SI FA PRESTO A DIRE MADRE

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9. Anna che ha scordato, ma non dimentica

«Perdonami», le disse non appena lei sollevò la cornetta. «Per che cosa?» La voce di sua figlia era irrigidita da aspettative poco piacevoli. «Per qualunque cosa tu creda abbia fatto» (J. Berliner)

E poi la mamma torna a prenderti e raggiungiamo i tuoi fratelli a scuola, e andiamo di corsa a casa, aspettiamo che arrivi papà, intanto infilo la biancheria in lavatrice, correggo i compiti dei miei studenti mentre metto su il sugo, diamo da mangiare al gatto che anche lui ha fame, chiamiamo la nonna, prenoto la torta per il tuo compleanno che è domani, come è passato in fretta il tempo, metto l’umido fuori, martedì lo vengono a ritirare, il secco no, quello lo ritirano il giovedì, mercoledì poi c’è il saggio, devo ricordarmi che il più grande ha la partita sabato e la tuta non è ancora lavata e stirata, bisogna poi comperare le scarpe nuove che in quelle vecchie non ci sta più. Devo anche passare in lavanderia, pagare il carrozziere, prenotare il dentista e farmi venire in mente dove ho messo la multa che ho preso la scorsa settimana, dove avrò la testa non si sa, pagarla entro quindici giorni altrimenti raddoppia. Poi ognuno di voi mi racconta cosa ha fatto a scuola, arriva papà e tu gli corri incontro, lui ti fa volare in alto verso il soffitto, e via tutti in cameretta a giocare mentre la mamma finisce di preparare la cena e poi mangiamo tutti insieme, facciamo il bagnetto, il papà vi 107


mette il pigiama e la mamma vi racconta una favola mentre voi vi addormentate come angioletti. Doveva andare così. Invece. Invece piove, è la fine di maggio e Anna, che di solito ripete questo mantra a Martina, la figlia più piccola, per farla stare buona, questa volta non ha bisogno di farlo. La bimba, seduta in auto sul seggiolino di dietro, si è addormentata. Non ha neanche due anni e, come tutti quelli che non hanno ancora due anni, alle otto del mattino fa i capricci per vestirsi, fa i capricci per alzarsi, fa i capricci perché non vuole stare seduta sul seggiolino dell’auto. Allora la mamma ripete la nenia delle rassicurazioni per calmarla. Invece quella mattina la bambina si addormenta sul seggiolino. Piove. Anna, tra i trenta e quarant’anni, una laurea, un marito, tre figli, sale in macchina e guida per le strade bagnate. Dalla sua casa, una villetta con i fiori alle finestre e un bel giardino, al liceo dove insegna ci sono sette chilometri. Sarebbero nove, perché Anna dovrebbe deviare un po’ per portare Martina, come ogni mattina, dalla baby-sitter. Dovrebbe. Invece guida diritta verso il liceo. Anna per sette chilometri pensa al fatto che è in ritardo e che il tempo non basta mai. Pensa che deve fare in fretta, deve mostrasi puntuale e precisa, anche perché è appena tornata al lavoro dalla maternità, la terza maternità. E questo nessuno te lo perdona. Pensa a cosa si prova ad arrivare a scuola sempre un minuto dopo l’orario perché hai accompagnato tre figli e pensa che sarà per sempre una dei ritardatari, dei male organizzati. Pensa al figlio più grande che non sta mai fermo, a quello di mezzo che è troppo magro e forse avrebbe bisogno di fare un po’ di sport. E pensa anche a Martina, che è lì in auto, e che domani compirà due anni. Pensa alla festa di compleanno da preparare, alla torta da ordinare, alle mamme degli altri bimbi da chiamare, al fatto che piove e chissà se il giorno dopo ci sarà il sole e si potrà festeggiare in giardino, pensa alla nonna che non vuol venire se non la si va a prendere, all’altra 108


