’altro a quello della realtà (esistenza). L’esistenza non si configura come assoluta: non è un “quid” di cui si possa predicare o meno la corrispondenza con la realtà, ma è essa stessa a determinarla di un preciso concetto.

Descartes, dunque, sembra mettere in relazione di dipendenza l’esistenza di Dio (e della realtà esterna) dalla sua soggettiva concezione dell’idea, dal modo in cui viene definita dal soggetto. Tuttavia non trova una giustificazione valida per inferire l’esistenza in una realtà esterna indipendente dalle proprie proposizioni.

Sempre Kant, nella Critica della ragion pura, dedicherà una sezione della Dottrina trascendentale degli elementi intitolata Confutazione dell’idealismo, in cui dimostrerà che “la semplice coscienza, ma empiricamente determinata, della mia propria esistenza, prova l’esistenza degli oggetti nello spazio fuori di me”.

Secondo il filosofo di Königsberg dunque, è possibile inferire l’esistenza di enti in un mondo non ideale solo in qualità di affezioni del senso esterno soggettivo (ovvero l’esperienza), inducendo così l’intuizione interna “in relazione alla quale […] il soggetto deve essere determinato”.

La distinzione tra esperienza interna e esterna, che Kant recupera, compare per primo in Hume. Per il filosofo scozzese infatti si caratterizzano come percezioni le impressioni fornite attraverso non solo i sensi, ma anche dall’introspezione, in cui il soggetto percepisce i propri stati esperienziali immediatamente, nel modo più vivido possibile. Ciò di cui è possibile predicare l’esistenza viene ridotto alla sfera delle manifestazioni soggettive derivate dall’esperienza.

Anche Schlick, come Kant, raccoglie la lezione di Hume, ma in segno diverso, definendo l’esperienza come il “riconoscimento di un fatto nuovo per mezzo di vecchi termini”.

Secondo il fisico tedesco infatti non ha significato conoscitivo supporre che esista la realtà oltre le proposizioni: non posso conoscere ciò che non è esprimibile (tramite proposizione, ad esempio), che può solo essere soggetto di intuizione. Tutto ciò che ha significato (come una proposizione) è verificabile, ovvero esistono modi in cui essa si rivela vera, in cui è riconoscibile la medesima struttura tra fatti e proposizioni, a prescindere dalle soggettive capacità tecnico-effettive di verificarla.

“L’esistenza, […] d’un essere può essere provata soltanto con argomenti tratti dalla sua causa o dal suo effetto: e questi argomenti si fondano completamente sull’esperienza. Se ragioniamo a priori, ogni cosa può risultare capace di produrre qualsiasi cosa”, afferma Hume nella Ricerca sull’intelletto umano.

A proposito dell’“a priori”, Schlick scrive in Forma e Contenuto: “Queste proposizioni devono essere valide a priori, ossia non possono essere basate sull’esperienza […].

Il termine a priori non deve essere inteso in senso psicologico, ma in senso logico: […]: non sarebbe esistito senza l’esperienza, ma non deriva da essa la sua validità. […].

La conoscenza [...], è l’espressione di

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La conoscenza [...], è l’espressione di un fatto nuovo per mezzo di vecchi termini, è basata su una ricognizione dei costituenti del fatto. […] Essa non soltanto precede la conoscenza, ma ne costituisce la base logica, fornisce il fondamento della sua validità.

Ma tale processo […] è ciò che comunemente viene detto esperienza”.

Così per Schlick anche i giudizi a priori hanno come proprio fondamento l’esperienza, nel momento in cui definiscono il significato (ovvero la verificabilità) di un concetto.

In Forma e Contenuto sostiene: “Ma c’entra qualcosa anche un fraintendimento del termine “esistenza”. […] Il medesimo fraintendimento è la causa dell’insensato problema sull’”esistenza di un mondo esterno”. […] L’unico significato che una proposizione del genere può avere è che essa raffigura una certa struttura della nostra esperienza. […] Se per mondo esterno intendiamo questa realtà empirica, l’esistenza di esso non è un problema, e se un filosofo intende qualcos’altro, […] si riferisce all’Essere autentico, metafisico […].

