Augurale 2022

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il 2023

Con Astarea alla scoperta di un nuovo anno

Tanti cari auguri di Buon Natale 2022 e Buon Anno 2023

Astarea 2022
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Come in tutti i nostri Augurali, raccontiamo un pezzo della cultura fenicia, da sempre utilizzata per il nostro story-telling, quale aggancio ai loro contenuti.

I Fenici sono noti come commercianti e navigatori che nulla poteva fermare, competenti, determinati ed innovatori. Meno nota la loro capacità di avere creato il primo mercato mondiale della storia, grazie soprattutto alla costruzione di una diffusa rete commerciale sulle lunghe distanze – dalla penisola iberica al golfo persico -, che aveva in Tiro il suo epicentro.

L’intreccio di questi rapporti fondava su insediamenti che non implicavano la colonizzazione: erano punti di appoggio, in un’ottica commerciale, per facilitare il contatto con le popolazioni indigene, e che in molti casi assumevano una funzione di scalo, luoghi di commercio, di scambio, e di incontro tra gruppi etnici diversi. Questo mix investe anche la religione, con la integrazione di divinità diverse, sia la vita sociale, con matrimoni misti: nel complesso, una coesistenza che si rafforzerà sempre di più nelle città mediterranee.

Gli oggetti dello scambio erano molteplici, da suppellettili a metalli, ad oggetti preziosi al legno, ai prodotti alimentari; gli attori dello scambio erano mercanti aristocratici che nel tempo sono diventati una classe autonoma rispetto al potere politico; il luogo cruciale dello scambio, il tempio, non tanto con significato religioso, ma quale espressione della vita della città. Creazione di reti e modello di scambio sono stati un fattore cruciale della stabilità, espansione e prosperità del popolo fenicio. “Mutatis mutandis”, sono concetti chiave che hanno generato l’Augurale di quest’anno.

In copertina, le rotte dei Fenici Colore: Viva Magenta 18-1750, Pantone del 2023

Quale futuro?

Orientarsi tra i segni

Quale futuro? Orientarsi tra i segni

Introduzione

Quello di quest’anno, è in effetti un Augurale “speciale”, perché è stato costruito in un’ottica collaborativa: e cioè insieme con “TAMTAMING”, di cui Astarea fa parte. Che cosa è “TAMTAMING”? Un gruppo di ricercatori, indipendenti, professionisti o small companies, impegnati nel campo delle ricerche di mercato, sociali e di opinione, con un alto livello di seniority, che hanno deciso di mettersi “in rete” per condividere opinioni, esperienze, capacità, in un’ottica prospettica e di innovazione.

Un’esperienza unica in Italia, notoriamente luogo di individualismi, ed in particolare unica nel settore delle ricerche di marketing, dove è molto diffuso lo spirito competitivo, il blindaggio del proprio Know-how, il narcisismo un po’ escludente, il timore che l’apertura ai colleghi significhi perdita dei propri stakeholder.

I valori dell’etica professionale, della legalità, dell’ identificazione con le esigenze dei propri clienti sono i pillar di questa condivisione. Noi di TAMTAMING ci proponiamo non solo di mettere insieme le nostre esperienze, ma anche di creare prospettive metodologiche inedite, a tutto vantaggio degli interlocutori di ciascuno. L’Augurale di Astarea quest’anno ha inteso comunicare il progetto TAMTAMING lavorando insieme su un tema cruciale in questo momento storico, non solo per l’Italia ma per il mondo intero.

Quale futuro? Il focus è su quanto i cittadini, i consumatori, o prosumer che dir si voglia, percepiscono riguardo il futuro prossimo in diversi ambiti di vita. I partecipanti a TAMTAMING sono ricercatori a costante, quotidiano, diretto contatto con le persone, che intervistano e ascoltano sugli argomenti che riguardano i prodotti, i servizi, le attività e le identità delle imprese, delle associazioni, delle istituzioni: ma in questa interlocuzione, giocoforza e soprattutto in questo pe-

riodo emerge -in maniera spontanea e diretta, e non solo sulla base delle domande di un questionario- il sentiment di come gli italiani si prefigurano la propria vita a venire.