nonna che non sta bene. E poi pensa a quel ragazzino a scuola che le ha messo la gomma da masticare fra i capelli e a tutta la classe che rideva mentre lei non capiva ed era solo stanca e sudava e sudava e parlava dell’atomo e a nessuno pareva importare. E a quell’altro studente, un po’ grosso e impacciato, che non parla mai, ma le ha scritto un messaggio di scuse con la sua ortografia incerta e lo ha lasciato sul cofano della macchina. E poi ripete la lista delle spesa, pensa alle rate del mutuo da pagare, al tubo dell’acqua che perde in garage. Ma soprattutto pensa al fatto che è in ritardo, che il rosso del semaforo dura un’eternità, che corre il rischio dell’ennesimo richiamo, dell’ennesima occhiata severa del preside, che non si chiama neanche più preside e se fosse precisa si ricorderebbe il nome giusto. Quando Anna arriva a scuola non ha ancora smesso di piovere, spegne il motore, scende dall’auto, afferra la borsa, non cerca neppure l’ombrello, che sarà da qualche parte, ma non sa dove, prende i libri e se li mette sopra la testa e corre sotto l’acqua verso l’entrata, chiude l’auto da lontano con la chiusura automatica mentre si infila dentro la scuola, con i libri, lo strumento del suo lavoro, che grondano acqua da tutti gli angoli, sgualciti come la sua autostima, inzuppata nel senso di colpa e di inadeguatezza. E Martina? Martina è in macchina, sul seggiolino del sedile posteriore, dorme. A qualche chilometro di distanza una signora, la baby-sitter di Martina, guarda fuori dalla finestra, inizia a preoccuparsi. Passano i minuti, passa un’ora, ne passano due. La baby-sitter esce di casa, guarda verso la strada per controllare se stiano arrivando. Niente. Allora prende il telefono, compone il numero di casa di Anna che squilla a vuoto, cerca il numero del cellulare nella rubrica, ci mette un po’ perché deve trovare gli occhiali, finalmente li trova, li indossa, apre la rubrica, compone il numero, ma il telefonino di Anna ha la suoneria abbassata. 109


Ha un brutto presentimento, la baby-sitter, e allora chiama nuovamente a casa di Anna e, questa volta, prima di riattaccare lascia un messaggio in segreteria. «Come mai non mi avete portato la bimba?» Passano le ore. Durante l’intervallo alcuni studenti si fermano davanti all’auto, vedono la bambina, che si è svegliata, sembra tranquilla, seduta sul suo seggiolino saluta con la manina. Loro, incuriositi, le fanno “ciao” con la mano, picchiettano con le dita sul vetro, lei continua a guardarli tranquilla, poi squilla la campanella, i ragazzi tornano in classe. Trascorrono minuti, ore, inizia a fare sempre più caldo in auto, anche se ha piovuto tutta la mattina, l’aria è poca e soffocante. Forse Martina piange, grida, picchia le manine sui finestrini. Ma nessuno la nota più, nessuno riesce a salvarla. La bimba patisce la mancanza d’aria, il sole che sembra uscito apposta dopo ore di pioggia senza sosta, niente acqua, niente cibo. A un certo punto, a casa arriva il marito di Anna che trova il messaggio in segreteria e inizia ad agitarsi. Telefona a scuola, chiede alla segretaria se può cercare sua moglie, la segretaria va in sala insegnanti dove trova Anna mentre prepara la prossima lezione. «Come mai non hai portato la piccola alla baby-sitter?» «Oddio». Vola dalle scale la mamma di Martina, corre all’auto, il respiro strozzato in gola, il sudore freddo lungo la schiena, il terrore di trovare la figlia in lacrime, il senso di colpa, la speranza, l’angoscia. Ma Martina è una bambola di pezza. Non respira più. Abbandonata sul seggiolino del sedile posteriore è pallida, come di cera. Anna apre l’auto, cerca di rianimare la sua piccola, le fa aria, l’accarezza, chiama il 118, arrivano gli insegnanti, i ragazzi, arrivano il marito e i carabinieri. Lei, la testa improvvisamente vuota da tutti quei pensieri, da tutte quelle liste di cose, da fare, fatte, da rifare, ripete a tutti, come un automa, i gesti automatici di una mattinata qualsiasi: è arri110


