Ronin 5

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N°5 NOV 2017


INDICE

Ciao a tutti! Da oggi Ronin è un collettivo di artisti: non solo fumetti o prosa, quindi, ma anche poesia, illustrazione, grafica a due o tre dimensioni, esperimenti vari. E come Ronin è un collettivo, Ronin magazine è la rivista del collettivo, spazio libero di esplorazione che ospiterà anche artisti esterni, ma legati al collettivo da legami di collaborazione, amicizia, vicinato, affinità elettive. Il processo evolutivo che ci ha portati a mutare da semplice rivista-contenitore a Collettivo è stato breve e niente affatto sofferto. É stato anzi, a mio modesto avviso, un percorso del tutto naturale: avendo partecipato collettivamente alla stesura artistica del magazine e degli speciali, avendo partecipato collettivamente a fiere ed eventi, é stato inevitabile che ci dessimo anche un’identità collettiva. Come al solito sono a ricordarvi che potete contribuire anche voi proponendo le vostre opere qui: facebook.com/groups/RoninCollettivo/ oppure qui: facebook.com/RoninMag/ Buona lettura. Pietro Rotelli RONIN Periodico gratuito online del Collettivo Artistico Ronin. Progetto editoriale, impaginazione e grafica: Pietro Rotelli Redattore Capo: Luigi Chialvo Responsabili settore: Prosa: Riccardo Sciarra Fumetti: Francesca Dea Illustrazioni: Nello Caiazza Poesia e progetti speciali: Ivan Paduano Interviste e recensioni: Francesco Balestri Ogni diritto relativo alle storie qui contenute è dei singoli autori, ogni autore si assume la responsabilità dei contenuti della propria opera.

ZENZARA

Sciarra - Montironi

SVANITA

Generoso

PER ASPERA

Caiazza

VIRTUS (Pt.1) Sciarra - Dea

IL SEGNO DEL FUOCO (Pt.1) Franceschini

FEEDBACK

Barletta - Magno

LENTEZZA URBANA

Franceschini

SGUARDI

Cavalieri D’Oro

LA STANZA NUMERO 30

P. Rotelli

LO SCARAFAGGIO (Pt.4)

Izzo - Manfredini Daraghiati - Della Verde

I DIRITTI DELLE COSE BRUTTE

Falena

COPPIE

Lastrucci

MAYAN PRIEST

G. Rotelli

ARTIFICIAL CIRCUS

Avellis

NAZIPUNCH

Cansone - Sciarra

ZAKK VOID (Pt.3)

Orlando - P. Rotelli

MAYMA

Di Mauro

www.roninmag.it

In copertina: CCCP Emilio Battiato









SVANITA

o LA FANTASMAGORICA STORIA DELLA FARFALLA E DELL’OMBRA by Marco Generoso Liberamente ispirata alla canzone Vanished dei Crystal Castles “Nell’alba, esci a giocare” quella sua luce con forza mi appare Attratto come sono non riesco a rifiutare e io, Ombra, dalle tenebre vengo strappato via La Farfalla vola via verso la Città della Vita, “Sono così affamata di vita” grida Perché la sua vita è così breve? Stordito e incantato, inseguo la sua luce “Il mio cuore pensa a te” il suo sussurro mi fa scordare di me. Nella Città della Vita, danziamo, rubiamo, gridiamo e giochiamo, stretto nel suo bagliore bacio e lecco quell’orgasmo che non conosco, e l’orgasmo che io le regalo ha il sapore della Vita. “Non sai che anche la morte può vivere?” dico io i suoi occhi terrorizzati mi guardano, corre via offesa: “Io ho un solo giorno di vita!” Corre e corre per le vie della Città della Vita, buie come me Ma non vedi, non lo vedi che lei cerca di litigare? La Farfalla corre per la Città della Vita e io dietro la sua Luce, unico mio vero desiderio Ma non vedi, non lo vedi che lei cerca di amare? Affamata di vita, arrabbiata col Tempo: “Ma non vuoi anche te vivere?” “Nessuno ha richiesto la tua pietà” Alla fine della notte, il suo bacio mi regala l’ultimo orgasmo che ha il sapore della Luce, solo questo mi rimane ora che è svanita. Ora che il Tempo ha preso la tua vita, nelle Ombre devo nascondermi torno a perdermi nel buio amavo i nostri giochi, potrò mai avere altra Luce? Mi manchi.


Ma, per quello che deve essere fatto e per quello che non può essere salvato, col Tempo il mio ricordo di te sarà diventato polvere. È questo ciò che mi fa più male.

per aspera by Nello Caiazza







Il segno del fuoco by Beno Franceschini La pista era mal tracciata. Kate Zegers la seguì per un paio di miglia lungo gli stretti tornanti ai margini della foresta. Il sole era alto quando arrivò alla Fire Cave, un’ampia grotta che si apriva al centro di un ripido monte. A circa duecento passi dall’ingresso della cavità gli alberi non vivevano più, ma restavano immobili come arsi da un antico incendio. La terra era brulla. Lì non pioveva mai. Persino i serpenti evitavano di strisciarvi, quasi dal sottosuolo provenisse un calore insostenibile, che bruciava le rocce rendendole rosse e nere. «Un girone dantesco», lo aveva definito anni prima il professor Augustus Marquise, il primo bianco ad arrivare alla grotta – ma, si sa, aveva studiato in Europa e per lui l’esplorazione era ricerca della manifestazione del divino. Marquise era stato alla Fire Cave molte volte: per scoprirla, per studiarla e per scomparirci. Nessuno sapeva che fine avesse fatto. In molti giù a Pine Creek dicevano che la caverna fosse abitata da uno stregone apache. Qualcuno lo chiamava Old Diablo, qualcun altro Quattro Mani, ma tutti concordavano sul fatto che avesse il potere di manipolare il fuoco. Per quanto spaventoso potesse sembrare, Kate adesso lo voleva incontrare. Non l’avrebbe cercato se lui non avesse cercato lei. Da due settimane, infatti, nel ranch di Kate e in altri nelle vicinanze si stavano verificando frequenti e inspiegabili incendi notturni. E in molti sostenevano che la responsabilità fosse del vecchio apache. Gli episodi avevano seriamente danneggiato fienili, stalle e granai, con la perdita di decine di capi di bestiame. Ogni volta lo stesso schema: intorno a mezzanotte i roghi apparivano dal nulla di fronte agli uomini di guardia e al mattino veniva ritrovata una sorta di collana composta da piccoli triangoli di rame. Due giorni prima dell’avventura di Kate un falò di dimensioni maggiori aveva causato la morte di quattro persone: Paul Bane, suo figlio Gary e due braccianti messicani, Diego e Mariano Nieto. A Pine Creek non si parlava ovviamente d’altro, tanto che nel pomeriggio successivo lo sceriffo Bill Turner, insediato da meno di un anno, era andato a trovare il suo predecessore Kenneth Hummel. «Che cosa ne pensi?» «Non lo so. Banditi?»

