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02015 PHOTO ANGELA LO PRIORE
info@itsdifferent.it n.38/ 2015 DIRETTORE RESPONSABILE Paolo Gentili (paologentili@itsdifferent.it) ART DIRECTOR Tobia Donà (tobiadona@itsdifferent.it COMITATO DI REDAZIONE Laura Sciancalepore (laurasciancalepore@itsdifferent.it) Tobia Donà (tobiadonà@itsdifferent.it) Carlo Lanzioni Claudio Notturni Mara Pasti FOTO EDITOR Lucia Pianvoglio Crediti fotografici: l’editore è a disposizione degli aventi diritto
Ravenna via Cavina, 19 tel.0544.684226 - 348.7603456 - 0544.1990044 info@millemedia8.it REALIZZAZIONE GRAFICA Luca Vanzi (lucavanzi@itsdifferent.it) WEB DESIGNER Millemedia8 Ravenna www.millemedia8.it STAMPA Tip. GE:GRAF srl Edizione Emilia Romagna
72°MOSTRA INTERNAZIONALE D’ARTE CINEMATOGRAFICA La Biennale di Venezia 2015
Foto di copertina di Angela Lo Priore dalla mostra Food for Thought
FOTO A.P.
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La storia di quest'isola vi parlerà senza sosta, per bocca di monumenti come l'Asklepion, il centro di cure situato in una splendida posizione panoramica, da cui è possibile godere non solo una meravigliosa vista sulla città e sui monti della vicina Turchia, ma anche rilassarsi all'ombra dei cipressi che punteggiano tutta la collina e che, nelle intenzioni dei costruttori, dovevano avere un valore fortemente terapeutico, insieme al resto della location dedicata al Esculapio, dio della medicina e figlio d'Apollo. Qui è possibile ancora ammirare il cosiddetto platano di Ippocrate, considerato l'albero forse più antico d'Europa. Nel V sec. a.C., subito dopo la morte di Ippocrate, comunemente considerato il padre della medicina, i suoi discepoli utilizzarono il centro per mettere in pratica gli insegnamenti e le terapie apprese dal maestro.
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Basterebbe anche solo la vita di spiaggia e quella notturna a rendere la vacanza irrinunciabile: sulla costa settentrionale troverete acque limpidissime e spiagge di sabbia, con fondali poco profondi e mare tiepido, ed un vento leggero ma costante che sarà vostro fedele compagno. Le spiagge del versante meridionale dell'isola sono meno mosse ma l'acqua è più fresca e i fondali più scuri. Molte spiagge a Kos, come Lambi e Psalidi sono ben organizzate, dagli ombrelloni e lettini alle strutture di ristorazione e di supporto per sport acquatici: sono queste le più frequentate. Se amate la tranquillità ed una solitudine rigenerante, scegliete le spiagge libere. La spiaggia di Therma può dare il giusto sollievo a chi ha problemi reumatici o ginecologici, grazie alle sorgenti di acque termali provenienti da una grotta che arrivano a sgorgare sul mare, anche se ad onor del vero i ciottoli e le pietre non la rendono particolarmente accattivante. Marmari, forte della sua Bandiera Blu, si propone come una delle spiagge più belle ed organizzate, mentre Mastichiari, pur non essendo particolarmente battuta dai turisti offre non solo mare e sabbia da sogno e la possibilità di lanciarsi in varie attività sportive d'acqua molto ben organizzate, ma anche una serie di taverne e locali sulla spiaggia che propongono pesce freschissimo di giornata ed infine un efficiente porticciolo per piccole escursioni in barca. Kardamena sarà la vostra meta privilegiata se vorrete concentrare in un unico posto vita da spiaggia e movida notturna, tra bar, locali e discoteche. Aghios Theologos prende il nome dall'omonima chiesa ed è difficilmente raggiungibile, come la vicina Cava Paradiso, ma entrambe riservano i paesaggi più spettacolari soprattutto al tramonto, quando la maggior parte dei giovani si prepara per girare i locali più trendy nella bar street di Kos oppure nelle innumerevoli discoteche di Kardamena, mentre qui, invece, l'unica musica è il vento, e il tempo diventa eterno.
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Nella recente mostra newyorchése dal titolo History of White, curata da Nicola Davide Angerame, presso la BCS Gallery di Long Island, Luca ha esposto diverse opere di grande formato realizzate a New York. Qui, attraverso il collages, inserisce elementi materici propri della città, usa tessuti, carte, raccolti tra Manhattan e Brooklyn, più alcune immagini provenienti da Strand, la celebre libreria di Union Square. Perché un'artista di fama internazionale come Coser, ritorni sempre in Italia, dove il mondo dell'arte è molto ridotto rispetto ad altri paesi e la strada per chi decide di vivere delle proprie passioni sia molto più in salita che altrove ci incuriosisce molto, tanto, che abbiamo chiesto proprio a lui una risposta ed ecco cosa ci ha detto: “Mi ha fatto dire “torno” il fatto che non sono più un ragazzino, che a casa, mi aspettava una famiglia, che a Roma, mi aspettava un lavoro in Accademia. Ma è stimolante sapere che esiste una via di mezzo, che è quella che frequenterò: lavoro dal 2010 con una galleria di Chelsea e in questi giorni ho chiuso una collaborazione con una nuova galleria che aprirà a settembre nel quartiere più “fresco” e “osservato” per quanto riguarda l'arte contemporanea, il Lower East Side. Quindi se tutto va bene avrò l'occasione di tornare a NY molto più spesso di quanto non abbia fatto in passato. Ormai conosco bene la città e ho molti riferimenti professionali
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e di amicizia”.
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chiuso mercoledĂŹ
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«Ciò che è in natura è funzionale, ciò che è funzionale è bello" disse l'architetto spagnolo Antoni Gaudí. Pertanto, è la funzionalità che rende l'oggetto attraente. E cosa può esserci di più attraente ed invitante di un sorriso sano e naturalmente luminoso? Come avviene in architettura, tuttavia, ottenere un risultato finale perfetto è faticoso! Questo obiettivo si può raggiungere in tre passaggi fondamentali, riassumibili in un'ottima igiene orale, equilibrio nella funzionalità e cura dell'estetica. Le gengive sane sono rosa corallo, e i denti perfettamente puliti risultano lisci e luminosi, per cui l'armonia che si crea tra un tessuto gengivale in salute e i denti si manifesta proprio attraverso il loro colore. Per avere un sorriso sano è assolutamente necessario praticare un'ottima igiene orale e dedicare alla bocca tutto il tempo necessario per pulirla, e con frequenza quotidiana. Un sorriso funzionale prevede l'assenza di carie e la mancanza di patologie non controllate, come la Parodontite. Infine una dentatura completa è in grado di assolvere pienamente alla funzione masticatoria e fonetica. Il fascino, e il potere, di un bel sorriso è universalmente apprezzabile, ma non si può parlare di estetica se prima non si è ripristinata la funzionalità e non si mantiene un'igiene orale frequente e costante. All'interno dell'attuale panorama odontoiatrico, esistono numerose soluzioni estetiche che ben si adattano alle esigenze di ogni singolo paziente, e soprattutto alle sue caratteristiche individuali. È importante precisare fin da subito che la parola "sbiancamento" è un'interpretazione estremizzata dalla parola originale bleaching la cui traduzione più appropriata potrebbe essere "schiarimento". Si tratta di un processo attraverso il quale alcune sostanze chimiche, a determinate concentrazioni, “liberano” il dente dalle componenti cromatiche (macchie, etc.) che su di esso si depositano con l'assunzione di cibi o bevande colorate oppure a causa del fumo. In questo modo, i denti “schiariti” appariranno più luminosi, e naturalmente più chiari.