vata a scuola, si è fermata in presidenza, è stata mandata a coprire alcune ore di lezione, poi in laboratorio, ancora lezioni e formule. «L’ho dimenticata in auto – ripete ossessivamente –, l’ho dimenticata in auto». Lei e il marito sono conosciuti in paese, una famiglia modello, frequentano la parrocchia, si sente ripetere nelle cronache locali, come se la frequentazione di Dio li ponesse al riparo da una serie di coincidenze irreparabili. Anna, il marito e la bambina corrono in ospedale, ma i medici stringono le labbra, scuotono la testa. La bambina è disidratata, il battito cardiaco debolissimo, la pressione assente. Martina, che il giorno dopo avrebbe compiuto due anni, muore. Per giorni, settimane intere, i dettagli di cosa può aver pensato, provato, immaginato Anna hanno affollato la mente di centinaia di mamme che hanno scritto nei forum, nei blog specializzati, nei siti Internet. La storia di Anna è diventata la storia di tutte. Un’ondata di pietà, di dolore, di comprensione, di commozione si è levata online. Nei byte si è riversata molta amarezza, spesso indignazione, qualche volta condanna. Moltissime donne, ma anche qualche uomo, hanno scritto per giorni e notti intere, di quello che era accaduto. «Lo so – scrive una mamma al sito Panorama.com – che una bimba che muore prima del suo compleanno, perché dimenticata in auto dalla mamma, suscita un tale dolore e un senso di assurdità, che viene quasi naturale sfogare contro la madre, colpevole del fatto, il nostro sdegno. Ma io vi chiedo: chi siamo noi per giudicare?» Molti confessano di aver sfiorato lo stesso dramma: «Una mattina – ammette una donna al forum alFemminile.com – sono entrata nel parcheggio dell’azienda dove lavoravo e mi sono accorta che il piccolo era ancora seduto sul suo seggiolino. (…) avevo saltato la tappa dalla balia. Senza spegnere il motore ho 111


girato l’auto e sono uscita. (…) Quello che ti salva non è la bravura ma il destino». «Avrei potuto essere io! – scrive una mamma in un blog – A me è capitato di arrivare al lavoro e di aver fatto le cose talmente di corsa da arrivare a pensare: ma il piccolo l’ho lasciato all’asilo? Ah, sì, mi ha anche salutato... o era ieri? E via a chiamare l’asilo perché mi monta la paranoia». «Ho 28 anni, una figlia di 29 mesi e uno di 6 e mezzo», dice Stefania sempre al forum alFemminile.com. «Fino a qualche mese fa non l’avrei pensata così e mi sarei indignata. Ora capisco». «Sono un uomo ma quella mamma potrei essere io», scrive un lettore sul blog Barbablog della giornalista Daria Bignardi, al quale su questo tema sono arrivati più di cento messaggi. C’è chi invece rivede la scena dal punto di vista della figlia. «Quando ero piccola – scrive S. –, è capitato anche a me di essere dimenticata all’asilo dai miei genitori (…) Alla fine mi portò a casa la maestra e io non volevo più andare all’asilo». «Questa storia della bimba dimenticata in macchina mi torna in mente troppo spesso», scrive una donna. «Sono mamma da soli 8 mesi, sono tornata per forza al lavoro quando N. ne aveva 4 e ogni giorno metto post-it ovunque per ricordarmi dei vari pezzetti di vita che dovranno comporre le nostre giornate». C’è anche chi non vuole saperne. «Ma stiamo scherzando? – scrive un padre –. Ok alle mamme tutto fare (…) ma qui stiamo parlando di figli! Mia madre non si sarebbe mai dimenticata nemmeno di venirmi a prendere da scuola! Io non accetto tutto questo, è impensabile che una donna si dimentichi il proprio bambino in auto e nel frattempo vada a lavorare. Quella è una donna e basta, appunto, non una mamma». Sempre dal Barbablog, sempre un uomo: «Non diciamo stupidaggini. Non si dimentica nessuno in macchina, manco il cane. Figuriamoci un figlio. E piantiamola di inzuccherare 112


tutto con falso buonismo. Hai voglia a scongelare polli o a passare aspirapolvere, un figlio ha la priorità. Almeno sul pollo. Scongeliamo meno polli e ricordiamo di far scendere dalla macchina chi ci abbiamo messo». Anche per molte donne e mamme è una situazione impossibile da decifrare. C’è chi invoca la pena di morte, chi si chiede se non fosse «un modo per far capire al marito che non desiderava altri figli». Sempre sul sito alFemminile.com: «Nessuno pensa mai ai bambini e alla fine atroce che fanno, si pensa solo a giustificare gli adulti dopo che compiono le peggiori nefandezze anche se a volte lo si fa inconsciamente. (…) non si facciano i figli se si hanno troppe preoccupazioni». Molti tentano di circoscrivere questi casi a momenti di follia. «Dimenticare la figlia in macchina è sinonimo che qualche cosa non funziona», sostiene un papà. «Ma come si fa? – si legge sul sito Buoni genitori – Sono buoni genitori questi? Sono normali? (…) Poveri figli…» E ancora. Un papà scrive sul sito Nienteansia.it: «Questa povera signora stava male e nessuno se ne era accorto. Neanche lei». Fra quelli che comprendono si instaurano spesso discussioni sul peso del lavoro per una donna e la difficoltà di tenere tutto assieme, lavoro e famiglia. «Volevamo la parità – dice un’iscritta al forum alFemminile.com –, abbiamo ottenuto che lavoriamo più degli uomini, guadagniamo di meno e una volta a casa abbiamo casa e figli di cui preoccuparci, perché purtroppo questi sono ancora considerati compiti femminile. È parità questa? (…) Quanta strada da fare…» Una giovane studentessa si preoccupa per il suo futuro: «Leggo e non posso non pensare a mia madre che con la nascita del secondo figlio lasciò un lavoro prestigioso e remunerativo per l’impossibilità di tenere le fila di una vita assurdamente frenetica. Sarà il bivio di fronte a cui anche noi, studentes113


