Sofà 25/2016 - Quadrimestrale dei sensi nell'arte

QUADRIMESTRALE DEI SENSI NELL’ARTE Anno X Numero 25/2016

EMILIO ISGRÒ QUEL SEME CHE RACCONTA IL MEDITERRANEO EVENTI CAMERA, IL NUOVO MUSEO DELLA FOTOGRAFIA / INTERVISTA ORESTE BELLINZONA E LA GRAFICA D’AUTORE FRESCHI DI CONIO LE MEDAGLIE DI PAPA FRANCESCO / NOVITÀ IL LIBRO DEL GIUBILEO / PERSONAGGI PIERO GILARDI

UN SEME PER IL FUTURO Editalia getta un ponte fra la creatività artistica e la sapienza degli artigiani L’opera in copertina, Seme mediterraneo, esprime in maniera emblematica lo spirito con il quale Editalia è presente nel mondo dell’arte. Ci siamo affermati in uno spazio, quello dell’arte moltiplicata, nel quale cerchiamo costantemente di creare un ponte tra la creatività dell’artista e il saper fare delle botteghe artigiane, grande patrimonio del nostro paese. Da questo incontro scaturisce una duplice opportunità: il rapporto con tecniche e materiali differenti stimola la creatività dell’artista, mentre le botteghe hanno l’opportunità di esprimere al meglio le loro capacità in un contesto privilegiato. Perché l’incontro sia fecondo è necessario che generi una energia nuova e questo richiede un artista generoso, disponibile a mettersi in discussione e a misurarsi con nuove sfide e dei maestri artigiani che alla maestria tecnica affianchino la passione della sperimentazione. Da questa condivisione di passione e competenza è nato il vetro di Emilio Isgrò nella fornace Ars di Murano. Su questo numero diamo voce a tutta la filiera del vetro, l’artista, i maestri vetrai, il rinnovato museo di Murano. Un focus sulle preziose realtà del panorama italiano che questa rivista racconta da anni con l’intento di farle conoscere e sostenerle.

Attenti alla contemporaneità siamo anche in tutto altro ambito. Si è aperto da poco il Giubileo della misericordia voluto fortemente dal papa in un momento storico particolarmente delicato per sottolineare l’urgenza e l’invito al perdono rivolto al mondo contemporaneo. Alla storia secolare dell’evento e all’incarnazione attiva della misericordia data dal papa in questi anni attraverso il suo esempio, sono dedicati il volume di pregio Francesco verso il Giubileo e la medaglia Iubilaeum Misericordiae. Buona lettura.

Marco De Guzzis Amministratore delegato Editalia

Sommario INCIPIT QUADRIMESTRALE ANNO X NUMERO 25 Autorizzazione del Tribunale ordinario di Roma n° 313 del 3.8.2006 Sofà è una pubblicazione quadrimestrale di Editalia Gruppo Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato viale Gottardo 146, 00141 Roma Numero verde 800014858 – fax 0685085165 www.editalia.it Direttore responsabile: Flavio Arensi Coordinamento redazione: Francesca Ruggiero Impaginazione: Gabriele Gargioni (blossoming.it) sofa@meetmuseum.com Editalia Responsabile editoriale: Cecilia Sica Art direction: Daniela Tiburtini Redazione: Laura Orbicciani Hanno collaborato: Arianna Beretta, Silvia Bottani, Lorenzo Canova, Elio Cappuccio, Bruno Cattani, Claudia Colasanti, Giulia dal Mas, Rossella Farinotti, Maria Fava, Giacomo Nicolella Maschietti, Massimo Mattioli, Floriana Minà, Laura Orbicciani, Marilena Pasini, Simone Raddi, Lorenzo Respi, Pasquale Ruocco, Francesco Sala, Giuseppe Tresca, Alberto Zanchetta.

Stampa: Varigrafica, Alto Lazio Srl, Nepi (Vt) Redazione Via La Marmora, 2 20831 Seregno telefax +39 0362 1793903 www.meetmuseum.com Pubblicità e marketing: info@meetmuseum.com In copertina: Emilio Isgrò, Seme mediterraneo (particolare), edizione Editalia.

Numero chiuso in redazione il 30.12.2015 Sofà è visibile online nell’area clienti del sito www.editaliarte.it Responsabile trattamento dati Francesca Ruggiero.

L’Editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti. I materiali inviati non verranno restituiti.

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FOTORACCONTO Annette Lemieux

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NOTIZIE Italia Mondo

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COPERTINA ULTIMA EDIZIONE Il seme che racchiude il senso del mondo ECCELLENZA ITALIA L’officina dei maghi vetrai di Murano LUOGHI DEL BELLO Arte e design, riapre il Museo del vetro

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PRIMO PIANO EVENTI L’impronta di Cristo nell’arte La camera delle meraviglie GRANDI MOSTRE Pablo Echaurren, il pittore della rivoluzione Serenissimi splendori

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VISTI DA VICINO MAESTRI CONTEMPORANEI La grande natura vivente di Piero Gilardi NUOVE GENERAZIONI Donato PIccolo. Deus in nobis CONVERSANDO SUL SOFÀ Materima, dove si incontra la scultura

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APPUNTAMENTO CON LA STORIA Parise, poeta

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BEL PAESE CARTOLINE I muri dipinti di Arcumeggia

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FATTI AD ARTE SPECIALI Un libro per il giubileo di Francesco FRESCHI DI CONIO Il volto della misericordia

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IN SERIE IL MOLTIPLICAUTORE Copiare gli antichi, Koons detta la linea Il LIBRAIO D’ARTE Riconoscere i libri d’artista MULTIPLI IN VETRINA I grandi maestri low cost

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ARTE IMPRESA

IL MOTORE DELL’ARTE Artemest, i mestieri del bello COMUNICARE AD ARTE Una storia che corre lungo i binari IL MERCATO DELL’ARTE Italia über alles

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ILLUSTRIAMO Ottorino De Lucchi

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FOTO RACCONTO

COLPO D’OCCHIO DI FLAVIO ARENSI

ANNETTE LEMIEUX Annette Lemieux riesce ad avere uno sguardo poetico persino sui temi più difficili, come quello della guerra. Il suo lavoro analizza i codici sociali, cercando di comprendere come gli oggetti possano influenzare la nostra vita o, se non quella, almeno il nostro modo di interpretare la realtà che ci circonda.

Di recente ha partecipato alla mostra Il manichino della storia a Modena, un’intensa riflessione sull’arte e sul senso della critica oggi, curata dal poeta e critico italo americano Richard Milazzo. Ha tuttavia esordito in Europa nella sezione Aperto della Biennale di Venezia del 1990, contando anche una lunga collaborazione con la galleria Mazzoli di Modena.

A destra Annette Lemieux, Things to walk away with, 2011 96 oggetti, dimensioni variabili.

Fisher Landau Center for Art, Long Island City, NY September 19, 2015 - January 4, 2016 Courtesy Kent Fine Art, New York annettelemieux.net

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NOTIZIE

ITALIA DI SIMONE RADDI

LA COSCIENZA DEL VERO. CAPOLAVORI DA COURBET A SEGANTINI Rovereto, MART, fino al 3 aprile 2016 Al MART una complessa mostra che indaga la cultura figurativa ottocentesca, nella stagione compresa tra il romanticismo e l’impressionismo, tra il 1840 e il 1895, anno della prima Biennale di Venezia. Il realismo, avviato da Gustave Courbet, contribuì a svincolare la pittura e la scultura dai temi mitologici e aristocratici in favore dell’autenticità nella rappresentazione delle classi subalterne e della borghesia, svelando il rapporto tra realtà e figurazione soprattutto nei ritratti e negli autoritratti. In mostra una settantina di capolavori di artisti tra cui Courbet, Segantini, Hayez, Boldini. mart.trento.it/vero

HENRI CARTIER-BRESSON E GLI ALTRI Milano, Palazzo della Ragione, fino al 7 febbraio 2016 Palazzo della Ragione Fotografia ospita Henri Cartier-Bresson e gli altri. I grandi fotografi e l’Italia. Per raccontare come i grandi fotografi internazionali hanno ripreso il nostro paese in un arco di tempo di quasi ottant’anni. A partire da Henri Cartier-Bresson, lo sguardo dei più celebri fotografi del mondo, da List a Salgado, da Newton a McCurry, costruisce il racconto affascinante di un’Italia necessaria alla storia della fotografia. Oltre duecento immagini, in molti casi autentiche icone. palazzodellaragionefotografia.it

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TRANSFORMERS. CHOI JEONG-HWA, DIDIER FAUSTINO, MARTINO GAMPER, PEDRO REYES Roma, MAXXI, fino al 28 marzo 2016 Attraversare una foresta sospesa e scoprire che è composta di tremila scolapasta in plastica, ascoltare la melodia prodotta da un’orchestra fatta di armi, sedersi su una sedia che con interventi in tessuto ha cambiato la sua forma originale, immaginarsi soli in mezzo al mare aggrappati a una boa gigantesca. Sono alcuni dei progetti in mostra al MAXXI di Roma, firmati da Choi Jeong-Hwa, Didier Faustino, Martino Gamper e Pedro Reyes, quattro transformer che sono al contempo artisti, designer e attivisti sociali. Attraverso le opere dei quattro creatori, la realtà si trasforma in un’altra realtà, che accende la fantasia, invita alla condivisione e all’esperienza, a vedere oltre. fondazionemaxxi.it

GOLDEN AGE. JORDAENS, RUBENS, BRUEGHEL Forte di Bard, fino al 2 giugno 2016 Al Forte di Bard va in scena il secolo d’oro della pittura olandese e fiamminga, protagonista della mostra Golden Age. Jordaens, Rubens, Brueghel.

Ogni genere di questa importante stagione artistica che va dal Seicento al Settecento è rappresentato tra i 114 dipinti esposti: scene storiche, ritratti, pittura di genere, paesaggi, marine e soprattutto nature morte. I due più importanti maestri fiamminghi, precursori e anticipatori della stagione del barocco nordico, Peter Paul Rubens e Antoon van Dyck, sono presenti con una serie di ritratti, come pure Jacob Jordaens, di cui si possono ammirare un Ritratto di musico e una Sacra famiglia. fortedibard.it

PREMIO FABBRI Bologna, Palazzo Pepoli Campogrande, fino al 6 gennaio 2016 Si tiene a Bologna la quinta edizione del Premio Fabbri per l’arte contemporanea, in concomitanza con il centenario della nascita della celebre amarena creata da donna Rachele Fabbri. Curato da Lea Mattarella, il premio ha avuto un’accezione al femminile: ventisei artiste italiane e straniere si sono cimentate nella produzione di un’opera che rielaborasse o semplicemente richiamasse l’immagine dell’inconfondibile vaso Fabbri. La giuria ha proclamato la vittoria di Marisa Albanese per la sezione scultura, mentre Donatella Spaziani si è aggiudicata il premio per la pittura e Gea Casolaro quello per la fotografia. Nella foto, l’opera di Anna Caruso. fabbri1905.com

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FATTORI Padova, Palazzo Zabarella, fino al 28 marzo 2016 Palazzo Zabarella continua nella sua tradizionale ricerca e approfondimento sul grande Ottocento puntando questa volta i riflettori su Giovanni Fattori, protagonista indiscusso che ha attraversato il XIX secolo e le trasformazioni della visione pittorica. La mostra presenta oltre cento dipinti che ricostruiscono la straordinaria versatilità dell’artista livornese, ripercorrendo la sua carriera: dalla rivoluzione dei macchiaioli al raggiungimento di una dimensione epica in cui si riflettono i mutamenti storici e sociali che hanno trasformato il nostro paese, fino alla sperimentazione di nuovi territori iconografici e formali. zabarella.it

JOAN MIRÓ A VILLA MANIN. SOLI DI NOTTE Passariano, Villa Manin, fino al 3 aprile 2016 Nelle sale della splendida Villa Manin, nella campagna di Udine, è possibile conoscere un Miró inedito grazie a una mostra che riunisce un importante nucleo di opere, molte delle quali mai esposte in Italia, realizzate negli ultimi anni della sua vita. Nonostante l’età avanzata, in questo periodo l’artista è nel pieno della sua forza, immaginazione e vitalità, realizzando gran parte della sua produzione. Un lungo intervallo caratterizzato da profondi mutamenti espressivi, con cui la sua opera diventa più libera, forte e aggressiva. I «suoi» colori e le «sue» figure lasciano progressivamente spazio al nero e a segni che ricordano primitive scritture. villamanin.it

EL GRECO IN ITALIA. METAMORFOSI DI UN GENIO Treviso, Casa dei Carraresi, fino al 10 aprile 2016 Casa dei Carraresi torna a splendere grazie a El Greco, protagonista di un’esposizione dedicata agli anni cruciali della sua vicenda artistica e spirituale, attraverso le tappe del complesso iter tra Creta, l’Italia e la Spagna. Ne viene ricostruita l’avventura irripetibile, indagando il processo creativo, il metodo di lavoro e la bottega di un artista controverso e non compreso nel suo periodo storico, ma definito dalla critica moderna un «visionario illuminato». Un viaggio nel tempo e nello spazio, attraverso la progressiva trasformazione che lo condurrà alla creazione di un linguaggio senza paragoni. elgrecotreviso.it

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DE CHIRICO A FERRARA. METAFISICA E AVANGUARDIE Ferrara, Palazzo dei Diamanti, fino al 28 febbraio 2016 A un secolo dalla loro creazione, tornano a Ferrara i rari capolavori metafisici che Giorgio de Chirico dipinse nella città estense tra il 1915 e il 1918. La mostra, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalla Staatsgalerie di Stoccarda in collaborazione con l’Archivio dell’Arte Metafisica per la curatela di Paolo Baldacci e Gerd Roos, celebra questa importante stagione dell’arte italiana documentando la profonda influenza che queste opere ebbero in quegli anni su Carlo Carrà e Giorgio Morandi e, poco più tardi, sulle avanguardie europee del dadaismo, del surrealismo e della nuova oggettività. palazzodiamanti.it

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NOTIZIE

MONDO DI SIMONE RADDI

THE LUXURY OF TIME: EUROPEAN CLOCKS AND WATCHES New York, The Metropolitan Museum of Art, fino al 27 marzo 2016

ALEXANDER CALDER: PERFORMING SCULPTURE Londra, Tate Modern, fino al 3 aprile 2016

Oggi gli orologi non servono quasi più, sostituiti da smartphone e altro, ma il loro fascino persiste inalterato. Volete vederne la massima esaltazione? Al Met di New York, fino al 27 marzo potrete ammirarne una straordinaria serie di fattura tedesca, francese, inglese e svizzera dal XVI al XIX secolo. Gli esemplari in mostra rivelano come un segnatempo possa declinarsi in mobili sontuosi e gioielli squisiti, in un rapporto impeccabile tra arte della forma e minuziosa complessità tecnologica interna. metmuseum.org

La Tate Modern dedica un’intensa retrospettiva ad Alexander Calder, il grande pioniere della scultura cinetica e del movimento infuso agli oggetti statici. Quello che scopriremo a Londra è un Calder polivalente e versatile, attraverso opere provenienti da musei di tutto il mondo, così come i suoi progetti di collaborazione nei settori del cinema, teatro, musica e danza.

Comune denominatore, il movimento, grazie al quale l’artista ha portato la scultura nella quarta dimensione. tate.org

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HIRO. PHOTOGRAPHS Boston, Museum of Fine Arts, fino al 14 agosto 2016

INGRES Madrid, Museo Nacional del Prado, fino al 27 marzo 2016

Hiro è noto per le sue immagini di moda, per la ritrattistica e le nature morte. Assistente di Richard Avedon, che lo introdusse nel mondo della moda, agli inizi del 1960 Hiro divenne una figura di spicco del settore. Il suo lavoro si distingue per l’originalità e l’innovazione tecnologica, con un utilizzo audace della luce e del colore, e per un elegante tocco di surrealismo. La mostra si concentra su una selezione di scatti, che esprimono l’applicazione dell’estetica del fotografo a prestigiosi marchi della moda e del gioiello come Halston, Pierre Cardin, Harry Winston, Elsa Peretti. mfa.org/exhibitions/hiro

Non vi è dubbio che Ingres sia stato un importante protagonista della rivoluzione artistica avvenuta tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Oggi il Prado gli dedica una grande mostra, realizzata con la collaborazione straordinaria del Louvre: un percorso cronologico ricostruisce il lavoro dell’artista, oscillando tra la passione per la ritrattistica e l’aspirazione a essere riconosciuto specialmente come pittore di storia. Erede di Raffaello e Poussin, Ingres anticipa Picasso e la distorsione anatomica nell’arte, ispirando la rivitalizzazione delle scuole d’arte europee del XIX secolo. museodelprado.es

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COPERTINA

ULTIMA EDIZIONE DI CECILIA SICA

IL SEME CHE RACCHIUDE IL SENSO DEL MONDO

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Editalia presenta la nuova scultura in vetro massello pensata da uno dei più importanti artisti concettuali italiani Seme mediterraneo. Due parole che racchiudono il mondo di concetti, idee, sentimenti ed emozioni di Emilio Isgrò. Una scultura in vetro massello trasparente, pensata per Editalia, ratifica la nuova stagione creativa dell’artista siciliano che vede nella scultura un proseguimento ideale e affine al suo linguaggio storico, la cancellatura, ideata negli anni sessanta con l’intento di levare le parole dai testi, come nella scultura si cava il marmo alla ricerca di una nuova forma, o come si sagoma il vetro.