Se gli chiediamo […] come possa essere verificata una proposizione che asserisce l’esistenza trascendente di qualcosa, deve rispondere che non vi è mai modo di controllare in maniera definitiva la verità di una proposizione del genere. [...]

Stando così le cose, le sue proposizioni su un metafisico mondo esterno non hanno alcun significato”.

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In conclusione, se le varie giustificazioni dell’esistenza a prescindere dell’esperienza vengono smentite da solide argomentazioni, non abbiamo alcuna buona ragione per procedere inferenzialmente senza tenere sempre presente il riferimento all’esperienza.

CHIOSA AL TESTO Data la destinazione e le finalità accademiche che mi hanno spinta a redigere questo testo, la stesura finale potrebbe risultare ostica per chi si approccia non avendo familiarità con materiale filosofico. Mi accingo pertanto a esplicitarne alcuni tratti, nell’intento di renderlo più accessibile e fruibile per tuttx.

In primis, ho ritenuto importante trattare il tema del titolo per la fondamentalità della domanda che, come ogni buona questione filosofica, presenta ingenti ricadute nel mondo. Infatti, stabilire la definizione di ciò che esiste o meno costituisce il substrato concettuale su cui poi costruire altre nozioni di enorme rilevanza, come ‘verità’ o ‘conoscenza’. Sono proprio queste definizioni a definire, per l’appunto, le Weltbild, le immagini del mondo che plasmano i nostri comportamenti. Ad esempio, cosa succederebbe se cospicue masse di persone smettessero di credere alla verità delle teorie medico-scientifiche? Come può la

scienza moderna progredire nella sua acquisizione di conoscenze se non si ha chiaro una volta per tutte quale sia il suo dominio, il campo degli oggetti esistenti e quindi indagabili?

Chiaritone gli intenti, procedo a delucidare il significato di alcuni termini tecnici.

Per ‘criterio della verità realista e metafisico’ intendo la tesi che sostiene che esistono fatti oggettivi indipendentemente dalle proposizioni, ovvero ‘una proposizione P è vera se corrisponde a fatti oggettivi’.

Con il termine ‘ontologia’ alludo alla dottrina filosofica relativa ai caratteri universali dell’ente.

‘A priori’, citando Abbagnano, è ‘la nozione come conoscenza indipendentemente dall’esperienza, ma non precedente (nel senso cronologico) l’esperienza stessa’.

‘Scolastica’ si definisce come propriamente la filosofia cristiana del Medio Evo. Per ‘analiticità’ si intende ‘la validità delle proposizioni che non dipende dai fatti’, secondo Abbagnano.

A questo punto ritengo opportuno fornire un breve indice degli autori nominati nel testo, chiarendone il contesto storico e a grandi linee la loro visione filosofica.

René Descartes (1596 – 1650) si presenta come uno dei maggiori esponenti del Razionalismo, ovvero quella corrente filosofica che riconosce la ragione come fondamento e strumen-

to essenziale o esclusivo della conoscenza e dell’acquisizione della verità.

Immanuel Kant (1724 – 1804) è stato il più significativo esponente dell’Illuminismo tedesco, capace di conciliare Empirismo e Idealismo, in quella dottrina che diventerà nota come Idealismo trascendentale.

Anselmo d’Aosta è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco vissuto a cavallo tra XI e XII secolo.

Nicola Abbagnano (1901 – 1990) è stato un filosofo e storico della filosofia italiano, autore insieme a Giovanni Fornero del Dizionario di filosofia, Torino, UTET, 1998; da cui mi sono basata per estrarre le definizioni tecniche di molti termini filosofici.

David Hume (1711 – 1776) è stato un filosofo empirista scozzese, dove con ‘Empirismo’ intendo ‘l’indirizzo filosofico che fa appello all’esperienza come criterio o norma della verità’ (cfr. Abbagnano).