se universitarie di belle speranze, a un certo punto ci troveremo davanti?» Un uomo scrive: «Nessuno ha il coraggio di dirlo, si preferisce la versione patinata della giostrina con le apine sulla culla e tutti si scandalizzano quando succedono queste cose, ma crescere dei figli in questo tessuto sociale è una cosa pazzesca». Antonia parla delle difficoltà di chi vuole continuare a lavorare: «Io non voglio stare a casa dal lavoro (…) ma vorrei avere un po’ più di tempo per mio figlio. Chiedo un part-time di sei ore (…) e sembra che questo sia fantascienza!» Simonetta in rete racconta lo scambio di battute con sua figlia e il senso di inadeguatezza continuo: «Bambina: “Non mi ascolti mai mamma, quante volte te lo devo dire che a scuola si devono portare solo cose chiuse, confezionate e con la data di scadenza? Figurati le pizzette scongelate... C’è scritto anche nel foglietto che ti ho dato, lo ha detto la maestra... Poi ricordati che ai bambini non piace che si vada a prenderli per ultimi... Ricordati, eh?”» «Certo che – riflette Antonella sul forum Panorama.com – se attorno a una madre lavoratrice ci fosse una rete di servizi e persone che la agevolano, forse lo stress diminuirebbe e le mamme riuscirebbero a essere più serene. Essere mamma single, come sono io, poi è anche peggio». Sul forum online Nienteansia.it l’argomento tiene banco e c’è chi – come una iscritta che si firma B.– coglie l’occasione per parlare di sé: «Sarà perché non ho avuto nessuno (a parte il mio compagno) a darmi una mano nell’affrontare la rivoluzione che mia figlia ha portato in casa (…). I litigi col mio compagno oramai sono all’ordine del giorno (…), mi sento sull’orlo dell’esaurimento (…), ho davvero paura di perdere il controllo, perché non mi sento più padrona della mia vita». Alcuni si chiedono che ruolo abbiano in tutto questi i padri. Scrive una lettrice del Barbablog: «In questa guerra di trincea che chiamiamo vita (...) dove sono i compagni maschi? 114


Sembriamo tutte delle vedove! Smettiamola di considerarli inabili perfino ad annaffiare le piante». Sentenzia un uomo: «La colpa? Io non la darei solo alla madre... mi chiederei: e il padre? Quanto ha influito nella dissociazione della moglie?» Alla fine, facendo una rapido bilancio, i messaggi di comprensione ed empatia sono molti di più di quelli di condanna. In fondo assolvere Anna significa anche assolvere noi stessi, almeno nei processi privati. «L’imputato era un uomo immenso, più di cento chilogrammi, ma sotto il peso della sua vergogna e del suo dolore sembrava addirittura più grande». Così inizia una lunga inchiesta pubblicata sul Washington Post nel marzo 2009 dal giornalista Gene Weingarten, con la quale il cronista ha vinto il Pulitzer nella primavera del 2010. L’enorme uomo descritto è Miles Harrison, un bravo padre di famiglia di 49 anni, che, come è capitato ad Anna, ha la disgrazia di essere sopravvissuto al figlio di pochi mesi, dimenticato per nove ore nel seggiolino dell’auto nel parcheggio dell’ufficio dove l’uomo lo aveva lasciato accidentalmente. Distrazioni fatali, così si intitola l’articolo che racconta dieci di questi casi e i motivi per cui alcuni si sono tradotti in un processo a carico del genitore “distratto” (sei casi su dieci) e altri invece non sono nemmeno finiti davanti ai giudici (quattro su dieci). Miles Harrison è stato assolto, ma è condannato a vivere tutti i giorni con se stesso. «Non voleva nessun sedativo, diceva che non meritava nessuna tregua, nessun sollievo dal dolore che provava, che desiderava sentire pienamente quel dolore e poi finalmente morire», così lo descrive Weingarten. Per Anna non c’è stato capo d’imputazione, non c’è stato processo, gli investigatori hanno archiviato quasi subito il caso. Quello che è successo ad Anna accade dalle quindici alle venticinque volte l’anno negli Stati Uniti, scrive Weingarten, 115


