Il Design al Femminile - Tesi Miriana Mocci

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Ministero dell'istruzione, dell'Università e della Ricerca

ACCADEMIA DI BELLE ARTI DI ROMA

Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa Diploma Accademico di I livello Corso di Grafica Editoriale TITOLO TESI

Il design al femminile

RELATRICE

Tiziana Maria Contino

Anno Accademico 2021/2022

CANDIDATA

Miriana Mocci

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Introduzione 0 Perchè parlare di femminismo Il design fatto insieme

Bauhaus: il contesto

Il sondaggio Conclusione Bibliografia Sitografia Ringraziamenti

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5 6 7

0.0

Introduzione 0.1 0.2 0.3 0.4

Premessa Presentazione Spiegazione Obbiettivi

Premessa Presentazione

Durante i miei tre anni in Accademia, ho assistito sempre con molto interesse alle spiegazioni da parte dei professori e delle professoresse. Ascoltavo, annuivo, intervenivo e ciò che imparavo lo incominciavo a mettere in pratica nei miei progetti, ma anche nella vita di tutti i giorni, ascoltando e guardando una semplice pubblicità.

Piano piano mi sono resa conto che la grafica si può ritrovare in tutto, anche se non ce ne rendiamo conto perché siamo stati “abituati” a certe cose. Potremmo anche solo pensare ai cartelli stradali, alle icone per i giochi olimpici o quelle che ritroviamo in palestra, al packaging delle scarpe che compriamo.

Io, per esempio, indosso le scarpe con marca “Nike” e un giorno osservavo il marchio di questo prodotto. Un segno, stilizzato, nero. Forse troppo semplice? Ma dopo tutto funziona, anche se ormai queste scarpe vengono compra-

te perché “le mettono tutti”, per moda insomma. Ma se venisse chiesto chi ha pensato e progettato questo marchio, molto probabilmente si risponderebbe dicendo che l’ha fatto un uomo.

Io prima di tutti ho pensato fosse stato un uomo e così sono andata ad informarmi. Ho scoperto invece che questo famoso marchio, che assomiglia quasi a un baffo, è stato progettato da una donna, in particolare da Carolyn Davidson. Carolyn Davidson, nel 1971 era una studentessa di design all’Università di Portland, e proprio tra quelle mura, incontrò Phil Knight, uno dei fondatori della multinazionale che diventò presto famosa. Dopo aver effettuato la ricerca, ho spento il mio pc e mi sono posta una domanda: perché ho pensato che l’avesse ideato un uomo? Perché io, che sono donna, e in quanto tale non dovrei avere preconcetti o stereotipi, ho pensato questo?

Partendo da questo ho scelto di raccogliere una serie di lavori effettuati solo da donne, ripercorrendo le loro storie. Una sorta di celebrazione della donna che si è fatta strada nel mondo del design. Purtroppo, ancora oggi, dopo più di duecento anni, esistono delle disparità tra uomini e donne. Si continuano a tenere separati questi due mondi, visti come due cose che devono necessariamente tenersi lontani perché in fondo non potranno mai fondersi. Non ho intenzione di puntare il dito verso qualcuno, non mi rivolgo necessariamente solo agli uomini, ma anche alle donne che molto spesso ritengono scontato il ruolo che ricoprono nella società, pensando che ormai quegli anni di lotta che vedevano come protagoniste le femministe siano lontani. Oggi questo argomento viene ritenuto noioso, un modo per porre l’attenzione sulla donna che vuole essere vittima della società perché le fa comodo. Purtroppo, ho constatato che tra le donne che hanno cercato in tutti i modi

di conquistarsi un posto nel mondo del design, le italiane sono poche, la maggior parte sono molto giovani e solo da pochi anni si stanno affacciando a questo contesto.

Al fine di poter avere un quadro più completo della questione, partendo dai colleghi e dalle colleghe in Accademia, ho stilato un sondaggio per cercare di capire qual è la percezione della situazione tra i miei coetanei e non.

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Carolyn Davidson, fonte nssgclub.com

Spiegazione

Il mio progetto si dividerà in capitoli, come se questi fossero delle tappe da dover necessariamente affrontare per capirne lo sviluppo e al fine di conquistare maggior consapevolezza. Questa consapevolezza non dovrebbe essere raggiunta solo dalle donne, ma anche dagli uomini che possono collaborare con noi donne affinché, quei due mondi, di cui parlavo prima, si possano fondere e non ostacolarsi a vicenda. Ovviamente, ogni capitolo avrà al suo interno due o più sottocapitoli, in cui avrò l’onore di parlare di alcune donne che hanno davvero lottato per poter raggiungere gli obiettivi che perseguitavano, senza farsi abbattere dal prossimo o, parlando più in grande, dalla società e soprattutto senza rinunciare a nulla, sia nell’ambito lavorativo che in quello familiare.

Obbiettivi

Riuscire a far capire che la parola “femminista” non è una parola arcaica o sorpassata ma, al contrario, è ancora qualcosa di assolutamente attuale, al quale non aderiscono molte donne, è un’impresa difficile. Molte volte, in ambito lavorativo, le donne vengono accusate di abusare di questa parola, solo per ottenere qualche responsabilità in più e quindi uno stipendio più alto. Accanto alle donne che ancora oggi stanno combattendo per abbattere i pregiudizi, ce ne sono altre, fermamente convinte che si sia raggiunta un’uguaglianza giuridica e sociale tra loro e quello che viene definito il sesso forte. A causa dei tempi passati, piuttosto patriarcali, è anche vero che, a differenza degli uomini, noi donne non riusciamo a creare un gruppo coeso, lavorando in modo indipendente e questo di certo non aiuta se vogliamo farci valere. L’obiettivo che mi pongo è quello di dimostrare che pur vivendo nel 2022, possiamo ancora parlare, mio malgrado, di movimento femminista.

Sono convinta, anche se lascerò parlare le mie ricerche, che solo per il semplice fatto di capire se sia opportuno parlare dell’argomento o meno, ci sia bisogno di rispolverare il senso di questo termine.

Per provare che non ho intenzione di puntare il dito contro nessuno, pongo un solo e grande quesito: “È veramente solo colpa di una società patriarcale, che ci ha escluso fin da subito, credendo che noi fossimo il sesso debole?”

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Anni Albers con campioni tessili nella sua casa di New Haven, c.1950–60, fotografata per il New Haven Register, fonte tate.org.uk

1.0

Perchè parlare di femminismo 1.1 1.2 1.3 1.4

Cambio di paradigma...i protagonisti? Sempre gli stessi!

Donna non è sinonimo di fragile Mamma e lavoratrice? Si può

Il problema del post-femminismo e come risolverlo

Perchè parlare di femminismo

Se chiedessimo a qualcuno di citare alcuni dei nomi riguardo il mondo della comunicazione e del design, gli verrebbero in mente moltissimi nomi di personaggi maschili; per poter dire qualche nome femminile bisogna pensare a lungo e intensamente. Milton Glaser, Saul Bass, Paul Rand, Stefan Sagmeinster, Otl Aicher, Neville Brody, Jonathan Ive. Potrei continuare all’infinito e molto probabilmente non serve che io spieghi chi sono queste persone. Graphics design che hanno fatto la storia, hanno contribuito a cambiare il nostro modo di pensare e di vedere le cose.

Basti pensare a Milton Glaser, ideatore del famosissimo logo: “I love New York”, dove la parola “Love” è sostituita da un cuore. Oggi forse banale, ma nel 1976 fu qualcosa di rivoluzionario dato che non si era abituati a sostituire le parole con le emoticon.

Paul Rand diceva: "Il design è un modo per mettere insieme forma e contenuto. Il design, proprio come l’arte ha molteplici definizioni, non esiste una defi-

nizione univoca. Il design può essere arte. Il design può essere estetica. Il design è così semplice, ecco perché è così complicato (1 ". Mi trovo perfettamente d’accordo con quanto detto da Rand. È difficile da definire, tanto che quando mi chiedono: ”Di cosa ti occupi?” , rispondo cercando di far capire all’altra persona, che non conosce l’ambito, il contesto in cui mi trovo. Mi sono accorta che do sempre risposte diverse, cercando di semplificare ogni volta la mia spiegazione. Contemporaneamente rifletto sulla fortuna di poter rispondere a questa domanda e di poter far parte di questo mondo meraviglioso.

Per questo sono grata a chi mi sta intorno, ma soprattutto a quelle donne che hanno lottato per far in modo che chiunque di noi altre, nel momento in cui voglia intraprendere questo percorso, lo possa finalmente fare senza alcun tipo di problema. Forse qualcuno ritiene scontato tutto questo.

Si penserà: “Un’altra femminista”,

oppure, “ma l’argomento è vecchio”. Molto probabilmente l’argomento sarà anche passato o troppo ripetuto, ma il termine “femminista” o “movimento femminista” viene ancora utilizzato, e se non in ambito accademico o universitario, sicuramente in ambito lavorativo, dove purtroppo ci sono ancora persone che, a mio parere, non si rendono

conto della situazione, non si rendono conto delle disparità di trattamento che ci sono ancora tra uomini e donne, e questo non si verifica solo nell’ambito del design. Questo tipo di atteggiamento, quello di non rendersi conto delle differenze di trattamento, viene definito, da Gerda Breuer, “post-femminismo” (2 Ma procediamo per gradi...

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Milton Glaser, fonte shalom.it Logo I love NY, fonte wikipedia.it 2 Intervista a Gerda Breuer - Graphic Designer & Design Historian Berlin, Germany, tratto da "Notamuse: A New Perspective on Women Graphic Designers in Europe", Arthur Niggli, ©2019 1 Blog-Design & Dev, "Il design è semplice, se non è semplice che design è?", luckyassociates.com, 5 Febbraio 2017

di paradigma... ...I protagonisti? Sempre gli stessi!

Secondo quanto ho potuto trovare sul sito internet del colosso dell’enciclopedia, ovvero la “Treccani”, per femminismo si intende: "Movimento di rivendicazione dei diritti economici, civili, e politici delle donne; in senso più generale insieme delle teorie che criticano la condizione tradizionale della donna e propongono nuove relazioni tra i generi nella sfera privata e una collocazione sociale paritaria in quella pubblica (3 ". Sul sito dell’enciclopedia “Treccani” ho anche trovato il significato della parola “donna”. Il termine “donna” sta a significare: "Nella specie umana, individuo di sesso femminile, che ha raggiunto la maturità sessuale e quindi l’età adulta….esiste una differenza tra i due sessi (uomo – donna) basata sulle differenze biologiche tra l’organismo maschile e quello femminile. Ma da questa diversità biologica è derivata una serie di differenziazioni di modelli di comportamento che sono un prodotto culturale: per esempio, se è la natura ad assegnare alla donna il ruolo mater-

no, sono però la società e la cultura, ad attribuirle esclusivamente il compito di allevare e curare la prole (4 ". Possiamo dire che nell’arco degli anni le donne hanno combattuto partendo dalla conquista dell’uguaglianza di fronte la legge e poi dei diritti politici, che si sono raggiunti solo a partire dal Novecento in vari paesi e in tempi diversi.

Oggi, nel mondo occidentale, nelle università e nelle accademie, la presenza femminile supera quella maschile.

Le donne hanno accesso a tutte le professioni e cariche politiche. Tuttavia, molto spesso, occupano i ruoli meno qualificati, percepiscono salari minori e spesso restano loro affidati il lavoro domestico e la cura dei figli.