Con la pandemia non ancora alle spalle, una guerra in corso, difficoltà economiche l egate alla c risi e nergetica e ai problemi irrisolti dell’economia italiana, in che modo ci si proietta nel domani? Depressione, tristezza, incapacità di vedere vie di fuga, come dicono alcune ricerche, o fiducia nel potere uscire dal marasma grazie alle capacità proprie, della collettività, e degli organismi istituzionali, non solo a livello nazionale? 19 ricercatori appartenenti a TAMTAMING, con diverse specializzazioni su target e consumi, si sono riuniti a parlarne, in diverse sessioni di gruppo, per mettere in comune le evidenze emergenti dal loro lavoro quotidiano.

Uno sguardo, ci auguriamo, utile, per aiutare i nostri interlocutori a comprendere meglio, e in profondità, quanto ora serpeggia nella mente e nei cuori, quindi per meglio costruire non solo la propria offerta di prodotti e servizi, ma anche il senso del proprio “essere nel mondo” ove la relazione con i propri stakeholder assume un ruolo cruciale.

Come Astarea, per cui Laura Cantoni ha coordinato i lavori, ringraziamo Alessandra Rizzo, Alessandro Battaglia Parodi, Daniela Fujani, Elena Barbieri, Emanuela Scarpone, Federico Bassi, Francesco Cianciotta, Giovanna Cinquemani, Giulia Fabrizi, Laura Giunti, Laura Ravanelli, Luca Meyer, Maria Vittoria Gargantini, Massimo Cealti, Nadia Benedetti, Stella Bonavolontà, Tecla Maffioli, Tina Limitone, Valentina Gennari. info@tamtaming.it www.tamtaming.it https://www.linkedin.com/company/tamtaming/

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Noi e voi

La pandemia e gli eventi successivi hanno provato tutta la popolazione italiana, sottoposta ad un insieme di negatività come non se ne vedevano dal secondo dopoguerra. Nonostante le fatiche da isolamento sul piano fisico, psicologico, culturale abbiano lasciato inevitabili ferite, si intravede una reattività positiva degli italiani, alla ricerca di strumenti e orientamenti per riprendere la strada.

La visione del proprio futuro varia a seconda delle coorti generazionali. Un primo esempio, la generazione Alfa, dai 12anni in giù. Anche per loro la crisi pandemica non è stata indifferente. Tuttavia sembra la fascia di età meno negativamente colpita: sono stati più coinvolti, proattivamente, dai genitori, rispetto ai loro fratelli e sorelle maggiori (condannati al “non muoverti) nel riadattamento delle abitudini di vita, con aspetti anche ludici – lavoretti inediti, una maggiore condivisione del tempo con i genitori in attività di vario tipo, e in assenza dell’iperattivismo (scuola, sport, corsi di lingue, etc..), all’insegna del positivo claim “ce la faremo”, o “aiutiamo i nonni”.

La cosiddetta Z Generation, che sta attirando l’attenzione degli osservatori e degli operatori del mercato, imprese in primo luogo, probabilmente ha sofferto di più. Sono giovani dai 12 ai 25 anni, cresciuti iper-protetti e all’insegna della performatività, fiduciosi nel progresso guidato dalle tecnologie con le loro eccitanti ricadute nel mondo dei consumi.

Sicuramente hanno vissuto più degli altri il peso della chiusura sperimentando le difficoltà delle istituzioni nel gestire l’emergenza e nella coabitazione forzata con genitori disorientati. Soggetti al disagio psicologico - i dati clinici parlano chiaramente - hanno percepito il senso della perdita (di opportunità, di un posto nel mondo), e dell’esclusione.

Al tempo stesso hanno vissuto un’ansia prestazionale quale esito di modelli educativi orientati alla performance, congiunti alle aspettative create da un mondo apparentemente ricco di possibilità, poi invece negate; hanno sperimentato la difficoltà di relazionarsi agli altri per paure e insicurezze e, fondamentale, la frustrazione della mancanza di denaro.

Anche se, in declino il Covid ma persistenti le altre emergenze, gli Zed si trovino spaesati e deprivati, non appaiono comunque totalmente appiattiti e passivi: emerge la ricerca di un senso, il desiderio di costruire qualche cosa per se stessi, ritagliarsi uno spazio proprio che trova linfa vitale nella relazione socializzante – ora sempre più possibile anche fisicamente: il “gruppo” e le reti tra pari (se pure non senza difficoltà di adattamento) riprendono e sempre più assumeranno spazio svolgendo un ruolo consolatorio, identificatorio e partecipativo.