Moritz Schilck (1882 – 1936) è, insieme ad altri, fondatore del positivismo logico (o neopositivismo) e del Circolo di Vienna. La caratteristica fondamentale dell’indirizzo è la riduzione della filosofia all’analisi del linguaggio.

Con ‘trascendente’ indico ‘ciò che è aldilà di un certo limite, assunto come misura o punto di riferimento’ (cfr.

Abbagnano).

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ENKADENZ - recensione L’orchestra infuria, i suoni ingrossano sempre più in direzione del finale, il direttore agita con ardore le sue braccia, quando all’improvviso tutto viene interrotto da un unico grande colpo che risuona in ogni angolo del teatro. Il pubblico è sbigottito: il percussionista si è lanciato dentro il timpano, perforando la membrana, non si muove più.

Il musicista non è impazzito, ha eseguito ciò che si chiama “Endkadenz”, ovvero il colpo finale di una sinfonia, sonoro e spettacolare, in questo caso esagerato in modo teatrale dal compositore stesso, Mauricio Kagel, ideatore di questo estremo espediente scenico.

Ispirandosi a questo effetto, a loro volta i Verdena hanno deciso di immergersi nei loro strumenti, stravolgendo il loro suono, consegnandoci “Endkadenz”, un disco diviso in due volumi.Il gruppo era reduce da tre album rivoluzionari, uscendo da ogni etichetta di genere, con lavori quali “Requiem” e “Wow”, due opere che hanno portato all’estremo sonorità alternative, stoner e psichedeliche, rimescolandole a tal punto da renderle irriconoscibili. Le aspettative erano mol-

to alte poiché i Verdena erano ormai considerati un gruppo d’avanguardia. La risposta del trio, composto dai fratelli Ferrari e Roberta Sammarelli, arriva nel 2015 ben quattro anni dopo “Wow”. “Endkadenz” è frutto di un anno ininterrotto di jam sessions in sala prove,che hanno prodotto 400 riff e ritornelli diversi, poi scremati in 26 canzoni e spartite in due dischi da un’ora ciascuno. Il gruppo sfonda la membrana di un suono già avanguardistico, catapultando l’ascoltatore in un mondo dipinto nato dalle impressioni ed espressioni del trio, colorate con pennelli distorti e compressi, costantemente contornate da voci oniriche distanti e presenti. L’album si presenta come un quadro astratto dai contorni concreti, mettendo in mostra due dimensioni diametralmente opposte, ma legate dal filo rosso del ritmo, concetto chiave del disco.

Nella forma è un lavoro che mostra un’accurata e peculiare orchestrazione, unendo archi, pianoforte e fiati a sintetizzatori, drum machines, batterie e chitarre distorte. Ad esempio brani con struttura classica (come il singolo di lancio “Un po’ esageri”) vengono eseguiti con

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strumentazioni d’avanguardia e brani con struttura d’avanguardia (quale “Vivere di conseguenza”) con strumentazione classica, dando vita a un chiasmo sonoro eccezionale.

La voce viene trattata come uno strumento, i suoi ritmi seguono e contrastano ciò che fanno le altre linee, cantando liriche inarrivabili con significato simbolico e personale. È inutile cercare di tradurre o decifrare le parole di Alberto Ferrari, i Verdena non sono un gruppo, sono una sensazione, un suono a sé stante. Questo è uno dei motivi per cui la scrittura in “Endkadenz” è serva della musica, unico principio assoluto di questa opera. In tal modo le canzoni perdono il concetto di struttura iniziando in un modo e finendo in un altro, per poi dimostrarsi dei veri e propri flussi di coscienza che hanno la piena libertà di espandersi sotto spoglie sonore, grazie alla fusione di tre personalità musicali eclettiche e autodeterminate, capaci di mettere su un pentagramma il loro io fuso alle loro idee.