Per molto tempo, e ancora oggi, molte donne hanno vissuto e vivono nella convinzione che avere una famiglia o comunque diventare madri, rappresenti un ostacolo per la propria carriera, un ostacolo che impedisce di emergere in un mondo fatto di/da maschi.

Ma le donne, e subito dopo gli uomini,

devono capire che questi tempi, tempi in cui le donne se si realizzavano dal punto di vista familiare non lo potevano fare in quello lavorativo, e viceversa, sono finiti. Questo modo di pensare è legato alla vecchia società, una società patriarcale fatta da uomini per gli uomini, dove non c’era spazio per le donne, perché tanto il loro unico posto era la sedia del salotto di casa, su cui sedersi, tenere in braccio i figli e accudirli. Silvana Annichiarico, direttrice del “Triennale Design Museum”, ci spiega che per secoli la prospettiva patriarcale non è mai stata messa in discussione perché tutto sommato era funzionale agli assetti produttivi e di potere di quel mondo. Ora la fine dell’era industriale e del modo di produzione fordista fa sentire quello schema del tutto inadeguato. Il patriarcato finisce con la fine del modello gerarchico-piramidale di organizzazione del lavoro, finisce con la fine della catena di montaggio, finisce con la fine del modello di famiglia che è stato proposto e praticato negli

ultimi due secoli (5 Oggi, il capitalismo immateriale e relazionale ha esigenze diverse.

Non si pensa più in modo razionale e scientifico, le cose non si devono fare per forza in un unico modo; si guardano le cose da più punti di vista, i quali hanno un unico comun divisore: le emozioni.

Oggi, si ragiona con il cuore, con le emozioni e i sentimenti.

Tutte caratteristiche che nella vecchia società, e ancora oggi purtroppo, venivano e vengono attribuiti solo alle donne, al sesso debole, che non sa separare dalla propria vita e da ciò che gli accade, le emozioni, e proprio per questo non poteva avvicinarsi al mondo degli affari oppure puntare a cariche prestigiose all’interno di un’azienda.

Pur essendo cambiata la società e il modo di pensare, non mi sembra che siano stati esclusi gli uomini, pur non avendo, a loro dire, quelle stesse caratteristiche che contraddistinguono le donne e che oggi sono richieste.

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Cambio 5 Estratto dal primo capitolo, Ferrara Cinzia, "AWDA2 - Aiapa woman in design award, AIAP (Milano)", ©2018
3 Estratto della definizione di femminismodal sito internet "Treccani.it" 4 Estratto della definizione di donna dal sito internet "Treccani.it"

Donna non è sinonimo di fragile

Quando pensiamo alle differenze caratteriali che ci possono essere tra una donna e un uomo subito facciamo riferimento alla gentilezza, all’amore, alla dolcezza e alla fragilità per descrivere la prima e alla forza, al coraggio, all’essere indipendenti e determinati per descrivere un uomo. Come se certe caratteristiche potessero essere solo dell’una o dell’altro. È stata la società che ha imposto certi stereotipi: “Le donne piangono?

Sono sensibili”, “Le donne hanno figli? Non hanno tempo per il lavoro”.

Fortunatamente le cose stanno cambiando, ma, mio malgrado, c’è ancora una percentuale maschile, e anche femminile, ed è proprio per la presenza di quest’ultima che il rammarico aumenta, che non la pensa esattamente così. Ci si meraviglia ancora, e parlo sulla base di un’espe-

rienza che ho vissuto in prima persona, di servizi, mandati in onda, da parte di tre o quattro giornaliste di fila. Se fossero stati trasmessi gli stessi servizi da parte di giornalisti, sono sicura che la cosa non sarebbe stata notata. Tutto è sottolineato, in modo ancora più marcato, se le giornaliste parlano di questioni particolari, come per esempio le guerre. Questo aneddoto mi ha fatto capire che l’analisi che sto svolgendo sul ruolo della donna in generale e poi nel mio campo, che è quello del design, non è per niente noioso o scontato.

Corinne Gisel, laureatasi nel 2012 presso il “Gerrit Rietveld Accademie” di Amsterdam, ha lavorato poi come freelance nel campo dell’editoria e del design. Questa professionista ha parlato in un’intervista del ruolo della donna,

facendo un discorso, secondo me, molto interessante: "In generale, penso che l’immagine della donna nei media e nella società, è ancora piuttosto unidirezionale, sia nella mente degli uomini che delle donne. È l’immagine di una donna bella, modesta e obbediente che, alla fine della giornata, è responsabile dei lavori domestici e dell’educazione dei figli e non di un lavoro mentalmente faticoso che si occupa della conoscenza di una generazione.

I miei modelli sono le donne, che lo fanno, non denunciando la prima immagine, ma migliorando la propria identità e il proprio percorso di vita con la seconda. Come donna, questo spesso non è facile, perché significa andare contro la vecchia immagine di donna. I successi delle donne non ricevono la giusta lode pubblica; sono considerate “ossessionate dalla carriera” o “troppo qualificate (6 ".

Anche Veronica Fuerte, graphic designer e illustratrice, in una recente

intervista pubblicata sul libro "Design{h} ers: a celebration of women in design today", si è esposta e ha spiegato che cos’è per lei la famiglia: "Penso che quando sei genitore la “spinta” è più forte. Prima tutta la mia energia e i miei sforzi erano concentrati sullo studio e sul lavoro. Ora, trovo che sono più efficace durante i blocchi di tempo più piccoli. Sono stata costretta a dare la priorità alla mia famiglia, ma l’ho vissuta come qualcosa di positivo perché ho capito come gestire meglio il mio tempo. Non ha cambiato il modo in cui io mi avvicino al mio lavoro, oppure l’impegno che ci metto. Semplicemente non perdo più tempo (7 ". Mi trovo perfettamente d’accordo: non si può vedere in modo negativo il fatto di essere donne, non si può pensare che solo perché abbiamo caratteristiche fisiche diverse allora abbiamo un modo diverso e quindi sbagliato di vedere e fare le cose, non si può pensare ad un figlio come ad un ostacolo nella vita professionale di una donna.

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6 Estratto dell' intervista a Corinne Gisel- Graphic Designer & Design Historian Berlin, Germany, tratto da "Notamuse: A New Perspective on Women Graphic Designers in Europe", Arthur Niggli, ©2019; 7 Estratto dell'intervista a Veronica Fuerte, "Design{h}ers: a celebration of women in design today", Viction Design Workshop, ©2019

Mamma e lavoratrice? Si può

Le narrazioni modellano il senso che noi abbiamo del mondo. Fino ad ora ci hanno raccontato solo una storia, una storia fatta di stereotipi, e non si è dato peso alle sfumature. La storia di un graphic design può essere la seguente: un grande grafico è un giovane, dinamico, carismatico, normodotato, senza preoccupazioni finanziarie. Chi dedica la propria vita alla progettazione grafica muta il proprio modo di lavorare, crea capolavori e uno stile proprio, viene scoperto e supportato; apre uno studio, insegna influenzando le generazioni successive; pubblica monografie e viene intervistato, diventa parte di organizzazioni e invitato ad esporre i lavori presso le gallerie e le biennali; parla a conferenze e come conseguenza incomincia a essere parte della storia del graphic design venendo incluso nei canoni disciplinari. Questa è la storia del successo e per rendere la storia più interessante vengono menzionati ostacoli che sono superati per questa realizzazione.

Includono clienti difficili, guasti tecnologici, fasi di fallimento. Molto probabilmente il grafico descritto sopra non ha incontrato questi ostacoli: avere un lavoro non considerato dagli altri, una carriera che non avanza a causa di distrazioni date dalla famiglia, essere assegnato solo a compiti normali perché gli altri danno per scontato che quelli rappresentano il tuo livello, un lavoro considerato “buono” ma non “universale”. Ma fortunatamente la narrazione può cambiare dato che noi possiamo diventare molto bravi a raccontarla. Oggi, abbiamo l’esempio di donne che sono riuscite a raggiungere ruoli prestigiosi pur dovendo mettere parte del loro tempo e delle loro energie nella famiglia che si stavano costruendo.

Queste donne non sono delle eroine, non hanno i super poteri. Hanno ammesso di non aver vissuto un periodo facile, ma il loro desiderio era più forte degli ostacoli che sapevano già di dover incontrare nel loro cammino.

Un cammino che loro hanno percorso con coraggio, incontrando non solo uomini ma anche donne che le ripetevano continuamente che non ce l’avrebbero fatta.

Nonostante tutto, loro si sono poste degli obiettivi, non solo per potersi realizzare dal punto di vista personale, per poter dire: ”Ce l’ho fatta!”, ma anche per essere da esempio a tutti gli studenti e a tutte le studentesse a cui loro hanno e continuano ad insegnare; per far capire che non esistono corsi da

donne e corsi da uomini, per far capire che sì, forse hanno modi di pensare differenti, ma che questa differenza non è dovuta al fatto che appartengono per natura a due sessi diversi, ma è legata alla loro storia e al loro vissuto e purtroppo anche alla società che impone ancora degli stereotipi.

Corinne Gisel, che citavo prima, riconosce l’enorme difficoltà che comporta separare il lavoro dalla vita privata.

Ammette di lavorare tutti i giorni duramente, ammette che, a lungo termine e grazie all’esperienza, è diventata molto più severa e rigorosa anche con i clienti, in modo tale da cambiare la sua condizione. In questo modo può permettersi di lavorare nei fine settimana o la sera tardi solo in casi eccezionali. Dover fare tutto da sola e in modo autonomo le ha fatto capire che doveva organizzarsi i tempi in modo molto rigoroso, sempre tenendo conto che, a volte, i processi creativi richiedono più tempo del previsto e che gli orari non sono sempre negoziabili (8 .

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8 Estratto dell' intervista a Corinne Gisel- Graphic Designer & Design Historian Berlin, Germany, tratto da "Notamuse: A New Perspective on Women Graphic Designers in Europe", Arthur Niggli, ©2019; Corinne Gisel, fonte zhdk.ch

Il problema del post-femminismo e

Come dicevo all’inizio di questo capitolo, il cosiddetto femminismo, esiste ed è ancora molto attuale. Molte volte, però, la situazione viene presa “sottogamba” e, a mio avviso, si pecca di scarsa presa di coscienza della situazione. Si crede che il femminismo non sia più necessario dato che le donne sono libere di scegliere, ma in questo modo si produce un nuovo e unico modello per tutte le donne, e la cosa peggiore è che, ormai da motli anni, traspare anche sui social, insinuandosi anche nella mente delle giovani donne. Questo atteggiamento è definito da Gerda Breuer “post-femminismo”.