Segnali deboli ma significativi ci raccontano una condizione diversamente critica dei loro genitori, 4050enni, Anch’essi provati, soprattutto le donne caricate da una iperbolica gestione domestica, è comunque la fascia che ha vissuto le intemperie con una posizione già delineata, con una relativa sicurezza che suggeriva l’attesa resiliente dell’ uscita dal tunnel.

In alcune fasce di questo target (tra quelli più “social oriented”) si nota tuttavia un senso di sfiducia, insofferenza, un ipercriticismo rasentante l’aggressività, la refrattarietà nei confronti di qualsiasi proposta, il rifiuto della partecipazione socio-politica, un crescete orientamento all’individualismo, anche in assenza dei valori ideologiciguida (diritti sociali, pari opportunità, redistribuzione del reddito etc…) che avevano caratterizzato la generazione precedente.

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Espressività vs Gerarchia

Queste differenze potenzialmente generatrici di conflitto si esprimono in maniera eclatante nel mondo del lavoro: una sfida per lo sviluppo del Paese anche di là dai problemi dell’occupazione. Si sta delineando una dicotomia tra le aspettative e dei bisogni di chi ci sta entrando ed i modelli attuali di gestione.

Vige, tra le new entry giovani, il timore di interfacciarsi con un management poco aperto, e quindi poco inclusivo, rispetto alla diversità di cui essi si fanno portatori. La sensazione è di entrare in un ingranaggio con ruoli rigidi, non valorizzante le potenzialità del singolo, nella percezione dell’atteggiamento giovanile verso il lavoro come piattamente strumentale, poco incline ai tempi lunghi della “gavetta”, bramoso di reddito e carriera a breve termine.

Dall’altra parte emerge il bisogno di valorizzazione, di espressione delle proprie potenzialità, di ambienti di lavoro favorevoli alla socializzazione, di processi ideativi fondati sul team-working e sull’apporto di competenze multiple e differenziate: tutti vantaggi che nel loro insieme vengono anteposti alla prospettiva di carriera e al posto fisso (peraltro, tale solo sul piano teorico). Al fondo, il bisogno di ottimizzare la propria vita e di tutelare la propria felicità, anche a costo di pagare qualche costo: ma il rischio viene assunto consapevolmente, nella sicurezza di quel che si sente di potere fare e che si desidera fare. Di qui, ovviamente non fra tutti, ma soprattutto tra coloro che si sentono più fiduciosi in sé stessi o con le spalle in qualche modo coperte, la disponibilità a correre il rischio dell’abbandono di un posto di lavoro non soddisfacente, alla ricerca di nuove opportunità.

Di fatto, sembra che le Imprese fatichino a confrontarsi con le nuove istanze, nel timore di perdere il controllo su persone e processi, oltrechè posizioni di potere acquisite.

Questa difficoltà pare riguardare soprattutto le piccole–medie imprese, senza escludere quelle grandi, soprattutto se italiane padronali, mentre alcuni segnali ci dicono che grandi imprese internazionali/multinazionali appaiono più inclini ad innovare i processi gestionali investendo sul lavoro in gruppo e sull’ apertura ad apporti anche esterni per l’innovazione, su relazioni e inclusività, sul benessere nel posto di lavoro, sull’architettura interna costruita per favorire spazi partecipati (asilo nido, piscina, ping pong etc..), sull wellfare innovativo, sulla promozione di comportamenti sostenibili anche da parte dei dipendenti, unitamente ai cambiamenti nei paradigmi del business in direzione della minimizzazione dell’impatto ambientale e massimizzazione di quello sociale/sul territorio.

A fronte di questa dicotomia tra aspettative e situazioni effettive si aprono e sempre più si apriranno soluzioni verso il lavoro micro-imprenditoriale, one man-woman company, o più probabilmente start-up che si avvalgono comunque dell’esperienza e competenze di anziani o giovanianziani usciti anzitempo dal mondo del lavoro, e comunque capaci di garantire una maggiore espressione del self oltre che una maggiore flessibilità di mansioni, spazi e tempi rispetto alle imprese tradizionali.

In questo contesto, più ancora che nelle proteste per la reale o presunta deprivazione di risorse che colpirebbe le giovani generazioni a vantaggio di quelle antecedenti, si rischia un conflitto generazionale effettivo, con implicazioni sulle scelte lavorative dei giovani in alternativa alla Impresa classica, per non parlare dell’ emigrazione all’estero verso luoghi, in apparenza o effettivamente più consoni alle proprie esigenze, dove la remunerazione assume sicuramente un ruolo importante, ma dove intervengono sistemi di organizzazione aziendale più consoni alle istanze contemporanee.