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Questo è un processo reversibile, cioè non durevole, per cui è opportuno ripetere il trattamento con una periodicità stabilita dal personale sanitario -igienista o odontoiatra- in funzione delle caratteristiche individuali del paziente. È importante sottolineare che l'igienista è una persona laureata ed è quindi essenziale verificarne i titoli. La parola sbiancamento nell'immaginario collettivo allude al mito hollywoodiano, in cui attori e attrici abbagliano lo spettatore con bocche perfette, denti bianchissimi e perfettamente allineati. Pochi sanno che molto spesso questo risultato è ottenuto tramite delle ricostruzioni estetiche chiamate “faccette”. Le faccette sono ricostruzioni della superficie esterna del dente con materiale altamente estetico. Per fare questo è necessario scartare una piccola porzione superficiale del dente naturale, sulla quale apporre la nuova struttura, creata in laboratorio dall'odontotecnico. Mentre lo schiarimento è un processo reversibile, la soluzione appena citata rappresenta un percorso irreversibile, quindi non si può tornare indietro. Le faccette sono la soluzione ottimale per le discromie intrinseche al dente. Esistono, infatti, forme di discromie definite intrinseche per le quali lo schiarimento non sempre si rivela efficace. Un esempio di tali discromie intrinseche è rappresentato dall'assunzione di antibiotici (della categoria delle Tetracicline) durante il processo di formazione del tessuto dentale. Tali farmaci modificano irreversibilmente la pigmentazione del dente, per cui esso risulta di colore grigio e per questi casi potrebbe essere indicato intervenire per mezzo di “faccette estetiche”. Prima di qualsiasi approccio terapeutico, è sempre bene approfondire l'argomento con il proprio dentista e igienista dentale al fine di poter comprendere al meglio le aspettative del paziente per offrire sempre la soluzione più appropriata. L'ideale è scegliere uno studio dentistico che abbia come mission la cura del paziente in senso totale, e in cui ogni possibile innovazione tecnologica e proposta terapeutica parta sempre da una analisi personalizzata ed approfondita di ogni aspetto del problema in oggetto, oltre al massimo comfort nella fruizione del servizio. Non resta che… sorridere! In collaborazione con Clinica Dentale Santa Teresa, Ravenna.
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FOTO DIEGO FINOTTO
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Il tempo corre veloce ed il mondo cambia, ma la metafora del viaggio come ricerca di nuova energia vitale, capace di far camminare quegli individui per migliaia di chilometri, per terre sconosciute e strade impervie, ebbene quel bisogno di esperienza e di condivisione è, ancor oggi, più che mai vivo e indispensabile” (Tobia Donà) Questa citazione pescata dal sito web art a part of cult(ure), è parte della presentazione del progetto THE BODY OF ENERGY (of the mind), dell'artista internazionale Stefano Cagol finanziato dall'azienda energetica tedesca RWE di Essen. Il progetto presentato al Padiglione della Germania alla 56ma Biennale d'Arte di Venezia, consiste in un lungo viaggio durato sei mesi attraverso l'Europa e compiuto dall'artista Stefano Cagol per raccontare “l'energia”. Con tappe presso vari musei ed istituzioni, Cagol ha realizzato di volta in volta conferenze, workshop e performance utilizzando una particolare videocamera capace di evidenziare l'energia data dalla diversità di temperature e di frequenze. L'idea che sta alla base di questa impresa, è che l'energia delle persone, quella che sta dentro la nostra mente e dentro il nostro corpo, ha eguale importanza dell'energia che utilizziamo nelle nostre case, nelle fabbriche e, che entrambe, concorrono alla pari al progresso del mondo. THE BODY OF ENERGY (of the mind), si pone quindi l'obiettivo di mettere in relazione l'energia culturale dell'invenzione e della creatività con quella elettrica, mettendo in evidenza come esse assumano gli stessi colori, invisibili all'occhio umano, ma registrabili da particolari strumenti tecnologici. Interpretare il presente, carpirne i bisogni utilizzandone i media, inventarne infine il linguaggio più appropriato, il più semplice possibile, è caratteristica peculiare di chi consideriamo “più avanti” e questo suo essere “più avanti” ha permesso a Stefano Cagol, (che già aveva partecipato alla scorsa edizione della Biennale di Venezia con il suo imponente Ice Monolith), di aggiudicarsi il bando indetto dalla RWE, selezionato tra oltre cento candidature. Al centro di tutto, l'idea di divulgare il messaggio che l'energia che ci occorre per affrontare il futuro è tanto speciale che solo la mente umana ne può disporre. Le sedi scelte sono le più autorevoli d'Europa. Solo per citare quelle in Italia ricordo il Museo MAXXI di Roma, il MAGA di Gallarate, il Museo Madre di Napoli, il Museion di Bolzano, la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia. Anche la Città di Ravenna ha avuto un ruolo nel progetto, per via di una serie di videoconferenze tenute dall'artista Stefano Cagol e curate dall'architetto Tobia Donà, che abbracciando completamente l'idea, lo ha seguito nelle varie tappe del progetto, da scuole e università italiane e dove un pubblico di studenti e docenti ha potuto dialogare con l'artista. Gli incontri divenuti poi docu-film, come pagine strappate da un diario, raccontano frammenti del viaggio e delle precedenti opere dell'artista, un viaggio nel viaggio, che attraverso “l'energia” dell'etere, ha permesso a Cagol di giungere in pochi secondi da Kirkenes (Norvegia) a Ravenna. Nella nostra città, si sono svolti ben due di questi incontri, uno al Liceo Artistico Nervi-Severini e uno presso l'Istituto Olivetti-Callegari, mentre l'artista Stefano Cagol si trovava rispettivamente al Circolo Polare Artico e al Museo MAXXI di Roma. La registrazione video delle conferenze è visibile al sito www.artapartofculture.net o al sito ufficiale del progetto www.thebodyofenergy.com. Questo che Stefano Cagol ha definito “un progetto nel progetto” è presente nel catalogo ufficiale edito da Revolver Publishing di Berlino. Le conferenze e i video che ne sono stati tratti, raccontano di questo pellegrinaggio compiuto da Cagol, “una storia realmente accaduta”, un viaggio trasformatosi in un'esperienza non solo individuale, ma da poter condividere, alla ricerca di rinnovamento e di maggior consapevolezza nei confronti delle nostre potenzialità e della nostra energia.
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L'intero corto ruota intorno all'idea che niente è mai come sembra. Questa massima è suggerita a Marta, all'inizio del film, dal cliente del bar che racconta la storia di una sua conoscente ignara del pericolo in cui si trovava quando non era in grado di 'leggere' gli strani comportamenti del serpente lasciatole dall'ex marito. Ovviamente non vi riveliamo il finale per non rovinarvi la sorpresa… Il corto, una produzione low-budget è ben girato, bella è anche la fotografia, ed ha il suo punto forte nella sceneggiatura. Il film applica alla perfezione la regola della suspense hitchcockiana: quando lo spettatore è informato del vero pericolo che incombe sull'ignaro protagonista, la tensione sale ai massimi livelli per tutta la durata del film, in questa storia notturna d'incomprensioni e paura. I due livelli della narrazione funzionano benissimo, grazie ad una regia sapiente e a un montaggio ben articolato, e un cast assolutamente d'eccelenza, capace di rendere credibili e naturali tutti i personaggi. Il risultato è una storia avvincente e abbastanza anomala nel panorama dei corti italiani, che raramente si cimenta nei film di genere e, ancor meno nei thriller. Il Serpente è il primo cortometraggio diretto dal napoletano Nicola Prosatore, sceneggiato da Carlo Salsa con Prosatore, e prodotto da Briciola.tv, società di produzione con base a Roma che realizza pubblicità e contenuti per la televisione e il web con particolare attenzione ai più recenti linguaggi (branded-content). Vincitore di premi e nelle selezioni di molti festival del circuito Italiano e internazionale, il corto si avvale di un cast importante, tra cui Cesare Bocci (il Mimì Augello di Montalbano) e Francesco di Leva, nominato al David di Donatello per “Una vita tranquilla”, Giovanni Ludeno e Antonia Truppo, attrice teatrale che lavora anche per il cinema e la TV (La Squadra). La colonna sonora è stata realizzata dalla band romana Thegiornalisti, la scenografia è invece di un ravennate, Gaspare De Pascali.