Gerda Breuer ha conseguito un dottorato in storia dell’arte e più recentemente ha lavorato come professoressa di arte e storia del design al Bergische Univerisitat di Wuppertal. Le sue attività didattiche internazionali sono state completate con numerose pubblicazioni sull’arte, sull’architettura, sul design e sulla fotografia. Breuer fu molto attenta alla storia della donna nel campo

del graphic design, e ha notato che oggi molte studentesse, in riferimento al ruolo della donna in questo ambito, reagiscono dichiarando che si tratta di un argomento obsoleto dato che certe differenze non esisterebbero più. Molte professioniste sono d’accordo con Gerda Breuer, anche se forse l’atteggiamento non viene definito utilizzando la stessa espressione. Tra queste, Jasmin Muller-Stoy, art director di “Zeit Magazin”, è fermamente convinta che le cose si debbano e si possano cambiare partendo dal “basso” e cioè partendo dall’ambiente accademico. Durante la sua carriera da insegnante ha notato che alcuni corsi erano frequentati più da studentesse e altri più da studenti e che le une e gli altri li evitavano nel momento in cui apprendevano da quale dei due sessi è rappresentato il corso. È proprio tra quelle mura, che, secondo la professionista, oltre alle nozioni, agli argomenti e alle tecniche, bisognerebbe far capire agli studenti che non esistono corsi con

caratteristiche maschili o femminili, che non sono fatti per l’uno o per l’altro; bisognerebbe far apprendere l’assenza di differenze che esiste tra di loro e che il loro sesso non cambia il modo in cui pensano o la materia per cui devono studiare (9

Forse potrà cambiare l’approccio che

come risolverlo

una persona utilizza nel momento in cui si affaccia ad un lavoro, ma tale differenza sussiste anche tra persone dello stesso sesso.

Fare questo, con la speranza che, un giorno, ciò che non accade più in piccoli ambienti, non accadrà neanche nel gigantesco mondo del lavoro.

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9 Estratto dell' intervista a Jasmin Muller Stoy - Art Director "Zeit Magazin", Berlin, Germany, tratto da "Notamuse: A New Perspective on Women Graphic Designers in Europe", Arthur Niggli, ©2019; Alcune riviste di Zeit Magazin, fonte rivistastudio.com

2.0

Bauhaus: il contesto 2.1 2.2 2.3

“La ragazza della Bauhaus sa ciò che vuole e lo otterrà a tutti i costi!” Non è tutto oro ciò che luccica Le donne della Bauhaus

Bauhaus: il contesto

Sappiamo che la grafica è ciò che combina tipografia, illustrazione e stampa per informare, persuadere o educare. Si differenza dalle belle arti a partire dal 1922, grazie a William Addison Dwiggins che ha coniato il termine “graphic design”. Durante l’Ottocento la tecnologia e la scienza si sono evolute portando a dei sostanziali cambiamenti anche nel campo della stampa. Per esempio, nel 1798, ci fu l’invenzione della prima macchina per fabbricare la carta, grazie a Nicholas Louis Robert. A questa e ai prototipi che la migliorarono, seguì l’invenzione della macchina rotativa e quella basata sul sistema piano-cilindrica. Contemporaneamente nacquero anche dei caratteri capaci di conferire l’illusione ottica 3D e così si iniziò a sperimentare l’uso di ombre e profondità. Nel 1886 Ottmar Mergenthaler inventa la Lynotype e l’anno successivo viene brevettata la Monotype da Tolbert Lanston. Si ebbero dei miglioramenti anche nel campo pubblicitario: infatti

si passò dalla litografia alla cromolitografia (una litografia a colori), grazie alla quale si incominciarono a stampare i primi poster pubblicitari. Alla fine dell’Ottocento, insieme alla crescita nell’ambito del commercio, si fecero dei passi avanti anche nel campo della stampa. Oltre ai quotidiani, incominciarono a essere stampati anche riviste illustrate, romanzi economici, cataloghi e volantini.

Prima del Bauhaus ci fu il “Deutscher Werkbund” i cui fondatori, nel 1907, si posero l’obiettivo di avvicinare le arti, i mestieri e l’industria per realizzare prodotti disegnati in modo migliore e soprattutto in modo più funzionale. È così che ci si incominciò ad avvicinare al graphic design come lo conosciamo oggi (10 .

Nel 1919 arrivò la fondazione della Bauhaus. La parola Bauhaus significa letteralmente “casa del costruire”. Fu scelto questo nome in quanto ci si voleva differenziare dalle scuole tradizionali nelle quali si conoscevano

in modo chiaro quelle che dovevano essere le competenze dei professori e quali, invece, i doveri di uno studente. Walter Gropius fondò, a Weimar, questa scuola, caratterizzata da grandi vetrate, che puntò all’unione tra estetica e funzionalità.

All’interno della struttura i professori insegnavano belle arti, fotografia, design industriale, architettura e urbanistica. Durante l’insegnamento non dimenticavano mai il forte legame che doveva esistere tra maestro e allievo.

Alla fine dei tre anni di studio, lo studente doveva essere ritenuto in grado di saper progettare gli oggetti a partire dalla loro ideazione.

Scuola della Buahuas, fonte less.ismore.it

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1 Documentazione effettuata sul sito "La storia della grafica dalle prime tipografie ad oggi - SaGrafica.it"

“La ragazza della Bauhaus sa ciò che vuole

Nel 2019, durante il centenario della scuola di arte e design, la casa editrice “Taschen” pubblicò un libro dal titolo “Bauhaus models – a tribute to pioneering woman artists”. È proprio un tributo quello che si scelse di fare, un tributo a quasi novanta artiste che si sono distinte nonostante fossero circondate da un mondo che lottava contro di loro per omologarle.

Nel 1930, il settimanale tedesco “Die Woche” scrive: "La ragazza della Bauhaus sa cosa vuole e lo otterrà a tutti i costi (11 ".

Si scrisse questo nonostante fu dichiarato, tempo prima da Walter Gropius, che l’istituto avrebbe accolto qualsiasi persona di buona reputazione, indipendentemente dall’età e dal sesso. Di fatto le studentesse erano costrette a seguire lezioni considerate più adatte ad una figura femminile, come per esempio tessitura. Ma le donne non si sono scoraggiate e sono riuscite a farsi strada, anche se non hanno avuto la stessa fama dei colleghi.

Il 1929, fu un anno caratterizzato da una profonda crisi e il crollo del mercato azionario di New York sì ripercosse anche sui lavoratori tedeschi. Alla fine del 1929, il numero dei tedeschi registrati come disoccupati ammontavano a quasi due milioni. I conflitti politici interni stavano aumentando ed è proprio in un momento così movimentato, che nel gennaio del 1930, i lettori della rivista conservatrice lessero il primo numero. Con loro sorpresa, in prima pagina c’era una ragazza bionda, alle-

gra, dall’aria sbarazzina e con un taglio di capelli corto. Erano tre i fattori chiave per identificare la nuova donna: 1) ricerca di occupazione, 2) ridefinizione dei ruoli di genere nell’interazione reciproca, 3) taglio di capelli cortissimo. Le donne incominciarono ad avanzare nel mondo degli uomini, come per esempio, lo sport, oppure alla guida di una macchina, o ancora, intenta a fumare. Contemporaneamente non volevano farne parte e mostravano questo rifiuto attraverso l’attenzione per l’aspetto

esteriore: scollature, gambe nude, polvere e rossetto. Questo modello si è diffuso attraverso la stampa illustrata. Ma il modello descritto sopra non può rappresentare in modo univoco quattrocento artiste e la loro storia. Ma se ne esaminassimo quattro, potremmo sicuramente trovare tra di loro dei punti in comune.

La prima tra queste è Frienderike Dicker (chiamata Fridl). Donna indipendente, forte, con un grande coraggio. Studiò alla Bauhaus dal 1919 al 1923, interessandosi in particolar modo ai corsi di tessitura, litografia, rilegatura di libri. Nel 1934 si unì al movimento antifascista clandestino, fu arrestata e poco dopo rilasciata. Al suo rilascio si trasferì a Praga e si sposò. Nel 1942 fu deportata insieme al marito nel ghetto ebraico di Terezin. È proprio qui che si vide il suo coraggio: utilizzò il disegno per dare conforto ai bambini che stavano vivendo una situazione tragica. Era fermamente convinta che l’arte potesse rappresentare un ottimo strumento per

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2 Citazione di Die Woche, Rossler Patrick, "Bauhaus models - a tribut to pioneering women artists", Taschen, ©2019 Margaret Leiteritz, fonte bauhauskooperation.com Margaretha Reichardt, fonte bauhauskooperation.com

Disegno di un/a bambino/a durante la prigionia nel campo di Terezin, fonte inchiostrovirtuale.it

dare ai bambini la più grande forma di libertà. Durante la prigionia organizzò spettacoli, per i quali cucì costumi e realizzò scenografie, e mostre di disegni di bambini in un seminterrato.

La seconda è Ricarda Schwerin. Lei, come Dicker, studiò alla Bauhaus a partire dal 1930. Dovette interrompere gli studi per problemi di salute e quando

vi si ripresentò non venne riammessa. Come Dicker, era una simpatizzante comunista e fu bandita dalla scuola, senza riuscirsi a diplomare. Anche lei si dedicò ai bambini, aprendo un asilo nido e costruendo per loro giocattoli di legno.

Margaret Camilla Leiteritz rinunciò al suo lavoro per studiare alla Bauhaus

. . . e lo otterrà a tutti i costi!”

nel 1928. Anche se ha lavorato per lo sviluppo delle carte da parati e ha poi completato uno stage come scenografa a Kassel, ha successivamente ripreso il lavoro di bibliotecaria. Si è poi trasferita nella Germania occidentale, dove ha lavorato fino alla fine della sua vita, nubile e senza figli, come pittrice e bibliotecaria. Nel 1968 il suo lavoro artistico è stato incluso alla mostra che si tenne a Stoccarda in occasione del cinquantesimo anniversario della Bauhaus. Infine, c’è Margaretha Reichardt. Anche lei si iscrisse alla Bauhaus nel 1925, dopo aver visitato una mostra due anni prima. Nel 1931 si diploma in tessitura e in quest’ambito ebbe un ruolo chiave per lo sviluppo della tecnica del filato di ferro. Si trasferì in Germania nel 1933, dove, insieme al marito, aprì un laboratorio di tessitura a mano. È stata membro della Camera della Cultura del Reich e poi della GDR Association of fine Artists. Continuò ad insegnare agli studenti fino agli anni ’80 sui telai originali della Bauhaus.

Che cosa hanno in comune queste quattro donne? Oltre al fatto di aver dovuto avere a che fare con un mondo di uomini e di aver studiato alla scuola più rivoluzionaria di sempre, quella della Bauhaus, sono l’esempio perfetto di cosa vuol dire essere donna nel mondo del lavoro, nello specifico del design, tenendo soprattutto conto dei tempi che non erano affatto facili. Hanno utilizzato la loro passione per farne un lavoro, superando gli ostacoli, non arrendendosi facendone un semplice passatempo.

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Shakespeare diceva: "All that glitters is not gold", ovvero "Non è tutto oro ciò che luccica". Il Bauhaus è da sempre considerata come una delle scuole più progressiste e prestigiose, grazie anche alle tante figure che ne hanno fatto parte, come per esempio: Paul Klee, Lyonel Feininger o Kandinsky. In questa scuola era possibile ottenere diplomi in vari campi. Nonostante ciò, le studentesse hanno dovuto sopportare diversi svantaggi rispetto agli studenti. Nel programma di inaugurazione della scuola, Gropius affermò con convinzione: "Qualsiasi sia l’onorabilità delle persone, indipendentemente dal sesso e dall’età, sarà ammessa, per quanto lo spazio lo permetta (12…". Questo per far capire che tutti gli studenti avrebbero goduto degli stessi diritti e che non sarebbero state fatte concessioni di alcun tipo. Non ci si aspettava che le ragazze avrebbero voluto prendere parte a corsi che t radizionalmente erano rappresentati da uomini.