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Responsabilità nella prossimità

Da istanza ideologica gridata ma non necessariamente praticata, l’attenzione all’ambiente e al sociale si inseriscono con seppure lenta progressività nelle scelte di acquisto.

Anche in questo caso probabilmente la pandemia, ed anche le crisi successive hanno giocato un ruolo, lavorando nella quotidianità, per suggerire modalità di consumo alternative rispetto ai modelli consolidati, e comunque da tempo messi in crisi: non solo via la spesa all’ipermercato lontano, e l’acquisto compulsivo rivelatosi nel tempo penalizzante, ma sempre di più occhio alla qualità, se pure a volte con le difficoltà di un portafoglio meno pieno, e una cresciuta consapevolezza dell’impatto dei prodotti soprattutto sull’ambiente.

Potremmo definire queste pratiche “la sostenibilità delle piccole cose”: non dichiarazioni di piazza, ma un’auto-responsabilizzazione nell’ ipotesi che un prodotto sostenibile implichi vantaggi non solo per l’ambiente, ma anche per sè stessi. Di qui, il rifiuto dello spreco che implica un carrello meno pieno ma a volte con prodotti ritenuti più interessanti; l’applauso alla sostituzione della carta alla plastica nelle confezioni, e alla introduzione di polimeri bio; l’apprezzamento di materie prime compatibili con l’ambiente; il rifiuto di sostanze considerate nocive, l’acquisizione di nuovi stili alimentari nella scoperta di una gastronomia domestica più condivisa all’interno della famiglia, e più attenta tanto al “non buttare” quanto a microgratificazioni che rendono il normale straordinario.

Nel commercio si rafforza la tendenza all’acquisto di prossimità: uno stile di acquisto a nostro parere irreversibile in quanto già emergente, e rafforzato dalle recenti contingenze. L’acquisto di prossimità nel lockdown viene favorito dal-

la impossibilità dell’andare lontano, ma trova un sostegno nella nuova divisione dei ruoli familiari con la possibilità di occuparsi della spesa da parte di componenti della famiglia non riconducibili alla sola “ RA”, ora più delegante.

Il commercio di prossimità, nato da esigenze funzionali, sta assumendo, date le istanze emergenti, un effettivo ruolo sociale, come luogo di incontro e riconoscimento (peraltro consolidato da tempo in altri Paesi soprattutto anglosassoni), che potrebbe suggerire profili diversi del punto vendita – hub di quartiere e facilitatore di relazioni.

Sulla medesima linea di sviluppo, il ruolo del punto vendita in generale, anche in aree merceologiche diverse dal largo consumo si prefigurerà sempre più, di là dagli scontati riferimenti alla dimensione “esperienziale”, come luogo di vendita e di incontro, capace di una assistenza che orienti l’acquisto secondo la personalità di ciascuno.

Senza dimenticare l’incremento degli acquisti di seconda mano e vintage. Anche in questo caso l’epoca pandemica ha fatto la sua parte: valorizzando il bricolage domestico, il riaggiustamento degli oggetti rispetto alla eliminazione e riacquisto ex novo, la riscoperta di capi di abbigliamento dimenticati, nel corso delle “pulizie totali” che ci hanno coinvolto, più o meno, tutti (o meglio, tutte).

Il nuovo che emerge è l’incremento dei mercatini di seconda mano fisici: di là dell’innovazione, anch’essa più datata ma esplosa con la pandemia, del mercatino digitale via e-commerce, sembrano svilupparsi i mercatini reali che rispondono al desiderio della scoperta tra mille oggetti non rigorosamente classificati, alla possibilità di scegliere, provandolo, ad esempio nell’abbigliamento, quello che ti è effettivamente adeguato, al piacere di un oggetto con una storia.

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Famiglia, cioè?

Icambiamenti che stanno ridimensionando il ruolo e l’aspirazionalità della famiglia tradizionale non sono effetto della pandemia. Tuttavia le crisi, soprattutto se multiple, radicalizzano tendenze in atto da tempo anche nelle modalità di vivere le relazioni interpersonali.

Nell’attuale contesto notiamo un ripensamento da parte dei giovani su valori e priorità. Innanzitutto la convivenza obbligata in famiglia ha favorito una maggiore consapevolezza dello squilibrio compiti-ruoli tra madre e padre, a fronte, peraltro, di madri “born-out”, sovraccaricate dalla moltiplicazione dei compiti familiari, sovente in aggiunta a quelli lavorativi.