«Non mi convince, Ken. Li avremmo visti. Potrebbero essere fuorilegge, ma non ci sono stati furti, né rapine.» «E poi perché gli incendi?» «Magari un pazzo…» «Ci conosciamo tutti in città, Bill.» «Tu dai per scontato che qualcuno abbia appiccato il fuoco…» «Per Dio, Turner! Non crederai mica alle storie sullo stregone?» Lo sceriffo Turner scosse istintivamente la testa per negare l’accusa, più intimorito dall’apparire superstizioso che intenzionato a esprimere una propria opinione. Hummel intuì e accennò un sorriso, che rimase impresso finché l’altro non riprese a parlare. «Ken, guarda. – Turner estrasse una collana di rame dalla tasca interna della giacca. – Dopo ogni incendio troviamo qualcosa del genere. Questo era sotto al corpo del povero Bane.» Hummel prese l’oggetto e lo avvicinò agli occhi, inclinando leggermente la testa. Da quell’angolazione la sua folta barba bianca assumeva una tonalità d’avorio, quasi fosse una matassa di lana grezza. «In tutte le fattorie?» «Sì, tutte.» «Potrebbe essere un’esca?» «Non credo.» «Un avvertimento? Ma da parte di chi? – Hummel rese l’oggetto a Turner. – Se ancora avessimo problemi con gli indiani, direi che potrebbe essere un qualche monile, però…» «Però la valle è sicura. L’ultima razzia è di oltre dieci anni fa e gli unici apache rimasti sono Topo e i due vecchi che abitano vicino al cimitero.» In quel momento la porta dello studio di Hummel si aprì lentamente, quasi senza produrre rumore. Felipe, il tuttofare del vecchio sceriffo, apparve sulla soglia ed entrò nella stanza con un vassoio. «Appoggia tutto sul tavolo, Felipito. Ci penso io. Tu va’ a vedere se Pedro ha finito con i cavalli.» L’inserviente, un mezzosangue messicano, chinò il capo e si avviò verso l’uscita, ma qualcosa rapì il suo sguardo e lo pietrificò. «Madre de Dios! – Turner e Hummel si voltarono di scatto. – Madre de Dios… Él está aquí… Está aquí!» Felipe era terrorizzato, col volto bianco e le spal-


le tremanti. Hummel gli chiese che cosa avesse, ma l’uomo sembrava chiuso in una propria realtà: «Él está aquí! El fuego! Ahora entiendo…» All’ennesima domanda inascoltata, Hummel si avvicinò a Felipe e lo scosse afferrandolo per un braccio: «Che diavolo ti prende?» Gli dette un leggero schiaffo e il messicano tornò in sé repentinamente. «Señor Hummel, quello è il marchio di un demonio…» «Basta con queste sciocchezze, Felipe! Non ho tempo da perdere con le tue superstizioni!» «Non è superstizione, señor. È la verità… Quel pezzo di rame vuol dire che lui è qui… Che… Madre! È lui che porta el fuego, señor, è lui.» Prima che Hummel potesse replicare, Turner si era lanciato verso Felipe, tendendo in avanti la collana: «Che cosa significa questo Felipe? El brujo? È Quattro Mani?» «Per l’amor di Dio, Turner…» «È lo stregone, el brujo?» Felipe guardò Hummel come ad attendere il permesso di parlare, poi, dopo un profondo respiro, con un sol fiato rispose: «No, señor Turner, è molto peggio: è Naranjito…» «Augurati non sia lui, Bill!» «…un guerriero apache che è stato allontanato dalla sua gente.» Era ormai quasi mezzogiorno e Kate sapeva di essere giunta a destinazione. Non erano solo la grande apertura sul fianco del monte o il calore che si sprigionava dalla terra, quanto una sicurezza che le nasceva dal profondo, come se l’ambiente fosse in connessione con lei e le parlasse tramite la sua anima. Tutto corrispondeva ai disegni donati alla biblioteca da Augustus Marquise, il fondatore della scuola che per anni aveva esaminato la spelonca. Avvicinandosi alla grotta si accorse che da una parte c’era in terra un cumulo di pietre incise con strani simboli, spesso ripetuti più volte in un piccolo spazio. Gli stessi segni, ma con colori più sgargianti, erano all’ingresso della Fire Cave, mentre soltanto a breve distanza Kate si accorse che dalle rocce spuntavano residui di aste di legno ben piantate. La ragazza si fermò sotto l’arco di pietra, incerta sul da farsi. Dall’interno del monte proveniva un vento caldo e un forte odore di uova marce. Non sembrava ci fossero tracce di esseri umani, ma la sua vista poteva arrivare solo fin dove penetrava la luce solare. Per quanto aveva letto Kate, la grotta poteva essere profonda anche cento piedi e lo stregone poteva nascondersi ovunque – forse era proprio quel vento caldo. Se voleva affrontare Old Diablo, Kate doveva farsi coraggio ed entrare. Sapeva di correre un rischio enorme, era consapevole di trovarsi in un