Furono, ad esempio, allontanate ragazze dal partecipare alla costruzione di una casa, in quanto non venivano ritenute adatte e ci si preoccupava che una loro partecipazione potesse danneggiare il lavoro dal punto di vista morale. Fu così aperto un laboratorio tessile al quale potessero far parte le donne. Questo per far in modo che potesse diminuire il numero delle figure femminili negli altri ambiti. Come se il laboratorio di tessitura rappresentasse un luogo preparato appositamente per loro, separato dal resto del contesto, come se gli uomini avessero voluto dire: “Ecco, questo è il vostro posto, entrateci e non affacciatevi alla finestra”. Si giunge così alla conclusione, che la Bauhaus, progressista in diversi ambiti e dal punto di vista relazionale, non lo fosse in riferimento al ruolo della donna portando avanti valori sociali convenzionali attraverso strutture gerarchiche radicato in una rete di paternalismo, autorità, potere e differenze di genere.

Non tutte le donne, tuttavia, accettano volontariamente l’orientamento della tessitura e, per effetto della selezione, il numero delle donne che si iscrivono diminuisce costantemente. La tessitura viene considerata una forma di artigianato artistico e quindi relegata alle posizioni più basse nella gerarchia dell’arte e del design. Eppure, per ironia della sorte, il laboratorio di tessitura è per lungo tempo l’unico a fare pro-

fitti, andando quindi a co-finanziare le digressioni artistiche delle sezioni di dominio maschile. I tessuti che venivano prodotti erano assolutamente innovativi, hanno, infatti, svolto un ruolo decisivo per l’interior design e per i fotografi, che incominciarono ad avere a che fare con materiali nuovi. Non dobbiamo dimenticare tutte quelle studentesse che hanno voluto partecipare anche a corsi che veni-

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Non è tutto oro ciò che luccica
Qualsiasi sia l’onorabilità delle persone, indipendentemente dal sesso e dall’età, sarà ammessa, per quanto lo spazio lo permetta…
3 Citazione di Walter Gropius, tratto da Rossler Patrick, "Bauhaus models - a tribut to pioneering women artists", Taschen, ©2019

vano ritenuti prettamente maschili, come per esempio, quello dell’edilizia o della pittura, pur rimanendo confinata agli uomini la possibilità di salire attraverso i ranghi della Bauhaus. A dimostrare questo, prendiamo il caso di sei studenti diventati poi professori della scuola, di cui solo una era donna. La studentessa Anni Albers in qualità di professoressa divenne responsabile del laboratorio di tessitura e ciò mostra la natura conservatrice delle ambizioni detenute dai membri femminili. Albers, durante i suoi studi, trascorse molto tempo nel laboratorio di tessitura, all’inizio senza neanche molto entusiasmo, dato che doveva sopportare le battute sarcastiche dei colleghi, come quella di Oskar Schlemmer: "Dove c’è lana, là c’è una donna che tesse magari solo per passatempo (13 ". Ma lei andò oltre a ciò che gli altri dicevano di lei, continuò ad entrare in quel laboratorio, fino a diventarne “padrona” sviluppando una tecnica nuova: i suoi arazzi erano caratterizzate da figure geometriche e

dall’unione del cotone con il cellophane in grado di assorbire insieme il suono e la luce riflessa. Inoltre, fu la prima artista tessitrice ad aver avuto l'onore di una mostra personale presso il Museum di Arte Moderna a New York. Per molte donne, risiedeva nel matrimonio e nella famiglia la realizzazione della propria persona, a differenza di ciò che invece era per gli uomini, i quali invece la ritenevano degna di essere conquistata solo nel momento in cui si raggiungevano livelli alti nel campo artistico.

Con questo ci avviciniamo con quanto detto nel primo capitolo: la società e il patriarcato sono la causa della condizione femminile e hanno innescato nella mente delle donne la convinzione che sia giusto quello che si è sempre fatto.

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4 Citazione di Oskar Schlemmer, tratto da Rossler Patrick, "Bauhaus models - a tribut to pioneering women artists", Taschen, ©2019 © 2020 The Josef and Anni Albers Foundation/Artists Rights Society (ARS), New York/DACS, London / Photo: Tim Nighswander/Imaging4Art

Le donne della Bauhaus

Scomposizione del ritratto di Marianne Brandt, fonte pamono.it

Molte delle donne che hanno preso parte alla Bauhaus, durante i loro studi e durante la loro carriera, hanno cambiato il loro nome. Questi nomi possono essere anche soprannomi con i quali erano conosciute, ma non sono semplici abbreviazioni. Molte volte accanto al loro nome mostravano questi nickname separatamente. Gli esempi che potrei fare sono tantissimi, comincerei con Adelgunde Stolzl. Conosciuta come Gunta Stolzl, ha 22 anni quando entra nella scuola. Spicca subito tra le studentesse e

riceve l’attenzione dei suoi insegnanti per il suo stile patchwork di modelli e mosaici caleidoscopici. I suoi tessuti diverranno presto il rivestimento delle sedie del famosissimo architetto Marcel Breuer. Una delle frasi più famose di Gunta recita: "Nulla mi ostacola nella mia vita, posso darle la forma che voglio (14 ". Forgiare, creare, plasmare, modellare un oggetto o un tessuto, come nel suo caso, proprio come se fosse la propria vita. Un’altra figura di spicco, è Marianne Brandt, con il nome di Liebe.

Fu la prima ad entrare in un laboratorio di metalli. Grazie al suo immenso talento fu individuata dal professore, esponente della Bauhaus, Làszlò Moholy Nagy, che le facilitò l' accesso a workshop prettamente maschili.

Brandt fu costretta ad una gavetta di fuoco, osteggiata com’era dai colleghi che condividevano il maschilismo gropiusiano.

Nel 1926, progetta le lampade a globo e la lampada da comodino Kandem, con riflettore regolabile, segnando così, in modo indelebile, il design della

Bauhaus. Nel periodo di produzione della lampada, Brandt sentì la pressione dei suoi colleghi che volevano spingerla alle dimissioni, perché non la ritenevano capace di controllare una produzione su larga scala. Nel 1928 Marianne sostituì Moholy-Nagy nella didattica e nella direzione del laboratorio dei metalli e persino Gropius finirà per capitolare all’evidenza della sua abilità, arrivando a richiederne la collaborazione in alcuni suoi personali progetti di mobili e di arredamento d’interni.

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5 Citazione di Gunta Stolzl, tratto dall'articolo "Le donne del Bauhaus", di Rossela Marchini, Le donne del Bauhaus - DINAMO press, 31 Marzo 2019

Marianne rappresentò una vera e propria guida da cui prendere ispirazione e a seguire i suoi passi ci pensò Margarete Heymann. Margarete Heymann Loebenstein resistette al dovere che sembrò costringere tutte ad entrare nel laboratorio di tessitura, e cercò di convincere il fondatore della scuola a farle prendere parte al laboratorio di ceramica. È proprio qui che prende vita il suo stile unico: oggetti caratterizzati da cerchi e triangoli e decorati con motivi costruttivisti.

Sconosciuta ai più è anche Lilly Reich che approdò alla Bauhaus nel gennaio del 1932 quando la direzione passò a Ludwig Mies Van Der Rohe. Entrò nella scuola non come studentessa ma come professoressa del laboratorio di tessitura e di “interior and furniture design” di nuova istituzione, che si occupavano della progettazione di mobili, oggetti metallici e decorazione murale. La sua posizione di istruttore capo fu significativa, perché divenne la seconda donna a detenere quell’incarico da quando la

scuola aveva aperto nel 1919. Lilly Reich gestiva anche gran parte dell’amministrazione quotidiana della Bauhaus al posto di Mies. Quando venne chiamata da Ludwig Mies van der Rohe, il nuovo direttore della scuola, suo collega e compagno per un tratto di vita, Lilly aveva 47 anni e una lunga esperienza nel campo della moda, del design di interni, dell’arredamento e della progettazione e allestimento di stands fieristici, maturata nel suo incarico precedente, come prima donna a far parte del direzione della “Deutscher Werkbund”(la scuola precedente alla Bauhaus che ho citato all’inizio del capitolo). Nella sua monografia su Mies del 1947, l’architetto Philip Johnson scrive che "Nell’Esposizione della Werkbund del 1927, egli concepì il primo dei suoi numerosi allestimenti con la sua brillante partner, Lilly Reich, che presto divenne sua pari in questo campo (15 ". Fu più di una coincidenza che l’evoluzione e il successo di Mies nella progettazione di arredi fosse iniziata

contemporaneamente alla sua relazione con Lilly Reich, non prima né dopo, ma durante. Nel 1929 Mies van der Rohe realizzò il Padiglione della Germania all’Expo di Barcellona, insieme agli arredi. La paternità della poltrona di Barcellona è stata tradizionalmente attribuita a Mies, ma è risaputo che ci lavorarono entrambi e che il contributo di Lilly Reich fu fondamentale, tanto che sarebbe più corretto parlare di una co-progettazione.

Lo storico dell’architettura Kenneth Frampton osserva come Mies non avesse raggiunto quei livelli prima dell’incontro con la Reich, e che sarebbe doveroso accostare al nome dell’architetto quello della collega. Solo pochissime studentesse riuscirono ad accedere al corso di Architettura alla scuola della Bauhaus. Una fra queste è Zsuzsanna Bánki. Bánki nel 1930 si diplomò e subito dopo inizò gli studi in architettura alla Bauhaus. Alla Bauhaus si concentrò approfondendo i suoi studi nel reparto di falegnameria e di costru-

zione/espansione. Purtroppo, due anni più tardi, nel 1932, come altri studenti, fu espulsa e mai riammessa a causa delle attività comuniste che li vedevano protagonisti, così dovette continuare a studiare alla scuola d’Arte di Francoforte. Ma anche da qui fu espulsa a causa della salita al potere, nel 1933, dei nazionalsocialisti e cercò di concludere gli studi all’Accademia di Belle Arti a Vienna. In Accademia rimase tre anni ma non ci sono documenti riguardanti i suoi lavori accademici o che attestino una sua collaborazione con altri studenti. Sappiamo però, grazie a sua cognata (16, che ha contribuito per la costruzione della Chiesa di Cristo Re a Vienna. Finalmente, nel 1936 si diplomò all’Accademia di Vienna, ricevendo la Medaglia d’Argento Fuger, per aver progettato una fonte battesimale. Forse proprio il fatto di essere donne, le portava a fare di più e a farlo meglio, per dimostrare di esistere e di avere una voce che non voleva essere messa a tacere da qualcun altro.

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6 Citazione di Philip Johnson, tratto dall'articolo "Le donne del Bauhaus", di Rossela Marchini, Le donne del Bauhaus - DINAMO press, 31 Marzo 2019 7 Biografia di Zsuzsanna Bánki, Rossler Patrick, "Bauhaus models - a tribut to pioneering women artists", Taschen, ©2019

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Coppia che vince non si cambia Che cos’è AIAP Perchè parlare di AIAP Progetti di AWDA

Il design fatto insieme 3.1 3.2 3.3 3.4

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Il design fatto insieme

Nel corso di questi tre anni qui in Accademia, io e i miei colleghi abbiamo frequentato diversi corsi con diversi professori e professoresse. Ognuno di loro aveva un proprio metodo di insegnamento: quello/a più indulgente, quello/a magari un po’ più severo/a, chi ci ha fatto esprimere di più artisticamente e chi meno. Nonostante abbiano tutti un loro modo di leggere il significato del verbo insegnare, tutti, e dico tutti, hanno un punto in comune, quasi imprescindibile: nel lavoro che spero di poter fare, quello del graphic design, uno dei punti fondamentali che fa di un progetto un buon progetto, è quello di saper fare squadra. Saper collaborare, saper incastrare il proprio tassello con quello degli altri, saper camminare insieme verso l’obiettivo.