D’altronde, la continuità tra parola e materia Isgrò l’aveva sperimentata nel 2014 con la Grande cancellatura per Giovanni Testori a Milano, risolta in un bassorilievo dove cancellare aveva significato asportare la materia di cui erano fatte le parole. E anche il seme lo aveva già sperimentato in passato in forme bidimensionali e tridimensionali, fino a impiantare nel cuore di Expo 2015 il Seme dell’Altissimo, sette metri di candido marmo. Qui il seme ha assunto un significato universale giocando sull’ambiguità del titolo, riferimento tanto al monte delle Alpi Apuane da dove è stato cavato il pregiato marmo, quanto alla vocazione sacra e sacrale che l’arte ha il dovere di riconquistare. Il latino semen, semente, semenza, germoglio, seme di uomini e animali, e per analogia discendenza, stirpe, razza, sangue e, in senso figurato, origine e causa, e il semeion greco, il segno che designa la manifestazione visibile dell’opera soprannaturale di Dio nell’Antico Testamento, il Seme, insomma, è per Isgrò prin-

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Dall’alto Il piccolo seme colorato è posizionato nella massa vetrosa Il Seme meditteraneo è passato nel forno a 1200 gradi per la lucidatura della superficie A sinistra Emilio Isgrò nella vetreria Ars di Murano, 2015 A pagina 16 Emilio Isgrò con il Seme mediterraneo allo stand Editalia durante Artissima, 2015 A pagina 19 Marco De Guzzis, Emilio Isgrò e Lorezo Respi durante la presentazione del Seme mediterraneo ad Artissima, 2015

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IL SEME MEDITERRANEO DI EDITALIA Realizzato a Murano, nella vetreria artistica Ars, in 60 esemplari. Isgrò ha modellato la forma in gesso dalla quale è stato realizzato lo stampo in bronzo per la fusione. Nello stampo il maestro vetraio cola una presa di vetro fuso ad altissima temperatura, nella quale inserisce il piccolo seme di vetro colorato. L’opera liberata dalla forma passa più volte in fornace per la tempera, il raffreddamento e la lucidatura. Sulla base realizzata in ferro, incisioni laser riportano la tiratura, la data e le scritte con il peso del seme e del frutto e con l’ingrandimento al quale è stato sottoposto. La firma incisa di Isgrò è sul seme.

Ancora una volta, l’incontro tra la creatività di un artista concettuale fra i più interessanti del panorama italiano contemporaneo e la tradizione di un mestiere d’arte ha generato un’opera straordinaria.

Seme mediterraneo è stato presentato alla fiera internazionale di Torino, Artissima, il 7 novembre, in una conversazione tra l’artista, Lorenzo Respi e Marco De Guzzis.

cipio generativo all’origine della condizione umana, che l’artista ammanta di ulteriori significati ogniqualvolta lo cala in contesti specifici.

Isgrò artista concettuale, scrittore, drammaturgo, poeta visivo, ha concettualizzato il seme, piccolo prodotto della natura, per la prima volta quasi vent’anni fa. Nel 1998 a Barcellona Pozzo di Gotto, piantò un’enorme Seme d’arancia, sei metri di tufo, scorie vulcaniche e resina, nel piazzale antistante la stazione.

Il Seme rappresentava un progetto di rinascita civile, un impegno di libertà e di cultura nella Sicilia, terra di aranceti e profumo di zagare. Era il simbolo della cultura della vita, la sola in grado di sconfiggere la cultura della morte in quegli anni violenti. Da allora è tornato più volte a riflettere sul tema: Liberté Egalité Fraternité, Semiseme, Castore e Polluce, Il seme è meglio del frutto: tutte opere che hanno in comune l’adozione di una scala dimensionale gigante che cancella le reali minime dimensioni dell’elemento naturale, elevandolo a simbolo. Far di-

ventare grandi le piccole cose, ricrearle e reinventarle in un’ottica non prevedibile è il compito dell’artista.

Due anni fa Isgrò, sempre per Editalia, aveva realizzato un manoscritto cancellato in una bottiglia, e l’aveva chiamato Mediterranee, lettere dal mare, lettere che partivano da venticinque città del Mediterraneo verso destinatari sconosciuti, naufraghi salvati dall’arte, unica forma di intelligenza che mette gli uomini realmente in contatto fra loro. Oggi torna al Mediterraneo con un seme di vetro trasparente che contiene un altro seme.

Inconsapevole insistenza? Il Mediterraneo, il mare di mezzo, culla della civiltà e dei miti occidentali, luogo di scambi dalle origini dell’antichità, di migrazioni, di diaspora e di conflitti, di vita e di morte, è al centro di violente mutazioni socio-politiche che hanno un intollerabile costo di vite umane. L’arte di Isgrò torna a segnalare il problema a una società distratta. E lo fa con un linguaggio libero e fecondo che vuole costruire un mondo più umano. Il seme di cristallo di Murano, tra-

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sparente come il mare, attraversato da rifrangenze luminose, trasporta nelle sue viscere un piccolo seme di vita. E ci si può chiedere quale sia il seme e quale il mare. È il mare dalle acque trasparenti in forma di seme che ingloba e trasporta il germoglio di rinascita e speranza su tutte le spiagge che tocca, su tutte le coste del «mare di mezzo». Il messaggio nella bottiglia si rafforza con la volontà dell’artista di disseminare nel nostro mare un seme di pace, di dialogo, di umanità.

Sentimenti cristallizzati nel vetro massello che custodisce con materna metafora un embrione di fiducia nel futuro.

«Lavorare a Murano, l’isola del vetro, per un’artista significa entrare nel suo ambiente naturale di lavoro, perché l’artista contemporaneo vive in un mondo fragile pronto a rompersi in mille pezzi, condizione che non è solo degli artisti ma dell’umanità tutta. Il lavoro in vetreria è come realizzare l’autoritratto più compiuto di se stesso. Emozionante». È una religione laica quella di cui Isgrò è sacerdote.

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COPERTINA

ECCELLENZA ITALIA DI ROSELLA NERI

L’OFFICINA DEI MAGHI VETRAI DI MURANO

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Durante il governo della Repubblica Serenissima, ai maestri vetrai che avevano avuto l’ardire di insegnare l’arte a uno straniero venivano mozzate le mani. Dal lontano 1291 tali oneri e altrettanti onori divennero parte di un complesso sistema di regole di conservazione che di fatto rendeva i mastri vetrai gli unici patrizi della città a essere tali a prescindere dal diritto di nascita.

Facile intuire come un simile hortus conclusus abbia dato vita a una leggendaria perizia artistica, e a un senso di appartenenza che ancor oggi tiene. Tuttavia la vocazione commerciale della nostra epoca ha reso frequente che un maestro vetraio trascorra la quasi esclusività della sua esperienza lavorativa a produrre assecondando il mercato. Le vetrerie migliori invece riescono a mantenere una solida attività imprenditoriale, affiancandovi un più soddisfacente lavoro di ricerca che si dipana, di volta in volta, in collaborazioni con artisti internazionali o nella creazione di una linea d’arte «interna», frutto dell’estetica dei suoi maestri.

In questo contesto va letto il lavoro della vetreria artistica Ars, fondata nel 1982 dai maestri Roberto Cammozzo ed Elio Raffaeli insieme al molatore Renzo Vianello. Certamente eccentrici per formazione, i tre crescono alla fornace di Livio Seguso, uno dei pochi, sull’isola, a spogliarsi dell’uniforme di vetraio per seguire la propria vocazione di artista, due volte ospite della Biennale di Venezia e oggi esposto in Giappone

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e negli Stati Uniti. Fin dagli esordi Cammozzo, Raffaeli e Vianello hanno esercitato la propria maestria per dar forma alle idee di artisti internazionali. L’inizio in levare di queste collaborazioni si deve a Jeff Koons e alla sua partecipazione alla Biennale di Venezia del 1990, diretta da Giovanni Carandente: in quell’occasione l’artista espose una scultura in vetro a grandezza naturale che rappresentava una scena erotica tra lui e Ilona Staller.

Alla fornace Ars Jeff Koons si presentò munito di alcune foto, che ai vetrai dovranno essere apparse quantomeno scandalose; sfortunatamente le tre prove a grandezza naturale che erano rimaste in possesso della vetreria si ruppero per un difetto di essiccatura.

Nelle collaborazioni tra artisti e vetrai il principale ostacolo sta proprio nel fatto che il materiale risponde a regole precise, appannaggio di un piccolo manipolo di operatori altamente specializzati: in pochi secondi si decide la direzione che la massa informe e bollente della pasta vitrea dovrà prendere ed è indispensabile che il maestro riesca a prevedere come la materia reagirà una volta sottoposta alle forze del calore e della gravità. L’artista, dal canto suo, deve essere pronto all’eventualità che la sua idea debba sottostare a qualche compromesso, individuabile solo durante le fasi di lavorazione.

A Jeff Koons seguì l’artista francese César Baldaccini, con cui i maestri di Ars realizzano uno dei celebri parallelepipedi, precisamente la Compression de bouteilles de Coca-Cola, del 1992.

Mentre a partire dalla metà degli anni novanta cominciano lunghe e fruttuose collaborazioni, come quella con l’artista giapponese Kyohei Fujita per il quale sono stati realizzati molti lavori che nel vaso, forma tipica del manufatto muranese, ne racchiudono l’inclinazione alla complessità decorativa e il gusto per i colori primari. Tra le molte opere realizzate, tuttavia, quella che in vetreria ricordano per il notevole studio preliminare richiesto è il tubo rosso di vetro massello del 1997, colato a caldo e ripiegato su se stesso, intitolato Jomon.

Decennale è stata anche la collaborazione con lo scultore texano Robert Willson,

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che ogni anno affittava la vetreria e tutte le sue maestranze per un mese. Tra i maestri di Ars, Willson è divenuto celebre per due motivi: il grido di esultanza con cui decretava la conclusione di un’opera, e la grande scultura di vetro che rappresenta la lotta tra un serpente e un dragone che ora si trova sul fondale di una piscina privata negli Stati Uniti.

Con il passare degli anni, il nucleo primigenio dei maestri viene ristrutturato, per naturale avvicendamento, e in fornace entrano con il ruolo di maestro Mariano Moro, in Ars fin dal principio, e Cristiano Toso. Dal 2006 la direzione commerciale è invece di Matteo Vianello, figlio di Renzo. Questa nuova squadra rimane, oggi come ieri, nel solco delle collaborazioni eccellenti, come quella con il cubano Alfredo Sosabravo e con la giovane americana Alexis Silk. Del 2015 è il lavoro con l’artista e scrittore italiano Emilio Isgrò, che ha dato forma a una versione originale del tema del seme, molto caro

all’artista, realizzato in alcuni esemplari numerati di vetro. La fase preliminare ha visto la realizzazione di uno stampo in bronzo per la colata, ma i calchi vitrei vengono assemblati e lucidati a mano, per ottenere il punto di trasparenza corretto, in accordo con l’artista.

Mantiene fede alla vena pionieristica della vetreria anche il progetto in cui si è impegnata la squadra di Ars negli ultimi cinque anni, commissionato dall’indiano Maqbool Fida Husain. Una richiesta arrivata per e-mail, dopo una quête che ha visto l’artista ospite delle migliori vetrerie europee, tra cui Baccarat e Swarovski, e che ha sancito la superiorità della fornace muranese. Il progetto, quasi concluso, consta della realizzazione di cinque cavalli a grandezza naturale, mediante l’assemblaggio di quaranta parti diverse ciascuno, dal peso di circa settanta chilogrammi l’una. Per la spedizione dell’opera si è dovuto provvedere alla realizzazione di un nuovo ingresso e di una nuo-

va pavimentazione, nonché di un sistema di lastre di metallo per coprire il selciato delle calli e non far sprofondare gli argani.

Il destino dei cinque cavalli è un lussuoso museo a Doha, nel Qatar, ad affiancare altrettanti esemplari di automobili di prestigio: una Ferrari, una Bentley, una Bugatti, una Rolls-Royce e una Jaguar.

Altre città – Cremona per la liuteria o Pietrasanta per la scultura, ad esempio – hanno saputo dare nuova linfa alla vocazione patria mediante l’arrivo di giovani leve, per lo più dall’estero; a Murano resiste ancora l’antica mentalità dell’hortus conclusus; eppure, grazie alla caratteristica della lavorazione del vetro, che impone la mutua assistenza tra artista e artigiano, la globalizzazione viene ostacolata da maestri intransigenti e capaci, accoglienti per le idee ma gelosi delle tecniche. E, in questo modo, il mito ha trovato la sua strada per resistere. Se non, addirittura, per prosperare.

A sinistra Un chihuahua in vetro massello, opera della bottega, realizzato nel 2015 A pagina 22 Alfredo Sosabravo, Arlequino, 2011, opera in vetro massello del maestro Moro Mariano

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Opere del maestro Giulio Radi

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COPERTINA

LUOGHI DEL BELLO DI ARIANNA BERETTA

ARTE E DESIGN, RIAPRE IL MUSEO DEL VETRO

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Ripensare un museo nato nel 1861 che racconta non solo della nobile arte della lavorazione del vetro, ma anche della storia di un’isola e di un intero territorio è certamente un’impresa da far tremare i polsi. Una sfida che il Museo del Vetro di Murano ha vinto. Il 9 febbraio scorso ha infatti riaperto i battenti dopo un intervento di restauro importante che ha visto un riallestimento degli spazi e delle sale e il recupero di nuovi ambienti, tra cui le ex Conterie, che da lacerti di archeologia industriale – fabbriche dove venivano prodotte le «conterie», cioè perle di vetro tipiche – hanno oggi assunto una nuova funzione museale.

L’intero progetto ha permesso di ampliare lo spazio espositivo e di offrire diversi servizi ai visitatori, a partire da migliorie prettamente logistiche che permettono una più alta qualità dell’esperienza della visita, come l’abbattimento delle barriere architettoniche e la messa in opera di due ascensori, per finire con il disegno di nuovi percorsi che consentono ai visitatori una visione esaustiva e armoniosa della storia del vetro di Murano.

Arrivando dall’acqua, il biancore di Palazzo Giustinian, sede del museo, spesso illuminato dai bagliori della luce del sole sull’acqua, annuncia le trasparenze, i colori e le sfumature dei tesori conservati al suo interno, esaltati dal nuovo allestimento. Spazi ariosi e luminosi, biancore dei supporti, percorsi chiari e pezzi unici rendono la visita

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IL RESTYLING DEL MUSEO L’ampliamento, con il recupero di una parte delle ex Conterie, e il restyling sono stati curati da Chiara Squarcina su progetto museografico di Gabriella Belli, direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia, e con l’allestimento di Daniela Ferretti. I lavori sono stati possibili grazie al cofinanziamento del Fondo europeo di sviluppo regionale assegnato dalla Regione Veneto e al fondamentale intervento del Comune di Venezia che, con Roberto Benvenuti responsabile del progetto, ha condotto la prima fase del cantiere in collaborazione con l’ufficio tecnico della Fondazione, diretto da Daniela Andreozzi. museovetro.visitmuve.it

A sinistra Seguso Vetri d’Arte, vasi in vetro sommerso Sotto Particolare di un acquamanile di Antonio Salviati, 1878

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un’esperienza unica. Il Museo del Vetro di Murano, uno dei dodici della Fondazione Musei Civici di Venezia, è forse l’unico luogo al mondo dove l’arte del vetro è raccontata fin dalle sue origini. Nato nel lontano 1861 per volontà di Antonio Colleoni, allora sindaco di Murano, e dell’abate Vincenzo Zanetti, cultore di arte vetraria, il museo è stato anche un centro di formazione considerato che l’anno successivo alla fondazione lo stesso Zanetti vi annette una scuola in cui i vetrai studiano disegno e hanno l’opportunità di osservare i vetri del passato conservati nelle sale. Un luogo importante, carico della storia e della varia umanità che sull’isola ha lavorato duramente.

Seguendo un percorso cronologico, l’esposizione dei pezzi della collezione per-

manente si apre con alcuni vetri romani realizzati tra il I e il III secolo d.C. e passando per il medioevo, attraverso il rinascimento, il barocco e il Settecento arriva fino al XX secolo. Di assoluto interesse quest’ultima parte della collezione, perché mostra il passaggio da una produzione artigianale di altissimo livello a una più massificata, indotta dall’esordio del design nella produzione industriale, tanto che il XX secolo è ritenuto un momento di rinascita di questa arte dopo un periodo di crisi durato per tutto l’Ottocento.

La ricchezza del museo è conferita non solo dalla sua collezione, ma anche dal fatto che ha sede sull’isola, nel medesimo contesto produttivo in cui sono nati i vetri e in cui ancora oggi sono numerose le fornaci e le vetrerie. Tutto questo si ri-

flette in un’attività di documentazione e di informazione precisa e dettagliata che va incontro sia alla curiosità dei visitatori sia alle esigenze di ricerca e approfondimento degli studiosi e degli specialisti.

Accanto alla collezione permanente, il sito espositivo organizza mostre temporanee, ospitate in due spazi recuperati e riallestiti dal recente progetto di ampliamento e restyling. Nella sala Brandolini, dedicata alla nota creatrice dei «goti», contenitori per liquidi, oggi si può visitare la mostra A.Ve.M. – Arte Vetraria Muranese, dedicata all’azienda fondata negli anni trenta da Antonio ed Egidio Ferro, Emilio Nason e Giulio Radi, la cui storia viene raccontata attraverso i vetri della pregiata collezione di Lutz Holz, che da anni raccoglie le opere più significative della produzione vetraria storica di Murano.

Al museo, eccezionalmente, sarà anche esposto per qualche tempo l’enorme lampadario della residenza comunale di Sant’Agostino, Ferrara, spesso utilizzata come salone delle feste tra la metà dell’Ottocento e il secondo dopoguerra. Il grande manufatto, realizzato per illuminare la sala dei Giochi del castello estense di Ferrara, fu spostato alla fine del 1933, pare per volontà di Italo Balbo che era solito recarsi nella sala per ballare con la propria amante. Danneggiato dal recente sisma, è stato da poco restaurato e sarà esposto insieme ad altri tre lampadari di minori dimensioni, collocati nella stessa sala e del pari restaurati.