luogo sconosciuto ed era cosciente che ignorare il proprio nemico fosse un errore potenzialmente irrimediabile: il marito di sua sorella, che aveva combattuto coi confederati, lo ripeteva spesso. Kate però non poteva dimenticare le lacrime di suo padre quando, dopo una notte di lotta contro il fuoco, il granaio era andato perduto, e con esso l’intero raccolto dell’anno. La giovane Zegers non poteva nemmeno accettare la morte di Gary Bane, così gentile e premuroso con lei, così delicato nella promessa di portarla via da lì, verso la California. Voleva bene a Gary Bane, forse lo amava – ma su certe parole sua madre le predicava cautela. Doveva fare qualcosa, trovare Old Diablo – perché c’era lui dietro questi incendi – e chiedergli che cosa volesse dalla sua gente, guardarlo in faccia, ucciderlo se necessario. Certo, erano pensieri più grandi di lei e i suoi genitori non avrebbero apprezzato l’idea di sfidare i misteri della Fire Cave, figuriamoci l’idea di ammazzare qualcuno. Kate era convinta che Old Diablo o Quattro Mani o come-accidenti-si-chiama fosse il responsabile di tutto quel dolore, mosso da un motivo ignoto e demoniaco, per fare del male fine a se stesso. La giovane Zegers si fece risoluta, impugnò il coltello che si era portata da casa ed entrò nella Fire Cave. Si fermò dopo pochi passi, come respinta da un soffio di vento infuocato, ma subito ricominciò a camminare. Arrivata alle ultime rocce illuminate dal sole, Kate vide che le pareti della caverna erano completamente ricoperte da figure di varie dimensioni: cerchi e spirali, serpenti e scorpioni, uccelli e pipistrelli. Su tutte, però, spiccavano grandi triangoli con la punta rivolta verso l’alto. A differenza degli altri simboli, i triangoli non sembravano disegnati, bensì incisi, scavati sopra quelle immagini. Da qualche parte ci fu un fruscìo. Kate si voltò stringendo il coltello con entrambe le mani e trattenne il fiato. Un’ombra. «Chi sei? Quattro Mani! Esci fuori!» Silenzio. Kate si spostò all’indietro fino a premere le spalle contro la parete di roccia. «Quattro Mani!» Un sibilo. E la ragazza questa volta intravide davvero qualcosa. Senza un bersaglio tirò dei fendenti nell’aria. Qualcuno s’impegnò per scansarli. Dall’oscurità emerse un braccio e Kate si dette alla fuga. Superò l’uscita della caverna e corse giù lungo il sentiero, accorgendosi con la coda dell’occhio che un uomo la stava inseguendo. Sentì uno sparo, si chinò istintivamente e per un istante perse di vista la strada. Le pietre rosse e nere furono le ultime figure prima del buio.


Lo sceriffo Turner si accomiatò da Kenneth Hummel. «Non appena avrai informazioni mandami un biglietto e io verrò immediatamente.» «Farò telegrafare subito a degli amici a Phoenix per ottenere qualche notizia, ma la storia di Felipe è tutta da verificare. Ho sentito parlare del chiricahua Naranjito, ma qui non si è mai spinto, né lui, né la sua famiglia, quindi non capisco perché un guerriero ricercato dalla Legge e dalla propria gente dovrebbe venire a Pine Creek.» «Non possiamo escludere niente, Ken. – Disse Turner montando a cavallo. – C’è chi ha perso tutto e la città comincia ad alzare la voce. Per quanto incredibile, non possiamo escludere neppure che alla Fire Cave…» «Mi rifiuto del tutto di farmi condizionare dalle ciarle di qualche beone, Turner! – Hummel attaccò improvvisamente a gridare. – Mi rifiuto. Ciarle, nulla più.» «Andiamo a vedere noi. Tu, io e Stanton, così mostriamo che non c’è niente e convinciamo la città a collaborare davvero alle indagini.» «Per Dio! Ti dico che non c’è un diavolo di nessuno lassù! Vuoi sapere la storia? Io l’ho visto morire Quattro Mani! Sono venti anni che i vermi hanno mangiato gli occhi di quel fattucchiere apache. Io l’ho visto morire con una pallottola in gola sparata da quel farabutto di Marquise!» Turner sobbalzò. Il cavallo, infastidito, sbuffò e sbatté uno zoccolo a terra. «Basta, vai via o si farà tardi. Porta le mie condoglianze alla signora Bane. Paul era un gran lavoratore e lei merita il nostro cordoglio. Buonanotte, Turner.» Lo sceriffo di Pine Creek rimase attonito di fronte allo sfogo di Hummel. Non sapeva quanto ci fosse di vero, né a che cosa si riferisse il vecchio. Voleva sapere di più su quella pallottola di Marquise, del farabutto Marquise, che tutti nella valle avevano sempre rispettato. Turner, però, vedendo Hummel dirigersi ansimante e a testa bassa verso casa, comprese che non fosse il momento di ulteriori approfondimenti. Tirò le redini e il cavallo cominciò a camminare sulla strada verso Pine Creek. Nel giro di pochi secondi, Hummel tornò indietro: «Turner, stavo pensando a un’altra cosa. Ho un amico a Tucson, un tale della Pinkerton. Proverò a chiedere anche a lui. Quelli vedono meglio di un falco.» Terence e Sandy Coldman stavano già dormendo da un paio d’ore quando i due figli più piccoli, Barry e Donnie, cominciarono a gridare. Aperti gli occhi, entrambi capirono che cosa stava accadendo. Senza attendere ordini, i genitori di Terence e il figlio maggiore Henry si precipitarono giù