È per questo motivo che molte volte ci è stato richiesto di formare dei gruppi per lavorare sui progetti, per poi presentarli il giorno dell’esame.

Non so se sia stato un caso, ma il mio gruppo è sempre stato formato da me

e da altre due ragazze. Con sincerità e senza alcun senso del dovere mi sento di dire che ognuna di noi ha imparato a rispettare le scelte altrui, senza mai calpestarle, anzi valorizzandole. Nel capitolo precedente ho parlato di singole donne che, da sole, hanno raggiunto obiettivi e cariche importanti. Sicuramente, il vissuto di queste donne è stato influenzato dal contesto e dal periodo storico, dato che la Bauhaus è stata inaugurata nel 1919, quindi al concludersi della Prima Guerra Mondiale, per poi subire una profonda crisi economica nel 1929, ed infine è stata calpestata dall’arrivo dei nazisti che nel 1933 ne hanno causato, in modo irreparabile, la chiusura.

Qui, invece, voglio mostrare le collaborazioni che ci sono state e che continuano a esserci tra le donne.

Le donne hanno cominciato a sostenersi, stringendosi in organizzazioni alle quali possono partecipare tutte, comprese le studentesse che magari non hanno molta esperienza nel settore.

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Libro di Toni Amengual, disegnato da Astrid Stavro, fonte toniamengual.com

Coppia che vince non si cambia

Durante la lettura di alcuni libri molto interessanti, mi sono imbattuta in tantissime biografie di donne forti che hanno capito come farsi valere. Ma tra queste me ne sono saltate all’occhio alcune che hanno deciso di intraprendere il loro percorso, e di affrontare le difficoltà che questo comportava, insieme ad altre professioniste.

Il sottotitolo della mia tesi dice: "Non è che venga fatto meno design dalle donne, semplicemente questo non ha la stessa attenzione di quello fatto dagli uomini (1 ". Questa frase, con la quale mi trovo completamente d’accordo anche se oggi altri direbbero il contrario, si trova sulla quarta di copertina di un libro che mi ha consigliato la mia insegnate, intitolato “A new prospective on women graphic designers in Europe”. All’interno del medesimo è indicato il nome di chi ha detto questa frase apparentemente banale: lei è Nina Paim. Ho letto una sua intervista e ho trovato interessante il suo modo di approcciare a un progetto: potrebbe sembrare scontato decide-

re e avere l’abitudine di effettuare una ricerca approfondita, magari andando in biblioteca, prima di approcciare ad un progetto dal punto di vista pratico; un progetto al quale, solo all’inizio gli si conferisce un proprio gusto e un proprio pensiero, ma che alla fine si conclude in modo diverso tenendo conto della percezione del pubblico (2. Tutto questo mi ha fatto incuriosire e allora ho approfondito le ricerche su questa professionista. Paim ha origini brasiliane, ha studiato graphic design all’Esdi in Brasile e alla Gerrit Rietveld Academie nei Paesi Bassi. La sua carriera è ammirevole in quanto i suoi lavori si basano sul coinvolgere i suoi colleghi, sul supporto e sulla collaborazione. Non a caso ha collaborato con un’altra professionista, Corinne Gisel, anche lei citata nello stesso libro. Nel libro non vi è descritta nessuna delle loro numerose collaborazioni, ma le ho scoperte andando ad effettuare ricerche approfondite sull’una e sull’altra. Corinne Gisel oggi è una graphic desi-

gner e scrittrice nella sua città natale, Svizzera. Anche lei, come Nina Paim, si è laureata alla Gerrit Rietveld Academie nei Paesi Bassi. È molto appassionata di tipografia, concentrandosi, durante la progettazione, sulle ascendenti e discendenti, sul kerning e sui glifi. Ma ammette, come ho potuto capire dalle varie ricerche, di essere molto affascinata dalla progettazione dei libri dato che portano a delle collaborazioni aperte e soprattutto a lungo termine. Non a caso nel 2016 ha pubblicato un libro, dal titolo “Taking a line for a walk”, un progetto a cui ha lavorato insieme alla curatrice Nina Paim e all’artista Emilia Bergmark. Ma Paim e Gisel non hanno in comune solo il fatto di essersi laureate presso la stessa accademia o di aver collaborato per la riuscita e il successo di un libro. Nel 2013, insieme hanno ricevuto una nomina per lo Swiss Design Award. Lo Swiss Design Award è un’importantissima occasione se ci si vuole addentrare nel mondo del design svizzero contemporaneo.

Per un’intera settimana tutte le discipline del design si “abbracciano” : grafica, moda e tessile, fotografia, scenografia e molte altre.

Anche lo scorso 2021, le due colleghe hanno partecipato insieme al concorso con il progetto intitolato “Futuress” (3. Le parole fondamentali di questo progetto sono: femminismo, disegno e politica. Futuress viene vista come una piattaforma femminista intersezionale queer sforzandosi di essere una casa per le persone, le storie che sono state sottorappresentate o ignorate totalmente. Considerano il design come una pratica sociale e politica che riesce a modellare la realtà oppure come una lente attraverso la quale guardare il mondo con occhio critico. Il progetto, concepito inizialmente come una serie di mostre e diventato poi uno spazio stabile di unione, generosità e resistenza con uno scopo sociale, è stato lanciato ufficialmente solo recentemente, ovvero nel novembre del 2020 come ibrido tra una rivista online e uno spazio comunitario.

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1 Citazione di Nina Paim, tratta da "Notamuse: A New Perspective on Women Graphic Designers in Europe", Arthur Niggli, ©2019 2 Estratto dell' intervista a Nina Paim - Art Director "Zeit Magazin", Berlin, Germany, tratto da Notamuse: "A New Perspective on Women Graphic Designers in Europe", Arthur Niggli, ©2019; 3 AA.VV, Futuress - dove femminismo, design e politica si scontrano, in "futuress.it"

Ma, ovviamente, di coppie vincenti sul piano professionale ce ne sono tante altre, come per esempio quelle formate da: Carolina Cantante e Catarina Carreiras, che nel 2011 hanno aperto insieme uno studio chiamato “AH-AH” che cerca di intrecciare diversi ambiti tra cui i media, l’identità visiva, la fotografia e l’illustrazione; Maricor e Maricar, due sorelle gemelle che amano l’illustrazione ricamata e il lettering personalizzato,

il cui amore è nato guardando un video musicale animato e da quel momento non hanno più guardato altrove. Ma se le coppie non dovessero essere abbastanza, allora possiamo anche parlare di veri e propri gruppi come quello che prende il nome di Awatsuji Design. Il gruppo è formato da donne ambiziose e con interessi diversi: c’è chi è graphic design e chi invece appassionata di interior design, chi si

immerge più nell’ambito della comunicazione ammettendo di apprezzare anche lavori inerenti al mondo della cucina, e chi infine ha una passione per il design delle confezioni e non nasconde di andare di tanto in tanto nei seminterrati dei negozi per visionare i nuovi prodotti. Visionando il loro sito ho potuto apprendere che si descrivono attraverso una filosofia, ecco piccoli estratti: "…vogliamo accettare tutto ciò

che è necessario; non vogliamo essere consapevoli di ciò in cui siamo brave e specializzate, continuiamo a sfidare qualsiasi cosa,…continueremo a creare buoni design prendendo in giro divertimento, prelibatezza e talvolta anche severità (4 ".Colleghe, unite per il design, diventato il fulcro e il perché della propria vita per lasciare una propria traccia nel mondo, sicure che anche la propria voce sia importante.

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4 AA.VV, Profilo, in "awatsujidesign.com", s.d Le designers di Awatsuji Design, fonte awatsujidesign.com

Che cos’è AIAP

Nel 1945, nell’immediato dopoguerra, la figura del grafico, non era ancora ben delineata e si affacciava nell’ambito lavorativo ancora in modo molto timido. È così che nasce AIAP, con ancora la denominazione di ATAP, Associazione Tecnici e Artisti Pubblicitari, all’interno della FIP, Federazione Italiana Pubblicitaria. Durante i primi dieci anni l’attività dell’associazione era totalmente finalizzata a definire meglio, ma anche a rappresentare una sorta di tutela per una professione che aveva difficoltà nell’emergere.

Ben presto, come ci si aspetterebbe in un gruppo vario e vasto, le diverse professioni dell’ambito del design cominciano a separarsi e a diversificarsi. Ci sono tecnici pubblicitari, grafici, designer e molti altri. Nel 1955, si verifica una scissione, che vede da una parte il gruppo denominato TP (tecnici pubblicitari) e dall’altra il gruppo dell’AIAP (Associazione italiana Artisti Pubblicitari). Di coloro, che originariamente, facevano parte del gruppo che teneva le due parti unite, settanta passarono in AIAP e tra i loro nomi ci furono: Franco Mosca, primo presidente dell’associazione, Carlo Benedetti, Pino Tovaglia e Umberta Barni. Nel 1980, AIAP, dopo che, colui che ne fu anche presidente, Sergio Dabovich, ne progettò il marchio in uso ancora oggi, assunse finalmente un carattere nazionale partecipando alla Prima Biennale Cattolica, in cui venne definito il campo della grafica di pubblica utilità. Andando avanti, nel 1993, l’Associazione si dotò di un nuovo “codice di etica

Cerimonia di premiazione del Premio Giarrettiera Pubblicitaria, fonte aiap.it

deontologica e condotta professionale”, questo per fare in modo che sia i vecchi che i neo soci fossero spinti a lavorare con maggiore responsabilità pensando all’impatto che il proprio lavoro potesse avere sulla società dal punto di vista sociale e soprattutto comunicativo. Questo cambiamento si ebbe anche grazie ad un’iniziativa che vedeva come protagonista un progetto dal nome “Carta del progetto grafico”. Una tesi redatta nel 1989 durante l’assemblea nazionale AIAP di Aosta da un comitato che rappresenta in modo assoluto tutte quelle realtà che fanno parte di questo

settore. Ancora oggi “Carta” è un punto fondamentale per chi fa questo mestiere e per chi intende promuovere con efficacia la professione.

Un anno dopo, sotto la presidenza di Mario Piazza, avvengono ulteriori cambiamenti dal punto di vista strutturale e di denominazione.

Infatti, non si parlerà più di “Associazione Italiana Artisti Pubblicitari”, ma di “Associazione Italiana progettazione per la comunicazione visiva” .