Molto interessante il catalogo online delle collezioni, che consente l’accesso alla banca dati informatizzata dell’ingente patrimonio d’interesse storico, artistico e naturalistico conservato nei Musei Civici di Venezia, attualmente completa di quasi cinquantamila schede. Qui si possono trovare informazioni anche sui pezzi presenti nel Museo del Vetro.

A sinistra Il lampadario della residenza comunale di Sant’Agostino esposto temporaneamente al Museo

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PRIMO PIANO

EVENTI DI ELIO CAPPUCCIO

L’IMPRONTA DI CRISTO NELL’ARTE

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La rappresentazione della figura di Cristo è stata al centro della cultura artistica tanto nell’Oriente bizantino quanto nell’Occidente latino, fino all’età barocca. Le cose cominciano a cambiare radicalmente con la rivoluzione scientifica del diciassettesimo secolo, che inaugura la concezione meccanicistica del mondo. Il processo di secolarizzazione che ha segnato la cultura europea giunge al suo massimo compimento con l’illuminismo. Questa nuova visione del mondo ha allontanato sempre più l’artista da temi di carattere religioso per richiamare la sua attenzione sulla dimensione mondana dell’esistenza, cogliendone l’aspetto civile e politico o rivolgendosi alla sfera dei sentimenti. L’esigenza dell’artista di privilegiare la condizione terrena rispetto al rapporto con la trascendenza nasce da un umanesimo fondato sull’autonomia della ragione, svincolata da ogni legittimazione metafisica.

Questo è solo uno dei temi che affiorano nel libro di Demetrio Paparoni Cristo e l’impronta dell’arte, edito da Skira, che ha il merito di porre la questione della rappresentazione del sacro nell’età contemporanea attraverso un percorso che a partire dalle icone bizantine si spinge fino a giorni nostri, in un metodo analitico e comparativo che accosta le opere di diversi periodi storici mostrando di volta in volta in volta la continuità, ma anche le dissonanze. Per quanto si sia potuto pensare che la visione scientifica del mondo avrebbe messo definitivamente in sordina il bisogno di religio-

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A pagina 28 Yue Minjun, Battesimo di Cristo, 2009 In questa pagina Wang Guangyi, Pietà, 2011.

Foto Wang Junyi

sità, come immaginava Émile Durkheim in epoca positivista, la tensione verso il trascendente non è mai venuta meno. È accaduto invece che le ideologie, come le religioni, hanno tradotto in termini terreni le aspirazioni a creare un paradiso in terra. Da parte sua, la scienza ha utilizzato il mito del progresso con la promessa di un mondo perfetto, un tempo appannaggio della religione. Ma tanto il mito delle ideologie politiche quanto quello del progresso non sono riusciti a realizzare i loro progetti. La dimensione del sacro è riemersa in forme e ritualità talora inedite, difformi dalla tradizione.

In tempi più recenti, ad alimentare la domanda di sacralità e di trascendenza è stata la tragica delusione prodotta dagli effetti perversi delle ideologie del Novecento, che non a caso con Karl Löwith

possiamo chiamare «teologie secolarizzate». Per altro verso, l’idea di realizzare un mondo perfetto da parte delle scienze ha prodotto concreti timori nei confronti di molte irresponsabili applicazioni tecnologiche. A tenere in vita la necessità di religiosità è lo scarto tra la dimensione trascendente del credere, che rimanda a una dimensione ultraterrena, e la pretesa dell’ideologia e della scienza che impongono di realizzare il proprio sogno entro orizzonti temporali definiti. Tutto ciò fa emergere il peso delle sconfitte della politica (l’esito dei totalitarismi) e della tecnologia (si pensi a Chernobyl o a Fukushima).

Seguendo l’itinerario tracciato da Paparoni, procediamo per passi. L’icona bizantina, come pensava san Giovanni Damasceno, rende visibile l’invisibile:

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Dio, invisibile agli uomini, si è manifestato attraverso il figlio. È dunque attraverso l’immagine visibile di Cristo che gli uomini possono cogliere il Dio invisibile.

In questo caso la bellezza si identifica con un messaggio teologico, ecco perché Paul Evdokimov, a proposito delle icone, ha parlato di «teologia della bellezza». Nel 1438 Jan van Eyck introduce la fisiognomica nell’icona, nel 1500 Dürer si autorappresenta come Cristo. È a partire da loro che l’arte rende immanente la trascendenza, riconduce cioè il divino alla condizione umana e terrena. È a partire da loro che dalla seconda metà dell’Ottocento artisti come James Ensor, Emil Nolde, Lovis Corinth, Akseli Gallen-Kallela, Marc Chagall, Yves Klein, Andy Warhol, Marlene Dumas, Mimmo Paladino, Francesco Clemente, Wang

Guangyi, Yue Minjun e molti altri di cui si trova traccia in questo libro conferiscono alla figura di Cristo valenze nuove che, paradossalmente, sono alimentate dalle antiche controversie cristologiche relative all’umanità e divinità di Cristo.

Il merito del libro di Paparoni sta nell’aver colto aspetti inediti del bisogno di sacralità nell’arte di oggi, evidenziando come ai giorni nostri tale bisogno si esprima in forme di creatività distanti da ogni adesione all’una o all’altra confessione. Ecco perché un artista di fede ebraica può rappresentare Cristo in quanto incarnazione della sofferenza umana (Chagall) e un artista cinese di oggi può dare immagine alla figura di Cristo intrecciando, in un contesto sincretico, questioni teologiche e politiche, come avviene in Wang Guangyi.

Quel che emerge scorrendo le pagine di

questo libro è che l’arte ha posto in primo piano l’immagine del sacro anche in un mondo secolare come il nostro, che si compiace spesso di definirsi desacralizzato. Attraverso un linguaggio piano e un intreccio di accostamenti per lo più inediti, Paparoni pone in evidenza come dalla seconda metà dell’Ottocento ai nostri giorni il sacro si manifesta in arte laicizzando la figura di Cristo, ma anche sacralizzando la forma umana.

Se tutto ciò non risulta estraneo a chi ha familiarità con la tradizione figurativa occidentale, il lettore si troverà invece spiazzato dinanzi alle soluzioni formali e concettuali elaborate dagli artisti cinesi che, come testimonia il libro, si relazionano in maniera esplicita ma non ortodossa all’iconografia cristiana. Basti pensare alla croce vuota e alle scale che vi sono

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poggiate nella Deposizione dalla croce di Yue Minjun, del 2009, riprodotta sulla copertina del libro. Qui l’artista cinese ricostruisce la scena della deposizione di Rosso Fiorentino (1521) conservata nella Pinacoteca Civica di Volterra, svuotando la scena della presenza umana. Chi conosce l’opera di Rosso Fiorentino non ha difficoltà a cogliere l’originale a cui l’artista cinese fa riferimento. Il dipinto di Yue Minjun fa emergere l’impossibilità di definire un chiaro fondamento del reale, come se fossimo sempre all’interno di un labirinto privo di chiari punti di riferimento che ne indicano l’uscita. Eppure, dinanzi al vuoto evocato da quest’opera un occidentale non può fare a meno di pensare alla concezione apofatica della teologia, secondo cui di Dio possiamo dire solo ciò che non è.

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PRIMO PIANO

EVENTI DI CLAUDIA COLASANTI

LA CAMERA DELLE MERAVIGLIE

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Due cerchi, il primo leggermente più piccolo: un logo perfetto come il centro di un mirino. L’immagine di un sogno – un’idea ambiziosa in un decennio economicamente sgraziato – che diventa, con la velocità di una freccia, realtà.

Si trova al centro di Torino, adiacente al Museo del Cinema e all’Egizio, poco sotto la Mole, laddove sorse la prima scuola pubblica del Regno d’Italia, parte di un complesso di proprietà dell’Opera Munifica Istituzione denominato isolato di Santa Pelagia. Una sede di duemila metri quadri, rielaborata dal progetto architettonico di Benedetto Camerana basato sull’impiantistica utile a ospitare qualunque grande opera.

Il suo nome è Camera – Centro Italiano per la Fotografia e nasce per dotare l’Italia di un centro presso cui fruire, studiare e sperimentare la fotografia come linguaggio e forma di espressione autonoma, in grado di ordinare le esperienze preesistenti e di valorizzare e promuovere la fotografia italiana in un dialogo permanente con le esperienze internazionali. Mediante studi e sperimentazioni, l’offerta culturale di Camera mira a stimolare il confronto, suscitare domande e approfondire il racconto della realtà attraverso le immagini.

Sin dall’inaugurazione, nell’ottobre 2015, ne è direttrice Lorenza Bravetta, trentotto anni con lunga esperienza collaborativa con Magnum, che - con Francesco Zanot e uno staff di trenta persone - ha la missione di immaginare progetti editoriali ed espo-

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L’ITALIA NELL’OBIETTIVO Dal 27 gennaio fino a maggio è in programma Sulla scena del crimine. La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni, mostra che prende spunto dalla fortunata esposizione parigina A Criminal Investigation presentata dal piccolo ma interessante museo Le Bal. Attraverso undici casi di studio, viene presentata al pubblico la storia della fotografia forense e di tutti gli utilizzi in chiave di prova, testimonianza, legale, storica e sociale. Dalla nascita di queste pratiche con il metodo Bertillon utilizzato dalle polizie di tutto il mondo al caso celeberrimo della Sindone (che in fondo resta un giallo irrisolto), dalle fotografie aeree utilizzate nella Prima guerra mondiale agli anni del Terrore in Russia e alle prove fotografiche impiegate nel processo di Norimberga, dove si scopre che i cineoperatori al seguito delle truppe americane erano stati istruiti niente di meno che da John Ford. camera.to

sitivi per valorizzare il fondo d’archivio di una ricchezza inestimabile. In un mondo bombardato dalle immagini, il suo intento è quello di «promuovere una nuova educazione allo sguardo e alla visione rivolto ai bambini come agli adulti».

Camera promuove un network internazionale di individualità e istituzioni, la cui collaborazione è volta a sviluppare nuovi progetti che portino l’esperienza e le potenzialità della fotografia a un pubblico ampio ed eterogeneo ed è stata creata attraverso una fondazione che riunisce singoli professionisti e aziende, tra cui Leica Camera Italia, storico produttore tedesco di fotocamere e obiettivi, ed enti privati e pubblici.

Membri fondatori sono Magnum Photos, da cui proviene la direttrice, e Progetto Cultura di Intesa Sanpaolo; Eni è main sponsor, il lanificio piemontese Reda e Lavazza sostengono il progetto, il Comune di Torino e Regione Piemonte hanno dato il loro patrocinio, mentre all’interno della sede la casa editrice Corraini di Mantova cura la libreria Camera Corrai-

ni. Il programma di Camera si articola in quattro sezioni: Mostre, Archivi, Didattica e Territori. Su una porzione di circa mille metri quadri della superficie espositiva totale, ogni anno saranno allestite tre esposizioni principali e una serie di mostre complementari, alternando esperienze italiane e internazionali, mostre antologiche di artisti affermati, collettive tematiche e progetti dedicati alle ricerche dei giovani fotografi.

Ampio spazio sarà dato all’approfondimento della fotografia di anonimi, familiare e d’archivio. La programmazione espositiva affronterà i vari generi e le diverse pratiche della fotografia, oggi sempre più in dialogo con le altre discipline dell’arte e non solo. Tutte le mostre saranno prodotte o coprodotte da Camera in collaborazione con altre istituzioni italiane e internazionali.

L’area didattica è finalizzata all’educazione visiva del pubblico, per incoraggiare lo sviluppo di una capacità critica autonoma, in un programma che promuove la fotografia come esercizio utile all’in-

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clusione sociale e all’accrescimento della sensibilità di analisi. Sono previsti workshop con fotografi eccellenti di Magnum Photos, che animeranno alcune delle località più suggestive in Italia. I partecipanti avranno la possibilità di imparare dall’esperienza di grandi maestri, in seminari intensivi su diverse tematiche della pratica fotografica, come ad esempio la street photography, il ritratto, la natura, l’architettura industriale e la ricerca antropologica. La sezione dedicata ai territori è una sorta di dipartimento trasversale per la creazione di sinergie e progetti condivisi con partner nazionali e internazionali, festival, fiere ed eventi culturali.

Tutti i tipi di attività, in particolare mostre, corsi e conferenze saranno organizzate in collaborazione con le istituzioni locali, nell’ottica di un superamento delle barriere geografiche e per il raggiungimento di pubblici differenti e la diffusione della fotografia. Gli archivi, infine, vedranno lo sviluppo di una piattaforma multimediale condivisa e la valorizzazione del patrimonio archivistico fotografico italiano.

In alto Ferdinando Scianna visita il Centro Italiano per la Fotografia A pagina 34 e a sinistra Visitatori di fronte alle installazioni fotografiche

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PRIMO PIANO

GRANDI MOSTRE DI LORENZO CANOVA

PABLO ECHAURREN IL PITTORE DELLA RIVOLUZIONE

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Un uomo impegnato su più fronti, un artista-intellettuale, ma anche un personaggio politico dalla visione ironicamente democratica, un appassionato ed esperto di futurismo capace di rivitalizzare le istanze migliori delle avanguardie storiche calandole nel fervido contesto della vita: su queste coordinate si dispone l’ampio progetto di mostra che la GNAM di Roma dedica a Pablo Echaurren. Il progetto, infatti, fonda il suo nucleo concettuale proprio sull’impegno politico che in modi diversi ha segnato la visione e l’opera di Echaurren (nato a Roma nel 1951), sin dal 1970, anno in cui, grazie al tramite dell’amico Gianfranco Baruchello, conosce Arturo Schwarz, grande esegeta e gallerista del dada-surrealismo. Non a caso, dopo il fortunato esordio, Echaurren ha scelto una strada più esplicitamente politica, gettandosi nel clima infuocato dei movimenti del 1977, sulla scia dell’idea futurista di fare sfociare l’arte nel contesto esistenziale e dedicandosi all’esperienza dei celebri Indiani metropolitani.

In questo senso, la volontà della mostra è quella di non comporre un’antologica, ma di sottolineare invece la particolare posizione dell’autore nel contesto contemporaneo, la sua speciale rielaborazione di istanze di avanguardia e il suo contributo innovativo a un momento storico di grande fervore.

La mostra Pablo Echaurren. Contropittura, in scena fino al 3 aprile 2016, segue in modo organico l’impegno dell’artista di, presentando oltre sue duecento opere dagli

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anni settanta a oggi – tele, disegni, collage – e un’ampia selezione di documenti, elementi importanti anche per ricostruire il mosaico di un periodo complesso e spesso drammatico. Il percorso si apre pertanto con le prime opere di Echaurren, i suoi «quadratini», piccoli acquerelli e smalti dedicati alla politica, alla musica e alle passioni personali dell’artista per le scienze naturali e il collezionismo. Il nucleo basilare dell’esposizione è incentrato poi sui disegni e collage inediti collegati all’esperienza degli Indiani metropolitani, movimento che, nel 1977, ha usato codici e stilemi delle avanguardie storiche in aperta polemica con la massificazione mediatica, nella volontà di liberare le ricerche solitarie ed esoteriche di Marcel Duchamp dal loro esclusivismo aprendole a una dimensione collettiva che le ren-

desse finalmente fruibili a tutti, tentando di realizzare una delle più estreme utopie delle avanguardie storiche nel loro progetto di rimodellare il mondo.

La mostra prosegue con i cicli di grandi opere su tela degli anni ottanta e novanta, che entrano con efficacia nelle problematiche del mondo contemporaneo, trattando ad esempio le stringenti questioni relative all’ecologia e all’ambiente, come accade con gli intensi collage degli anni novanta che l’autore ha realizzato rielaborando manifesti politici e pubblicitari.

Il percorso comprende anche opere più piccole come le Decomposizioni floreali e il recente ciclo delle Pitture da muro, in cui l’artista evidenzia tutta la sua capacità di interpretazione dissidente e anticonformista del sistema dell’arte, in una posizione critica e ironica che lo rende uno dei

A destra Pablo Echaurren nel suo studio A pagina 36 La vecchia Mother Jones con le sue selvagge, 1974 A pagina 39, in alto Voi siete qui, 1989 A pagina 39, in basso Vermi!, 1990

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più lucidi lettori di un mondo spesso dominato da contraddizioni incomprensibili.

In questo progetto Echaurren riassume le caratteristiche che segnano la visione della sua «contropittura», in un percorso globale che idealmente collega tutta la sua opera nella stringente coerenza del suo sguardo severo e giocoso. L’artista si rivela un autore capace di mescolare senza soluzione di continuità i diversi livelli del suo lavoro, facendo dialogare con intensità la pittura con l’illustrazione, il manifesto pubblicitario e il fumetto, con uno sguardo concettuale, giocoso e sarcastico che rinnova nel presente le grandi elaborazioni del futurismo e del dadaismo. In più di quarant’anni di lavoro, Echaurren ha saputo infatti mescolare il collage di avanguardia alla fanzine, memorie colte a soluzioni pop, in una visione

tuttavia sempre legata alla necessità di un intervento politico nel contesto contemporaneo, alternando la dimensione del francobollo alla vastità del muro dipinto, in una concezione che vuole liberare l’opera dalla sua immobilizzante dimensione museale e aprirla all’azione diretta allo spazio vitale della realtà.

In questo modo l’avanguardia ritrova la sua missione originaria e perde il carattere elitario che nel tempo l’ha allontanata dal suo progetto di trasformazione collettiva del mondo, alterandone la natura utopistica e la missione di apertura totale al territorio fluido e complesso della vita. In questo senso la mostra ci presenta un Echaurren attivo con strumenti diversi, come si può vedere negli originali di giornali e disegni realizzati per il quotidiano Lotta continua e in altri materiali inediti come disegni, collage, quaderni di appunti. Le sollecitazioni di Duchamp e Picabia sono rielaborate con intensità per un intervento non più neutrale, ma concentrato in un contesto politicamente attivo.