per le scale, verso il fienile. Sandy afferrò i bambini per le mani e insieme corsero fuori, preceduti da Terence. Le fiamme stavano raggiungendo il tetto, ma ancora non avevano aggredito più di un terzo dell’edificio. «Dov’è Daniel?», chiese Henry. Terence aveva già riempito due secchi, uno per sé e uno per il padre, e stava correndo verso il fienile. Sandy ordinò ai bambini di stare lontani dalla casa e seguì il marito nel tentativo di domare l’incendio. «Daniel!» Henry chiamava il ragazzo che da poche settimane aiutava i Coldman e che quella notte si era offerto di restare di guardia, una precauzione che ormai avevano preso tutti i ranch della valle. «Recupera un secchio, ci penseremo dopo a lui!» Henry obbedì al padre e lanciò l’acqua contro le fiamme. Si rese però conto che all’interno del fienile c’era Daniel, seduto contro una ruota del carro. «Daniel! È svenuto!» Henry si gettò nel fuoco. Tutti si fermarono come pietrificati, bloccati dalla preoccupazione per il gesto del ragazzo. Dopo interminabili momenti, il figlio maggiore dei Coldman uscì trascinando il corpo di Daniel, ormai senza vita. Poco prima dell’alba l’incendio aveva divorato il fienile e la casa. A nulla servirono le braccia dei Wilson, arrivati nel giro di una mezz’ora, mentre molto più efficace fu il vento di ponente che dette man forte alle fiamme, spandendo le scintille verso il resto della fattoria. Tutto per i Coldman era perduto. Sandy piangeva abbracciando i figli e la suocera Sarah. Terence, seduto su una staccionata con la testa tra le mani, osservava la terra e ogni tanto alzava lo sguardo verso le macerie fumanti. Henry e il nonno erano in piedi vicino al corpo di Daniel, coperto pietosamente con un telo. Intorno alle otto del mattino quasi tutta Pine Creek era al ranch dei Coldman, compreso il vicesceriffo Stanton. Al suo arrivo lo sceriffo Turner fu accolto dalle proteste della gente – e anche da qualche insulto, – che non tennero in alcun conto la richiesta di portare rispetto alle vittime dell’incendio. «Quale rispetto, sceriffo? Perché non andate su a prendere lo stregone?» «Sono tutte balle! Non c’è alcuno stregone. Sono bandidos, puoi starne certo!» «Basta un pezzente messicano e lo sceriffo se la fa sotto!» «Bandidos, davvero? Un tempo i bandidos cercavano i soldi, adesso preferiscono il fuoco per scaldarsi le chiappe?» «Beh, qui l’unica cosa sicura è che siamo soli e che quella stella di latta non ci sarà d’aiuto.» Turner si avvicinò a Terence Coldman, ma Stanton richiamò la sua attenzione: «Sceriffo, qualcosa non torna con il bracciante. Guardate voi stesso.»


Nella confusione generale nessuno si era accorto che il giovane Daniel non fosse morto per cause legate all’incendio, bensì per una ferita al collo. Turner esaminò il taglio: «Un colpo preciso», disse a bassa voce. Lo sceriffo prese sottobraccio Stanton: «Cercate la collana di rame che abbiamo trovato nelle altre fattorie. Se la trovate, fatemi un cenno, quindi scrivete un biglietto per Hummel: ‘Incendio Coldman, trovata collana, uomo ucciso – imprevisto?’ Forza, non devo dirvi altro.» Turner si recò finalmente dalla famiglia Coldman, adesso unita in mezzo alla folla. «Dobbiamo avvertire la madre di Daniel, a Willcox», si raccomandò Sandy. E in quel momento Stanton sollevò la tesa del cappello con due dita, saltò in sella e s’involò verso Pine Creek. Naranjito sedeva pensoso di fronte al fuoco. Lanciò contro le fiamme un pugno di polvere bianca, che divenne mille scintille senza produrre alcun suono. I graffiti sulle pareti cominciarono a risplendere incandescenti. Il guerriero si inginocchiò e abbassò la testa. Il calore gli arrivava dritto sulla fronte con un’intensità che un uomo normale non avrebbe potuto sostenere a lungo. Ma lui era Naranjito e il fuoco era la sua fonte di vita. L’aveva conosciuto da bambino quando il suo villaggio fu distrutto dai soldati bianchi; lo aveva ammaestrato quando Bodaway, él que hace el fuego, lo aveva accolto presso di sé; lo aveva sopportato durante la prigionia in Texas; lo aveva eletto a guida, strumento e amico. Adesso era il suo migliore alleato per dominare la Fire Valley, il luogo mistico di uno dei più grandi uomini di medicina dei chiricahua. Gli apache lo avevano allontanato, ma Naranjito voleva prendersi la sua gente e guidarla in battaglia alla riconquista delle terre degli antenati. Non sopportava chi rifiutava la guerra, chi parlava di contratti, chi s’immischiava nelle faccende degli invasori per ritagliarsi una legittimazione. Essere apache era l’unica legittimazione. La terra era apache. Non esistevano il Messico, né gli Stati Uniti: solo il mondo degli apache. I primi nemici erano i traditori, che dovevano essere abbattuti più duramente degli invasori. Ecco perché era stato ripudiato. Geronimo si era arreso, ma la guerra doveva continuare, in Arizona, nel New Mexico, nel Texas, nel deserto di Sonora e nel Chihuahua: Naranjito avrebbe riportato il fuoco anche nella grande riserva di San Carlos. A quello serviva la tortura della Fire Valley: a mostrare ai fratelli che Naranjito era tornato. Con sé aveva solo quattro uomini, quindi non poteva combattere in campo aperto. Doveva fiaccare i coloni, impaurirli, far credere loro che non vi fosse via di scampo. Il tempo però era poco. La notizia del fuoco di Naranjito doveva arrivare a San Carlos