Pur non potendo generalizzare, si nota un maggiore affiancamento, non solo pratico ma anche morale alle madri, anche con un intento educativo nei confronti di una figura paterna ancora schiacciata su una divisione tradizionale dei ruoli; secondo, abbiamo intravisto la riscoperta degli anziani, dei loro valori, del rispetto per la natura, dei tempi più lenti in contrasto con quelli sincopati, del loro sapere consolidato, di una capacità di ascolto dei nipoti più intensa rispetto a quella dei loro figli.

In tempi che non garantiscono possibilità economiche secondo la scaletta esistenziale di decenni fa, e che prevedono collocazioni professionali fluide, difficili da stabilire in anticipo, ci si disinnamora del matrimonio come meta prioritaria, a cui si antepone una collocazione lavorativa sicura (per quanto valga il termine) e l’autonomia abitativa quale trampolino di lancio nel mondo.

In questo quadro, persiste il perseguimento di un rapporto di coppia, in convivenza, ove però il matrimonio diventa il coronamento di una unione consolidata, a maggior

ragione se rafforzata dall’arrivo di figli, valore quindi sovraordinato a quello del matrimonio.

Il quale matrimonio, però, una volta deciso, viene particolarmente investito come evento, con dispendio economico ma anche con ricerca di soluzioni atipiche che consentano, anche questo caso, il vissuto di un’esperienza, con il ricorso, per chi se lo può permettere, a gettonatissime wedding planner, con una pianificazione anticipata di location, catering, abbigliamento e quant’altro. Anche il matrimonio, come altri eventi topici, deve prestarsi ad essere istogrammato, per trasferire il migliore racconto di sé al pubblico. E anche le singole scelte organizzative devono subordinarsi a questa condizione.

In generale, la scelta è però quella della convivenza rispetto ad una semplice coabitazione, auspicabile per la carenza di risorse economiche, fattibile grazie alle nuove istanze di socializzazione e di condivisione, ma basata su una qualche affinità tra i partecipanti.

Queste modalità abitative trascendono nettamente gli schemi della famiglia tradizionale: amici che decidono di vivere insieme, coppie che condividono un’ abitazione con altre; famiglie monoparentali, soprattutto al femminile, che scelgono la coabitazione, eventualmente in alloggi più grandi, anche in una logica di sostegno reciproco, condivisione o scambio dei ruoli nella gestione dei figli, nell’organizzazione domestica, nelle attività del tempo libero; giovani che in città o all’estero scelgono di coabitare con persone anziane: un win-to-win dove i ragazzi non trovano semplicemente un alloggio, ma anche il contatto con esperienze e valori che si stanno recuperando, e gli anziani, in condizione ancora attiva e non completamente estranea agli stili di vita giovanili, trovano un supporto alla loro solitudine.

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Be real vs image building

La relazione digitale, via social, è ovviamente antecedente alla pandemia, che però l’ha necessariamente estremizzata, rinchiudendo i contatti tra le persone nella dimensione della Rete.

In Rete si costruiscono identità digitali che raccontano il voler essere delle persone, opportunamente gestite secondo il loro desiderio di comunicare un proprio sé stessi più o meno aderente alla effettiva identità (peraltro, in molti casi, non ben conosciuta e molto intricata con il voler essere).

La Rete, nei diversi social ma su Instagram in particolare, sostiene il bisogno di controllo sulla propria immagine sociale, espressione di un “desiderata” che si dimostra molto più fragile nelle situazioni reali dove maggiormente si palesano paure, insicurezze ed emozioni. Questo vale un po’ per tutte le persone con dimestichezza nelle tecnologie digitali, anche se, ovviamente, per i giovani in cerca di identità questa duplicità risulta più marcata.

L’identità digitale non è pura comunicazione: guida gli acquisti, che si richiedono conformi alla possibilità di essere partecipati in Rete (“Istogrammati”), plasma la costruzione di eventi topici come lauree o compleanni o matrimoni, che vengono costruiti in funzione delle potenzialità nel comunicare il proprio self desiderato.

Ma qualcosa, sembra, sta cambiando, soprattutto tra i giovani: Be-real. E’ una app che obbliga gli aderenti a mostrarsi istantaneamente, così come sono, mancanti i tempi tecnici di adeguamento (trucco, abbigliamento etc..) all’ideale di sé desiderato come trasmissibile.