Negli ultimi vent’anni, grazie alla nascita di nuovi progetti e attività, come la rivista “Progetto Grafico” e al blog “SocialDesignZine”, la visibilità e la reputazione di AIAP non ha fatto che crescere e i soci sono diventati sempre più numerosi. In particolare “Progetto Grafico”, fondata da Alberto Lecaldano nel 2003, non è semplicemente una rivista ma è un luogo di riflessione in cui si approfondiscono temi riguardanti il graphic design e l’impatto che questo ha sulla società, grazie anche al contributo che viene dato sia da chi partecipa

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Cena di celebrazione della scissione degli artisti pubblicitari confluiti nell'AIAP da ATAP, fonte aiap.it

internamente per la riuscita del numero e sia da chi invece partecipa dall’esterno. Inoltre, dal 2012, la rivista, oltre che in italiano, viene pubblicata interamente anche in lingua inglese per far in modo che il dibattitto si possa estendere anche in paesi più lontani con maggiore facilità.

Nel 2008, l’Associazione organizza con il titolo “Multiverso” l’Icograda Design Week a cura di Cristina Chiappini (che è stata mia docente all’Accademia di Belle Arti di Roma) e Silvia Sfligiotti nel contesto di Torino World Design Capital. Il nome Icograda si riferisce al Consiglio Internazionale del Design, fondato a Londra nel 1963 e che nel 2013 ha festeggiato il cinquantesimo anniversario. È una rete senza scopo di lucro “basata sui membri di organizzazioni indipendenti e parti interessate che lavorano nell’ambito multidisciplinare della progettazione”.

Esattamente 11 anni fa, nel 2011, AIAP cambiò di nuovo e per l’ultima volta denominazione, diventando “AIAP -

Associazione italiana design della comunicazione visiva”.

Sicuramente, l’attività editoriale svolta nel corso degli anni è stata molto importante per riuscire a divulgare l’importanza della professione del grafico. Ancora oggi con le pubblicazioni di volumi, cataloghi e ulteriori strumenti viene testimoniata l’attività di AIAP che continua ad impegnarsi in progetti sempre nuovi. Infatti, negli ultimi anni l’associazione ha deciso di pubblicare collane di volumi dedicate a periodici come per esempio “AWDA - Aiap Woman in Design Award”.

Atto costitutivo dell'Associazione "AIAP - Associazione Italiana Creativi Comunicazione Visiva" del 1983, fonte Cos’è AIAP - Aiap.it

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Perchè parlare di AIAP

Prima ho parlato di AIAP e dell’impegno dei fondatori e dei soci avvenire per far in modo che il nostro mestiere venisse riconosciuto e apprezzato soprattutto a livello sociale. Ma perché parlare di AIAP, curiosando sul loro sito, al fine della mia tesi? Premettendo che ficcanasare è la prima regola per un designer, indipendentemente dall’ambito in cui quest’ultimo lavora (ma questa piccola e preziosa regola la estenderei anche a tutte le altre professioni), ho pensato che in un’organizzazione così grande non potessero non esserci anche donne.

Fortunatamente non mi sono sbagliata e infatti, come ho potuto apprendere dal sito di AIAP, tra i primissimi soci dell’Associazione ci furono anche delle professioniste. Ma ho voluto capire quale ruolo avessero avuto in merito. Alla fine del precedente sottocapitolo “Che cos’è AIAP” ho citato un’edizione dell’associazione, ovvero “AWDAAiap Woman in Design Award”. Aiap Woman in Design Award è un progetto

interessante che indaga da molti anni alla scoperta dei diversi modi di esprimersi nel campo della grafica. Ma a differenza di un qualsiasi altro progetto il cui lavoro potrebbe essere simile, AWDA, si occupa in particolar modo di scavare un tunnel lungo la storia delle designer attraverso i loro progetti che hanno a che fare con il mondo della comunicazione visiva. Vengono ritenute degne di apprezzamento, non solo le professioniste il cui nome è già noto, ma anche studentesse, ricercatrici e docenti. Non viene dato semplicemente spazio alle donne in quanto tali, ma lo scopo che ci si pone di raggiungere, oltre a quello di assegnare un premio, è quello di rivolgere uno sguardo a grafiche provenienti da varie aree geografiche dato che ognuna, con il proprio lavoro, esplorerà con occhio critico un problema sociale diverso.

Fino ad adesso ci sono state quattro edizione di AWDA. Durante la prima, nel 2012, hanno partecipato esclusivamente designer italiane, arrivando alla

presentazione di duecentotrentasette progetti e di questi ne sono stati scelti trenta per essere pubblicati sul periodico. La seconda edizione, avvenuta nel 2015, vedeva in prima linea professioniste provenienti da tutta Europa e in parte anche dal MENA (Algeria, Armenia, Egitto, Georgia, Marocco…). Nel 2017, c’è stata la terza edizione e anche in questo caso i centottantasei progetti sono stati svolti e presentati da designer provenienti da trentaquattro paesi diversi e giudicati da otto figure importanti, a differenza di quanto accaduto nella seconda edizione, durante la quale la giuria competente ne prevedeva cinque. Durante la quarta edizione, quella del 2019, ci fu una novità, ovvero la partnership ico-D, International Council of Design, che è diventata International Partner dell’edizione 2019, dopo aver riconosciuto un grande valore all’intero progetto.

Il premio AWDA è curato da Cinzia Ferrara, Laura Moretti, Carla Palladino e Daniela Piscitelli. Donne capaci e

indipendenti, che ricoprono ruoli molto importanti. Infatti, Daniela Piscitelli è stata presidente di AIAP e a lei ha succeduto, fino al 2019, Cinzia Ferrara, che tempo prima ha ricoperto la carica di vicepresidente. Cinzia Ferrara è laureata in Architettura ed è dottoressa di ricerca in Disegno Industriale, è una designer e si occupa prevalentemente di comunicazione visiva. Inoltre, ha insegnato in varie scuole: presso la Facoltà di Architettura di Palermo oppure all’Accademia di Belle Arti per il corso di Graphic Design a Catania.

Nel Consiglio direttivo di AIAP c’è anche Carla Palladino. Anche lei è designer, si occupa di comunicazione visiva e nel corso della sua carriera ha spaziato in vari campi come la grafica editoriale progettando le copertine per i libri della casa editrice Mondadori, la consulenza visuale per eventi culturali, il packaging e il branding per aziende private.

Laura Moretti, oltre ad avere, come le sue colleghe, una carriera brillante nel

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campo del design, ha ideato l’intero progetto nel 2009 e ha ricoperto, durante la seconda edizione del premio, insieme a Cinzia Ferrara e ad altre tre persone, un posto all’interno della giuria.

Ma non dobbiamo pensare che la presenza femminile, nel design e in particolare in questi tipi di progetti, si ha avuta solo negli ultimi anni. È vero che era molto comune il fatto di relegare le donne a ruoli secondari o comunque più inclini a conciliarsi con il loro carattere, ma dobbiamo ammettere che alcune con caparbietà e un pizzico di fortuna già ricoprivano cariche importanti, come ad esempio la direzione artistica di un progetto oppure lavorando come freelance come i loro colleghi. Infatti, già negli anni ’60, quando ci fu la scissione tra TP (tecnici pubblicitari) e AIAP (Associazione italiana Artisti Pubblicitari), furono menzionate diverse persone che fecero una scelta tra i due gruppi. Tra queste ci sono anche donne che già allora ricoprivano ruoli di spicco

all’interno dell’associazione, come ad esempio Umberta Barni, Brunetta Moretti Mateldi, Alda Sassi, Anna Maria Traverso e Celeste Visigalli. Queste donne sono le prime cinque socie AIAP considerate le pioniere della professione. Ognuna di loro ha fatto qualcosa, dal punto di vista professionale, che le contraddistingue. Barni partecipò a varie mostre e la qualità dei suoi lavori è stata riconosciuta attraverso vari premi a vari concorsi, tra cui quello per il marchio "Agipgas" nel 1952, dove arrivò terza; Moretti fu illustratrice di numerose riviste femminili e non, si occupò di pubblicità per clienti importanti, come la “Rinascente”, “Calze SiSi”, “Martini” e molto altro, in generale Emilio Radius la ricorda come una professionista capace di utilizzare pochi segni con brio e spirito colpendo gli occhi di chi guarda; Sassi, riuscì a distinguersi interpretando in chiave moderna alcuni tratti del cartellonismo italiano; Traverso, dopo aver sposato Giovanni Acquaviva, aderì al movimento futurista e pubblicò

sul “Manifesto futurista” la lirica “Aeropensieri” e poco dopo il poema “L’Universo dai passi di Gesù al Calvario”, illustrato dalle stampe del marito; infine, Visigalli che nel 1974 ricevette da AIAP il titolo di “Seniores” per la sua fedeltà all’associazione.

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Progetti di AWDA

Nel secondo volume dell’edizione AWDA sono elencati e descritti tutti i progetti che hanno concorso per il primo premio. In particolare, il primo premio è stato conquistato da Astrid Stavro e porta il titolo di “Pain”. “Pain” è un libro e fa riferimento alla grave crisi economica che negli anni scorsi ha colpito la Spagna; la stessa parola “Pain” significa dolore ma fa riferimento anche alla nazione dato che con la sola aggiunta della “S” iniziale, significherebbe appunto Spagna. All’interno si trovano una serie di fotografie stampate a vivo direttamente nel volume.

Tra coloro che hanno avuto menzione d’onore ci sono anche Giulia Cordin e Ginette Caron. La prima ha affrontato un tema ancora molto centrale della società, ovvero l’orientamento sessuale. Lo ha intitola “Handkerchief” e per portarlo a termine ha posto molta attenzione ai contenuti e alla ricerca, utilizzando per la stampa i caratteri che le comunità omosessuali europee e americane erano soliti utilizzare negli

anni ’70. Caron ha invece lavorato sul “Padiglione Santa Sede Expo Milano 2015” e le è stata riconosciuta la capacità di aver saputo unire il piano grafico con quello architettonico, questo per ricordare che uno non può esistere in assenza dell’altro. Sulla parete del padiglione agisce la tipografia che riporta le parole della Bibbia proponendo la dualità visibile/invisibile, tema centrale quando si parla di fede. Con mio grande piacere sono stati selezionati anche lavori di professioniste italiane. La maggior parte sono molto giovani e infatti molti progetti sono tesi, ma penso che questo rappresenti un loro punto di forza. Significa che per ricevere questo merito, anche solo essere menzionate in un libro così importante, tutto questo rappresenta solo l’inizio di una lunga carriera. Sicuramente, uno tra i primi progetti che mi ha colpito è quello di Selenia Di Bella che ha partecipato con il suo “Chi ha il buon vicino, ha il buon mattino”. In un paesino della Sicilia sono

stati rilevati i problemi di un condominio che non facevano altro che mettere i condomini l’uno contro l’altro. È stata così realizzata un’installazione che ha richiesto l’intervento attivo dei residenti costretti ad un’auto-riflessione su sé stessi, sui loro vicini e sui problemi che tanto non riescono a risolvere. Inoltre, dovevano, nel mentre, identificarsi con uno dei personaggi-tipo dei residenti proposti. Ovviamente l’obbiettivo era quello di portare la pace e la tranquillità nel condominio.

A proposito di collaborazione, argomento di cui parlavo prima, ho trovato “Ident-City”, titolo del progetto presentato da ben due designer, Clizia Moradei e Maria Luisa Allegri. In “Ident-City” si ha avuto l’idea di ravvivare la curiosità e l’interesse dei turisti e degli stessi abitanti per una città. Per fare questo le due colleghe hanno pensato alla creazione di pattern applicati a prodotti di arredo urbano e di interni: in questo modo si valorizzerebbe la cittadina e la stessa verrebbe rivissuta una seconda

volta nel momento in cui si fa rientro in casa.