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Il Mekong, in periodo di piena cambia direzione e riversa le sue acque nel Tonlé Sap. In periodo di acque basse, nella stagione secca che è proprio quella in cui sono io, si comporta invece come un fiume qualunque e accetta di riversare le sue acque nel mare. Lungo le strade tanti ragazzi, ragazzi e ragazze, corrono a due o a tre in motorino. Da dove escono? Dove se ne vanno? L'impressione è quella di una città dolce, una città borotalco. La vegetazione esce dai cortili delle case, chiusi da muri alti. Qua e là prati all'inglese ben tenuti e perfettamente quadrati che dividono un blocco da un altro, belle case coloniali restaurate, sede soprattutto della banche dell'Asia, brutte case coloniali lasciate andare, brutte case tout court, ma non c'è sporco anche se c'è polvere, non c'è sporco appiccicato voglio dire, pochi insetti, i gechi sul muro di questo bar da dove scrivo. Dall'alto della terrazza guardo giù. Gente che si agita, che va e che viene. Gente che ride e parla fitto. Commercianti cinesi, pescatori vietnamiti, buddisti, qualche musulmano, malesi o cham, rari gli occidentali. Stamattina alle sei abbiamo fatto colazione dalla terrazza sul tetto del nostro albergo: la città è già perfettamente sveglia, funzionante e operosa. Sulla riva del Tonlé Sap centinaia di persone fanno ginnastica, una sorta di aerobica orientalizzata al ritmo di una musica da discoteca ibizenca. Tre o quattro istruttori - accreditati o selvaggi? - effettuano dei movimenti di danza sulla spalletta che divide il lungofiume dal fiume. Non guardano gli allievi. Guardano l'acqua. La gente dietro di loro, ne ripete coscienziosamente i gesti. Al mercato, ieri al mercato-moschea situato a nord della città, non lontano dal fiume, oggi al mercato russo, pesci vivi, granchi blu, spiedini di pipistrello, montagne di cavallette fritte, e frutta e verdure, tanta frutta e tante verdure sconosciute. Loro, i venditori, sorridono con estrema dolcezza. In questo popolo che neanche venticinque anni fa si è massacrato con l'energia delle formiche operaie, non sembra albergare nessuna aggressività, nessun odio, nessuna pretesa. Nel pomeriggio lasciamo la capitale per Kompong Cham, da cui prenderemo un battello che risalirà il fiume. D'ora in poi e per molti giorni il Mekong diventerà il fiume. Un furgoncino affittato ci aspetta puntuale alle tre di fronte all'albergo. La strada asfaltata recentemente corre verso nord tenendo il fiume sulla sinistra. Il paesaggio diventa pian piano sempre più agrario. I villaggi si susseguono contraddistinti dai tetti a punta delle pagode che sporgono dai palmeti e dai giardini che le circondano. Le case sono tutte in bambù su palafitte alte parecchi metri per resistere alla piena del fiume durante la stagione delle piogge. Sul fiume qualche piroga da pesca. Kompong Cham (l'imbarcadero dei Cham) è un grosso borgo di pescatori a metà strada tra Phnom Penh e Kratié, capoluogo della più grossa provincia della Cambogia.
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Dormiamo, unici ospiti, in un assurdo albergo stile realismo socialista. L'architetto deve probabilmente aver effettuato i suoi studi a Mosca, mi dico. Spazi enormi, corridoi che sono saloni da ballo, un ingresso che potrebbe ospitare un esercito. Prima di dormire ci dirigiamo all'imbarcadero da cui l'indomani prenderemo il battello. Da un paio d'anni il fiume è attraversato da un ponte di cemento che collega la cittadina a un'immensa foresta di heveas su cui pare sia stato girato il film "Indocina". Anche di notte, lungo il fiume si continua a far commercio di arance, tamarindi e banane alla luce delle lampade a gas. Molte persone dormono allungate su stuoie leggermente scostate da terra da strutture di legno molto semplici. Dormono al buio ognuno con la propria radio accesa a tutto volume. Il concetto di silenzio è loro totalmente estraneo. Il mattino dopo, attorno al battello vi è grande agitazione. Uomini e donne che si trascinano dietro pacchi e borse e fagotti scendono con difficoltà la riva che porta a livello del fiume e salgono sulla stretta passerella da cui si accede alla barca. I nostri zaini vengono legati sul tetto. Scelgo di fare come gli zaini e mi accomodo anch'io sul tetto, per godermi l'aria e la vista del fiume. All'interno della cabina sparano aria condizionata a manetta e video indiani a tutto volume. Il battello corre veloce sulle acque verdastre del fiume. Man mano che si sale verso nord i villaggi si fanno sempre più rari e appaiono qua e là isole che non sono altro che banchi di sabbia. Non è il Mekong che porta al colonnello Kurtz e per certi versi ne sono delusa. Il colore predominante è il beige della sabbia e non il verde della vegetazione tropicale. A Kratié attracchiamo verso le undici della mattina. Di colpo mi rendo conto che il sole brucia. Dicono che il battello farà una sosta di un'ora e mezzo o due. Impossibile sapere a che ora ripartirà esattamente. Calcolo al ribasso un'ora e mezza e risalgo la riva che porta alla cittadina. Camminare è un sollievo dopo le quattro ore accovacciati sul tetto. Kratié è una piccola cittadina coloniale addormentata. Il mercato è al centro della cittadina in una piazza di pianta quadrata. Non c'è frenesia, mi sembra, piuttosto una grande calma. Ci sediamo a mangiare un poco di riso fritto con verdure in un ristorante senza porte né pareti che costituisce uno degli angoli della piazza quadrata. Quando ripartiamo, la navigazione si fa sempre più tortuosa e difficile. Bisogna seguire le colonnine di pietra a forma di piccoli santuari che sporgono dall'acqua e che indicano il buon percorso.