ed è accaduto a diversi genitori negli ultimi vent’anni in Italia e nel resto d’Europa, anche se sulle vittime europee e italiane non ci sono dati precisi e ci si può rifare solo alle notizie riportate dalle cronache giornalistiche. Accade comunque abbastanza spesso, nei Paesi occidentali, in particolare dagli anni Novanta, precisamente da quando le case automobilistiche hanno iniziato a inserire nel cruscotto di fronte ai sedili anteriori gli airbag. Questi dispositivi – come tutti sanno – in caso di incidente si gonfiano immediatamente e per i neonati possono essere fatali (anche se molte case automobilistiche prevedono la possibilità di disattivare l’airbag del passeggero). Nel timore che questo possa succedere, nel paradossale tentativo di proteggere i bambini e per evitare che siano esposti a scontri frontali, molti genitori hanno iniziato a posizionare il seggiolino sui sedili posteriori. Questa sistemazione, nel caso in cui il bambino stia dormendo o sia molto silenzioso e il genitore sia in un particolare stato di stress e stanchezza, può portare alla “fatale dimenticanza”. Si tratta di un processo cerebrale semplice, al quale sono sottoposti tutti gli esseri umani, che è stato studiato dal professor David Diamond, esperto dei meccanismi della memoria che insegna fisiologia molecolare alla University of South Florida. Il cervello umano – secondo Diamond – quando si compiono azioni di routine utilizza inconsapevolmente la sua parte profonda e rudimentale come un pilota automatico (per questo non dobbiamo ogni volta “pensare” per guidare un’auto o lavorare a maglia), mentre la parte più sofisticata del nostro cervello, la corteccia frontale, è occupata contemporaneamente in pensieri meno rudimentali, più astratti. Normalmente questo sistema binario funziona a meraviglia, come una sinfonia, ma occasionalmente, se sottoposti a forte stress o stanchezza, il “pilota automatico” prende il sopravvento sull’altra parte del cervello e impone il suo ritmo, senza accettare distrazioni (un cambio nella routine, uno stop nel tragitto da casa al lavoro). Può accadere a qualsiasi essere 116


umano, ma la maggior parte delle volte riusciamo, per fortuna o per coincidenza, a far prevalere la parte della corteccia frontale e sventare le conseguenze più drammatiche. Non è un caso che in America esistano statistiche precise. In questo Paese ci sono stati movimenti d’opinione e tentativi di lobby di genitori riuniti in associazioni, come l’Organizzazione non governativa Kids and Cars di Janette Fennell, che hanno studiato il problema e hanno spinto il governo statunitense e le case di produzione di auto a trovare una soluzione, finora però senza successo. Fennell ha incontrato decine di genitori. Non li ha cercati lei, sono stati loro a trovarla su Internet, nelle notti insonni trascorse al computer, schiacciati dal rimorso e dalla pena, alla ricerca, nel Web come altrove, della prova tangibile che altre persone sono passate attraverso quell’inferno e sono sopravvissute. Il peggior caso del quale Fennell è venuta a conoscenza è quello di un bambino che, legato al seggiolino dell’auto, prima di morire – per il caldo, la sete e forse l’angoscia – si è strappato tutti i capelli. Davanti a un’immagine così, Fennell si aggrappa alla funzionalità dei seggiolini per trovare soluzioni pratiche a incubi diurni. Ci ha provato anche un astronauta della Nasa, Edward Modlin, ad aiutarla. Modlin ha progettato un apparecchio facile da usare, economico e funzionale, basato sui sensori utilizzati dall’aeronautica spaziale applicati a un seggiolino che possa segnalare la presenza, quando si spegne la macchina, di un peso. Modlin ci ha pensato dopo essere rimasto molto turbato dalla disgrazia che ha colpito un suo collega, Kevin Shelton, che, come Anna e centinaia di altri genitori, ingegneri spaziali come insegnanti, professionisti come operai, ha lasciato in auto il figlio, un bambino di nove mesi, e anche lui l’ha trovato morto. A sei anni dalla sua invenzione il “seggiolino intelligente” è stato brevettato, ma nessuna casa automobilistica ha deciso di produrlo perché diversi studi di marketing hanno decretato che «non venderebbe». La ragione è semplice: in barba agli 117