I Verdena hanno decostruito il loro stesso sound ed è solo grazie a questo processo di demolizione che possiamo essere partecipi della sensazione di smarrimento e di pienezza di brani come “Inno del perder-

si” o possiamo percepire la leggerezza e la malinconia di “Nevischio”. In ogni pezzo un’emozione differente da quella di prima prende forma: i luoghi musicali in cui ci troviamo mutano in base al suono che segue, da un oceano in tempesta passano ad un mare calmo. Le sonorità di “Endkadenz” hanno il potere di cambiare una parte di noi, se tendiamo l’orecchio e ascoltiamo la potenza dinamica di un trio che si diverte a pizzicare corde nascoste nel nostro ego. Secondo Alberto Ferrari è un disco “incoerente e schizofrenico”, dove testi, melodie e arrangiamenti hanno vita propria e non seguono alcun canone, se non quello del gusto di ogni membro del gruppo. È una potente affermazione di libertà artistica in un periodo in cui la musica sta diventando sempre più omogenea e categorizzata, svenduta al soldo delle grandi case discografiche e recepita in modo superficiale. Questi due volumi aprono le porte ad un complesso ecosistema sonoro, variopinto, potente, malinconico e maestoso. Questo è possibile grazie alla breccia che apre nell’ ascoltatore, con parole sì arcane e incomprensibili, ma allo stesso tempo parte di una sola chimera musicale. Le canzoni parlano di interiorità, parlano di paura, di pulsioni nascoste e di stupore. Dalla poesia bambinesca dei testi alle

strumentali possenti e delicate, i Verdena alla loro maniera si sono messi a nudo. Ascoltarli non significa comprenderli, significa prendere parte ad una catarsi psichedelica nel paese delle meraviglie, dove immagini surreali prendono forma nella nostra percezione di quest’ultime.

Consiglio anche a voi di immergervi in uno dei progetti con più personalità e passione dell’intero panorama alternativo italiano, un diamante grezzo e sporco, unico nel suo genere.

TRACCE CONSIGLIATE Nevischio Inno del perdersi Ho una fissa Identikit Waltz Del Bounty Dymo

di Alberto Sanna

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L’angelo sterminatore (El Angel esterminador)- Luis Buñuel Messico – 1962 di Simon Sartori

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L’angelo sterminatore, venticinquesima pellicola della filmografia di Luis Buñuel, rappresenta il film cardine del suo periodo messicano, oltre che tra i vertici assoluti del suo cinema.

Al termine di una serata a teatro, un gruppo di abbienti borghesi si riunisce per una cena in un palazzo signorile. Al loro arrivo, i servitori e i camerieri abbandoneranno la villa, come fuggendo, lasciando il solo maggiordomo. La vicenda prende forma quando come se caduti in un maleficio o un incantesimo, nessuno di loro riesce a lasciare la villa; nonostante non vi sia nulla che impedisce loro di farlo, nessuno riesce a varcare la soglia del salotto, e si influenzano l’un l’altro nell’impossibilità di varcarlo.

“Perché non ce ne andiamo?” “Tutti hanno deciso di rimanere.”

“E ti sembra naturale?” “La vita è imprevedibile, strana…”

“Perché questa notte non è tornato a casa?” “Non so, come tutti, e lei?”

“Lo ignoro…”

Imprigionati e schiacciati, ogni tentativo di uscita sarà intrinsecamente sterile per ciascuno dei presenti, bloccato sul nascere. Laddove prima

la festa era teatro dei tipici comportamenti mondani, esagerati e sfarzosi dei più abbienti, ora sempre più vorticosamente i partecipanti finiranno per perdere la concezione del possibile, in uno stato di inettitudine a cui Buñuel sembra condannarli. Quella di Buñuel però, non è una condanna giustizialista o arbitraria: in quanto l’intento della pellicola è rappresentare, nella pratica profilmica, il bigottismo borghese che edifica la sua stessa prigione; la prigione sono loro, e non hanno i mezzi per uscirne poiché incapaci di affermare una propria scelta individuale o di ragionare nell’ottica del bene collettivo, si avvierà quindi un incubo condiviso che si materializzerà però in un’esperienza individuale.