Carlotta Rinaldi ha invece presentato “Design come strumento di liberazione”. La liberazione di cui si parla fa riferimento alle persone detenute e il design viene utilizzato come strumento per permettere il reinserimento della persona in società. Tale processo è caratterizzato da tre libretti sui quali la persona deve raccontarsi e spingersi in riflessioni, questo per farla rendere conto del suo vissuto, di chi è diventata e di come è cambiata.

Leggendo le descrizioni di questi progetti, non solo sono stata colpita positivamente ampliando quelle che sono le mie aspirazioni, che mi sono resa conto possono essere infinite, ma ho capito il significato dell’obbiettivo del premio: c’è davvero un’interazione tra donne diversissime che riescono a toccare, grazie al loro vissuto o semplicemente alla loro sensibilità, come per quelle più giovani, temi socialmente utili, a volte anche divertenti.

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4.0

Il sondaggio 4.1 4.2

I risultati del mio sondaggio

Cipe Pineles

Il sondaggio

Le domande del seguente sondaggio sono state pensate e stilate per avere un quadro d’insieme sulla percezione che si ha della donna come membro della società.

1) Sesso M F Altro

2) Età <20 >20 >40

3) Cosa fai Lavoro Studio

4) Noti o notavi disparità di trattamento tra i colleghi e le colleghe nella tua università/accademia? Si No Altro

5) Credi che nel mondo del lavoro ci siano ancora discriminazioni tra uomini e donne? Si No Altro

6) Credi che le donne facciano più fatica ad affermare la propria professionalità? Si No Altro

7) Se si, credi che la responsabilità sia della vecchia società, in quanto era molto patriarcale? Si No Altro

8) In base alle tue esperienze, credi che si scelga con più facilità il progetto di un uomo rispetto a quello di una donna? Si No Altro

9) Secondo te, è ancora attuale parlare di movimento femminista? Si No Altro

10) A seconda di come hai risposto alla domanda precedente, specifica di seguito il perchè

11) In quale dei seguenti ambiti vedi meglio il ruolo professionale di una donna? Tipografia Insegnamento Progettazione Altro

12) In quale dei seguenti ambiti vedi meglio il ruolo professionale di un uomo? Tipografia Insegnamento Progettazione Altro

13) Pensi che, oggi, avere un figlio rappresenti un ostacolo per una donna? Si No Altro

14) Secondo te, ci sono delle caratteristiche che sono specifiche solo delle donne? (come per esempio la fragilità, la sensibilità, l’empatia, la gentilezza) Si No Altro

15) Credi che le caratteristiche citate prima possano rappresentare uno svantaggio per una donna? Si No Altro

16) Secondo te, oggi, le donne riescono a darsi la giusta importanza credendo in loro stesse e creando gruppi di lavoro, spronandosi a vicenda per raggiungere livelli sempre più alti, o si accontentano del ruolo che hanno nella società? Si No Altro

17) Conosci Cipe Pineles, donna che ha caratterizzato la storia della grafica? Si No Altro

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I risultati del mio sondaggio

Dopo aver effettuato diverse ricerche per capire quale ruolo avesse avuto la donna nel complicato mondo del design in diversi periodi e in diversi ambiti, non sono voluta saltare a conclusioni dettate solo da ciò che avevo letto e di cui avevo paura di essermi convinta solo perché scritto nei libri. Ho così deciso di effettuare un sondaggio per avere quanti più punti di vista differenti sulla percezione che si ha della donna come membro della società, all’interno e fuori il mondo lavorativo, in particolare quello del design. Al seguente sondaggio hanno partecipato ben ottanta persone, che con mia sorpresa, in alcuni casi, hanno risposto anche in modo eloquente alle domande. Tra queste persone ci sono sia grafici che no. Sfortunatamente, anche se io avrei desiderato una divisione più equilibrata, tra i candidati ci sono state più donne che uomini, in particolare sessantaquattro donne e quattordici uomini (due si identificano come “altro”). Di questi,

quarantadue hanno un’età compresa tra i 20 e i 40, mentre trentadue maggiore di 40; senza dimenticare le sei persone che hanno meno di 20 anni, età che ho voluto aggiungere per capire i pensieri e le aspettative di quelli più giovani.

Più della metà delle persone lavora e alla domanda che chiede se avessero notato disparità di trattamento tra uomini e donne in ambito universitario o accademico, la gran parte del gruppo risponde in modo negativo, ma nel momento in cui le domande si fanno più incalzanti sul mondo lavorativo, le impressioni sembrano cambiare. Infatti, facendo una media, almeno il 70% crede che ci siano ancora discriminazioni tra i due sessi sul luogo di lavoro e che le donne debbano affrontare molte più difficoltà per affermare la propria professionalità; altri specificano che dipende dal settore di appartenenza.

Ma più si va avanti a leggere le risposte e più queste diventano discordanti.

Si afferma, come detto prima, che "una donna è costretta ad affrontare molti più ostacoli rispetto a un uomo nel momento e dopo l’assunzione, che la colpa è della società, come spiegato all’interno di una risposta, ancora oggi altamente patriarcale e sessista, che vede i suoi effetti ancora oggi sui più giovani", ma molti credono che non si debba più parlare di movimento femminista e che questo discorso sia ormai troppo lontano da noi. Come si può essere coscienti dei problemi e degli ostacoli che devono affrontare le donne, ancora oggi, nel 2022, sul posto di lavoro, ma contemporaneamente negare l’esigenza di approfondire l’argomento riguardante il movimento femminista? Forse non si ha chiaro in testa il suo significato? Cito di seguito una risposta: "La donna è molto più emancipata rispetto a prima, anzi vuole quasi superare l’uomo…questa competizione non va bene, nega e porta a estinguersi la femminilità, caratteristica essenziale". Spero che questa

risposta, e forse mi sto sbilanciando troppo dato che rispetto al sondaggio dovrei rimanere imparziale, non sia stata data pesando bene le singole parole. La volontà di raggiungere ruoli importanti, qualsiasi sia l’ambito lavorativo, scavalcando per meriti i colleghi, deve essere vista come una forma di arroganza? O addirittura qualcosa che faccia perdere la femminilità ad una donna? È proprio questo che si intende per società patriarcale: una società che vede la donna come una minaccia perché vuole superare con un ruolo un uomo, solo perché ha la volontà di ambire a qualcosa di più nella vita. Perché questa dovrebbe essere una cosa sbagliata?

Sono tante le risposte in cui viene negata la necessità di parlare ancora di femminismo e, sicuramente, i diritti conquistati dalle donne, negli ultimi tempi, sono stati tanti, ma non penso che solo per questo motivo dobbiamo accontentarci e mettere sotto al tappeto i problemi riguardo, ad esempio, l’argo-

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mento dello stipendio, che non sempre è uguale anche a parità di mansioni e responsabilità, o dell’essere assunte solo se di bell’aspetto.

Prendendo spunto dalle mie ricerche, in particolare da ciò che ho scritto nel secondo capitolo, in cui ho spiegato che all’interno della scuola della Bauhaus si tendeva a rilegare la donna a certi ambiti, nei quali potesse trovarsi più a suo agio, date le sue caratteristiche naturali (gentilezza, fragilità, solidarietà…), ho chiesto in quale ambito, se tipografia, insegnamento o progettazione, si vedesse meglio una donna e un uomo.

Purtroppo, non posso sapere se le risposte che ho ottenuto siano dovute ad una maggiore presenza di donne rispetto agli uomini, ma molti dei candidati sono convinti che entrambi i sessi possano affacciarsi a qualsiasi ambito lavorativo, pur rimanendo coscienti che secondo lo stereotipo la donna è più improntata verso la carriera dell’insegnamento, in particolare fino alla scuola superiore di secondo grado,

dato che nelle università ci sarebbe una maggioranza di uomini.

La maggior parte dei candidati crede ancora che una donna possa essere libera di decidere se volere un figlio, ma che quest’ultimo, senza ombra di dubbio, rappresenterà un ostacolo nel momento in cui avrà voglia di affacciarsi al mondo del lavoro. Per questo motivo vorrei avere il piacere di porre un ulteriore domanda a tutti coloro che rispetto al concetto di movimento femminista lo hanno prontamente negato:”

Non è forse, anche questo, il non riuscire a farsi accettare sia come donne che come madri dal proprio datore di lavoro, un motivo o anche solo un pretesto per riaccendere la luce riguardo a ciò che ormai viene considerato obsoleto, ovvero il movimento femminista?”

A questo punto sono curiosa di ciò che avrebbero da dire.

Riguardo a certe caratteristiche, come l’empatia, la solidarietà e la gentilezza, che per tantissimo tempo sono state considerate specifiche delle donne,

sembra che oggi non si abbia più la stessa convinzione, o almeno per le ottanta persone che mi hanno aiutato attraverso il sondaggio, anche se non c’è un’unanimità. In molti casi è stato specificato che esse sono caratterizzanti del genere femminile ma non esclusive; anche gli uomini, infatti, in molti casi hanno queste peculiarità ma è anche vero che tendono a nasconderle a causa della società. Inoltre, una minoranza crede che queste qualità possano essere uno svantaggio per le donne, senza però specificare il perché. A questo proposito cito un’altra delle risposte: “Il problema è, in realtà, alla radice di tutto questo o forse è la radice stessa”.

Tra le ultime domande ho anche chiesto se le donne riescano a darsi la giusta importanza, creando dei gruppi capaci di sostenersi a vicenda. In molti hanno risposto in modo positivo, mentre altri hanno affermato che le donne, in molti casi, si accontentano del ruolo che la società le impone. Un’altra, ma

piccolissima parte ci ha tenuto a sostenere che non serve a nulla spronarsi a vicenda se poi la realtà che ci circonda ci rema contro e, quindi, non è questione di sostenersi o di non farlo. Infine, come ultima domanda ho chiesto se si conoscesse la figura di Cipe Pineles, oggetto di studio per il mio progetto pratico. Pur avendo sottoposto il sondaggio anche a persone che hanno a che fare con il mondo del design, ho potuto constatare che delle ottanta persone solo cinque, conoscono, anche solo superficialmente il suo nome.

In generale posso dire di essere soddisfatta da ciò che ho ottenuto dal sondaggio, soprattutto perché queste s ono state anche, a volte, argomentate.

In alcuni casi non mi sono trovata d’accordo con esse, ma nello stesso tempo mi ha fatto piacere la grande partecipazione.

La confusione che c’è tra le risposte mi fa capire che c’è ancora bisogno di parlare dell’argomento e che le mie ricerche sono assolutamente attuali.

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Cipe Pineles

leggendo, non avrebbero alcun problema a riconoscerle. Sono riviste amate e ammirate, ma forse si è inconsapevoli di cosa si ha tra le mani nel momento in cui le compriamo. Se ciò che leggiamo su questi magazine risulta così fluido, facile da sfogliare e consultare, lo dobbiamo anche a Cipe Pineles. La professionista in questione è stata la prima professionista a diventare art director e la prima a unirsi ai membri dell’ Art Director Club di New York. Ma non viene ricordata solo per aver raggiunto vette importanti, ha infatti contribuito a cambiare, migliorandolo, il layout delle riviste prima citate, grazie al quale si è capito che testo e immagine, sia essa un’illustrazione o una fotografia, non dovevano respingersi ma unirsi e comunicare.