rapidamente, prima che intervenisse l’esercito. I ribelli apache avevano ridotto la frequenza degli incendi e attendevano un messaggio dalla riserva. Non potevano semplicemente presentarsi lì, perché gli anziani avrebbero proibito loro l’accesso. Dovevano infiammare gli animi dei guerrieri più impetuosi, portare sulle labbra dei più giovani il nome di Naranjito come speranza per gli apache. Allora sarebbero riusciti a entrare a San Carlos e a guidare la rivolta contro gli uomini bianchi. La voce del simbolo di Naranjito doveva essersi già sparsa nella regione. Eppure tutto taceva. Il fuoco non gli stava parlando dolcemente: scoppiettava nervosamente, le lingue si allungavano in un rosso spento e si protendevano verso l’esterno. I tempi non volgevano in favore del chiricahua. Forse il capo aveva forzato troppo la mano e aveva alterato gli equilibri, spostando il manico del coltello dalla parte dei bianchi. Le fiamme non amavano la luna che stava crescendo in quelle notti: per essere alimentate avevano bisogno di nuova legna e nuovo vento. «Naranjito, la donna si è svegliata.» Il guerriero fu richiamato bruscamente dalle proprie riflessioni. Restando in ginocchio, ruotò leggermente il busto e annuì. In sottofondo si sentiva una voce femminile lamentarsi in modo confuso. La prigioniera era una giovane ragazza, dalla pelle chiara e dai capelli neri, con lineamenti sottili e decisi. Era entrata nel rifugio degli apache quella mattina e il guerriero di guardia l’aveva catturata. Era ferita alla testa e alla gamba sinistra e stava distesa su un fianco, guardata a vista. Naranjito le sollevò il volto: «Entiendes?» La ragazza aprì a fatica gli occhi, ma si limitò a dei gemiti. «Entiendes?» Ancora niente. «Apri gli occhi!» Gli apache erano in piedi intorno al capo. «Perché sei qui?» La giovane non era del tutto cosciente e Naranjito lasciò perdere. «La verranno a cercare», disse uno dei guerrieri. «Dobbiamo portarla via da qui», rispose un altro. Naranjito non sembrava convinto: «È il momento che anche noi ce ne andiamo. Dopo stanotte rischieremmo troppo. Si accorgeranno che il bianco è stato ucciso e arriverà l’esercito. Preparatevi e partiamo per San Carlos.» Tra gli apache scese il silenzio. Il capo lo immaginava. Sapeva che i suoi uomini temevano più il giudizio dei fratelli che la caccia da parte degli invasori. Il fuoco, però, gli aveva detto che la sorte poteva mutare da un momento all’altro. Juan, il più anziano tra i guerrieri, si fece avanti: «Naranjito, non troveremo amicizia a San Carlos. Il tuo nome non è amato tra gli apache». Era l’uni-


co che potesse parlare in quel modo a Naranjito. Le mille battaglie combattute insieme davano a Juan una confidenza altrimenti impensabile. «Il nome di Naranjito è odiato dai codardi e amato dai coraggiosi. Ormai a San Carlos sanno che Naranjito è nella Fire Valley e sono pronti ad accoglierlo.» «Com’è allora che ancora non abbiamo notizie? Abbiamo seminato il tuo segno per mesi anche oltre il confine, ma nessuno degli apache si è fatto vivo». Naranjito sapeva che Juan stava dicendo la verità. Su lui gravava il marchio dell’infamia. Lo odiavano le bande in Messico e quelle dell’Arizona. E poi il fuoco aveva emesso un vaticinio: la misura era colma. Quella notte un giovane bianco li aveva visti appiccare un rogo e prima che potesse gridare lo avevano ucciso, rapidamente, silenziosamente. Forse anche in altri incendi c’erano stati dei morti, ma erano state le fiamme a divorarli. I bianchi sapevano che nella fine del ragazzo c’era la mano dell’uomo, avrebbero imbracciato i fucili e avviato delle ricerche. E poi c’era la donna, mandata da qualcuno. Anche per lei i bianchi si sarebbero mossi e subito sarebbero saliti alla Fire Cave. E se la giovane avesse riferito degli apache, sarebbero piombati i soldati a cavallo. No, il fuoco aveva ragione. Il fuoco ha sempre ragione. Naranjito doveva ritirarsi, ma verso dove? Doveva provare a convincere i fratelli di San Carlos? Dirigersi verso gli apache più a ovest? Oppure tornare in Messico a combattere? Il chiricahua ebbe una strana sensazione. Alzò gli occhi e vide Juan rivolto verso l’ingresso della grotta. Pochi istanti dopo l’apache di guardia entrò correndo. «Naranjito! Uomini, giù sul sentiero!» «Quanti?» «Tre.» «Spengete il fuoco e non fate rumore.» Non appena ricevette il telegramma da Tucson, Hummel galoppò in direzione di Pine Creek. Entrò senza preavviso nell’ufficio di Turner e saltò i convenevoli: «Bill, ho notizie dal mio amico della Pinkerton e abbiamo un problema grosso quanto il Leviatano.» Il collega si limitò a guardarlo. Hummel, in piedi nel mezzo della stanza, estrasse un foglio spiegazzato dalla tasca e lo lesse ad alta voce: «Fonte diretta: fuoco e rame marchi Naranjito. Ultima volta visto due mesi fa attacco rurales sud Nogales. 4-5 uomini. Rubate armi». Turner sospirò. Hummel si mise a sedere e si tolse il cappello: «Naranjito, un nome che non sentivo da tempo. Qualche anno fa la storia di questo Naranjito fece scalpore. È un guerriero