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E’ pericoloso stare sul tetto perché ci sono le rapide ma io dentro non ci voglio andare e mi attacco saldamente ai vicini. Che, come c'è da immaginarsi, ridono contenti. A poco a poco ci inoltriamo nella foresta vergine, ora così simile a quanto immaginavo, da risultare persino caricaturale. Le rapide sono vigorose, ma appena più in là l'acqua è calma e mandrie di bufali d'acqua si bagnano sulla riva. Qualche uccello colorato si posa sui ciuffi d'erba che resistono alla forza del fiume. Ma via via che avanziamo la sensazione è quella del diradarsi della vita, umana e animale, per far posto al rigoglio di quella vegetale che non lascia spazio a nient'altro. Arriviamo a Steung Treng verso le 16 e 30. Non è più il Mekong quello su cui navighiamo, ma il Sé Sen, uno dei suoi affluenti. Un tempo la frontiera col Laos coincideva con questo villaggio. Ora si è spostata a circa quaranta chilometri più a nord. Siamo incerti se restare o continuare. Manca appena più di un'ora al calare della notte che scende puntuale alle 18, e pare che ad una certa ora del pomeriggio le guardie frontaliere se ne vadano e chiudano la frontiera. Cosa c'è più avanti non lo sa nessuno, mentre qui siamo sicuri che c'è da dormire e da mangiare. Ci consigliano di restare. Il giorno dopo, per percorrere le ultime decine di chilometri del fiume cambogiano, in direzione con la frontiera del Laos, siamo obbligati a prendere quello che qui chiamano piroga rapida. Si tratta di una piroga strettissima e lunga dalla chiglia piatta che pesca appena qualche centimetro e con un motore cinese potentissimo e raffazzonato. Il pilota sta seduto a poppa e da manetta al motore. Noi ci stringiamo davanti a lui, le ginocchia praticamente in bocca, caschi da motociclista in testa e giubbotti salvagente arancione. In questo tratto di fiume c'è solo acqua a perdita d'occhio, rocce e alberi le cui radici sporgono per alcuni metri dall'acqua assumendo forme eccentriche e contorte che indicano perfettamente il fluire della corrente. Più avanziamo verso nord, più iniziano a disegnarsi delle colline dolci coperte di vegetazione, e per questo semplice fatto, il paesaggio muta radicalmente. La piroga corre sulle rapide, effettua slalom arditi tra rocce e banchi di sabbia, io non sono tranquilla e mi stringo al mio vicino. Dietro l'ennesima ansa, il fiume si stringe di colpo, le rive si fanno altissime, e la piroga accosta sulla sinistra: Voeun Kham, la frontiera. Per molto tempo un passaggio vietato, poi da un anno, più che aperto, tollerato. Una frontiera in mezzo al nulla, un non posto, un'assurdità che sembra separare due terre di nessuno. Dopo aver presentato i documenti e aver contrattato in dollari il passaggio con i doganieri, ci addentriamo in quest'altra parte del fiume, in cui sembra fin da subito che vi sia ancora più indolenza e lentezza. Da casa, l'Indocina mi appariva una piatta marea di facce dagli occhi a mandorla e dal naso schiacciato. I laotiani, invece, sono diversi dai cambogiani come uno svedese lo è da un calabrese: volti più affilati, nasi più piccoli, zigomi più alti, la carnagione leggermente più scura. Le donne sono bellissime e altere. A una quindicina di chilometri a nord della frontiera, il Mekong si riversa nelle impressionanti cascate di Khon Phapheng. Subito a monte si espande come un lago, per una trentina di chilometri e dalle sue acque bassissime sporgono isole e isolotti. Aggiriamo le cascate via terra su un tuk tuk decorato di blu, in direzione dell'isola di Khong che raggiungiamo traghettando il fiume su una piroga. Il Sala Hotel è una guesthouse di legno che si affaccia sul fiume, circondata da un bel giardino rigoglioso. La camera è grande, e grandi sono i letti protetti da ampie zanzariere bianche.
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Sul pavimento di legno saltellano delle graziose ranocchie di fiume. La terrazza, disseminata di poltrone e tavolini in bambù, è protetta da enormi gechi blu e grigi che svolgono egregiamente il loro compito di divoratori di insetti. Attorno all'imbarcadero due o tre altre guesthouses, di cui una in costruzione, testimoniano del futuro turistico dell'isola. Per il momento l'atmosfera è quella di una pace totale, assoluta e assolata. In bicicletta attraversiamo l'isola sul lato corto. Sono le due. Il sole picchia, ma sono appena otto chilometri di strada. Qualche risaia a destra e a sinistra della strada. Alcune capanne da cui escono correndo frotte di bambini che fanno ciao con la mano. Al ritorno imbocchiamo il sentiero di sabbia che segue la costa stretto tra il fiume e le capanne che si affacciano sulle sue rive. Manca un'ora al calar del sole e vi è un'attività frenetica di lavacri. Le donne si lavano vestite col sarong stretto sopra il seno. I bambini giocano nudi sull'acqua. Tra le capanne alcune pagode colorate, una scuola deserta. Al nostro passaggio i bambini salutano in una lingua che risuona fin da subito come cantilena e si tuffano da ponti e passerelle, scivolano tra le assi sconnesse e rotolano lungo le rive scoscese che portano all'acqua. Sono piccolissimi, di due, tre anni appena. Soli, avanzano nell'acqua marrone. Maiali neri, al guinzaglio e non, ci attraversano la strada. E poi galline, tacchini, cani. La notte scende di colpo a qualche chilometro dal paese. Imparo due parole: "sabadì", arrivederci, buongiorno, ciao, e "upciài lalài", che vuol dire grazie mille. Con un volo interno confortevole raggiungiamo Vientiane, che ha l'aria desolata e desolante di una stazione balneare fuori stagione una domenica pomeriggio, e in seguito arriviamo a Louang Prabang non è altro che una stretta striscia di terra in mezzo all'acqua di due fiumi: l'inevitabile Mekong e il Nuam Khan, un suo affluente. Oltre il fiume, le montagne. Al centro della penisola una collina abbastanza alta da dominare il paesaggio su cui si erge una pagoda rossa e oro. Usciamo dalla città in bicicletta. Sono alla ricerca di uno zaino nuovo. Le cinghie del mio zaino sono state strappate nel trasporto aereo e in vista della camminata che ci aspetta devo assolutamente trovarne uno nuovo. Un tedesco che vive da tanti anni in città mi rivela che la frontiera che abbiamo intenzione di oltrepassare a piedi per raggiungere il Vietnam è sigillata ermeticamente agli occidentali. Insisto. Magari pagando i doganieri, propongo. Dice che è pericoloso. I laotiani si fanno corrompere, mi dice, ma i vietnamiti non vi faranno passare mai. E' la frontiera dei trafficanti d'oppio, aggiunge. Non hanno nessuna intenzione che degli occidentali ficchino il naso da quelle parti. Prima di salutare mi raccomanda di non tentarci nemmeno…"Eviterete sofferenze”, dice… Ne parlo con la mia vicina, una laotiana che vive in California, di ritorno in città per visitare la famiglia.