Non a caso, allora, Echaurren ha proseguito la sua ricerca in dialogo con lo spazio urbano, in una contaminazione con la città intesa come palinsesto di stimoli e di spunti visivi, un tessuto che si arricchisce di stratificazioni e di sovrapposizioni temporali e culturali. L’artista

appare come un riconosciuto precursore dell’area più interessante della street art e dell’arte urbana di oggi, un autore in grado di uscire dalle logiche troppo spesso ristrette del mercato e delle gallerie per tornare con forza nel cuore delle città, dove per secoli le arti visive hanno rappresentato un elemento portante della vita e della condivisione sociale.

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Così, anche nel suo pluridecennale lavoro sul collage, Echaurren fonde tracce verbovisive e iconiche, codici della comunicazione e anarchia della costruzione, in una festosa felicità espressiva che esplode nella vibrante fusione di scrittura e immagine per rinnovare il suo messaggio di libertà, di riflessione e di azione sul mondo.

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PRIMO PIANO

GRANDI MOSTRE DI MARIA FAVA

SERENISSIMI SPLENDORI

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La velocità implica semplificazione, la semplificazione porta a banalizzare. Capita allora che in un periodo storico in cui la comunicazione si sviluppa con rapidità fulminea – arrivando così spesso a sostituire l’immagine alla parola, l’istintività alla riflessione – anche fenomeni complessi vengano annacquati a puro simbolo, iconografie trattate quasi fossero il logotipo di un prodotto commerciale. Dici Venezia, dici pittura e dici paesaggio: tre input per un solo output, che nella vulgata comune produce in modo più o meno nitido e chiaro l’immagine del Canal Grande, colta da chi non può non apparirci come un predestinato. Giovanni Antonio Canal, ovviamente: nomen omen per un pittore che alla lunga subisce la stessa sorte delle vedute che traccia su tela. Si fa icona, si fa simbolo; si fa brand: così come la crema spalmabile alla nocciola non è ormai più tale da tempo, ma è Nutella – punto e basta; allora i paesaggi dipinti della Venezia che fu sono Canaletto. Punto e basta.

Come spesso succede il discorso è ben più ampio, ricco e affascinante. Come ampia, ricca e affascinante è Lo splendore di Venezia, mostra che ricostruisce a Brescia, nelle sale di Palazzo Martinengo, l’epopea del vedutismo. Tributando i giusti e doverosi onori al cosiddetto grand siècle, l’esplosivo Settecento della famiglia Canal – il capostipite Bernardo, il figlio Giovanni Antonio, il nipote Bernardo Bellotto – ma ampliando lo sguardo per comprendere il prima e il dopo, andando a caccia di pro-

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dromi e anticipazioni, svelando evoluzioni originali o manierate.

Una missione potenzialmente impossibile: Davide Dotti, che della mostra firma la curatela, riesce però a evitare le ansie di risalire ab ovo e si impone di trovare un referente ideale, un momento fondativo da cui partire. Non si risale allora alla scuola del paesaggismo veneto, non si cercano legami non pretestuosi ma forse nemmeno così marcati con i maestri del rinascimento; il capitolo uno è tutto per Gaspar van Wittel, che scende dalle Fiandre per stabilirsi nel belpaese – dove metterà su famiglia: il cognome italianizzato è Vanvitelli, suo figlio Luigi disegnerà la reggia di Caserta. È il buon Gaspar che, nei suoi viaggi su e giù per lo Stivale, usa uno strumento molto diffuso tra i suoi colleghi nordici, meno tra quelli mediterranei: la camera ottica, lontanissima parente della macchina fotografica – almeno quanto l’australopiteco lo è dell’uomo, ma tant’è – strumento non agevolissimo e poco pratico, ma importante per risolvere problemi ottici di aberrazione dell’immagine quando si tratta di riprendere dal vero paesaggi molto vasti. È con Van Wittel, insomma, che lo sguardo si allarga, in senso letterale e concettuale, aprendo la strada a un modo nuovo di osservare lo spazio

urbano: in quella sintesi tra il reale e il percepito che diventa, nella declinazione operata da ciascun artista, la cifra di percorsi originali e tra loro spesso divergenti. È nella resa della luce che si misura lo scarto maggiore tra un maestro e l’altro; è nel dipanarsi delle varie cromie e tonalità che la mostra di Brescia riesce nell’eccezionale risultato di squadernare un atlante insieme generale e particolare. Perché sì, le vedute sono tutte veneziane; e sì, i passaggi sono spesso ricorrenti quanto tappe obbligate – il Canal Grande su tutti – ma ogni inquadratura, ogni sfumatura contribuiscono a creare mondi lontani, proiezioni di geografie interiorizzate che si esprimono, pudiche, sottotraccia. E così le foschie di Bernardo Canal si lasciano spazzare via dal nitore (fanta)scientifico di Canaletto; per volgere nello spazio di pochi anni, attraverso i contrasti cromatici di Bellotto, alle sospensioni temporali di Francesco Guardi. Quasi metafisico nell’insondabile mistero delle sue vedute.

Le cento opere esposte a Brescia, in arrivo da importanti collezioni pubbliche e private italiane e straniere, tracciano però una parabola ben più ampia di quella limitata alla sola epoca d’oro del classico vedutismo. Curiosa la sezione dedicata a Venezia nello specchio di rame, con un

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focus sull’incisione che nella rinuncia al colore e nella concentrazione sul segno offre – attraverso i lavori di Luca Carlevarijs, Canaletto, Michele Marieschi, Antonio Visentini, Antonio Sandi e Giambattista Brustolon – un catalogo di suggestioni visuali che contribuiscono alla trasfigurazione di Venezia in città ideale, bizzarria spaziale che si astrae dal concreto per alzarsi, magnifica e irraggiungibile, nell’empireo del sogno.

Un sogno che prosegue anche oltre il XVIII secolo, oltre la stagione spensierata e irripetibile dei Casanova e dei Goldoni; un sogno che a Palazzo Martinengo si trasfigura, di tela in tela, fino a lambire i confini cronologici dell’età contemporanea. Passando dalla rarissima e imponente piazza San Marco ritratta nel 1839 dal bresciano Angelo Inganni, calembour di frizzante vitalità, alle vedute di maniera della romanticissima famiglia Grubacs – tre i pittori di casa: Giovanni, Carlo e un immancabile Marco –, passando per Giovanni Migliara e Ippolito Caffi, solo per citare i maestri dal percorso più apprezzato.

Il percorso espositivo disegna insomma il fascinoso paradosso di una città in cui sembra realizzarsi l’inverso della più celebre sentenza gattopardiana: a Venezia nulla cambia perché tutto cambi.

A sinistra Federico Moja, Piazza San Marco con l’acqua alta, collezione privata In basso Canaletto, Il Canal Grande con il ponte di Rialto secondo il progetto di Palladio, Parma, Galleria Nazionale A pagina 40 Francesco Guardi, Punta della Dogana, collezione privata, particolare A pagina 42 Luigi Querena, Carnevale in Piazzetta, collezione privata

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Noi come puzzole, 2013

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VISTI DA VICINO

MAESTRI CONTEMPORANEI DI FLAVIO ARENSI

LA GRANDE NATURA VIVENTE DI PIERO GILARDI

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Lo studio di Piero Gilardi si trova in un vecchio cortile torinese. Poco distante la sua creatura più amata, il Parco d’Arte Vivente, un centro di sperimentazione non soltanto artistico che trova proprio in quel participio, «vivente», il senso di uno sguardo aperto al futuro e alle nuove generazioni.

Maestro, come è nata la necessità del parco?

Il Parco d’Arte Vivente è il terzo di tre grandi progetti ed è quello che è stato realizzato. A un certo punto del mio percorso artistico ho maturato l’esigenza di comunicare agli altri, non solo di creare oggetti, ma vere e proprie situazioni di creatività partecipata e collettiva. Tutti gli anni settanta, fuori dalla scena artistica, sono stati dedicati all’impulso e alla valorizzazione della creatività collettiva, ed è su questa base che ho poi misurato progetti capaci di affermare la stessa dimensione coinvolgente.

A che cosa si riferivano gli altri due progetti di cui parlavi?

Biba e Ixana delineavano le possibilità di un parco tecnologico in cui la partecipazione del pubblico si esplicava attraverso svariati sistemi di interattività tecnologica.

Che cosa intendi per «interattività tecnologica»?

Certamente non è mai il gesto di muovere un joystick o di digitare sul computer, bensì un atto fisico che con un’interfaccia tecnologica realizzi una interpretazione, ad esempio spostare un oggetto su un pavimento che abbia sensori magnetici oppure

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EcoagorĂ , 2015

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collegare l’apparato dell’opera al proprio battito cardiaco attraverso un piccolo rilevatore della pressione sanguigna. L’interattività è sempre mediata attraverso aspetti corporei e, cosa importante, è sempre un’interattività collettiva. Nella new media art, le prime espressioni sono state quelle della realtà virutale applicata attraverso un caschetto individuale, di converso tutti i miei lavori interattivi sono sempre a fruizione multipla, implicano sempre una collettività.

Come si inseriscono in questa meditazione i tuoi Tappeti natura, forse ancora fra le tue opere più largamente conosciute?

Non sono quadri, sono appunto tappeti e in quanto tali sono oggetti di uso domestico allargato, che si offrono alla intermediazione del corpo e delle persone; benché il Tappeto natura sia fatto di una materia non animata da un apparato virtuale digitale, le superfici sono già interattive, nel senso che si offrono alle persone che possono dormirci, farci l’amore, relazionarsi con altri soggetti.

Qual è stato il motivo che ti ha condotto ad affrontare i temi legati alla natura?

La mia fascinazione nasce ovviamente dalla mia storia soggettiva, nel senso che la mia primissima infanzia, dai sei mesi ai tre anni, l’ho vissuta in campagna. In tempo di guerra la mia famiglia è stata sfollata nelle prealpi a una cinquantina di chilometri da Torino e ho vissuto la mia primissima infanzia (nella psicanalisi i primi tre anni sono quelli in cui si forma il carattere e in cui l’imprinting è più forte) con questa immagine della natura fortissima; così, per tutta la vita, ho lavorato al tema dell’arte e della natura, una dialettica che si è evoluta, come d’altronde sono evolute le condizioni e i modelli di sviluppo della nostra società.

La tua però non è solo un’osservazione, ti sei spinto ben oltre.

Gli anni sessanta sono quelli dell’industrialismo trionfante, dal boom del dopoguerra con una forte volontà di ricostruire che aveva in sé la radice dell’antropomorfismo, per cui la natura andava do-

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minata e controllata; ecco, questa natura cominciava a essere un po’ troppo inquinata e quindi ho ricostruito una natura con le mie mani e con i miei strumenti attraverso l’utilizzo di materiale artificiale. Sono nati così i Tappeti natura che non avevano alcun intento edulcorante né decorativo, erano piuttosto l’utopia di una natura ricostruita attraverso l’arte, e nello stesso tempo erano una critica alla natura dell’artificialità che stava invadendo gli arredi, come le piante di plastica utilizzate un po’ ovunque. Se vuoi, erano il gesto esorcistico di prefigurare una natura intonsa, non offuscata, non avvelenata dall’uomo e nel contempo un atto di accusa alle moquette sintetiche e a tutto ciò che di artificiale veniva prodotto in quella fase del capitalismo industrialista. È cambiato il modo di rapportarti all’intento dell’opera d’arte?

Ho continuato a realizzare i Tappeti natura scegliendo linguaggi più o meno denunciatari, ma nel frattempo il mio lavoro si è mosso anche in altre direzioni, pur mantenendo inalterata l’attenzione per certi temi che ricorrono. Nella mia installazione Noi come puzzole, per esempio, affronto un nuovo modo di rapportarsi con il mondo animale; ciò presuppone l’uscita dall’antropocentrismo, aprendo a un dialogo con l’intelligenza diversa dell’animale.

Come accade tutto questo?

Inizialmente ci si specchia in un monitor in cui pian piano il volto umano assume la forma di quello di una puzzula, mentre nella cuffia si sente il verso dell’animale.

Quindi, si entra nell’installazione in cui si vede l’ombra di un rapace che gira in cerca di preda, sentendono il rumore del volo, i fischi di vento sempre più vicini.

Alle spalle ci sono rovi tra cui i mustelidi possono nascondersi per non farsi catturare. Se non si ha l’astuzia di andarsi a nascondere, si vive la sensazione di un volo planato sempre più incombente.

La reazione della puzzola?

Molto differenti, a seconda del soggetto.

Qualcuno ha partecipato con grande curosità, altri immedesimandosi totalmente, in ogni caso tutti hanno sperimentato un’emozione. La reazione dipende dalla propensione del singolo a lasciarsi andare.

In fin dei conti, l’artista è colui che sa far notare cose che altrimenti sfug-

Sopra Noi come puzzole, 2013 A pagina 48 Cavoli e neve, 1984

gono. Che rapporto ha oggi l’artista con la società?

Ritengo che se l’artista desidera veramente sostenere la trasformazione della società deve anche essere militante, non può limitarsi a produrre simboli o immagini ideologiche, deve necessariamente partecipare al movimento per la trasformazione della società. Nel mio caso, e non sono il solo, lotto contro la distruzione della biosfera che il capitalismo neoliberista opera in maniera sempre più violenta. Oggi i concetti di militanza non sono più quelli tradizionali, ma chiedono di condurre esperienze alternative. Per me, per esempio, la struttura dell’Ecoagorà, questo piccolo anfiteatro che ho più volte allestito, è un nucleo di produzione e discussione di coscienza ecologica che vivrà nel tempo, perché c’è una prossemica favorevole al dialo-

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go. Oltre a scendere in piazza contro gli Ogm, costruisco oggetti comunitari che servono a sviluppare e incrementare la presa di coscienza.

Queste istanze derivano dalle tue esperienze con l’arte povera o ne sono state piuttosto una naturale conseguenza?

L’arte povera è stato un movimento artistico politicizzato, omologo del movimento studentesco. Il mio primo imprinting politico è avvenuto nel foyer intellettuale degli artisti dell’arte povera di Torino, poi sono diventato militante, mentre altri – tranne Pistoletto – sono rimasti nel loro studio a lavorare. Non vedo dunque che una continuità con quegli anni: ho soltanto cercato di comunicare in maniera differente, con maggior attenzione al coinvolgimento delle persone. Della collettività, appunto.

Explosion�, Lungo Crati , Cosenza, Foto Fabio Costantino Macis

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VISTI DA VICINO

NUOVE GENERAZIONI DI ALBERTO ZANCHETTA

DONATO PICCOLO. DEUS IN NOBIS

Nelle opere di Donato Piccolo assistiamo a una destrutturazione molecolare e a una riconfigurazione atomistica che trae linfa vitale dal binomio teoria-processo. Ne parliamo con l’autore, per meglio comprendere quell’ambiguità che da secoli accomuna l’arte all’alchimia.

Arthur C. Clarke ha detto che ogni tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia. Adorno asseriva invece che l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità. Sarebbe quindi facile paragonarti a un negromante, ma quanto c’è di programmato e quanto di aleatorio nelle tue opere?

Tutto ciò che ci circonda fa parte di un sistema di simbolismi e riferimenti necessari a una analisi conoscitiva del mondo nelle sue incredibili sfaccettature. Come in una trasformazione alchemica, nelle mie opere gli elementi si trasformano passando, ad esempio, da un stato liquido a uno stato gassoso. Lo si può constatare nella serie degli Uragani o nelle Colonne sonore o in Perché non fuma Mr Cavendish. In quest’ultimo caso, l’acqua arriva addirittura a trasformarsi in neve e il vento a creare una tempesta dando vita a un habitat naturale che è, in realtà, innaturale, artificiale.

I miei lavori nascono attraverso una formulazione programmata e articolata del pensiero, benché spesso essa si riveli sbagliata o, meglio, non rispettosa della sua natura programmata scontrandosi con quella casualità che dona però il senso della scoperta e insieme una nuova dimensione della realtà. Sì, forse questa è magia.

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Luce, bolle, vapore, nuvole, nebbia sono solo alcune delle situazioni effimere da te indagate. Credi che sia preferibile ricercare piuttosto che creare, scoprire piuttosto che inventare?

Credo sia impossibile conoscere in senso assoluto, cioè una volta per tutte, perché tutto quello che viviamo è in uno stato transitorio e in continua trasformazione. Il tempo e lo spazio, inscindibili tra loro, ci danno una visione del solo mondo fenomenico, cioè delle cose come ci appaiono, ma nulla ci dicono della loro vera essenza.

Questa rimane pensata ma inconoscibile, reale ma immateriale. È il noumeno kantiano che esclude la conoscenza della verità.

Penso che solo l’arte riesca a estrapolare dalla realtà una verità che non appartiene per forza al mondo tangibile ma è il fondamento della nostra percezione.

Sempre più spesso l’arte si insinua sull’altare della scienza e della tecnica.

Mi viene in mente l’eccentrico Richard Feynman, uno dei tanti fisici teorici che

Donato Piccolo - Il Piccolo Principe © Giovanni De Angelis, 2015

Butterfly Effect, Roma, MACRO. Foto Simon d’Exèa Trombadori, courtesy Galerie Mario Mazzoli, Berlino

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presero parte al Progetto Manhattan durante la seconda guerra mondiale, il quale collaborò con Jeff Koons per la serie Equilibrium. C’è uno scienziato, del presente o del passato, con cui ti piacerebbe aver collaborato?

Un mio grande amico, l’uraganologo Alfonso Sutera, da poco scomparso, parlandomi della risonanza stocastica mi ha ispirato l’opera Butterfly Effect, una scultura di grandi dimensioni che gioca sulla celebre domanda di Lorenz: «Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?». Un quesito che sottolinea il legame di causa ed effetto per cui qualunque circostanza, comportamento o azione condiziona un intero sistema planetario.