Alla base, il Be-real esprime il bisogno di autenticità, di una caduta delle “mascherine” che i social cor-

renti hanno favorito; ancora più in profondità intravediamo la stanchezza della perfezione a tutti i costi e della rincorsa verso modelli estetici dominanti a favore di un’ottica più inclusiva – peraltro lanciata anni fa dal beauty e dal fashion – che premia l’imperfezione, come ad esempio la critica alla grassofobia e l’adesione al body positive.

Identità “ reale” e identità “digitale” al momento convivono, tanto che da tempo vigono due profili per una stessa persona circolanti sui social: uno Fake e un altro Real.

Queste due identità rispondono, da una parte, alla rivalsa verso un modello di perfezione su cui ci si sente a disagio, dall’altra, alla permanenza di modelli da cui risulta difficile svincolarsi, dato anche il potere forgiativo degli influencer&C. Difficile prevedere quale dei due modelli prevarrà: probabilmente continuerà la co-abitazione nel self delle persone, però sicuramente con accentuazioni diverse dalle une alle altre: un compito che i Brand potrebbero assumere per una migliore segmentazione dei propri mercati.

Una questione importante: quale il luogo di queste interazioni, di questa univoca o più sovente fluida rappresentazione del self?

Il contesto fisico recupererà senza dubbio un ruolo importante, anche se il digitale continuerà ad assumere uno spazio, però sempre più integrato con la vita reale. La chat resta aperta tutto il giorno, si alterna con le lunghe conversazioni anche notturne tra i /le pari, accompagna – in Rete – le attività dei singoli, dallo studio allo sport alle attività di divertimento, in una interazione condivisa che eventualmente cambia strumento (dallo smartphone al pc), ma che rimane on-going.

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Metaverso: il futuro che è già oggi

Un gioco, ma solo in apparenza. La naturale evoluzione dei social network, per la generazione Alfa un modo consueto di essere e di esprimersi.

Dalla propria scrivania, o da un qualsiasi luogo,, via pc o smartphone, ci si inserisce in un ambiente virtuale, già costruito o che ognuno può costruirsi, con la creazione di un avatar di sé stesso, quindi inventandosi una qualsivoglia identità. Gli avatar sono gestibili come in un gioco digitale nei movimenti, nei comportamenti, nei discorsi, nel look.

Nel Metaverso ci si incontra, si chiacchiera, si vivono esperienze, si fruiscono iniziative e offerte, eventi come concerti musicali a produzioni artistiche - c’è un Metaverso specializzato in arte -, i prodotti e servizi delle imprese. Il travestimento fa scudo, consente di polverizzare i freni inibitori, di attivare qualsiasi comportamento e dichiarare qualsiasi pensiero: è il regno della libertà, un porto senza legge dove tutto – o quasi - è possibile, dove trovano spazio violenze verbali, aggressività, sindromi psicotiche. Ma il Metaverso è anche teatro per l’espressione della creatività.

Un luogo, quindi, dove ciascuno può manifestare i suoi lati peggiori come quelli migliori, quelli nascosti come quelli palesi, quelli critici come quelli socialmente accettabili, in un mix tra invenzione di un proprio sé, più o meno desiderato o comunque utile agli obiettivi relazionali, e affermazione della propria autenticità.

Il Metaverso è anche trasposizione della vita reale: una situazione dove si possono replicare le consuete abitudini, con il vantaggio di un’ interazione inedita, proprio come quella dei gamer, che pur non conoscendosi sanno tutto tra di loro.

A questo ambiente alcune imprese stanno prestando crescente attenzione per utilizzarlo nelle loro attività di marketing o nei processi innovativi: tra queste, molte nel settore della moda, che pare stiano investendo non poco. Alla base, la consapevolezza dell’alta numerosità dei gamer a livello mondiale, cioè persone che già usano i giochi digitali, di cui il 45% donne: un target quindi con una forte predisposizione a frequentare anche il Metaverso.

Lo usano per creare eventi insoliti a cui invitare, e per premiare, clienti affezionati e fedeli offrendo loro un’esperienza insolita, unica, memorabile, esclusiva; per creare partnership; per mettere a disposizione dei gamer i loro prodotti e servizi, anche nella prospettiva, ora abbastanza remota, di gestirli in 3D; per contattare nuovi target; per eseguire test su nuovi prodotti o servizi in ambienti atipici - un’ esperienza di guida in Amazzonia.