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Siamo entrambe distese a pancia in giù in una capanna su palafitte e ci facciamo massaggiare. Farsi massaggiare è una delle attività più diffuse in questo paese. Ci si fa massaggiare per rilassarsi, per stimolare i muscoli, per curare le malattie, ci si fa massaggiare da vecchie donne magre dai muscoli d'acciaio e dalle dita forti come gli artigli di un aquila, da ragazzi delicati come fanciulle, da giovani donne assenti. Dove c'è scritto karaoke si praticano massaggi erotici. La mia vicina laotiana dice che lei non sapeva nemmeno che ci fosse una frontiera a Dien Bien Phu, ma per non deludermi dice che possiamo tentare e che passeremo lo stesso. Strano paese questo in cui la dolcezza è mista alla menzogna e la realtà è un effetto d'annuncio. Nel raggiungere gli amici, la sera, mi fermo a riposare nel cortile di un tempio. E' l'ora del canto. La solita nenia avvolgente… Ritroviamo il fiume. Non il Mekong ma il Nuam Oou, l'ennesimo affluente. Sdraiata sul fondo della barca in legno, sotto una tettoia di lamiera, scrivo queste note. E' mattina, fa freddo, e un leggero strato di nebbia ci accompagna. Non seguiamo i consigli del tedesco e decidiamo unanimi di tentare il passaggio. Dei pali di bambù piantati fitti lungo la riva con drappi rossi e gialli che si agitano appena. Un dejà vu. Poco prima di raggiungere Kurtz, nel film di Coppola, gli stessi pali e gli stessi drappi si allineano lungo le rive sabbiose del fiume. Nel film sono presagio di pericolo. Questi qui, quelli veri, sono un enigma. Che ci fanno? Cosa significano? Nessun essere umano nel raggio di qualche chilometro. Alberi, infiniti alberi, coprono le rive. Liane che pendono. Bambù che galleggiano. Incrociamo una barca come la nostra che scende. Le due barche accostano. I capitani si parlano. I passeggeri dell'una e dell'altra si squadrano. Noi, nell'allontanarci, facciamo ciao con la mano. Loro, i lao, sorridono senza muovere un dito. Ho l'impressione di insinuarmi in qualcosa di profondo, di penetrare qualcosa che ad ogni chilometro perde intellegibilità. Attracchiamo a Mouang Khouam, l'ultimo villaggio raggiungibile via acqua. Posto su un'ansa del fiume all'incrocio con un altro affluente minore, il villaggio è leggermente sopraelevato sul fianco della montagna. Una passerella volante unisce le due rive. Non ci sono strade da queste parti, ma piste e sentieri. Ci aspettiamo di dormire in condizioni primarie e invece al centro del villaggio vi è una guesthouse in muratura, arredata lussuosamente. Segno di una scommessa su un futuro sviluppo turistico della zona o hotel di lusso per trafficanti d'oppio in attesa del doganiere compiacente? Nel frattempo, in cinque decidiamo di partire due giorni in montagna, mentre un altro decide che andrà in frontiera e se non sarà di ritorno tra due giorni, significherà che passare si può e dunque ci organizzeremo per raggiungerlo là. Un ragazzo del paese propone di farci da guida in montagna. Saremo di ritorno tra due giorni. In un inglese approssimativo ci avverte che si sale molto, dice. Otto, nove ore di marcia. Ce la faremo? Non è bello camminare in queste montagne. Non esistono radure, panoramiche, non si cammina mai in spazi aperti, ma sempre in mezzo ad erbe alte, che soffocano ogni visuale. Dopo alcune ore di salita si perde il senso della direzione e dello spazio. La salita è monotona e claustrofobica. Solo caldo, fatica, e un silenzio totale e assoluto. La mattina abbiamo attraversato un paio di villaggi adagiati nei pressi di qualche ruscello che guadiamo malamente. Villaggi bombardati accanitamente durante quella che ingiustamente viene chiamata guerra del Vietnam, se si pensa che il paese più bombardato della storia è stato proprio l'ufficialmente neutrale Laos.
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Non è stato amore a prima vista quello tra me e Hanoi. E' stata una lenta conquista frutto di un intenso corteggiamento. Attraversare la strada qui è una questione d'incoscienza, coraggio e fiducia nel genere umano: si deve scendere dal marciapiede e attraversare la strada a occhi chiusi e a passo costante. Guai a fare uno scarto, guai un'esitazione. Le migliaia di motociclette, biciclette e risciò che scorrono come un fiume lungo le sue strade sanno perfettamente evitare il passante a patto che costui mantenga un'andatura costante. I marciapiedi accolgono le motociclette, cinesi per lo più, che si sistemano su di essi a rastrelliera. Tra una moto e l'altra donne accovacciate sui talloni cucinano, bollono, friggono. Famiglie intere accovacciate mangiano o, più semplicemente, chiacchierano. Qua e là donne giovani e vecchie trasportano a bilanciere ceste di arance o banane, o ceste di forbici e coltelli, o ceste coperte da drappi. Difficile indovinare cosa contengono. Le case di Hanoi sono tutte bellissime. Splendide quelle della città vecchia. Imponenti e coloniali quelle degli antichi quartieri francesi. In questa città, grazie a Dio, il razionalismo in architettura non è mai arrivato. Le case sono quanto di più splendidamente irrazionale io abbia mai visto in vita. Altissime, strette e colorate quelle della città vecchia interrotte da terrazzi, terrazzini, bowwindow, rientranze, balconi, sporgenze, balaustre, colonne, rampicanti, e ancora, vetro, legno, ceramica, ghisa, ferro battuto, pietra, tutti i colori e i materiali possibili che si mescolano in un bailamme di forme geometriche indecise tra rotondità ed angoli acuti. Una città concepita da migliaia di architetti improvvisati indotti a costruire in altezza forse per evadere i dazi calcolati in base alla larghezza delle facciate e forse per risparmiare sui prezzi del terreno edificabile, data la quasi totale assenza di costi di manodopera. Ad Hanoi, a poche ore dall'arrivo, decido di restare. Ho voglia di scoprirla piano. E pian piano sento che la città si mostra a me. Mi perdo nel dedalo di strade della città vecchia che fanno pensare alla Firenze comunale, caratterizzate come sono per corporazioni: la strada della seta invasa dagli occidentali, e quelle meno frequentate dei farmacisti tarassici, dei lavoratori della latta, dei pigmenti colorati, dei lavoratori della ceramica, degli orologiai, delle occhialerie, degli uccelli, dei pesci tropicali. Le strade dei parrucchieri che massaggiano per ore il cuoio cappelluto del cliente, le strade dei barbieri che fanno anche pedicure, manicure ed estraggono il cerume dalle orecchie col vecchio metodo della candela. Le strade degli hacker che piratano tutto quanto il mondo dell'informatica sia mai riuscito a produrre e per pochi dollari vendono copie di CD, DVD e software vario. I mercati hanno poco spazio ad Hanoi. La città vecchia è in realtà immenso mercato. Schiacciati tra una stradina e l'altra le bancarelle del pesce, della carne, delle spezie, della frutta e delle verdure. Donne e bambini carichi di borse di plastica si aggirano tentando di vendere al turista accendini con l'effigie di Ben Laden o Saddam Hussein - "Good men! Good men!" - o magliette con il ritratto di Ho chi Minh. La vita di Hanoi è nel traffico, nei traffici, su cui si concentrano le energie dei milioni di giovani che ci vivono. I vecchi sono pochi. Se ne incontra qualcuno sul lungolago, in vestito tradizionale nero, capelli bianchi corti, lunga barba bianca a punta, occhialetti neri circolari. . La sera ceniamo dalla sorella di una ragazza del nostro gruppo, ad Hanoi da quasi un anno. Lavora come medico in un ospedale privato. “Molti pazienti occidentali?” le chiedo. Lei ride e mi dice che ne arrivano molti che si sono fatti morsicare dalle pantegane che si nascondono dietro i water delle toilette dei ristoranti della città vecchia. La gente si siede, mi dice, e le pantegane impaurite mordono polpacci e caviglie. Per il resto qualche caso di dengue, e molte febbri e amebiasi. Complessivamente, conclude, Hanoi è una città abbastanza salubre. Hanoi è appena oltre il cancello del giardino, ma a starsene a tavola tra francesi, in una bella casa arredata con gusto, a spalmare formaggio di capra su croccanti baguette sembra irreale. L'ultimo giorno ad Hanoi, nelle ore che precedono la partenza, sono frenetica. Ho l'impressione che la città mi sfugga e mi si sciolga tra le dita. Scopro angoli nuovi a poche decine di metri dalla guesthouse. Perché non ci ho fatto caso prima? Sono frustrata, non voglio partire. Dai grandi amori è difficile separarsi senza stati d'animo.