chiricahua che ha combattuto lungo tutto il confine. Ha conosciuto anche Victorio e Geronimo. I suoi lo rispettavano per il valore, ma lo temevano per l’indole sprezzante e violenta. Un giorno massacrò con le sue mani un gruppo di apache che lui considerava disertori, ma che non avevano fatto altro che dubitare dell’opportunità di un attacco. Era famoso per le sue razzie, sempre condite col fuoco. Felipe ne ha il terrore, perché la tribù di sua madre è stata sterminata da lui». Lo sceriffo di Pine Creek avrebbe preferito dover combattere contro uno stregone o un demone. Si accese un sigaro precedentemente rifiutato da Hummel e appoggiò una gamba sopra la scrivania. «Non capisco cosa voglia da noi. Si limita ad appiccare fuochi e non ruba nemmeno un cavallo?» «Quella storia della collana di rame…» «Ne abbiamo trovata un’altra stanotte. Però è stato diverso dalle altre volte.» «A proposito, che volevi dire con ‘imprevisto’?» «Bane è morto per le ustioni, che non è inusuale in un incendio, giusto? Questo bracciante dei Coldman, invece, è stato ucciso prima dell’incendio, con un taglio netto alla base del collo.» «Potrebbe aver visto qualcosa.» Turner rimase in silenzio. Dopo un minuto, Hummel riprese a parlare con un tono più elevato: «Dovevo dirti della collana. Secondo Felipe è un segnale per gli apache. Come se Naranjito dicesse loro che è qui, pronto a combattere.» «Ma loro non lo vogliono, giusto?» «Non è semplice, Turner. Magari qualche testa calda pronta a seguirlo c’è. Forse a San Carlos ne stanno già discutendo. Le cose si vengono a sapere rapidamente.» Turner balzò in piedi: «Dobbiamo prendere questo Naranjito, il prima possibile.» «Bill, Bill. Aspetta, aspetta. Serve l’esercito. Loro magari sono in cinque, ma se hanno attraversato mezzo Messico non li fermeremo noi con dieci contadini. Non sappiamo neppure dove sono nascosti!» «Facciamo un paio di squadre e perlustriamo la valle.» «Mandiamo un telegramma all’esercito, prima.» Da fuori venne una voce: «Sceriffo! Una persona chiede di voi.» Turner si mostrò sulla porta dell’ufficio. Andy, il maniscalco, aveva vicino una donna con un vestito polveroso. Era pallida e sudata, con i capelli neri scomposti e il respiro affannoso. «Sono Eleanor Zegers, moglie di Ruben Zegers. Mia figlia è scomparsa, mio marito e mio figlio sono andati a cercarla alla Fire Cave e ancora non sono tornati. Dio mio, sceriffo, loro non volevano che ve lo dicessi, ma credo che siano in serio pericolo!».

continua...







Lentezza urbana by Beno Franceschini Lentezza tra i meandri urbani. Un treno arriva piano – cetaceo arenato – e un cane a stento concede una carezza: fermo sull’erba lo sguardo è altrove, si volta, accetta la mano sul pelo. I raggi dal sole discendono stanchi, la nebbia è bassa, la rugiada dipinge i sentieri. Il fiume è in piena, ma dentro l’argine sta scorrendo lento, gravato dai rami del monte. Valigie pesanti in attesa di carri e carrozze posate agli angoli del manto d’asfalto, là dove un cane a stento concede una carezza.


sguardi by michele cavalieri d’oro


La locanda al confine dei mondi

La stanza numero 30 by PIETRO ROTELLI Il telefono del concierge suonava all’impazzata. Impazzata… diciamo che suonava, ma l’idea era quella che ci fosse qualcosa di urgente. Nella hall dell’albergo che portava il pomposo nome di “EXCELSIOR HOTEL” si sentiva solo quello, non una voce, un fiato, una campanella, una stoviglia appoggiata rumorosamente. Non un animale che facesse un verso, fuori, nel parco. Solo il centralino che squillava. Una mano prese la cornetta e rispose: - Concierge dell’Excelsior Continental Hotel dica pure… Oh, salve, Signore… Certo, Signore… Che camera, Signore? Una formula recitata a mente. - Perfetto, ci penso io Signore, grazie per aver chiamato. Riappese la cornetta. Era un tipo strano: si chiamava Jinn, aveva una settantina di anni ed era molto minuto e basso. Un omino cinese in uniforme da portinaio. Si diresse verso l’ascensore, seguito dal cane di piccola taglia che gli faceva compagnia. Era di razza Chin, e si chiamava Bill. - Andiamo Bill, abbiamo del lavoro da fare. Così dicendo entrarono nell’ascensore e salirono al terzo piano. La porta di aprì su un discorso già cominciato: - …non riesco a spiegarmelo! Perché cazzo devi cambiare i costumi ai supereroi in base ai film? Eh? Che ha la tutina gialla di Wolverine che non va? Bill era veramente alterato, certe cose non riusciva a mandarle giù. Dal canto suo Jinn aveva la mente da un’altra parte: era già proiettato in quello che avrebbe dovuto fare di li a poco, quindi sentiva