Ciononostante, gli uomini di marketing più maturi in termini di età si mostrano alquanto restii ad accogliere una sfida estranea alle loro attitudini e non semplice da gestire come i social tradizionali, se pure nella consapevolezza che questo sia, effettivamente, il “futuro”.

Dal canto loro, gli esperti nelle ricerche di mercato, cioè noi, lo stanno osservando con curiosità, per studiare eventuali opportunità di contatto con i consumatori, per intervistarli in ambienti che consentono loro di esprimersi con più libertà e probabilmente veridicità, nonché per la disponibilità di un enorme parco di utenti di diverse età, culture, nazionalità. Tutto in sperimentazione comunque, per verificare la fattibilità di percorsi tecnici e metodologici corretti, che possano portare un effettivo valore aggiunto, e non solo un “wow” a fronte della eccitante evoluzione del digitale-virtuale.

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Marche – guida

La relazione con le marche sta virando. La marca appare sempre meno un oggetto aspirazionale rappresentativo di valori trasversali: la si sceglie perché capace di rispecchiare il proprio stile di vita, di riconoscervisi, di condividere un’ appartenenza, di potenziare sé stessi.

Il “Be-real”, quindi l’autenticità giocano più di prima in questa relazione: dalle marche non ci si aspetta più story-telling, ma story-action, la messa a terra dei valori di Impresa nelle attività quotidiane, nei processi produttivi, nei rapporti con i dipendenti, con il sociale in senso ampio, e con il territorio.

Non solo più attente e critiche, ma fondamentalmente più scettiche, le persone guardano con molta circospezione i claim ridondanti, i toni autocelebrativi, a maggiore ragione se poco coerenti con quello che le imprese effettivamente fanno.

Nel complesso intercettiamo un’ambivalenza. Alle marche/imprese si chiede, da una parte, un rapporto tra adulti fondato sulla trasparenza, quindi una chiara visione del “chi è”; dall’altro, un ruolo di tutorship, date la crescente sfiducia nelle istituzioni pubbliche e le difficoltà delle famiglie nel rispondere alle ricorrenti sfide quotidiane.

Il “chi è” significa trasmettere l’identità di marca/impresa di là dalla vendita di un prodotto e servizio, esprimendo il significato del proprio esserci in quanto cittadinanza e non solo profit; tutorship significa integrare alla propria offerta un supporto, non solo nelle scelte di consumo, ma anche nell’ambito della vita domestica, piuttosto che nelle evenienze sociali.

Come si prefigura, in sintesi, l’impegno delle marche/imprese?

Un futuro fosco e disarticolato

Con pandemia non ancora del tutto superata, il senso di incertezza appare generalizzato pur se si intravedono segnali di recupero e voglia di riscatto. Le marche/imprese devono offrire rassicurazione, esprimendo con coraggio la loro purpose, cioè il senso del loro essere nel mondo, con posizionamenti forti e coerenti con il proprio DNA.

Il futuro è dialogico, cura e sostegno Nella ricerca di senso, quello perduto o quasi per gli adulti, quello nuovo da trovare per i più giovani verranno premiate le marche/imprese che federano, facendo leva su valori forti. E allora, le marche/imprese dovranno coinvolgere i loro clienti e valorizzarli, con iniziative anche micro, giocose, territoriali, con funzione di supporto ed educativa al tempo stesso, in primo luogo sul loro impegno, se effettivo, nella sostenibilità.

Il futuro è inclusione e diversità Sta scemando la rincorsa verso modelli comportamentali standardizzati e up-bottom: il Be-real favorisce l’accettazione delle diversità (proprie o degli altri). Le Imprese dovranno imparare ad integrare le differenze, non solo di genere o razziali, ma anche creative, aprendosi a formule che prevedono flessibilità, integrazione di pensieri atipici, modalità di lavoro inedite.

Il futuro è on-line, e presto virtuale – ma non solo La pandemia ha imposto un maggiore uso della Rete, anche se il recupero della normalità spinge al contatto fisico. Le Imprese dovranno confrontarsi con questo mix tra fisico e digitale, costruendo relazioni sinergiche tra i due e identificando, le situazioni elettive per l’uno e per l’altro, a seconda della identità dei diversi pubblici: ma l’innovazione sta diventando sempre più virtuale.

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