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Come cambia in estate il rapporto tra occhi e le lenti di correzione o di protezione solare? Quali consigli fornisci ai tuoi clienti? “Proteggersi dal sole è importante per la vista quanto per il corpo. Per questa ragione, è bene utilizzare sempre occhiali da sole con filtri solari a massima protezione UV e, per le ametropie, lenti oftalmiche con colorazione adatta al difetto visivo riscontrato, oppure lenti fotocromatiche ”. Come si riesce a realizzare una buona performance estetica, mantenendo alta l'attenzione per la salute degli occhi? “Ottica Regard commercializza unicamente prodotti di nicchia di prima scelta, che riescono a conciliare l'utilizzo dei migliori filtri solari con i modelli più eleganti e di tendenza. Il problema viene così automaticamente risolto.” Durante la stagione estiva, è corretto parlare di una differente gestione degli occhiali o delle lenti a contatto (mare, caldo, sudore, creme solari, etc.) rispetto agli altri periodi dell'anno? “Questo è vero soprattutto per quanto riguarda le lenti a contatto: il portatore abituale di lenti mensili, o annuali, è opportuno che utilizzi in estate lenti giornaliere, e questo per ragioni igieniche. Nel periodo estivo, infatti, non sempre si riesce a mantenere tutta l'attenzione ed i prodotti necessari ad una corretta conservazione ed utilizzo delle lenti a contatto, quindi le usa- e- getta rappresentano la migliore soluzione.” Cosa segnala la moda- ed eventualmente la tecnologia - per gli occhiali da sole dell'estate 2015? Su quali modelli si sta concentrando l'attenzione dei tuoi clienti? “La stagione alle porte propone, in primis, le lenti transition signature 7 color verde grafite: si tratta di lenti fotocromatiche giovani, in un inedito colore adatto alle nuove mode e ad ogni età, pensato originariamente per i piloti della marina americana e oggi disponibile grazie alla tecnologia CROMATIC COLOUR ADAPTATION, concedendo una percezione del contrasto ottimizzata. Quanto alle montature da sole, le forme rotonde sono sicuramente le più proposte dalla moda di quest'anno, mentre le colorazioni risultano più sobrie rispetto all'estate 2014.” D'estate il centro storico si anima di turisti, e il tuo negozio è situato proprio su uno dei loro percorsi abituali. Ti capita di lavorare con loro? Quale tipo di approccio all'ottico hanno gli stranieri? “Ravenna è anche uno scalo per crociere, quindi la città si anima spesso di gente proveniente da ogni dove. Nel nostro caso, in particolare, si riscontra un sensibile aumento di lavoro, perché l'alto artigianato italiano rimane fra i più apprezzati in tutto il mondo, e noi trattiamo esclusivamente prodotti Made in Italy e fatti a mano. Il turista, infatti, preferisce acquistare prodotti di nicchia italiani piuttosto che ripiegare sui classici brand, in quanto sono reperibili anche nei loro paesi.” La scelta di un paio di occhiali fa capo ad una serie di priorità, che vanno dal prezzo al design: in ogni caso, mai dimenticare la qualità, che resta il punto di riferimento irrinunciabile per chiunque ami le scelte di benessere.
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di Tobia Donà “Igor è stato prima di tutto, per me e mio padre, un grande amico che ci ha ispirato attraverso la sua arte e il suo spirito, a comprendere fino in fondo il concetto di bellezza”. Con queste parole Cristian Contini, figlio di Stefano Contini, uno dei più importanti galleristi d'arte del mondo, ha ricordato l'artista Igor Mitoraj, in occasione della mostra Traces of Time, un'esposizione personale dedicata al grande scultore polacco, scomparso lo scorso sei ottobre a Parigi. Si tratta della mostra che ha inaugurato la galleria Contini Art UK, al numero105 di New Bond Street, accanto alle gallerie e case d'asta Bonhams e Christies' Mayfair, nel cuore di Londra. Un'inaugurazione sensazionale alla quale hanno partecipato numerosi personaggi del jet set internazionale e che si è conclusa con una festa nella straordinaria location del Victoria and Albert Museum. I suoi maestosi volti, i busti, di Ikaro, Ikaria, Eros e Osiride, frammenti archeologici di opere mai esistite, collocati in spazi pubblici e privati a Parigi, come a Londra, Roma e New York l'hanno reso uno degli scultori più conosciuti a livello internazionale.
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La sua opera mai ha inteso bloccare lo sguardo sul passato, ma sempre intenta ad animarne il futuro, poiché il tempo e la storia sono consequenzialità imprescindibili per giungere a un presente, che sia migliore per civiltà e consapevolezza. Igor ha rappresentato nelle grandi sculture, senza occhi, bendate, o trafitte da aperture che altro non sono che portali temporali che si aprono alla storia, quella memoria che porta l'umanità a tendere alla perfezione: un “ideale”, che non raggiungerà mai il presente. Forse come Icaro… continueremo a cadere a terra. Mitoraj, ha recentemente lasciato questa vita terrena, diventando egli stesso mito, entrando a far parte della storia dell'arte come le opere che l'hanno preceduto. Ma il suo messaggio è oggi più che mai attuale, in un mondo che lui temeva, in cui sono evidenti i segnali di una volontà rivolta a cancellare il passato. Alla domanda cosa la spaventa di più lui stesso rispose: “La stupidità degli uomini, l'ignoranza, il fondamentalismo”. E ancora, affermava: “Bisogna sempre riflettere che il nostro futuro deriva dal passato: le leggi, la democrazia, l'arte e l'architettura. Spesso la gente sembra dimenticarlo”. Mitoraj ha espresso dunque la circolarità del tempo, dove ogni cosa è frutto dell'evoluzione del passato. Allievo di Tadeusz Kantor, scenografo e regista, tra i maggiori teorici del teatro del Novecento, Igor Mitoraj rappresenta egli stesso un ponte, tra il presente e il passato dell'umanità, come la sua scultura, frammento e scheggia, finestra sulla storia, simbolo di modernità e di estetica contemporanea.
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Egli, come nessuno prima di lui, ha raccontato l'arte classica facendo emergere un'ideale di bellezza che significa anche integrità morale, dove l'uomo è molto più vicino alla spiritualità dell'eroe mitico. “Noi viviamo la disgrazia di non riconoscerci più nella perfezione di un'arte irripetibile, - disse - risalente a un'epoca in cui gli uomini sembravano assai più vicini agli dei di quanto non lo siano oggi. Ciò che sopravvive è archeologia, i resti di un mondo che è mito e che forse non è mai esistito così come oggi lo immaginiamo”. A Venezia a pochi passi da Piazza San Marco, al numero 2288 di Calle Larga XXII Marzo la mostra “Omaggio a Igor Mitoraj” è l'occasione per vivere in prima persona l'emozione della sua opera. Fino al trenta novembre. Nelle immagini del fotografo Luigi Nifosì, l'esposizione del 2011 alla Valle dei Templi di Agrigento.
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“Ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia…” diceva Marcello a Orazio nell'Amleto di Shakespeare: sicuramente, ve ne sono nel cielo, da quando il volo è alla portata dell'uomo, grazie ad uno degli sport più affascinanti e più seguiti al livello mondiale, il Paracadutismo Sportivo. A scoprirlo meglio ci aiuta Emanuele Pini - titolare del Pull Out RavennaScuola di Paracadutismo Sportivo Internazionale, per il quale lo skydiving è divenuto una vera e propria ragione di vita. Grazie alla sua dedizione, oggi presso Aeroporto di Ravenna troviamo una bellissima Oasi di Paracadutismo, dove ha sede SKYDIVE PULL OUT RAVENNA una delle migliori Scuole in Italia, per quanto riguarda questa disciplina sportiva. Cos'è esattamente il paracadutismo sportivo? È il controllo del corpo umano nel flusso d'aria, che la padronanza di varie tecniche consente durante la caduta libera, e l'utilizzo del paracadute per gli atterraggi, effettuando lanci da oltre 4000 mt. Scoprire quanto possa essere affascinante praticare questo sport, o solo assaggiare la sua bellezza, è impagabile! Qual è il primo approccio? Può essere il Lancio in Tandem ovvero il lancio con istruttore esperto che porta il passeggero in volo in piena sicurezza e in caduta libera, per poi planare con il paracadute aperto fino all'atterraggio soffice nella zona dedicata.