studi di Diamond e anche al buon senso, pochi genitori sono disposti ad ammettere che una simile distrazione potrebbe toccare anche a loro. Eppure succede. Se si escludono i casi di reale abbandono per negligenza o incuria, che pure ci sono (ma che qui non interessa indagare), la dinamica è sempre la stessa: il genitore carica il piccolo in auto, dovrebbe accompagnarlo dalla “tata” o al nido o dai nonni, ma “se ne dimentica” e guida meccanicamente fino al posto di lavoro, dove parcheggia e lascia l’auto e il figlio tutto il giorno. Sono molti anche i casi europei. Nel maggio 2007 è capitato ad Hal, una cittadina poco distante da Bruxelles, a un bambino di cinque mesi, dimenticato nell’auto dalla madre per più di otto ore. Esattamente come Anna, la donna ha scordato di portare il piccolo alla baby-sitter e solo al termine della giornata di lavoro, quando ha suonato a casa della signora per riprendersi il bambino, si è accorta: il piccolo era ancora nel suo seggiolino sul sedile posteriore e non respirava più. Nel 1998 è successo a Catania a un uomo di 37 anni. Quando uscì dal lavoro, sei ore dopo, trovò il figlio di due anni morto per asfissia e ustioni, dimenticato in macchina. I periti dissero che nell’auto erano stati superati abbondantemente i 50 gradi. In questo caso l’uomo fu incriminato e condannato a un anno. «Non cercate colpevoli – ammonì l’arcivescovo di Catania, Luigi Bommarito –, è una disgrazia inspiegabile». «Ero come in trance – ha detto al processo l’uomo –, non avevo dormito tutta la notte. Mia moglie era stata male e c’era un caldo infernale». Nel luglio 2008 è capitato due volte nella stessa settimana in Francia. La prima volta, a metà mese, è toccato a una bambina di tre anni. Qualche giorno dopo, in un’altra zona del Paese, a un bimbo di due e mezzo. Il padre, un farmacista di 38 anni, interrogato dalla polizia, ha detto di aver scordato il piccolo dopo aver assistito a un incidente stradale che lo aveva 118


particolarmente turbato. L’uomo è stato condannato a otto mesi di carcere. Nessun processo e nessuna condanna invece per il padre di una bambina belga di undici mesi che ha fatto lo stesso terribile errore nel giugno 2009. Anche lui, andando al lavoro, si è “scordato” della figlia, seduta alle sue spalle. È una disgrazia terribilmente democratica. Negli ultimi anni è capitato a persone benestanti come a persone in difficoltà economiche, a genitori giovani o in là con gli anni, madri e padri, persone istruite e persone semplici. Non tutte queste “dimenticanze” si sono trasformate in tragedie, anzi, per fortuna la stragrande maggioranza si sono risolte perché le persone interessate oppure un passante o un conoscente sono riuscite a interrompere quel flusso di coincidenze terrificanti che, se sommate, possono portare a quella che lo psicologo inglese James Reason chiama «il modello del formaggio svizzero», secondo il quale i “buchi” di vari strati di formaggio rappresentano piccoli, potenzialmente insignificanti, vuoti della nostra memoria. Insignificanti fino a che, disgraziatamente, in un caso raro ma possibile, tutti i “buchi” non si vanno a sovrapporre perfettamente, uno sull’altro. Se Martina non si fosse addormentata sul seggiolino. Se avesse fatto i soliti capricci. Se gli studenti che l’avevano vista avessero avvertito qualcuno. Se un passante l’avesse notata e avesse lanciato l’allarme. Se la baby-sitter avesse preso la macchina e fosse andata a scuola a chiedere spiegazioni sulla mancata consegna invece di limitarsi a telefonare. Se Anna non fosse stata presa da mille pensieri. Se fosse uscita in cortile per una boccata d’aria o una sigaretta. Se non avesse abbassato la suoneria del cellulare. Se, se, se.

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