In questo modo il messaggio risultava molto più chiaro e forte.

Ho scelto di approfondire la figura di Cipe Pineles perché è la dimostrazione di ciò che ho cercato di spiegare all’interno della tesi: una donna, vissuta nel 900 (1908-1991), a causa della guerra si è dovuta trasferire in un nuovo paese di cui non conosceva la lingua, ha studiato, ha accettato lavori che non le piacevano, si è sposata con due grandi designer e tutto questo riuscendo a superare ostacoli sempre più grandi e ricevendo riconoscimenti importanti nelle cose che le riuscivano meglio, ovvero tutto quello che comprende il design.

Altre curiosità, sulla vita privata e non di questa professionista, si possono scoprire nell’epub interattivo che ho fatto io stessa, con la speranza che quante più persone possibili possano scoprirla, e magari, perché no, appassionarsi alla materia.

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1950, ritratto di Cipe Pineles, fonte typemag.org

5.0 Conclusione

Conclusione

Il presente studio si è posto l’obbiettivo di provare che, nel 2022, ci sia ancora la necessità, o meglio il bisogno di parlare e di approfondire l’argomento riguardante il “movimento femminista”. Non a caso il primo capitolo della mia tesi si intitola: “Perché parlare di femminismo”. Pur trattandosi di una domanda non ho mirato a cercare delle risposte, consapevole del fatto che l’argomento sia molto ampio e complicato e che questa tesi non sia in grado di riassumerlo tutto in modo esaustivo, ma nel corso dei capitoli ho riportato testimonianze, interviste e articoli in cui sono descritte le esperienze narrate in prima persona dalle professioniste che lavorano nel settore del design. Sono partita facendo parlare le professioniste che stanno cercando di lasciare la loro impronta oggi, in questi ultimi anni del 21° secolo, per avere un quadro generale della situazione del presente; per poi tornare indietro, precisamente nel 1929, anno di inizio della splendida scuola del Bauhaus, in cui

le donne sembravano essere accolte a braccia aperte ma che invece hanno trovato un percorso fatto di ostacoli e spine con le quali le studentesse e le insegnanti hanno dovuto fare i conti; e infine ho analizzato il design pensato e creato in collaborazione, prima in termini privati, ovvero da designers che hanno deciso di iniziare progetti insieme o, addirittura, di aprire uno studio privato diventando socie, e in un secondo momento, in termini molto più ampli, citando l’edizione pubblicata dall’associazione Aiap che prende il titolo di “AWDA – Aiap Woman in Design Award” e che omaggia il design fatto solo da donne, dando ampio spazio anche a studentesse che solo da poco si stanno affacciando a questo mondo. Le donne che ho citato hanno attraversato la storia in tempi diversi ma sono tutte accumunate dal fatto di aver dovuto combattere contro una società che gli ha mai reso le cose facili, contro un modo di pensare, che a quanto pare, nel corso dei secoli non è cambiato

e anzi si è riuscito ad insinuare nella mente delle persone, non solo degli uomini ma anche delle donne che piano piano sembrano essersi accontentate del ruolo che qualcun altro aveva già scelto per loro.

Ma ciò che ho cercato di far capire è che essere una femminista, non significa soltanto poter essere riuscite a diventare indipendenti economicamente, poter andare all’università o scegliere da sole cosa indossare, tutt’altro, significa, rendersi conto che siamo degli individui autosufficienti anche noi, capaci di autodeterminarci e autodefinirci attraverso una lunga analisi di quelli che sono i nostri desideri e passioni, eliminando ogni tipo di pressione esterna che impone alle donne cosa diventare senza tenere conto dei loro desideri. Attraverso i social media si comunicano concetti sbagliati, secondo i quali le donne possono e devono fare ed essere tutto (madri, mogli, donne in carriera, casalinghe, donne in forma). Questo tipo di atteggiamento, come ho

spiegato nel primo capitolo è definito post-femminismo. Dato che non esisterebbe più il cosiddetto femminismo, e quindi tutte, indipendentemente dal territorio in cui siamo nate e dal nostro settore di competenza, avremmo pari opportunità con il mondo maschile, saremmo le colpevoli di noi stesse se non riuscissimo a realizzarci all’interno e fuori il mondo lavorativo. Addirittura, sono le stesse donne che inveiscono contro altre donne, si confrontano continuamente fino a mettersi l’una contro l’altra e a non fare squadra. Tutte cercano di essere più di tutte. Ciò che non si riesce a vedere oggi è che il femminismo punta a diversi fattori e non è per nulla qualcosa di obsoleto o di superato. Prima fra tutti all’individualità, che mira ad accettare tutte le diversità e le sfumature delle stesse; come conseguenza della prima, anche all’inclusività, a dar voce ad ogni singolarità; alla libertà di scelta se si è consapevoli delle risorse che si hanno, ottenendo come risultato l’autocoscien-

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za e l’autodeterminazione; all’assenza di modelli rigidi da seguire, ma solo persone a cui ispirarsi; all’eliminazione di ogni pressione sociale perché non siamo destinate ad un solo e unico destino; al mostrare le emozioni, che possono essere espressi liberamente senza pregiudizi; ed infine alla fluidità che si riferisce alla lotta per la conquista della parità dei diritti di molte soggettività fluide e che risultano essere ancora invisibili agli occhi della società. Riassumendo il femminismo grida: "È vero, tutte possiamo essere quello che vogliamo, ma tenendo conto delle nostre differenze, dei nostri desideri, dei nostri punti di forza e quelli di debolezza, non dobbiamo dimostrare nulla a nessuno, possiamo essere emotive e parlarne con gli altri!"

Per capire meglio il post-femminismo, che come ogni cosa che dilaga sui social, pare essere invisibile, basta capovolgere ciò che ho scritto in queste ultime righe.

Inoltre, ciò di cui ancora non ci si rende

conto è che il femminismo pur essendo molto simile alla parola femmina, non si occupa solo dei diritti delle donne, seppur nato per loro, ma nel tempo è diventato un termine che abbraccia tutte le diversità e che cerca di aiutare tutte quelle minoranze di cui la società non si occupa solo perché tali.

La linea sottile che divide il femminismo dal post-femminismo e la confusione che c’è tra questi due concetti mi è stata riconfermata dalle risposte che ho ottenuto dal sondaggio che ho stilato e che ho sottoposto ad ottanta candidati. In generale è emerso che le donne debbano tener conto dei propri sentimenti e delle proprie emozioni, senza nasconderle e farne i propri punti di forza, e che, inoltre, quegli stessi sentimenti come la dolcezza, l’amore, la compassione fanno parte anche della sfera maschile; che le donne possano fare tutto, ma si riconosce il fatto che secondo lo stereotipo imposto dalla società, sia più adatta all’insegnamento; e infine che una donna possa

avere un figlio che un giorno purtroppo rappresenterà un ostacolo per la sua vita lavorativa. Nonostante le risposte discordanti si è convinti che il femminismo sia un argomento anacronistico e estremista.

Alcune persone sono convinte che il movimento femminista sia legato esclusivamente alle manifestazioni in piazza, e dato che le donne non sono più costrette a farlo, allora, si può accantonare l’argomento. Ma se fosse veramente così, se l’assenza di manifestazioni significasse aver raggiunto finalmente i diritti di cui avremmo dovuto godere da sempre, spiegatemi come sia possibile che un datore o una datrice di lavoro, come il famoso caso di Elisabetta Franchi, possa chiedere a una donna se vorrà un figlio una volta assunta, o il perché debba ricevere un salario più basso rispetto al suo collega, o ancora, perché ci si deve chiedere che cosa mai abbia fatto una donna per arrivare ai vertici di una società, perché semplicemente non si pensa, invece, che è

seduta su quella poltrona perché se lo merita e ha studiato tanto.

A questo proposito io ringrazio tutte le professioniste, nel mio caso, del settore del design, dove mi auguro di poter lavorare, che si stanno dando da fare affinché future designer possano non faticare tanto per ricoprire i ruoli che sognano.

Concluderei ponendo un interrogativo: Siamo sicuri che non sia necessario parlare di femminismo?

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6.0 Ringraziamenti

Ringraziamenti

A questo punto del mio lavoro, dopo aver mostrato le mie ricerche ed aver tirato le somme, sento il bisogno di fare i dovuti ringraziamenti.

Prima fra tutti alla mia relatrice, Tiziana Maria Contino, che mi ha appoggiato subito sul tema che ho scelto di approfondire, mi ha fatto da guida supportandomi attraverso tanti consigli dal punto di vista umano e accademico e a tutti gli altri professori che in questi tre anni non mi hanno mai fatto sentire inferiore rispetto i miei colleghi.

Grazie alle mie colleghe di corso, Motolese Giulietta e Testa Clara, di cui ho sempre apprezzato la schiettezza e la sincerità, pronte a supportarmi e a sopportarmi durante i miei deliri, anche a duecento chilometri di distanza.

Ai miei genitori, che hanno sempre sostenuto ogni mia decisione, soprattutto quella di iniziare questo percorso spingendomi a dare sempre il massimo. Ma li ringrazio in mod particolare per avermi insegnato a non accontentarmi come donna e a non pormi limiti

nella vita.

A mia sorella Ivana che mi ha sempre tirata su di morale durante i miei momenti di sconforto e che ogni tanto veniva a sbirciare i miei lavori al computer dandomi consigli e facendomi superare i momenti di crisi.

Grazie a Francesco capace di starmi accanto in ogni momento, gioendo con me durante le mie piccole vittorie e incoraggiandomi quando invece le cose andavano male. Grazie per avermi fatto capire quando era il momento di staccare.

E infine grazie a tutta la mia famiglia e a tutte le persone che ho incontrato in questi tre anni perché hanno contribuito, insieme agli altri, a forgiare la persona che sono adesso, una persona che si rispecchia anche sui lavori che realizza.

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7.0 Bibliografia Sitografia

Bibliografia Sitografia

Design{h}ers: a celebration of women in design today, Viction Design Workshop, ©2019;

Ferrara Cinzia, AWDA2 - Aiapa woman in design award, AIAP (Milano), ©2018;

Rossler Patrick, Bauhaus modelsa tribut to pioneering women artists, Taschen, ©2019;

Notamuse: A New Perspective on Women Graphic Designers in Europe, Arthur Niggli, ©2019;

luckyassociates.com Treccani.it

La storia della grafica dalle prime tipografie ad oggi – SaGrafica.it

Le innovatrici del Bauhaus. Le donne che hanno fatto l’impresa, by Mario Mancini

Le ragazze del Bauhaus - Casa & Design (repubblica.it)

Le donne del BauhausDINAMO press

Donne al Bauhaus. “Una reale equiparazione dei diritti”?Aula di Lettere (zanichelli.it)

Paim, Nina — PCA (paris.edu)

Paim Gisel (schweizerkulturpreise.ch)

Common Interest | Graphic Days Circa (futuress.org)

PROFILO - AWATSUJI design

aiap-awda.com

Cos’è AIAP - Aiap

Post-femminismo: davvero non abbiamo più bisogno del femminismo? ControNarrazioni

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Non è che venga fatto meno design dalle donne, semplicemente questo non ha la stessa attenzione di quello fatto dagli uomini.

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