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E questa è sicuramente un'esperienza impareggiabile per provare l'ebbrezza dell'aria e le sensazioni del volo! Questo lancio è oggi sempre di più un servizio molto ricercato per vivere o regalare esperienze indimenticabili Lo possono provare tutti, anche chi ha paura o soffre di vertigini, perché non senti di cadere, ma ti senti di volare! Quali sono gli step per diventare paracadutista? Per chi sogna di volare da solo, la scuola organizza il Corso AFF (corso accelerato di caduta libera), appositamente studiato e sicuro, che permette di apprendere la tecnica di volo in caduta libera e l'atterraggio con il proprio paracadute in soli 7 lanci, dando la possibilità a tutti di diventare paracadutisti e praticare questo meraviglioso sport in tutta sicurezza e al massimo del divertimento. Cosa si può dire proprio a proposito della Sicurezza? Al contrario di quello che si pensa in Italia, ma solo per colpa della cattiva informazione, il Paracadutismo è uno degli sport più sicuri, più amati e più seguiti al livello mondiale! Grazie alle attrezzature idonee al lancio, studiate appositamente per garantire estrema sicurezza, questo sport può essere praticato in tranquillità da tutti e con i moderni sistemi di sicurezza obbligatori su tutti i paracadute, dà ulteriore garanzia. Purtroppo quei rari incidenti che possono capitare - ma non dovrebbero- sono sempre legati ad un errore umano. Tutti i nostri Corsi svolti da Istruttori Esperti insegnano massima disciplina, attenzione e responsabilità. Perché questo sport ti permette di realizzare il sogno di volare, ma richiede rispetto, dedizione, umiltà e tanta responsabilità! E giusto per darvi un'idea, nel nostro piccolo effettuiamo circa 18.000 lanci all'anno, di cui 2500 lanci in tandem, ma ci sono oltre 1300 Scuole al mondo, con un'attività molto più intense della nostra. E come nasce Skydive Pull Out Ravenna? Nasce dalla folle idea di dedicare la mia vita al paracadutismo -dice Emanuele Pini, che ha costruito con le proprie mani una struttura meravigliosa presso Aeroporto di Ravenna, dando la possibilità agli appassionati di avere non solo un posto dove saltare ma di trovarsi in un piccolo paradiso sportivo, unico nel mondo, dove la bellezza, la comodità e tanti servizi permettono di vivere l'esperienza al massimo. Ho venduto la mia azienda per realizzare questo sogno, investendo tutto ciò che avevo- dice Lele – e mi è costato un'infinità di sacrifici, difficoltà, ma non mi sono mai arreso. Ho realizzato diversi Campionati Italiani e Mondiali di varie discipline di paracadutismo, riunendo i miglior campioni di tutto il mondo, ho partecipato a varie Manifestazioni effettuando lanci durante la corsa della Moto GP al circuito di Misano, lanciandosi a Cinecittà per la trasmissione CIAO DARWIN, e ancora, il lancio del millennio, ripreso in diretta dalle telecamere RAI, il lancio allo Stadio dei Marmi a Roma effettuando la flaire tra gli edifici del CONI. E tutto questo in virtù di una passione che univa la gente e conquistava migliaia di appassionati. Quindi, tante soddisfazioni? Beh, quella più importante è quella umana, che mi ha permesso di far conoscere questo sport a tantissimi italiani, regalandogli una passione, una possibilità di conoscere se stessi attraverso uno sport che dà emozioni a chi sogna, facendo volare anche le persone paraplegiche, le persone con sclerosi multipla o non udenti, i giovani e i grandi senza limiti di età. Progetti? Quest'anno tanti! Oltre alla nostra solita attività di ogni fine weekend, in cui svolgiamo i Lanci in tandem, i Corsi e Coaching per i studenti e paracadutisti, il 5-7 Giugno abbiamo organizzato la Prima Edizione del Festival Pull Out Ravenna, unendo 3 affascinanti discipline di paracadutismo –Relative Work, Free Fly e Tute Alari-, invitando esperti di fama mondiale. Il 24-25-26 Luglio invece ospiteremo i Campionati Italiani di Canopy Piloting, una delle più affascinanti discipline di paracadutismo. In agosto, invece, oltre a restare aperti tutti i giorni, ospiteremmo i World Team: esperti paracadutisti che salteranno insieme in 24, realizzando varie figure in caduta libera, per un altro spettacolo da non farsi mancare. Mi piacerebbe far conoscere questo mondo ancora a tanti, perché ne vale la pena e chissà forse vi piacerà…È un invito caloroso per tutti! – conclude con entusiasmo Emanuele Pini. Pull Out Ravenna è quindi in grado di offrire un'esperienza irripetibile ed emozioni per chiunque abbia voglia di avvicinarsi a questo bellissimo sport, sorvolando le coste del mare Adriatico, sopra le location più famose del Nord Est Italia. E l'invito di Lele è tutto da raccogliere!
di Tobia Donà Nuovo direttore dell'Accademia di Belle Arti di Bologna, Enrico Fornaroli nato a Milano, ha trovato a Bologna il terreno fertile dove far crescere le proprie passioni e la propria professionalità. I tuoi trascorsi di studente sono legati a Bologna. Com'erano quegli anni? In questa città sono venuto a studiare nei primi anni ottanta al DAMS, quando questa scuola rappresentava una sorta di faro in Italia per gli studi che vi erano svolti e per l'originalità con la quale mescolava comunicazione, arte spettacolo, e quindi il cinema, il teatro, la musica. Un momento storico importante per la città... Certo. Agli occhi degli studenti che volevano intraprendere questo tipo di studi, il DAMS aveva un fascino di novità interdisciplinare, dove ognuno poteva costruirsi un corso che prevedesse, gli studi storico artistici e al tempo stesso permettesse di approfondire tutti i temi della comunicazione o della semiotica, discipline che in quegli anni erano un po' al centro del dibattito culturale. Trasferirmi a Bologna ha significato anche la possibilità di entrare in contatto con un fermento culturale che, dalla seconda metà degli anni settanta e per gran parte degli anni ottanta, stava caratterizzando fortemente la città, avendo la possibilità di sperimentare tutta una serie di temi che mi erano cari e che, se da un lato erano al centro dei miei studi, dall'altro potevo respirarne completamente l'essenza quotidianamente. Per chi intendeva come me, occuparsi di fumetto, d'illustrazione per l'infanzia, Bologna incarnava il clima ideale. Penso ad autori come Andrea Pazienza, o alla libreria Giannino Stoppani, insomma anni che concentravano in città un intenso lavoro sul fumetto. Ricordo la scuola dello Zio Feininger, con passaggi di Pazienza, di Igort, di Mattotti. Si aveva veramente la sensazione di essere in un crocevia dove poter sperimentare quel clima e viverlo in prima persona. A quel punto indirizzai i miei studi verso la letteratura per l'infanzia e grazie all'apporto di Antonio Faeti, si aprirono percorsi di ricerca che mi portarono a lavorare nell'ambito della pedagogia e della didattica dell'arte. Fu l'inizio della mia attività di docenza che ho sempre svolto parallelamente al lavoro di ricerca scientifica e professionale nell'ambito dell'editoria.