Lo scienziato Gianni Jona-Lasinio mi ha invece fornito le chiavi di lettura per studiare la teoria della «rottura spontanea della simmetria della natura», un modello matematico quantistico che mi ha stimolato a lavorare su opere come Contronatura, in cui una gamba robotica calcia continuamente qualcosa, il cui variare modifica a sua volta anche il significato dell’opera, che dunque può dirsi in continua trasformazione ed evoluzione.

Se devo pensare a uno scienziato con cui mi sarebbe piaciuto collaborare, mi viene subito un nome: Nikola Tesla. Le sue scoperte mi hanno spinto a interessarmi ai campi magnetici riprodotti attraverso bobine capaci di rendere visibile l’energia. È nata così l’opera Fanta-scienza, una lattina di Fanta magnetizzata e resa elettrica, capace di emettere microfulmini. Un altro lavoro che va in questa direzione è Le fleur électrique: si tratta di un fiore creato sfruttando l’effetto di scariche elettriche e cercando, in un certo senso, di controllare l’energia per farla confluire in direzioni specifiche. Considero questa scultura una piccola creazione vitale, una vita in trasformazione o in fermentazione, come dice lo stesso Feynman: «Cos’altro è la vita se non fermentazione?».

Di solito cerchi di convertire tutto in un’eccezione anziché in una regola: destabilizzi gli equilibri, sfidi le leggi universali della natura, incrini le simmetrie e le dinamiche tradizionali. C’è in queste tue opere una scintilla luciferina, ma anche fanciullesca, da apprendista stregone. Il risultato è quello di un’art in process che i disegni contribuiscono a spiegare.

Perché non fuma Mr Cavendish, 2010. Foto A. Sabatiello

Alcuni disegni sono paradossi della fisica o di un pensiero, in quanto impossibili in una realtà fisica: nei disegni si annulla la forza di gravità, la prospettiva diventa punto focale e il segno diventa pensiero. Ultimamente ho disegnato esplosioni di diversa natura. Debbo dire che sono talmente attratto dal concetto di esplosione che l’ho disegnata in diversi modi e ho sentito l’urgenza di realizzarla, dal vivo, utilizzando diversi elementi altamente reattivi, dal potassio puro fino alla polvere da sparo.

Ciò che mi interessa dell’esplosione è che essa diventi un’«immagine estetica» capace di imprimersi nella mente del fruitore.

Per me è un’emozione diretta, uno spazio

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di tempo in cui ripercorriamo le fasi della creazione e distruzione alla base della vita; in 0,2 secondi riviviamo un’esistenza che si distrugge nel passaggio forzato dal microcosmo al macrocosmo. In equilibrio tra materia e antimateria, l’esplosione ha regole formali ben precise e pare rispettare una forma mentis visiva quasi rinascimentale. Nel mio caso, costituisce l’opportunità di creare una scultura «instabile».

Qualcuno ha detto che è sempre bene lasciare qualcosa di irrisolto nei nostri progetti, per non suscitare l’invidia o l’ira di Dio. Qual è il fenomeno naturale che in futuro vorresti riprodurre «in coltura»?

Mi piacerebbe creare un tramonto. Vero.

Augusto Perez, Luigi XIV, 1966

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VISTI DA VICINO

CONVERSANDO SUL SOFÀ DI LORENZO RESPI

MATERIMA, DOVE SI ICONTRA LA SCULTURA

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Nicola Loi si occupa di scultura da oltre quarant’anni, dai primi anni settanta, quando di ritorno da una visita alla fiera di Düsseldorf si rende conto che la scultura in Italia non ha lo stesso peso che le viene attribuito all’estero. Decide così di dedicarsi alla diffusione della conoscenza delle discipline plastiche, prima con lo Studio Copernico a Milano e successivamente con Materima a Casalbeltrame, vicino a Novara.

Materima è una realtà produttiva ed espositiva che esiste, ormai, da quasi dieci anni. Come è iniziata la sua avventura? Da che cosa nasce un nome così allusivo proprio rispetto alla sostanza della scultura, la materia?

Il mio obiettivo è stato fin da subito quello di importare la scultura in Italia. Inizialmente cercavo uno spazio adatto solo a immagazzinare le opere, anche di grandi dimensioni.

Però, dopo aver acquistato questo tipico cascinale nella campagna piemontese, e mentre svolgevo i lavori di ristrutturazione, da più parti gli artisti hanno iniziato a chiedermi dove potevano trovare laboratori per creare le loro opere. Da qui è nata l’idea di concentrare in un solo luogo tutti i laboratori produttivi necessari agli scultori. Ho voluto realizzare nell’età contemporanea una bottega in vero spirito rinascimentale, un luogo in cui gli artigiani di diverse tendenze potevano collaborare tra loro, scambiarsi le conoscenze e aiutare gli artisti nell’esecuzione. La mia intenzione è stata quella di creare un centro in cui uno scultore potesse venire con un progetto o un’idea e

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Materima, cortile principale

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andare via con la scultura finita. Il nome Materima sintetizza i due concetti chiave del mio progetto, materia e manualità, e ha un timbro incisivo, un tono secco, facilmente memorizzabile.

Materima è un luogo della scultura, e per la scultura, è uno spazio permeabile dove artisti e artigiani si incontrano e insieme lavorano per realizzare alcuni dei capolavori dell’arte contemporanea. Quali sono le maestranze e i laboratori che Materima mette a disposizione di chi vuole «fare» scultura?

Trovare le maestranze è stata la cosa più difficile, sia per la resistenza degli artigiani a tramandare le proprie conoscenze sia per la rarità sul mercato di certe figure professionali molto specializzate. Per questi e altri motivi i laboratori di Materima non sono mai decollati del tutto. A Casalbeltrame si trovano un laboratorio per la lavorazione della pietra – marmo, in particolare – e uno per la ceramica e la terracotta, una falegnameria per l’intaglio del legno, una fonderia per i metalli (in costruzione) e una calcografia dotata di tornio. Attualmente, l’attività laboratoriale è sospesa per complicanze burocratiche, legate ai permessi della soprintendenza, che spero di risolvere nel più breve tempo possibile per ricominciare con il lavoro produttivo e la programmazione espositiva.

Il carattere distintivo e il punto di forza del progetto di Materima è la trasmissione della conoscenza di quelle tecniche artigianali, pratiche, assolutamente necessarie per supportare la creatività degli scultori. Ricerca sui materiali tradizionali e sperimentazione di tecnologie all’avanguardia: come convivono tradizione e innovazione nella pratica?

Periodicamente artigiani con diverse specializzazioni si trasferiscono a Materima per qualche tempo. Qui lavorano alla produzione di grandi opere in bronzo e in pietra oppure si dedicano al restauro dell’arte moderna e contemporanea.

A loro affianco sempre qualche giovane apprendista, da formare, al quale il capomastro deve trasmettere le conoscenze e l’esperienza. L’impresa più ardua è stata convincere questi maestri a insegnare ad altri i trucchi del mestiere e tramandare il loro mestiere. Nel frattempo

le tecnologie avanzano e le tecniche di lavorazione si affinano, però certe finiture si possono, e si potranno, realizzare sempre e solo a mano.

Quali sono gli scultori con cui lei ha condiviso l’attività professionale negli ultimi trent’anni? Ce n’è uno, in particolare, con il quale ha instaurato un legame più profondo, di amicizia?

Ho iniziato a lavorare con gli scultori della prima metà del Novecento, come Marino Marini, Pericle Fazzini, Giò e Arnaldo Pomodoro, Umberto Mastroianni, Giacomo Manzù, Francesco Messina, Pino Spagnulo. Poi sono passato alle generazioni successive, quelle di Giuliano Vangi, Augusto Perez, Floriano Bodini, Novello Finotti, Giuseppe Maraniello, Riccardo Cordero. Adesso seguo artisti più giovani Paolo Delle Monache, Piergiorgio Colombara, Maïmouna Guerresi, Park Eun-Sun. Ho avuto ottimi rapporti con tutti gli artisti con cui ho lavorato, il che mi ha permesso di frequentarli anche al di fuori dell’ambito lavorativo, in maniera più intima e informale, condividendo con loro molti capitoli espositivi della loro carriera.

Per concludere. Cosa ci aspetta nel futuro di Materima?

Dalla prossima primavera saranno riattivati i laboratori in cui i maestri artigiani insegneranno alle generazioni più giovani il lavoro manuale. Anche lo spazio espositivo riprenderà a vivere con eventi e mostre. La produzione delle opere continuerà per sostenere le attività e la ricerca. Infatti sto lavorando insieme alle istituzioni per fare di Materima un centro di eccellenza per il restauro dell’arte moderna e contemporanea, che affronti i gravi problemi di conservazione che affliggono i materiali. Infine ci sarà la foresteria, che ospiterà in ventun appartamenti indipendenti le maestranze e gli artisti per tutto il periodo necessario alla realizzazione di un’opera o al suo restauro.

Materima non è semplicemente un luogo di progettazione e di produzione, è una filosofia di lavoro tramutata in pratica. Coinvolge artisti e artigiani, giovani emergenti e apprendisti, che si incontrano e si confrontano sul terreno comune dell’esperienza e collaborano fianco a fianco per la realizzazione di un’idea, quella dell’arte.

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FONDAZIONE MATERIMA Materima sorge a Casalbeltrame, piccolo comune a pochi chilometri da Novara, a metà strada tra Torino e Milano.

La bellezza dei luoghi e la presenza di numerose specie di uccelli nidificatori e migratori hanno reso il territorio di Casalbeltrame parte dell’oasi protetta del parco naturale delle Lame del Sesia.

La nuova sede è nata dall’attenta ristrutturazione di un tipico cascinale piemontese. I lavori, iniziati nel 1997 e durati quasi dieci anni, hanno recuperato la struttura originale rendendola più solida e ne hanno esaltato particolari come la struttura del tetto in legno, le volte in mattoni a vista o le colonne che sostengono le volte.

Nei suoi ventimila metri quadri, Materima fornisce all’artista i mezzi e le conoscenze per realizzare le sue opere. Lo scultore può contare sull’aiuto di artigiani per gli ingrandimenti e la formatura dei modelli, su una fonderia, su laboratori per la lavorazione del marmo e della ceramica e su una calcografia attrezzati per ogni esigenza.

Con Materima si salvaguardano mestieri come quello del marmista scalpellino, del ritoccatore di cere o del cesellatore del bronzo. Figure che hanno contribuito all’affermazione dell’arte italiana nel mondo, ma che rischiano di scomparire. È il luogo in cui gli artigiani di svariate discipline possono collaborare tra loro per mettere in condizione gli artisti di realizzare i propri progetti. Materima è dotata anche di una biblioteca specializzata sulla scultura, che la rende un luogo di formazione culturale completo. materima.it

A destra, in alto La sala di Francesco Messina con alcuni dei suoi lavori in marmo e bronzo In basso Uno scorcio del grande cortile con opere di Bodini, Consagra, Manzù, Maraniello, Marino Marini, Mastroianni, Messina, Perez, Arnaldo e Giò Pomodoro, Spagnulo, Vangi

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VISTI DA VICINO

APPUNTAMENTO CON LA STORIA DI PAOLO BONARI

PARISE, POETA

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Così, tutto in maiuscolo, come farebbe un writer che volesse ingentilire il caseggiato, come fece Parise, che avvertì rovinarsi, nel giro di quel «decennio di ideologismo verbale incontrollato e permanente» che seguì il Sessantotto, quasi una cultura intera, la nostra, e compose i Sillabari, un libro che si assentò dal proprio tempo e che ebbe accesso alla classicità, a quello status invidiato, fin da subito; tutti in maiuscolo, come andrebbero scritti i titoli delle «poesie in prosa» che stanno a sillabare i sentimenti elementari di cui quel libro è l’itinerario, l’avventura misericordiosa.

Bisognerebbe fare molti passi indietro, ma non so se è il caso, quando il caso è Goffredo Parise, uno che pigliava le questioni dalla punta, proprio quando le questioni erano le vite (e le opere) degli artisti, degli amici: uno specializzato negli addii, nel sancire per mezzo scritto quel «possesso signorile di una realtà che siamo sul punto di lasciare per sempre» che è la ragione segreta dei Sillabari, secondo Cesare Garboli. Li ricordava uno per uno, gli amici, e più volte: dinanzi a tutti, quei cinque membri della last generation italiana – non lost: last –, quelli che, ultimi, ebbero un’esistenza integralmente letteraria: Comisso, l’«amico artista» e pazzo che egli aveva a Treviso, e Gadda, poi Piovene, Montale e Moravia, che non fece in tempo a salutare. Della propria generazione, invece, considerava se stesso e

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Pasolini e Calvino, e li definiva «ibridi», giovani sopravvissuti di un’età passata e vecchi superflui del presente che preferisce il futuro: quando lo scritto perderà la propria supremazia artistica.

Postille: la tradizione ammetterà qualche contestazione, se è vero che, nei confronti della diade Pasolini-Calvino, ogni timore o terrore reverenziale era bandito da Parise, e che una terza via sarebbe possibile, forse, che era la sua.

Trent’anni dopo, quel condizionale non riusciamo a deporlo, come non accettiamo l’ingiustizia che «la poesia va e viene, vive e muore quando vuole lei, non quando vogliamo noi e non ha discendenti»: non è di tutti, la poesia, non è molto social, non risponde ai richiami, non si fa comandare e mette in imbarazzo chi non ce l’ha, chi non (ce) la fa – la poesia, che è l’interesse di Parise esclusivo e sufficiente, che non è definibile dalle ideologie critiche letterarie, oltrepassa tutti i generi e che sarebbe l’arte stessa, poi, ma che non è lo stile, perché «per fare dello stile si può anche essere insinceri, anzi, si deve essere insinceri, ma non per tentare di fare dell’arte. L’arte è più difficile dello stile».

Di nuovo, «se lo stile ha degli eredi, l’arte è come una farfalla, senza eredi e capricciosa, si posa dove e quando vuole lei»: rimodulare l’urgenza di questa consapevolezza non dà anche sollievo?

Disparità e sollievo, durante la rincorsa affannata all’espressione artistica che avrebbe da essere, nella furia del risentimento democratico, alla portata di tutti. Se così fosse, ci toccherebbe dare ragione a chi annunciava l’epoca della riproducibilità tecnica dell’arte – Parise: «(ma ho i miei dubbi)». Ah, ecco, basta non ribadire la svista di Benjamin: riproducibile non è l’arte, ma lo stile – l’arte è salva, difficile e salva.

Il peccato che costava l’espulsione dalla casa disordinata ma solida dei padri-amici di Parise, l’essere replicabili: un’occhiata a Frederic Prokosch condannò altri due scrittori, Somerset Maugham e Truman Capote, perché si veniva a scoprire, così, che essi sono «facilmente imitabili», tanto che il primo riusciva a fare il verso agli altri due e la lettura dei loro libri non sarà più la stessa, allora.

Persa quella loro singolarità, perdono fascino, a Parise passa un po’ la voglia di frequentare le loro pagine, il loro truc-

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co è scoperto – era proprio un trucco.

Di chi non si può imitare, invece, si deve essere amici, conviene, anche se Natalia Ginzburg confessava proprio quella tentazione, la volontà del libero sfogo alla capacità germinativa dei Sillabari, che chiamano ai contagi «fecondi e benefici», all’eventualità che «simili fermenti di imitazione» non vengano tenuti a bada e che si dia il via a quella possibile rianimazione poetica della narrativa che, chissà, potrebbe condurre il romanzo fuori dalle secche dell’inutilità in cui si era arenato, già sul finire degli anni cinquanta, secondo Parise.

Dedica poco tempo ai nemici, Parise, di fronte al poco tempo che, da sempre, resta, come se, avendo il becco e sorvolando vasti panorami, fiutasse per acciuffare e rilasciasse ogni preda: Barthes, Borges, Chomsky e Lacan, che «dominano la scena culturale mondiale» – si era nel 1984 –, perché la loro «è una razza di piccoli e grandi fabbricanti di mitologie ingannevoli, un po’ come i tessitori fantasma della favola di Andersen del re nudo». Non sopportava che, culturalmente, lo prendessero in giro, tanto quanto gli piaceva giocare con gli altri – col presunto serioso

A destra Mario Schifano, Ritratto di Goffredo Parise, anni settanta A pagina 60 Giosetta Fioroni, Ritratto di Goffredo Parise, 1965 A pagina 62 Renato Guttuso, Lo scrittore Goffredo Parise visita a Pechino la fabbrica dei libretti rossi, 1970 Giosetta Fioroni e Parise, Galleria della Tartaruga di Roma

Gadda, per esempio –, esserne giocato, e sembrava aver fretta, scrivendo e leggendo, cioè scrivendo delle proprie letture, come se i libri scottassero e bisognasse prenderli e gettarli lontano, scrivendo con gli occhi quasi chiusi, tirando colpi a caso e che vanno tutti a segno, fortunosamente, un po’ come quelli di Comisso, nella cui stesura era Silvio Ramat a rilevare quella «sbadatezza» inedita della prosa che era «quasi il dire di una voce malinconica, nostalgica e svagata», l’espressione di un «disinteresse» che «è solo

apparente: il modo di trovare le cose, di dirle, pare noncurante, e non è». Quando si sta attenti, ci si somiglia tutti, ed è nella distrazione dalle paranoie analitiche e stilistiche, diversamente, che avremmo da guadagnare un volto, simpatia, libertà, o poesia, se le va. La domanda critica legittima di Parise era una sola, e non è quella ufficiale della letteratura feticizzata sulle condizioni stilistiche della pagina: riguarda, invece, le condizioni primarie dell’irruzione della poesia nella vita, che si verificano quando si ritrova se stessi, al

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netto di ogni ossessione e previsione, «in quel particolare stato d’animo non facile da descrivere che non è necessariamente felice, ma non può e non deve essere assolutamente infelice. Deve essere una specie di limbo, di lieve e soffusa esaltazione, in cui, nel suo complesso ti piace la vita e ne hai al tempo stesso nostalgia».