senza ascoltare. Camminarono lungo il corridoio rivestito di legno alle pareti e moquette rossa in terra, finché non si trovarono di fronte alla porta della camera numero trenta. Jinn prese il passe-partout ed aprì la porta, spalancandola alla luce del corridoio: la stanza era completamente al buio. - Cominciamo bene… Fu la laconica considerazione del cane. - Dopo di te. Fu l’invito di Jinn. Entrarono oltre la soglia e la stanza si illuminò all’improvviso. La stanza di per se sarebbe stata una banale stanza d’albergo del 1950, se non fosse stato per una gran quantità di animali marini presenti: meduse che fluttuavano, pesci che volavano a mezza altezza, conchiglie e stelle marine qua e la. - Chi siete? la voce proveniva da sotto il letto. Era profonda e sembrava arrivare da una qualche parte del cervello di Jinn e Bill piuttosto che dall’esterno. Bill si avvicinò per vedere meglio chi fosse l’essere che si nascondeva lì sotto. Vide solo due occhi. - Dove l’hai messa, cefalopode infernale del cazzo? diciamo che la mediazione non era la specialità del cane. Era anzi più un ripeto d’azione. “Voi non avete idea di cosa io sia… ANDATEVENE: QUESTA FACCENDA NON VI RIGUARDA!” L’essere stava alterandosi, e da sotto il letto spuntò un tentacolo che era lungo almeno tre volte l’altezza di Jinn. E parliamo della parte visibile. “Parlato abbastanza: vediamo di concludere la trattativa.” Jinn si era rotto le scatole: aveva degli ordini, non l’avrebbe tirata per le lunghe. Prese lo scopettone dal secchio con le ruote e lo puntò verso il punto da cui provenivano voce e


tentacolo. Nel compiere il movimento un lampo balenò nella stanza e la divisa da Garzone d’albergo lasciò il posto a un cappello cono di paglia e una tunica bianca. Bill dal canto suo aveva dismesso la microstazza da cane di compagnia per un ben più imperioso assetto da guerra da Segugio Infernale, con tanto di aculei sulla schiena, zanne e unghie. D’improvviso il polpo afferrò per una gamba Jinn, allora il segugio infernale gli si avventò contro, mordendolo e tirandolo fumetti dal suo nascondiglio. Adesso era visibile in tutta la sua sinistra presenza: una piovra con tentacoli lunghissimi, con la testa enorme ed un becco in cui sarebbe potuto entrare tranquillamente un comodino del seicento. La piovra mollò la presa con un grido e si avventò su Bill, che continuava a mordere e ringhiare, lottando come indemoniato. Intanto gli animali marini presenti nella stanza avevano incominciato a nuotare vorticosamente tenendo come perno il punto in cui si trovava il gigantesco cefalopode. Una piccola balena alata restava in disparte, indecisa sul da farsi e comunque schiva. Nel frattempo Bill aveva staccato un tentacolo alla bestia, che urlò dolorante e si gettò di lato. Jinn, usando lo scopettone come fosse una mazza da baseball la colpì con estrema violenza lanciandola di fatto verso la scrivania presente nella stanza. La piovra impattò e restò un attimo intontita, mentre Jinn le si parava davanti brandendo lo spazzolone. Gli animali marini vorticavano ormai a una velocità da tornado. Indirizzò la ramazza verso il polpo, e poi pigiò un microscopico pulsante, si sprigionò una sorta di risucchio che attirò verso di se la piovra, per poi aspirarla completamente. “Grazie per averci accordato la sua prefernza…” Jinn si diresse verso il secchio, mettendoci dentro lo scopettone “…e vaffanculo”. Si girò verso la stanza, a guardare. Avevano ambedue riacquisito le loro sembianze normali. Nella stanza tutto era tornato alla normalità: gli animali marini erano spariti, e la balena alata si

era tramutata in una bellissima donna. Era spaventata ed incredula: “Non capisco… stavo sognando… volavo… non riuscivo a svegliarmi…” “Tranquilla, donna, il succube è sconfitto, sei libera.” Jinn si rivolse verso l’esterno della stanza, mentre faceva questo un cono di luce apparve dal soffitto della stanza, e al donna cominciò a svanire in esso. “Buon proseguimento, e per ogni cosa non esiti a chiamare il sevizio in camera.”. Uscirono, chiusero la porta e tornarono dentro l’ascensore, Jinn selezionò il piano terra.. “Certo che lavoro di merda che ti sei trovato” Gli disse Bill. “Mah, ti dico la verità: il lavoro non è male, è la compagnia che lascia a desiderare” Rispose Jinn volgendosi a guardare il compagno che nel frattempo si era messo a toilettarsi le parti intime. L’ascensore arrivò al piano terra, si aprirono le porte, scesero e tornarono verso il bancone della hall. Il telefono già squillava e lo avevano sentito subito, appena si erano aperte le porte. “Arrivo, arrivo!” Vociò Jinn andando a prendere il ricevitore: “Si, Signore… certo, Signore… disinfettato, Signore…no, nessun problema Signore… cliente soddisfatto… Certo Signore, Arrivederci e grazie a lei!”. Riappese la cornetta, si girò verso il mobile delle chiavi ed appese la numero trenta all’interno del suo loculo. Tutto intorno loculi di chiave vuoti. Si misero seduti, Jinn sulla sedia e Bill sul suo tappetino. Squillò il telefono, e Jinn rispose: “Consierge dell’Excelsior Continental Hotel dica pure… Oh, salve, Signore… Certo, Signore… Che camera, Signore?” Fine.





continua...