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E' stato il desiderio di riportare a Bologna, per quanto possibile, quel clima di avanguardia e di sperimentazione che ti ha spinto ad istituire il corso di studi di fumetto all'Accademia di Belle Arti? Quando nel 2000, si cominciò a discutere con Faeti e con l'allora direttore Mazzali, ma anche con altri docenti come Silvio Evangelisti, la possibilità, in virtù della nuova riforma, di poter aprire all'Accademia nuovi percorsi di studi, si comprese insieme che la tradizione che lega il fumetto a Bologna doveva in qualche modo essere perseguita e portata avanti, anche a fronte di una serie di competenze professionali, maturate e cresciute in anni di lavoro. Penso all'associazione Hamelin, alla fiera del libro per ragazzi, persone che rappresentavano un'importante risorsa per innestare questo percorso di studi all'Accademia. Un'esperienza oramai storica che all'inizio degli anni duemila decidemmo di portare avanti riscontrando un immediato successo d'iscritti e che, nell'arco di due o tre anni prese forma in un triennio di studi e due percorsi biennali specialistici, che sono fonte di soddisfazione anche per il numero di domande d'iscrizione che ogni anno riceviamo. Questo è uno dei progetti che ti hanno impegnato in questi undici anni, ma non è il solo… Dopo aver insegnato in diverse accademie italiane, questo è stato un po' l'inizio della mia collaborazione con l'Accademia di Bologna e questo progetto, in modo particolare, mi ha permesso di rimanere come docente. Sono stati questi gli anni in cui si è varata la nuova offerta formativa con l'apertura dei corsi di design e di quelli legati alla progettazione, come il corso di fashion design. Trovammo necessario istituire un corso di fotografia, e consolidare la comunicazione e la didattica dell'arte. Tutto questo ha coinciso con un mio coinvolgimento sempre maggiore, prima come coordinatore di corso poi in veste di direttore del dipartimento che concentrava molti dei nuovi corsi. Da pochi mesi sei diventato Direttore di questa Accademia con un grandissimo consenso. Quali sono state le emozioni ma anche i dubbi ai quali sei andato incontro accettando l'incarico? Le emozioni sono state tante. La prima legata al fatto che intorno a me c'erano tante persone che avevano voglia di lavorare insieme e questo è molto importante, poiché si traduce in un grande valore da trasferire agli studenti. Il lavoro di gruppo, la coesione tra colleghi è indispensabile per una migliore gestione dei corsi e dei programmi. Il fatto poi di essere stato eletto con un'ampia maggioranza di voti è per me motivo di grande orgoglio ma anche la presa di coscienza di un importante impegno da affrontare quotidianamente, poiché questi voti rappresentano l'investimento da parte dei miei colleghi per un futuro di crescita per l'Accademia e che si deve rendere concreto nel miglioramento di quello che già facciamo, con la prospettiva di ciò che potremmo fare ancor di più. L'obiettivo principale, il più importante? L'obiettivo più importante di una scuola è preparare i ragazzi alla vita professionale, credo profondamente che tale formazione non possa prescindere dal dialogo col mondo del lavoro. Ecco perché ritengo fondamentale il rapporto con l'esterno per creare relazioni e collaborazioni capaci di portare all'interno dell'Accademia quei contenuti in grado di rispondere alle richieste professionali che i nostri studenti incontreranno al termine del loro percorso di studi. Intercettare i reali bisogni di formazione, equivale a dimostrare quanto le nostre capacità di formazione, d'insegnamento, rappresentino effettivamente delle risorse spendibili dagli studenti nel modo del lavoro. Credo che siano finiti i tempi della celebrazione. Essere in sintonia con il tempo che stiamo vivendo, è il requisito fondamentale.
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Il rapporto con la tavola coinvolge tutti i nostri sensi e attraversa molteplici dimensioni culturali, sociali, gastronomiche. Ciascuna di queste componenti ha catturato negli ultimi anni la viva attenzione degli addetti ai lavori, com'è naturale, ma la vera sorpresa è l'interesse della gente comune verso un argomento cui prima veniva tributato un interesse distratto e comunque limitato quasi esclusivamente alla nutrizione per la sopravvivenza. Il benessere, se non la salute vera e propria, si identifica ormai con la qualità e varietà dei cibi che portiamo in tavola e su eventuali scelte, anche di ordine culturale, che operiamo in merito alla loro provenienza geografica, alle modalità della lavorazione e, infine, alla loro natura. L'esplosione veggy degli ultimi tempi, come la massiccia presenza di prodotti gluten free sul mercato, segnalano un importante fenomeno di promozione sociale verso scelte che una volta venivano considerate di nicchia, se non proprio obbligate da intolleranze alimentari o altre esigenze mediche. La dieta vegana, in particolare, promuove una trasformazione culturale vera e propria, proponendo oltre a cibi che non contemplino la presenza di carne, latte e derivati, uova una decisa conversione al biologico e ad alimenti non lavorati.
In quest'ottica vengono utilizzati prodotti sorprendenti, come l'aceto di mele, l'olio spremuto a freddo, il sale marino (poco) e la salsa di soia, oltre a tutta una serie di spezie che aiutano ad insaporire le vivande; per il versante dolce oltre allo zucchero di canna grezzo e al malto, si utilizza lo sciroppo d'acero, di tradizione anglo-sassone, oppure il succo d'agave. Sempre grazie ai vegani, e in generale a tutti coloro attenti alle caratteristiche di ciò che ci nutre, è apparso sulle nostre tavole il grano che porta il nome commerciale di kamut: si tratta di una varietà mai incrociata o ibridata, coltivata ancor oggi in Khorasan, una regione dell'Iran. Il grano saraceno, giunto a noi nel Medioevo dal Mar Nero e probabilmente originario dell'Himalaya, è particolarmente ricco di sali minerali, come zinco e selenio, mentre i semi di quinoa costituiscono una delle new entries più apprezzate perché appartenenti ad un cereale privo di glutine. Combinando questi ingredienti sulla base di sapienze gastronomiche nostrane e integrandole ai suggerimenti delle cucine etniche, che contribuiscono creativamente alla differenziazione di preparazioni e sapori, si ottengono ricette gustose e altamente salutari, tanto da non essere riservate solo ai menù di ristoranti e take away ma anche ad una dieta quotidiana e fatta in casa. L'estrattore di succo è uno di quegli oggetti del desiderio che sta sostituendo sempre più il banale frullatore, reo di riscaldare, e quindi rovinare, le vitamine contenute nella frutta e nella verdura, mentre sono palesi i vantaggi di un'estrazione a freddo e le infinite possibilità di riutilizzare gli scarti dell'operazione per salse, torte e molto altro ancora. Il piacere del prendersi cura in prima persona della propria salute fa sorvolare sui costi di tali macchinari, non proprio accessibili, e qui, purtroppo, avviene una delle tante discriminazioni che vede contrapposti chi ha capacità economiche tali da supportare il consumo di cibi e food processors, spesso molto costosi, a coloro che hanno un bassissimo potere di spesa e si orientano su prodotti low cost. Una terza via potrebbe essere costituita dalla selezione di prodotti a chilometro zero o il ricorso a gruppi d'acquisto, che comunque presuppongono una buona conoscenza dell'argomento e delle sue possibili declinazioni. Tra foodbloggers , magazine d'informazione specializzata on line , come Il Fatto Alimentare, siti dedicati al mangiare sano e dintorni e programmi tv, ormai è possibile per tutti accedere a qualunque tipo d'informazione riguardo i pro e i contro della attuale filiera alimentare, dagli allevamenti intensivi alla pesca a strascico, dall'olio di palma al settore del biologico, e se non ci si lascia scoraggiare, o infatuare, dalle bufale che perennemente circolano a riguardo, si scoprono tante cose interessanti su quanto ogni giorno acquistiamo e mangiamo, finendo inevitabilmente per modificare le nostre abitudini in merito. Una maggior autoconsapevolezza in questo senso è perfino in grado di orientare il mercato e di promuovere una serie di politiche sostenibili che coinvolgono l'intero sistema produttivo. Si può intuire quali siano le ricadute positive di tutto ciò, dalla salute pubblica all'economia nazionale, come il tema dell'Expo di Milano dimostra: a ciascuno di noi la possibilità e la responsabilità di cambiare il mondo, a partire dalla tavola.