La vita, già, la quale «ha i suoi tempi, la sua lingua, le sue armonie, le sue pause, i suoi punti, e punti e virgola, e a capo».

Difficile, però, riprendere la parola, dopo un «a capo» come quello di Parise.

BEL PAESE

CARTOLINE DI GIULIA DAL MAS

I MURI DIPINTI DI ARCUMEGGIA

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Fra le montagne della Valcuvia e della Valtravaglia, in provincia di Varese, sorge Arcumeggia, frazione del comune di Casalzuigno, il cui nome romano Arx media rimanda proprio alla posizione strategica di congiunzione tra le due valli.

Immerso tra boschi di castagni, querce, robinie e pascoli estivi, questo piccolo agglomerato sulle pendici del monte di San Michele si caratterizza per le tipiche case rurali da sempre legate all’attività della pastorizia a testimonianza della presenza di una società prevalentemente agricola.

Nel 1956 l’allora Ente provinciale del turismo di Varese scelse il comune di Arcumeggia come sede della manifestazione Pittori in vacanza che avrebbe dovuto richiamare nel paese gli artisti rappresentativi del pensiero e delle maggiori tendenze italiane della metà del Novecento, uniti principalmente dalla loro intenzione di riproporre l’importanza dell’arte figurativa in contrapposizione alle avanguardie astratte ed informali diffuse nei primi decenni del secolo. L’intero paese rispose con un enorme consenso all’iniziativa e molto presto Arcumeggia divenne un museo a cielo aperto.

Il primo pittore a raggiungere Arcumeggia fu Achille Funi, il quale dedicò agli abitanti del paese una Madonna che venne collocata in una piccola edicola all’accesso della strada principale. Dopo di lui giunsero Fiorenzo Tomea, Gianfilippo Usellini, Francesco Menzio, Giovanni Brancaccio, Ferruccio Ferrazzi, Enzo Morelli, Eugenio Tomiolo,

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Bruno Saetti, a cui seguirono successivamente Aligi Sassu, Remo Brindisi, Giuseppe Migneco, Aldo Carpi, Gianni Dova e Umberto Faini, nonché pittori locali quali Innocente Salvini, Antonio Pedretti e Albino Reggiori. Le principali scene dipinte riguardarono l’emigrazione, i mestieri del paese e i suoi abitanti, intervallate da raffigurazioni religiose e, più recentemente, paesaggistiche e naturalistiche.

Questo ambizioso progetto rese necessaria la costruzione di una struttura in grado di ospitare gli artisti durante il loro soggiorno. Nel 1957 venne per questo motivo costruita la Casa del pittore dove gli ospiti potevano soggiornare e lavorare ai loro bozzetti. All’interno di questo edificio sono conservati cartoni preparatori, schizzi, formelle e dipinti che testimoniano il passaggio e il lavoro degli artisti stessi. Di particolare bellezza sono i cortili che ancora oggi conservano testimonianza dei corsi estivi di affresco che si tenevano ad Arcumeggia fin dal 1961 e che hanno visto la partecipazione di giovani provenienti dalle accademie di tutta Italia. La via degli Allievi, nel cuore del paese, accoglie una sezione a loro dedicata oltre a un piccolo spazio espositivo per le sculture in gesso di Giuseppe Cerini e Giovanni Vidini.

Negli ultimi decenni il paese ha subito un forte spopolamento a seguito dell’emigrazione stagionale molto viva negli anni cinquanta e oggi conta solamente una cinquantina di abitanti. Questo fatto è fondamentale per la conservazione dei dipinti: la caratterizzazione delle opere murali infatti non può prescindere dall’utilizzo degli edifici, dei cortili e delle vie in cui esse si trovano.

Verso la fine del 1993 venne sottoscritta una convenzione, poi rinnovata nel 1997 e nel 2006, tra provincia di Varese, comunità montana della Valcuvia e comune di Casalzuigno per il rilancio turistico di Arcumeggia oltre che per la salvaguardia del ricco patrimonio artistico presente.

Con l’occasione dei 50 anni del paese dipinto venne realizzata una serie di manifestazioni culturali che nel 2007 portarono anche all’attivazione di un nuovo corso di affresco in collaborazione con il liceo artistico di Varese.

A sinistra Uno scorcio di Arcumeggia Sotto Aligi Sassu mentre lavora all’affresco dedicato a san Martino, 1991

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FATTI AD ARTE

SPECIALI DI LAURA ORBICCIANI

UN LIBRO PER IL GIUBILEO DI FRANCESCO

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L’imperdibile volume fotografico che racconta la storia del giubileo voluto per celebrare la misericordia «La misericordia di Dio non è un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio. È veramente il caso di dire che è un amore “viscerale”. Proviene dall’intimo come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono». In queste poche righe tratte dalla bolla di indizione del giubileo della Misericordia (11 aprile 2015) ci sono tutte le parole-chiave con cui papa Francesco vuole che si intenda il senso del nuovo anno santo. Nel linguaggio comune infatti la misericordia è solitamente associata al solo ambito religioso ed è intesa come generosità compassionevole verso i poveri, che si traduce in opere di assistenza materiale. Papa Bergoglio invece, fin dalle prime battute del suo pontificato, ha amplificato il significato della parola centrandola sulla sua intima radice etimologica: misereor, ho pietà, e soprattutto cor cordis, il cuore.

Dunque aprire il cuore non semplicemente all’elemosina materiale, ma in modo speciale alla compassione verso tutti i fratelli, vicini e lontani; alla disponibilità di ascolto nei confronti di culture e modi di pensare diversi; al riconoscimento della povertà spirituale; al perdono. Dal viaggio a Lampedusa dopo l’ennesimo tragico naufragio di migranti alle visite degli ultimi nelle periferie di tutto il mondo, dalle aperture ai non credenti e miscredenti fino all’appello ecologico per la salvaguardia del pianeta e una

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più equa distribuzione delle sue risorse: il filo conduttore dell’azione pastorale di Francesco è l’invito a tutti, a prescindere dalle proprie convinzioni religiose, a essere accoglienti verso il prossimo e disponibili a mettere in discussione le nostre certezze e, spesso, gli egoismi. «Siate misericordiosi»: è il motto del giubileo.

Questo modo di intendere la misericordia si riflette nelle pagine di Francesco verso il giubileo, con cui Editalia si propone di raccontare il percorso che ha portato il papa a proclamare un anno santo straordinario dieci anni prima della cadenza «ordinaria» del 2025. Editalia ha già dedicato due libri di pregio a un evento capitale nella storia della Chiesa contemporanea, la canonizzazione di Giovanni XXIII e a Giovanni Paolo II. Questo volume si pone in continuità con i precedenti per la rilevanza storica di papa Francesco e del giubileo della Misericordia, inquadrato nel contesto della storia dei giubilei di cui ripercorriamo le vicende essenziali nel testo di Roberta Bernabei. Normalmente celebrati ogni venticinque anni, sono eventi di enorme risonanza storica e spirituale fin dal 1300, quando Bonifacio VIII ha «inventato» il primo giubileo come periodo speciale in cui la Chiesa promuove presso i credenti una particolare attenzione alla santità di vita, attraverso pratiche di penitenza, di pellegrinaggio, di conversione, di più intensa frequentazione dei sacramenti, al fine di ottenere l’«indulgenza», ossia la remissione dei peccati e la riconciliazione con i fratelli e con Dio. In sette secoli di storia, milioni di pellegrini hanno solcato le vie di tutto il mondo per venire a Roma: gente di ogni estrazione sociale e di ogni provenienza geografica ha rischiato la propria vita affrontando i mille pericoli del viaggio, le malattie, le intemperie, le notti all’addiaccio, i ladri, gli assalti di animali feroci, la fatica di percorrere decine di chilometri al giorno su strade spesso dissestate. Dotati solo di un mantello e di un bastone per camminare e per difendersi, erano riconoscibili da piccole insegne devozionali appuntate sull’abito: chi andava a Roma aveva un’immaginetta dei Santi Pietro e Paolo, oppure la cosiddetta Veronica, la «vera icona» del Volto di Cristo rimasta

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In alto Francesco durante l'udienza generale del mercoledÏ in piazza San Pietro, 22 aprile 2015 A sinistra Il papa abbraccia alcuni giovani filippini a Manila, 18 gennaio 2015 Sopra Francesco con il papa emerito Benedetto XVI, 28 settembre 2014 A pagina 68-69 Visita alla parrocchia di Santa Maria dell’Orazione a Guidonia (Roma), 16 marzo 2014 A pagina 67 Cerimonia dei Vespri per la consegna e lettura della bolla di indizione del giubileo della Misericordia in San Pietro, 11 aprile 2015

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FRANCESCO VERSO IL GIUBILEO Testi di Luigi Accattoli (vaticanista de La Repubblica dal 1976 all’81 e del Corriere della Sera fino al 2008, attivo conferenziere, scrittore per Mondadori ed Edizioni San Paolo) e di Roberta Bernabei (storica dell’arte, curatrice di mostre, giornalista, autrice di numerose pubblicazioni sulla storia di Roma); presentazione di monsignor Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova Evangelizzazione.

La bolla di indizione del giubileo Misericordiae Vultus è pubblicata per intero in appendice. Il volume è illustrato con 170 fotografie dell’archivio fotografico dell’Osservatore Romano e delle principali agenzie giornalistiche mondiali; al termine del giubileo, sarà completato da un’altra edizione che raccoglierà le immagini dei momenti più importanti dell’anno santo accompagnate da una selezione dei discorsi del pontefice. La rilegatura in pelle di vitello bianca porta incastonato sulla copertina un bassorilievo artistico in lastra d’argento laminata in oro con il ritratto del pontefice; inoltre reca la firma originale impressa a secco sul piatto, con impressioni in oro sul dorso. Il volume, in tiratura limitata e stampato su carta pregiata, è di grande formato, 29x33 cm, 300 pagine. impressa su un fazzoletto che si venerava nella basilica vaticana come una delle più sacre reliquie di Gesù.

Con questo anno santo Francesco invita a cercare l’indulgenza non solo per se stessi, ma a trovarla in noi stessi nei confronti degli altri: è l’esempio che si è sforzato di incarnare nei quasi tre anni del suo pontificato. La centralità dell’essere poveri e non solo di amare i poveri, attraverso la scelta del nome del Poverello di Assisi; l’umile invito a pregare per lui, che rinnova in ogni occasione pubblica e privata; l’insistenza sugli appuntamenti sinodali in cui si presenta come vescovo tra i vescovi, primus inter pares, piuttosto che come capo universale della Chiesa; la semplicità di parlare e agire come un parroco; il dialogo franco con laici «lontani» per antonomasia come Eugenio Scalfari o Emma Bonino; il fortissimo impegno in favore dei migranti e dei perseguitati di tutto il

mondo. Questi e altri momenti, tra i più significativi del pontificato di Bergoglio, sono immortalati in scatti fotografici di grande impatto emotivo: immagini cariche di amore per l’umanità, che invitano alla pace e al perdono, in contrasto così stridente con quelle piene di violenze, abusi e sopraffazioni dalle quali siamo bombardati ogni giorno dalle cronache di attualità. I gesti del pontefice sono raccontati e interpretati da Luigi Accattoli, storico vaticanista de La Repubblica e del Corriere della Sera, oltre che accompagnati dalle sue stesse parole, pronunciate in occasione degli eventi documentati dalle fotografie.

Il 29 novembre 2015, aprendo la Porta Santa della cattedrale di Bangui nella Repubblica Centrafricana, il papa ha lanciato un accorato appello ad armarsi non di strumenti di morte, bensì di giustizia, amore e misericordia. È significativo che il prossimo scritto di papa Fran-

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cesco, Il nome di Dio è misericordia, abbia un titolo che getta un ponte verso i musulmani, poiché nell’Islam il secondo nome di Dio, dopo Allah, è Ar-Rahman, «il Misericordioso». Si tratta di un invito all’impegno comune per la pace, la concordia, la lotta contro la guerra e il terrorismo, sforzandosi di superare le diffidenze e le paure reciproche. Oggi, all’indomani degli attentati di Parigi, è difficile più che mai, ma anche necessario più che mai. Abbiamo visto il papa piangere subito dopo aver appreso di quei fatti, e chiamare «maledetti» quelli che fanno la guerra e la giustificano in nome di Dio. Allo stesso modo però la sua risposta è stata inequivocabilmente, ancora una volta, quella di ribadire che in un mondo dominato dall’odio bisogna «spalancare le porte delle misericordia».

Se il giubileo non fosse stato indetto, proprio i fatti di Parigi ne avrebbero resa indispensabile la proclamazione.

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FATTI AD ARTE

FRESCHI DI CONIO DI LAURA ORBICCIANI

IL VOLTO DELLA MISERICORDIA

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La medaglia che celebra il papa venuto dalla fine del mondo per cambiare la Chiesa

Il volto del cambiamento della Chiesa è quello di papa Francesco: il suo ritratto si trova sul dritto della medaglia coniata dalla Zecca dello Stato che Editalia ha deciso di commissionare in occasione del giubileo straordinario della Misericordia. Il Santo Padre, nello splendido ritratto del maestro scultore Gino Giannetti, è raffigurato sorridente, nell’atto di benedire. Accanto al suo nome, scelto in omaggio al poverello di Assisi come vero e proprio programma di rinnovamento della Chiesa, la scritta «PM anno III» si riferisce alla sua carica di pontefice massimo e al fatto che la medaglia è stata emessa durante il suo terzo anno di pontificato, iniziato il 13 marzo 2015.

Sul rovescio della medaglia è raffigurato l’episodio evangelico del perdono della donna adultera. «Chi di voi è senza peccato, scagli la prima pietra»: sono le notissime parole di Gesù in favore della peccatrice, che gli scribi e i farisei vorrebbero condannare in base alla legge ebraica. Inchiodati da queste parole, nessuno di loro osa lapidare la donna: rimasti soli, Gesù le chiede se qualcuno l’abbia condannata; lei risponde di no, e lui la congeda così: «Neanche io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più». È pieno di freschezza e di acume il commento di papa Francesco a questa scena: «Gesù non solo perdona, ma passa la legge e va oltre. Le consiglia di non peccare più. Difende il peccatore dai suoi nemici; difende il peccatore da una condanna giusta. Lui perdona oltre». Sulla medaglia, la scritta «Nec ego te condem-

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no» è il versetto evangelico latino che traduce appunto le parole di Gesù «Neanche io ti condanno» (mentre «Iubilaeum Misericordiae» allude all’occasione della coniazione). La figura di Cristo con il braccio proteso in atto di accoglienza, di invito, di tenerezza, emerge con forza grazie alla potenza scultorea dell’arte di Giannetti, autore dei gessi da cui è stata coniata la medaglia. Nella peccatrice che beneficia di quel gesto c’è tutto il complesso mondo della cristianità di oggi: i lontani dalla Chiesa, le coppie irregolari dei divorziati risposati che vorrebbero tornare ad accostarsi ai sacramenti, gli omosessuali di cui papa Francesco ha detto «se uno è gay e cerca il Signore, ma chi sono io per giudicarlo?». Questi temi così attuali e delicati, che sono spesso al centro di aspre polemiche, sono stati oggetto di approfondito dibattito nell’ultimo sinodo dei vescovi sulla famiglia, da poco concluso: si annuncia una svolta della Chiesa a riguardo, e il giubileo in corso sarà senz’altro un’occasione di meditazione e di accoglienza.

Sopra L’artista al lavoro sul dritto della medaglia con il ritratto di papa FrancescoI Destra Particolare del verso in gesso della medaglia A pagina 72 Città del Vaticano, 19 novembre 2014. Il papa saluta i fedeli durante l’udienza generale in piazza San Pietro

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LA MEDAGLIA La medaglia del giubileo della Misericordia, modellata da Gino Giannetti, ufficialmente autorizzata dall’Ufficio Filatelico e Numismatico della Città del Vaticano, coniata dalla Zecca dello Stato in oro 18 carati, è disponibile in tre formati con le seguenti caratteristiche: diametro mm 22, peso g 8, tiratura 999 esemplari; diametro mm 30, peso g 16, tiratura 499 esemplari; diametro mm 40, peso g 50, tiratura 99 esemplari.

Su richiesta, la medaglia diametro mm 22 può essere incastonata in un ciondolo. Il cofanetto può essere personalizzato con una targa che reca il nome del collezionista.

La tiratura è certificata e garantita dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato.

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GINO GIANNETTI Nato a Montorio Romano nel 1951, esordisce come pittore di matrice espressionista negli anni settanta.

Presto si avvicina anche alla scultura realizzando in legno e in pietra figure plasmate in una forma plastica primitiva, che espone nella prima personale alla Galleria Bateau Lavoir di Roma nel 1981. All’inizio degli anni ottanta l’incontro con Pericle Fazzini imprime una svolta alla sua arte, che si raffina nel senso della perizia tecnica e che acquisisce un nuovo monumentale equilibrio compositivo di matrice quattrocentesca. Nel frattempo il maestro si avvicina alla ritrattistica e alla scultura in bronzo, con straordinari effetti luministici e pittorici. L’attività espositiva in questi anni è intensa: si segnalano la IX Quadriennale di Roma nel 1986; la 30° Biennale di Milano, la Triennale internazionale della Grafica di Berlino e la Biennale di Arte Sacra di Sassoferrato nel 1987.

Ancora nel 1987 realizza l’opera forse più impegnativa della sua carriera, La vela di Colombo, con la quale vince il concorso bandito dal Consorzio Autonomo del Porto di Genova per un monumento da collocarsi nel giardino dell’aerostazione; il grandioso insieme è concluso nel 1990 ed esposto sulla terrazza del Pincio a Roma.