I diritti delle cose brutte by Elisa Francesca Falena - Voglio questo quaderno qui. Questo con il cane rosa, le orecchie rosa e gli occhiali a stella. - Sicura? Guarda anche questi altri quaderni: sono cinque, hanno più pagine e costano tutti insieme la stessa cifra. Non è per la spesa eh, papà e mamma ti comprano quello che vuoi, ma pensaci: è davvero così importante la copertina? - Ma sono marroni a righe. Non mi piace il marrone, mi ricorda le foto vostre anni Settanta, quelle dell’album di quando eravate fidanzati, quello marrone. - Ah va bene – si arrese il papà scrollando le spalle – lo sai che la coscienza critica è la tua, devi sviluppare il tuo gusto e le tue ragioni, ma ti diamo la possibilità di scelta, l’ultima parola è la tua, ti responsabilizzi. Mica come i nostri genitori con noi, che ti dicevano una cosa ed era quella, senza diritto di replica. 1988. La quarta elementare incombeva e il peso di “scegliere”, di acquisire consapevolezza sospesa tra l’essere e l’avere di frommiana impronta si faceva largo in quei nove lucidissimi anni. Sarebbe stato più facile un sì o un no, ma faceva parte della metodologia educativa. - Ma quindi, se non li compro io, non li compra nessuno questi quaderni? - Beh, tutti i bambini sono attratti dalle cose colorate e “pupazzose” ma cosa conta: l’esterno o quello che ci scriverai dentro? - Quello che ci scriverò dentro, papà. - Perfetto, quindi hai già una risposta. Brava. Una bambina bizzarra. Lo sguardo si posò di nuovo sulle orecchie rosa del cane, poi d’improvviso una voce interiore da coscienza di classe invase una creatura intrisa di trasmissioni televisive di denuncia, di parole come “crisi”, di discorsi dei grandi sulla vacuità. Del resto, erano i rampanti anni Ottanta, da cui gli Afterhours, anni dopo, avrebbero sentenziato che non si esce vivi. Viva sì, profondamente anti edonistica già a nove anni, pure.

- Sai, credo che prenderò quelli marroni, perché magari non li compra nessuno… poi la fabbrica chiude e le persone che ci lavorano perdono il posto e poi… poi non possono comprare ai loro figli neanche quaderni brutti come questi. Risate compiaciute, approvazione. Rosa Luxemburg aveva nove anni e arringava alla Standa di Viale dei Colli Portuensi. Da allora, ogni volta che si poneva una scelta, era sempre proiettata verso gli oggetti che ai suoi occhi apparivano “meno fortunati”, come se avessero un’anima, una sensibilità che veniva ferita dal fatto di non essere scelti, di essere giudicati brutti. Non era giusto. Una nuova paladina dell’antiestetica? Una piccola tutrice delle conseguenze che per il mercato avrebbe avuto la scarsa vendita dei suddetti oggetti? La volontà di cercare approvazione dai grandi per il fatto di non farsi condizionare da scelte modaiole oltre il suo Q.I.? Tutte e tre le cose, più o meno consapevolmente. - La bambina è miope. Però esistono tanti modellini molto graziosi per le ragazzine, leggeri, magari con colori pastello; e le lenti le facciamo con uno spessore ridotto così non danno l’effetto “fondo di bottiglia”. L’ottico era molto gentile e cominciò a tirare fuori tantissime soluzioni per consentire alla piccola di scegliere degli occhiali che le piacessero e non la facessero sentire diversa dagli altri, solo perché ci vedeva un po’ di meno. Un tocco di rosa, un disegnino, una perlina avrebbero reso quasi un gioco a suo dire la correzione della vista. - Li voglio blu! - Ma blu è un colore da maschi, tesoro, tu sei una signorina. Oddio che astio. La parola “signorina” le stava antipatica probabilmente già all’asilo. In tutte le sue varianti terrene: “signorinella, donnina” e


fiabesche: “principessa, fatina”. Aveva l’apparecchio ai denti, le scarpe correttive per un vistoso varismo, i capelli cortissimi per tenere a bada una chioma indomabile e crespa. Proprio il giorno prima un’amica della nonna, incontrandole insieme, le aveva chiesto: «Hai fatto il militare? Ce l’hai la fidanzata?». Ecco, la signorina si sentiva un pochino presa in giro. Ad ogni modo quegli occhiali blu, con una doppia riga celeste, spessi e con un anelato cordino per poterli addirittura tenere al collo, erano davvero troppo appetitosi. Anche i suoi genitori marxisti si trovarono spiazzati da quella scelta: equivaleva proprio a presentarsi a scuola con i tipici occhiali da “studente sfigato”, soggetto bullizzato dei telefilm americani per adolescenti. Cavoli se erano brutti. Cavoli se questo li rendeva una sfida! Anche scegliere di comprare una cartella, celeste e con due righe oblique bianche, era stata una grossa scommessa. Poteva optare per un Invicta Fluo, rigorosamente da portare su una spalla sola (sottotitolo: evocazione alla scoliosi), per uno zaino con eroine dei cartoni animati o una più ammiccante Betty Boop. No, la cartella era una scelta da hipster ante litteram. Perché anche il mercato delle cartelle era in crisi se paragonato alla diffusione dilagante degli zainetti.

Ormai era una presa di posizione. Persino i giocattoli, tutte quelle Barbie biondissime e vestite benissimo con miriadi di accessori abbinati, ormai venivano coinvolti in quel nuovo universo di pragmatismo, femminismo e pauperismo. L’ultima trovata fu quella di realizzare per le suddette bambole degli abiti con i tovaglioli della cucina, dove un “buon appetito” stampato troneggiava in diagonale come una firma del più gettonato degli stilisti, lungo le linee sinuose di quei corpi di plastica. La resa finale fu il cedere alla cugina non ancora illuminata tutti i vestiti, gli arredamenti, la casa sontuosa delle bambole con tanto di ascensore intarsiato di cuori. - Questa bambola è bruttissima, un’imitazione delle Barbie con lo sguardo triste! E anche questa, modello neonata con cui giocare a “mamma e figlia”, davvero racchia. Me le ha comprate nonna però non era d’accordo, perché dice che lo sa che in fondo non mi piacciono, che lo faccio per spirito di contraddizione, perché devo fare quella che si distingue. - E allora perché ci tieni tanto che siano proprio quelle e non le altre? – chiese il papà impaurito, a questo punto certo che per la figlia si sarebbe aperta un’adolescenza tutt’altro che lineare. - In realtà è solo perché credo che anche le cose brutte abbiano una loro bellezza, come le persone, solo che non lo vedi subito, ci devi perdere tempo, ti devi fare delle domande, e io sono piccola, di tempo ne ho ancora tanto.








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