Un progressivo indietreggiamento comportamentale li affliggerà, in aperto contrasto con quel che fino a poco prima era la loro attitudine raffinata quanto ipocrita, elitaria quanto puerile; fino al baratro, fino all’indietreggiamento animale: commettendo gli atti più impuri. Con il passare dei giorni i prigionieri si mostreranno a loro stessi per quello che sono: violenti, impulsivi, lascivi e lussuriosi. Non stupisce, che nel progredire del degrado fisico e spirituale, emerge un’altra delle pulsioni primordiali dell’uomo, il sentimento religioso, ovvero, la proiezione delle utopie. Cristianesimo, satanismo, massoneria e parapsicologia: le forme più naturali quanto irrazionali di fede e mutuo

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soccorso, nel tentativo di spezzare la catena invisibile che tiene vincolati in quel luogo.

Il ritmo del film procede lentamente, nonostante ciò, il climax percepibile è costante, condito dai tipici sprazzi surrealisti, grotteschi e onirici del cinema Buñuel. È interessante come nel periodo maturo del suo cinema, il regista spagnolo, partendo dalla base espositiva surrealista (surrealismo come “Automatismo psichico puro per mezzo del quale ci si propone di esprimere, o verbalmente, o per iscritto, o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza d’ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori d’ogni preoccupazione estetica o morale.” André Breton – Manifeste du Surréalisme – 1924) e quella grottesca e onirica, raffigura un carattere sociale ed antropologico perfettamente individuabile nei suoi tempi: il degrado intellettuale di una borghesia che non è morta, anzi, con la guerra fredda ha consolidato maggiormente il suo potere, ciononostante, basta un gioco del destino per sviscerarne la fragilità e la vacuità. Nell’unione tra il linguaggio feroce e radicale dell’avanguardia alla rappresentazione del contesto storico in cui vive, “L’angelo sterminatore” si presenta come l’opera più moderna di Buñuel, e tra le vette della sua maturità artistica. Buñuel sapeva bene che per colpire ferocemente e veritieramente la su-

superficialità altolocata, si doveva rappresentare sul grande schermo il suo inconscio; l’io che sta sotto, per ridicolizzare il super-io schiavo delle formalità sociali.

Non è un caso che il regista spagnolo qui si affidi ai riferimenti biblici, come espediente metaforico del dualismo contrastante tra l’inconscio interiore del singolo, e quello non-pensante della massa.

Il film stesso si apre con un piano fisso su una cattedrale, in seguito lo spettatore scoprirà che la via del Palazzo in cui si svilupperà la vicenda si trova in “Via della provvidenza”; nel titolo stesso della pellicola, la figura dell’angelo sterminatore rimanda all’immaginario biblico del “Libro dell’apocalisse” secondo Giovanni, e nel corso della vicenda, si noterà che intorno alla cena sopra i personaggi sono spesso presenti iconografie dei santi e delle madonne, come se fossero di controllo ai condannati.

Nel contesto biblico, l’angelo cosiddetto sterminatore corrisponde al sovrano delle cavallette che emergono dalla voragine aperta sull’abisso, al suono della quinta tromba dell’apocalisse; l’angelo dell’abisso, in ebraico abaddòn e in greco sterminatore. (tale appellativo comparirà poi nell’Esodo, 12, 13) Il gregge di pecore e l’orsa presenti nella casa, sono altri riferimenti biblici quanto simbolici addottati da Buñuel, ma chi scrive (oltre che lo

stesso Buñuel), preferisce lasciare allo spettatore l’interpretazione dei tanti simboli, oltre che biblici, onirici e mostruosi, che si andranno a manifestare nella vicenda.

Possiamo perciò anche capire di come l’operazione di Buñuel, nel legare tematiche quali il dramma borghese, l’inconscio umano e la tematica religiosa, raffiguri una prigionia estendibile anche su scala planetaria, in cui nella storia dell’uomo e del suo pensiero, essa sia data perennemente dalla catena secolare di autointerdizioni e autocensure che l’uomo ha posto al libero esternarsi dei suoi desideri.

Ed è nella offuscata e restrittiva cella del palazzo-mente, in cui silenziosamente, l’invisibile presente può procedere nello sterminio.

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