In occasione del cinquecentenario della scoperta dell’America (1992) il monumento viene esposto all’Expo di Siviglia e il Governo italiano ne dona una copia agli Stati Uniti, fusa presso le officine dell’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato (la cerimonia di inaugurazione nel Liberty State Park si è svolta nel 1998). Nel 1996 per conto del Poligrafico dello Stato realizza Il Leggio dell’Amore e Il Leggio della Malinconia per la chiesa di Santa Marta in Vaticano.

Nel 1999 viene allestita in Campidoglio una grande mostra antologica di

Gino Gianetti nel suo studio mentre lavora ai gessi delle madaglie.

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Giannetti e gli viene commissionata una serie di opere e arredi per la cappella pontificia della Guardia Svizzera in Vaticano, che lo terranno impegnato fino al 2003. Nel 2001 realizza la medaglia ufficiale del XXIII anno di pontificato di Giovanni Paolo II. Nel 2005 inizia il grande monumento del Bimillenario cristiano a Tor Vergata, una sapientissima rielaborazione della grande croce già esistente dal 2000; l’opera compiuta è stata inaugurata il 2 aprile 2011 in occasione della beatificazione di Papa Wojtyla.

Nel 2006 il maestro realizza la porta di bronzo sulle mura cinquecentesche vaticane in piazza Risorgimento, un complesso di opere bronzee per la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini e la medaglia ufficiale del secondo anno di pontificato di Benedetto XVI. Nel 2014 termina i lavori per la fontana monumentale raffigurante Il ratto delle Sabine a Montorio Romano.

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Pluto and Proserpina, 2013

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IN SERIE

IL MOLTIPLICAUTORE DI ROSSELLA FARINOTTI

COPIARE GLI ANTICHI, KOONS DETTA LA LINEA

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Nel 1989 Jeff Koons, artista allora poco conosciuto, già si difendeva in un processo da un’accusa di plagio per un’opera scultorea raffigurante due personaggi seduti sopra una panchina con tanti puppies – cuccioli di cane – in braccio. L’opera riprendeva il soggetto di uno scatto fotografico di Art Rogers che l’artista americano aveva trovato in un mercatino. La fotografia era in bianco e nero, mentre la scultura a colori e con piccoli dettagli – alcuni fiori e i nasi dei cuccioli colorati di bianco – in aggiunta.

Nonostante la tesi in cui indica le differenze apportate, il messaggio sociale di critica nei confronti della cultura popolare kitsch e la riproducibilità dell’arte, tema tra i suoi più cari, Koons perde la causa. Grazie a lui, invece, il fotografo Rogers e la sua immagine banale diventano famosi e ricchi.

Una storia che si ripete. Una storia che viene ri-copiata. Fatto sta che oggi in Italia, in uno dei luoghi culturali più rappresentativi del nostro paese, piazza della Signoria a Firenze, è protagonista una scintillante opera dell’artista tanto discusso proprio accanto alla copia del David di Michelangelo: si tratta di Pluto and Proserpina (20102013). L’ironia della sorte? L’opera di Koons è bellissima e diviene connettore – grazie alla sua superficie in acciaio inox dorato, totalmente specchiante e ai suoi tre metri d’altezza – di tutto ciò che le sta intorno. Ma non solo. È l’unica scultura originale della piazza: le altre sono copie di capolavori.

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I temi in gioco sono vari e scottanti: la storia dell’arte ha spesso mescolato epoche e stili, e un artista testimone del nostro secolo come Jeff Koons ne è un esempio tangibile. La citazione di un’epoca, quella classica, ripresa attraverso un’altra citazione, quella del Ratto di Proserpina di Bernini, a sua volta copia di un’opera di Giambologna, è un fatto anacronistico. È quell’«intrusione di un’epoca in un’altra» di cui scrive Didi-Huberman in Storia dell’arte e anacronismo delle immagini (2007), ma anche un forte atto estetico di denuncia e di riflessione. Del resto, l’artista non è il testimone del suo tempo? E il nostro tempo può ancora essere formalmente e artisticamente rappresentato da figure dall’apparenza perfetta, ma che Koons, in questo caso, rende più umane – spettacolari, ma umane – attraverso l’aggiunta di elementi contemporanei o di atteggiamenti più rilassati, meno formali. Un esempio di questa attitudine si trova nell’opera in gesso che riprende liberamente il Fauno appartenuto ai Barberini: The Gazing Ball (Barberini Faun), della serie del 2013 The Gazing Ball, in cui Koons riproduce diversi gessi di matrice classica ai quali aggiunge un elemento da colpo d’occhio: una sfera azzurra abbagliante, in fragile vetro soffiato e in posizione di disequilibrio, a sottolineare la precarietà dell’essere umano e delle sue azioni. Il fauno, in questo caso, ha una posa rilassata, provocante ma annoiata allo stesso tempo. In occasione della mostra Jeff Koons in Florence (fino al 28 dicembre 2015), l’opera si trova a Palazzo Vecchio, nella sala dei Gigli affrescata da Ghirlandaio. La statua è in dialogo con la Giuditta e Oloferne bronzea di Donatello, a cui fa da contrappeso o compendio.

Materiali diversi che si scontrano, il gesso di Koons e il bronzo di Donatello. Epoche e sistemi che si incontrano, dialogando tra loro attraverso affinità e differenze. Stridente? No, fa riflettere.

Come nel Quattrocento faceva probabilmente riflettere, se non sobbalzare, la presenza di Giuditta, così impudica e fortemente erotica. «La serie Gazing Ball si basa sulla trascendenza. La consapevolezza della propria mortalità è un pensiero astratto, e a partire da questa scoperta uno inizia ad avere coscienza

maggiore del mondo esterno, della propria famiglia, della comunità, può instaurare un dialogo più vasto con l’umanità al di là del presente», dice l’artista.

Non è la prima volta che Koons si confronta col passato: la recente mostra del 2014 al Centre Pompidou di Parigi già riprendeva una serie dedicata all’antichità, tra cui The Gazing Ball, appunto.

E ancora nel 2009 l’artista aveva realizzato la serie Antiquity, esposta in una mostra personale presso la Gagosian Gallery di New York nel 2013, in cui al-

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cune affascinanti Veneri classiche sono state riprodotte attraverso una pittura assolutamente iperreale, perfetta, e rielaborate con segni e disegni in digitale.

Un atto ironico, di sfida, di impatto con il mercato? Forse. Ma anche una profonda ammirazione non più nei confronti della bellezza dell’opera classica, ma verso la riflessione contemporanea che questa offre allo spettatore.

Koons non è stato il primo a copiare, citare, ri-proporre un’opera, in particolare un’opera classica. La storia dell’arte

è condita di ruberie e segreti. Maurizio Cattelan in Italia, come Koons negli Usa, più volte è stato accusato di plagio, basti pensare a Love Saves Life (I musicanti di Brema) del 1995 in cui un asino, un cane, un gatto e un gallo sono posizionati l’uno sulle spalle dell’altro, dal più grande – l’asino – al più piccolo – il gallo.

Cattelan fu citato da una giovane artista che anni prima, per la tesi di laurea, aveva realizzato un’opera simile e che perse la causa: l’opera di Cattelan era l’opera di Cattelan, e aveva avuto un riscontro immediato di pubblico e critica. L’altra opera era passata in sordina.

Ma qui non parliamo di classico, bensì di citazione. E Cattelan è solo un esempio, come lo erano Gino De Dominicis e tanti altri geni. Ancora oggi. E Koons ha «rubato», a modo suo, riportando il classico all’attenzione del pubblico: un trend che oggi funziona, come si è verificato per la recente grande apertura di Fondazione Prada – a Milano e Venezia – in cui l’archeologo Salvatore Settis ha curato l’elegante allestimento di un’esposizione di copie di celebri opere classiche. Le più maestose e riconoscibili come il Discobolo, la Venere accovacciata o l’Apollo di Kassel, analizzando il concetto di riproducibilità dell’opera d’arte.

Un ritorno al classico come un ritorno al reale. Quel reale quotidiano che viviamo e che l’artista-testimone indica attraverso le proprie modalità. «Anche quando l’avanguardia attinge dal passato, ritorna sempre dal futuro e viene rimessa in prospettiva dall’arte del presente», scrive Hal Foster nel Ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento (2006). Se poi il reale non ci piace, è un’altra storia.

In questa pagina Metallic Venus, New York, Whitney Museum of American Art A pagina 80 The Gazing Ball, il fauno Barberini esposto a Firenze

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IN SERIE

IL LIBRAIO D’ARTE DI GIUSEPPE TRESCA

RICONOSCERE I LIBRI D’ARTISTA

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Nella metà degli anni sessanta, probabilmente nel periodo di massima espressione del consumismo, per un maggior ampliamento del mercato il sistema dell’arte scopre il multiplo, inteso come superamento dell’esemplare unico e, nella medesima direzione, riscopre il libro quale contenitore di suggestioni e provocazioni.

Libro come specchio della propria vita, penso a Index (Book) di Andy Warhol, delirante insieme di fotografie e testi, oggetti che rappresentano l’atmosfera artistica della Factory. Libro come feticcio dissacrato, penso ai libri d’artista collettivi intrisi del più puro sperimentalismo, come quelli ideati da Emilio Villa. Libro che diventa opera, multiplo, scultura, in una vertiginosa combinazione volumetrica di sempre più difficile definizione. Vengono in mente a tal proposito i Libri illeggibili di Munari ma anche le Esplorazioni dadaiste di Enrico Baj. Insomma il libro, quale feticcio ormai tramandato da secoli, non può più essere rispettato in una società di massa per la velocità che la caratterizza, quindi il rito della lettura viene letteralmente dissacrato. Questo processo avrà la sua massima espressione alla fine degli anni sessanta.

Per dare qualche riferimento basta guardare gli oggetti-libro del movimento Fluxus o, per rimanere in Italia, quelli prodotti dalle migliori gallerie (Schwarz, Sperone, Toselli).

In apparente contraddizione quindi, con l’estetica della società di massa, il libro che

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generalmente definiamo «d’artista», diventa libro-oggetto, di culto; libro-opera, oggetto estetico con le sue peculiarità e, inevitabilmente, con il suo pubblico.

Il concetto stesso di libro si dilata: libri cancellati, libri bucati, libri tessili, libri di marmo, di legno e di rame. Impossibile censirli tutti. L’artista, in definitiva, non vuole più la semplice decorazione della pagina, pretende anch’egli tutto e subito di penetrare nell’essenza stessa dell’oggetto che manipola e scardina per i suoi fini. Libro quindi che diventa veicolo di messaggi, ma anche solo mezzo per attirare l’attenzione sulla propria forma.

Ma come si definisce e che cosa caratterizza essenzialmente il libro d’artista?

Qualcuno ha tentato una classificazione. Non è naturalmente esaustiva ma, per chiarezza di identificazione, trovo interessante quella suggerita da Gino Gini, creatore insieme alla sua compagna Fernanda Fedi di uno dei più ricchi archivi sul libro d’artista, a Milano.

Con una premessa metodologica. Il libro d’artista, pur nella varietà di forme e materiali, deve mantenere il proprio riferimento al libro, per quanto liberato dalla sua normale funzione e quindi: - libri d’artista stampati: visualmente legati alla loro forma tipica ma in realtà, per le relazioni esistenti tra artista e stampatore-editore, protagonisti di un sistema di continua variabilità. Il numero degli esemplari è il più delle volte limitato.

- libri d’artista stampati con intervento a mano: sussistono tutte le condizioni dei libri stampati, ma con una progettualità più complessa, poiché l’artista ha previsto un suo intervento diretto.

- libri fotocopie: edizioni realizzate per lo più in proprio dagli artisti, che utilizzano la macchina fotocopiatrice, in bianco e nero o a colori, espressione tipica dell’area alternativa e underground.

- libri fotocopie con intervento a mano: anche in questo caso il metodo è il medesimo di quanto descritto in precedenza ma con successivi interventi diretti. Il riferimento più riconoscibile è quello delle fanzine in ambito artistico-musicale.

- libri in copia unica: completamente eseguiti a mano, senza limitazione di tecniche, materiali e forma espressiva.

- libri-oggetto: in questo caso, l’artista

si appropria della forma libro, ma non ci sono limiti nell’uso di materiali. Il concetto di base è che il libro non si può sfogliare, al massimo si può aprire.

- libri a fisarmonica: evoluzione del leporello, il catalogo piegato a fisarmonica che deve il suo nome a Leporello, personaggio mozartiano che annotava tutte le conquiste amorose del suo padrone, don Giovanni. La lettura può assumere il doppio aspetto della sfogliabilità e dell’oggettività.

- libri assemblati: di solito prodotti congiuntamente da più artisti che lavorano su singoli fogli, vengono successivamente assemblati.

- minilibri: di formato ridotto o ridottissimo, a volte stampati, a volte in copia unica.

- libri d’artista «potenziali»: paradossalmente la forma più diffusa, poiché nell’ambito di tale categoria soprattutto i librai specializzati fanno rientrare tutte quelle pubblicazioni come cataloghi di

mostre e monografie d’artista che, nate come normali edizioni, per la particolarità delle immagini, la forma dei testi, l’impaginazione, rimandano al libro d’artista pur non essendo questa la loro intenzione primaria.

- last but not least, il movimento Fluxus: Fluxus dilata i confini dell’opera libro per eliminare ogni barriera di intermediazione tra l’artista e il pubblico. Gli artisti di Fluxus nella eterogeneità delle esperienze, sbaragliano ogni relazione tra il momento creativo e la vita vissuta; l’underground nella piena essenza dunque, manufatti non più riconducibili all’idea del libro in coerenza con l’idea che gli irregolari di Fluxus non intendevano contribuire all’arricchimento di alcunché ma semplicemente vivere.

Solo con la «caduta degli angeli» –rectius: con la fine delle avanguardie – si ritorna al libro come protagonista delle vicende dell’arte. Ma questa è tutta un’altra storia.

Sopra Emilio Isgrò, La bella addormentata nel bosco, Edizioni Officine Grafiche Lucini, 1972 A sinistra Sol Lewitt, catalogo della mostra alla galleria Watari di Tokyo, 1970

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IN SERIE

MULTIPLI IN VETRINA DI MASSIMO MATTIOLI

I GRANDI MAESTRI LOW COST

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Bellinzona, quando, dove e come inizia la sua esperienza di gallerista?

Ho iniziato nel 1982, vendevo i cataloghi d’arte di Electa e uno dei miei migliori clienti era Giancarlo Vitali, un bravo pittore di Belleno che però non aveva mai esposto né venduto le sue opere, e decisi di dargli una mano a diffonderle. Poi nel 1984 aprii la mia prima galleria, che si chiamava Altair Nuova, perché ereditava gli spazi di un’altra galleria aperta negli anni cinquanta da un gruppo di artisti.

Aveva quarant’anni. Non aveva mai lavorato nel mondo dell’arte?

Non direttamente. Però attenzione: io ho sempre avuto una speciale attenzione per la grafica, e la grafica è ovviamente molto vicina all’editoria, settore nel quale lavoravo in quel momento. Per un periodo ho anche venduto i cataloghi di Electa, per cui mi passavano per le mani molte pubblicazioni d’arte. Quasi come segno del destino, Vitali era uno dei miei migliori clienti per i libri d’arte: vidi le sue incisioni in bianco e nero, che allora nessuno voleva comprare, e lui me le affidò. Da lì iniziammo a collaborare, realizzammo una prima cartella che fu presentata da Gianni Brera. Andavamo a stampare da Giorgio Upiglio, che allora era il più grande stampatore italiano.

Grande personaggio, Upiglio. Ci racconta qualche aneddoto?

Era un grande personaggio, un grande milanese, una persona generosa, disponibile, di grande carisma. Era un mago: in seguito ho stampato anche con alcuni dei suoi col-

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laboratori, dei suoi allievi, ma come puliva lui una lastra, come la inchiostrava, era qualcosa di unico. Dalla sua stamperia sono passati tutti i grandi, da De Chirico a Miró a Paladino. Ricordo una vicenda curiosa: quando l’ho conosciuto, guidava una Fiat 1100 con la guida a destra. Non ho soldi, diceva, e questa costava poco proprio perché aveva la guida a destra, allora l’ho presa. Sono contento che il suo archivio sia andato a finire in Svizzera, a Mendrisio, nell’università progettata da Mario Botta: se fosse rimasto in Italia, sarebbe finito male.

Eravamo al 1984, quando apre la sua prima galleria.

Sì, ho aperto a Lecco con una mostra sull’acquaforte in cui esponevano molti artisti, da Morandi a Federica Galli allo stesso Vitali. Dopo ho fatto anche mostre di pittura, ne ricordo alcune di Vespignani, poi Frangi, Papetti e altri ancora.

Ma l’ambiente di Lecco, non certo una grande città, come rispondeva?

A Lecco ho sempre dormito bene, vissuto bene, ma non era un ambiente molto dinamico. Ho sempre cercato di sprovin-

cializzare quel mondo: fra le prime ricordo una bellissima mostra di Rouault, poi una di Zoran Mušič. Nella galleria si poteva trovare qualche Chagall della Bibbia, qualche Goya dei Capricci e dei Disastri.

Però devo riconoscere una cosa: allora a Lecco, come a Milano o a Roma, c’era una borghesia realmente interessata alle proposte di qualità. Il fenomeno dell’evento, dell’appuntamento trendy, non aveva ancora fatto i disastri che ha fatto in seguito. C’era ancora qualcuno che veniva in galleria, vedeva un’opera che gli piaceva e che poteva permettersi e se la comprava, senza stare a guardare le speculazioni, il nome alla moda, l’investimento. Io ho fatto comprare a miei collezionisti anche dei Miserere completi di Rouault: ritengo che siano meglio quelli che non i quadri medi di uno dei tanti pittori che vanno di moda adesso.

Eppure a Lecco non andava così male, se dopo poco aprì una nuova galleria.

Volevo realizzare il mio sogno, che era uno spazio che fosse insieme galleria d’arte e libreria: per questo nel 1990 mi spostai – la prima galleria era in pie-

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no centro – in un grande spazio un po’ più decentrato ma bellissimo, 250 metri quadrati su due piani. Un grande sforzo, anche economico, che però non fu ripagato da altrettanta attenzione del mondo culturale: una cattedrale nel deserto, ma a me servì per alzare il livello della proposta, per esempio nei cataloghi.

L’approdo a Milano: un bel salto.

Ero un milanese trapiantato a Lecco: mi sono detto che era meglio andare a far la fame a Milano, piuttosto che restare lì!

E ho preso questo spazio a porta Volta, dove qualcosa succedeva. Erano gli anni del tramonto della Milano da bere, il problema in quel momento era la sopravvivenza economica, e io mi sono sempre rifiutato di vendere le cose facili, o le fotolitografie, per capirci.

Quando iniziai a lavorare, specialmente per la grafica, mi comprai tutti gli annuari Bolaffi, che riportavano le tirature degli artisti più importanti: in quel momento andavano forte Fiume, Sassu, Cascella.

Facendo due conti, fra le tirature e quante di queste opere si vedevano in giro, era facilissimo capire che la gran parte erano

riproduzioni. Ecco, io a quel gioco lì non ho mai partecipato. E forse ho sbagliato, perché evidentemente la gente voleva avere in casa quelle cose, e se un gallerista non vendeva quelle cose, la clientela non pensava che fosse per una questione di etica, pensava che fosse perché non si poteva permettere certi nomi.

Ma le soddisfazioni non le sono certo mancate.

La mia più grande è quella di sapere che ho venduto tante incisioni o disegni, anche di artisti non conosciuti, che poi non si sono trasformati in business, ma i collezionisti se li tengono perché ne sono contenti.

La cosa più importante per un gallerista è conservare un rapporto corretto con i propri clienti: di artisti buoni ce ne sono tanti, ma di collezionisti che ti concedono la loro fiducia ce ne sono ormai molto pochi.

Un incontro speciale, in questi anni?

Il più divertente è avvenuto nel marzo del 2011. Da grande tifoso dell’Inter, vado a Monaco di Baviera per la partita contro il Bayern: un incontro rocambolesco, che vinciamo 3-2. Il giorno dopo vado a trovare Georg Baselitz, che avevo incontrato solo una volta a Genova, e lo trovo nel suo ufficio, a fianco allo studio. Parlava qualche parola di italiano e come mi vede mi dice: «Complimenti, avete vinto». E io: «No maestro, siamo solo stati fortunati».

Finisce che ci facciamo una foto assieme, con la mia sciarpa dell’Inter.

A destra George Baselitz, Selbstportrait , 2015 A pagina 84 Un ritratto fotografico di Oreste Bellinzona realizzato da Mario Spreafico A pagina 86 Un’acquaforte di Nicola Villa, Cariatide, 2015 Il celebre foglio di Pablo Picasso, Le repas frugal, 1904

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Ippolita Rostagno

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ARTE IMPRESA

IL MOTORE DELL’ARTE DI SILVIA BOTTANI

ARTEMEST I MESTIERI DEL BELLO

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Fino a qualche anno fa, in pochi avrebbero immaginato che la rinascita della tradizione artigiana italiana sarebbe passata attraverso il digitale. Il freddo, immateriale mondo dei chip e della rete, motore di un nuovo rinascimento, trova una delle sue espressioni migliori proprio nella commistione con le botteghe, con le pratiche antiche, e scopre di avere un’anima grazie al commercio digitale, la sharing economy, i nuovi modelli di comunicazione.

Artemest è un esempio virtuoso di questo riuscito connubio tra un mondo che per decenni si è trovato suo malgrado confinato in una – seppur dorata – nicchia e lo sconfinato e un po’ selvaggio universo dell’e-commerce. L’idea di Artemest nasce nella mente di Ippolita Rostagno, talentuosa designer di gioielli nata a Firenze e trapiantata a New York. Gli anni passano, il successo e la fama arrivano ma la passione di Rostagno per la craftmanship italiana non accenna a spegnersi, anzi cresce fino a farle prima immaginare di aprire una scuola che mantenga viva la tradizione dell’artigianato artistico, per poi assumere la forma di Artemest, «The online destination for the most beautiful crafts from Italy».

La piattaforma, nata da pochi mesi e ora pienamente attiva online, è un ambizioso progetto di ricerca, divulgazione, commercio e in qualche modo anche tutela del patrimonio dell’alto artigianato italiano. Il fattore che connota Artemest e lo rende differente

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da tutti gli altri protagonisti del settore è la meticolosa ricerca di designer, artigiani e artisti che svolgano un’attività di eccellenza: per assicurare agli utenti di tutto il mondo la possibilità di entrare in contatto con realtà preziose del panorama italiano, un team di professionisti svolge un’attenta cernita sul territorio, alla riscoperta della produzione più originale. Una visione a lungo termine che potrebbe davvero innescare una fase di risveglio per il settore, grazie a un mix efficace di marketing, tecnologia, comunicazione e passione, prima che sia troppo tardi e che mestieri di straordinaria sapienza si perdano per sempre, insieme all’irrecuperabile bagaglio culturale strettamente correlato.

Accedendo alla piattaforma si schiude uno scrigno colmo di oggetti raffinati e unici, che non possono essere acquistati in negozio. Artemest si presenta come un modello evoluto di e-commerce, l’opposto speculare del modello massivo e orizzontale di Amazon, più vicino forse al modello di luxury retailer di Net-a-Porter, sebbene con numeri, vocazione e portata diversi (almeno per il momento). Dopo l’attenta selezione, i prodotti vengono ordinati per categoria merceologica e raccolti nella piattaforma, attraverso cui gli utenti possono compiere un viaggio alla scoperta delle storie e dei mestieri che ciascun oggetto racchiude.

Ogni prodotto, nella sua singolarità, è il frutto di una paziente ricerca e l’acquirente, l’appassionato o il semplice curioso possono scoprirne i dettagli anche grazie a filmati che danno voce agli artigiani creatori, entrando nelle botteghe per carpire i momenti di lavorazione delle opere.

Una magia che si rileva nei corti dedicati al lavoro con il legno dei fratelli Levaggi di Chiavari, alla Legatoria Artigiana di Napoli, alla toscana Moleria Gnocchi, ai vetri della Fornasotta di Venezia e così via, in un viaggio tra home decor, design e arte dove i confini si confondono continuamente.

Prodotti di alto valore e oggetti di più facile accesso trovano la propria collocazione, soddisfando il gusto di un pubblico trasversale e globale, che può avvantaggiarsi della presenza di professionisti pronti a consigliare e a seguire l’esperienza di acquisto dall’inizio alla fine. Non si tratta più quindi di cercare da soli nel mare ma-

gno delle offerte online, ma di fare affidamento su una struttura che segue passo passo l’utente nella scelta e nella personalizzazione del prodotto desiderato, che può essere anche realizzato come unico esemplare dall’artigiano prescelto. Gli artisti selezionati sono oltre cento ma l’enorme vantaggio del digitale è la possibilità di non avere un magazzino fisico. In questo modo l’offerta dei prodotti non è vincolata a uno spazio reale e la libertà è maggiore, sia dal punto vista del committente sia per chi offre le proprie creazioni, potendo concedersi il lusso di realizzare pezzi su richiesta o progetti ad hoc.

Si aprono nuovi canali per il collezionismo e per chi è alla ricerca di prodotti di alto valore, grazie alle potenzialità ancora da esplorare del web e dei device mobili, vero propulsore del consumo online. In perfetto equilibrio tra mondo digitale e analogico, Artemest sfrutta le potenzialità offerte dai social network con una presenza articolata e attenta. Canali principi sono Instagram e Pinterest, social media dalla spiccata vocazione visiva e per questo particolarmente adatti a raggiungere il pubblico di appassionati, senza però dimenticare i presidi Twitter e Facebook. Uno spazio particolare è riservato a

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Polyvor, app che permette di selezionare e costruire set personalizzati di oggetti da condividere e acquistare, un concept simile a Pinterest ma smaccatamente orientato all’e-commerce, uno strumento ulteriore per amplificare la presenza del brand. Data la natura specifica del progetto, la comunicazione di Artemest, e uno degli indiscutibili punti di forza del progetto, per qualità e professionalità, fa leva sulla tradizionale carta stampata e conta sulla presenza mirata alle fiere di settore, che rimangono un momento fondamentale per incontrare il pubblico e per raccontare le storie che ogni prodotto scelto racchiude in sé.

Storie che richiedono tempo e voglia di ascoltare, valore aggiunto per un pubblico esigente e consapevole come è necessariamente quello dei collezionisti non speculativi, piccoli o grandi che siano. Perdersi dentro Artemest equivale a concedersi un vero e proprio grand tour, riscoprendo il dna del gusto e dell’eccellenza della manifattura artistica italiana, quel talento e quell’estro ancora riconosciuti come quid del genio italico, racchiusi nella diafana bellezza di in un vetro soffiato, nell’opalescenza di un marmo o nell’eleganza essenziale di un mobile intagliato a mano.

A sinistra Brocca Bianco Pitcher, vino e acqua, del laboratorio Striulli Vetri d’Arte, Murano Sotto Candelieri e portagioie in ceramica della Bottega d’Arte Gatti, Faenza A pagina 90 Centrotavola Optical, Ceramica Pinto, Vietri sul mare

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ARTE IMPRESA

COMUNICARE AD ARTE DI PASQUALE RUOCCO

UNA STORIA CHE CORRE LUNGO I BINARI

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Come fumanti e imponenti corpi d’acciaio che invadono fischiando la Gare Saint-Lazare di Monet, oppure come sagome spezzettate e dinamiche, espressione di quell’emotività nuova, meccanica e urbana raccolta negli Stati d’animo di Boccioni o, ancora, come apparizione scioccante nell’Arrivo di un treno alla stazione della Ciotat dei fratelli Lumière. Così si è formato nell’immaginario collettivo il mito del treno come emblema di modernità e di progresso. Un mito che per gli italiani ha significato, soprattutto, l’unificazione di un paese e l’emancipazione di un popolo, così come racconta il percorso immaginato per il Museo Nazionale Ferroviario di Pietrarsa.

Questo trova sede tra Torre Annunziata e Portici, lungo la linea ferroviaria che unisce Napoli a Salerno, stretto tra il mare del golfo di Napoli e le pendici del Vesuvio; inaugurato il 7 ottobre 1989 in occasione dei centocinquant’anni delle Ferrovie dello Stato, è oggi al centro di un importante processo di rilancio.

Il museo occupa un’area di trentaseimila metri quadrati, di cui quattordicimila coperti, e si articola tra i maestosi capannoni di uno dei più importanti complessi di archeologia industriale del Mezzogiorno: il Reale opificio meccanico, pirotecnico e per le locomotive, costruito a partire dal 1840 per volere di re Ferdinando II di Borbone, raffigurato in una imponente scultura in ghisa oggi oggetto di restauro, per sostenere lo sviluppo della linea ferroviaria nel Regno delle Due Sicilie.

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Non a caso, per il visitatore il viaggio comincia con la ricostruzione, realizzata a Firenze nel 1939, della locomotiva Bayard, il cui nome omaggia l’ingegnere francese Armand Joseph Bayard de la Vingtrie, responsabile del progetto della linea ferroviaria Napoli-Nocera Inferiore, e che insieme alla gemella Vesuvio inaugurò la Napoli-Portici, la prima linea ferroviaria italiana, 7.406 metri percorsi in circa dieci minuti.

Alla Bayard, esposta nell’ex reparto montaggio, segue una lunga teoria di locomotive, protagoniste della prima fase di sviluppo della rete ferroviaria, avviata a livello regionale dai vari stati preunitari, fino alla nascita dell’Ente Ferrovie dello Stato nel 1905.

Parlo della locotender 290.319 (la prima cifra indica il modello, la seconda l’esemplare), prodotta tra il 1899 e il 1913 e utilizzata fino al 1954, unica superstite della sua serie nonché prima locomotiva a entrare nel museo, il 9 giugno 1982; della 640 che, raggiungendo i cento chilometri orari, rappresentò uno dei primi grandi successi delle Ferrovie dello Stato. Nata dalle modifiche apportate alla

precedente 630, nel 1910 la 640 era in mostra all’esposizione universale di Bruxelles e, l’anno dopo, a quella di Torino, servendo fino al 1976 i principali collegamenti del paese sulle tratte Roma-Napoli; Milano-Bologna; Milano-Torino.

E, ancora, la 625, utilizzata sia per il trasporto merci sia per i passeggeri, in particolare su linee secondarie. Nota come la «signorina» per le linee eleganti e per l’ancheggiare durante l’inserimento in curva, la 625 è importante sia perché la sua produzione coincise con una sempre più accentuata standardizzazione dei processi di fabbricazione della componentistica, che permetteva di ottenere macchine multiruolo e più facilmente riparabili, sia per il proficuo rapporto tra il mondo dei treni e il cinema italiano: la locomotiva apparve, infatti, in pellicole come I vitelloni di Fellini (1953), Ciao Pais di Osvaldo Langini (1956) e Avventura di un soldato di Manfredi (1962).

A queste si aggiungono, sostituendo il camino con il pantografo, i modelli E551, E333, E432 a trazione elettrica trifase, esempi dello sviluppo dell’elettrificazione della rete ferroviaria di cui l’Italia fu

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una vera pioniera, giungendo nel 1938 ad avere una delle linee elettrificate più lunghe al mondo.

Del resto, per le Ferrovie dello Stato tra gli anni venti e trenta segue un periodo di grande crescita, grazie anche all’aumento dei treni di lusso e alla realizzazione delle linee direttissime come la Roma-Napoli e la Milano-Venezia.

Sono gli anni delle possenti e squadrate E626, E326 ed E428 a trazione a corrente continua a 3000W, esposte nel padiglione B; dell’elegante e raffinata carrozza numero 10 del treno reale, realizzato nel 1929 dalla Fiat su progetto di Giulio Casanova per le nozze di Umberto II di Savoia e Maria José del Belgio. La carrozza, finemente decorata con stucchi e lamine d’oro e ammobiliata con prestigiosi arredi in mogano, fu donata nel 1989 al museo di Pietrarsa dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Le fanno compagnia l’elegante Centoporte, così nominata per la grande quantità di porte su entrambi i fianchi per favorire un più veloce movimento dei passeggeri; un esemplare dell’ALN556 più conosciuta come Littorina, prodotto dell’ulteriore sforzo promosso dallo Stato anche durante il ventennio fascista nel collegamento del paese.

Ancora si trova un esemplare della E444, soprannominata Tartaruga, che a partire dagli anni cinquanta e sessanta segnò l’inizio della sperimentazione dell’alta velocità, necessaria per un paese che iniziava ad avere sempre più bisogno di spostarsi: sono questi, del resto, gli anni dell’emigrazione di massa dalle campagne del Sud verso l’industrializzato Nord, nonché gli anni del boom economico e dell’incipiente turismo di massa.

Una storia ben rappresentata in quella che in origine era la torreria, il nucleo più antico delle officine di Pietrarsa, conosciuta anche come la Cattedrale, dove, per la gioia di bambini e modellisti, oggi trova spazio un’eccezionale collezione di modellini degli anni ottanta, tra cui spiccano quello del velocissimo Settebello e il grande plastico Trecentotreni, visione condensata di un mondo vivo e affascinante, capace di raccontare il passato e di sobillare, nel contempo, un’idea di futuro.

A destra e in basso Alcuni scorci del museo di Pietrarsa A pagina 92 La mitica Bayard, una delle prime locomotive a vapore in dotazione alla linea Napoli-Portici A pagina 94 Uno degli oltre cinquanta mezzi esposti al museo

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ARTE IMPRESA

IL MERCATO DELL’ARTE DI GIACOMO NICOLELLA MASCHIETTI

ITALIA ÜBER ALLES LE ASTE PARLANO ITALIANO

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Nessuno nell’autunno del 1999 avrebbe immaginato che negli anni a venire l’arte italiana moderna e contemporanea potesse rappresentare il cavallo vincente del mercato dell’arte. Il 1999 era per l’appunto l’anno della prima Italian Sale di Sotheby’s, asta di arte esclusivamente italiana a Londra. La vendita si chiuse con un totale di 5,4 milioni di sterline.

Poche settimane fa, a distanza di diciassette anni, il fatturato totale dell’Italian Sale di Christie’s è stato di 43.166.500 sterline, con il 90% di venduto. Mentre da Sotheby’s, che ha potuto contare sulla rarissima Fine di Dio di Lucio Fontana venduta a 14,1 milioni di sterline (al netto delle commissioni), il totale è stato di 40.397.150 sterline con il 78,4% di venduto. Insomma, non esiste un altro bene di consumo che consenta un mark-up del genere per investire i propri risparmi. È in particolare negli ultimi cinque anni che si è verificata la più potente impennata dell’arte italiana all’estero, legata per lo più esclusivamente agli anni sessanta dello spazialismo, a Burri e Morandi, e all’arte povera. Lucio Fontana è stato il traino per una serie di artisti che nelle ultime stagioni hanno visto aumentare verticalmente le loro quotazioni: pensiamo a Bonalumi e Castellani, ma soprattutto a Paolo Scheggi, scomparso nel 1970, che nel 2009 non raggiungeva i centomila euro e oggi è supera agevolmente il milione. E ancora, Pistoletto e Boetti, Fabro e Merz oppure, facendo un

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passo indietro di qualche anno, Giorgio Morandi, protagonista di una vera impennata dopo la grande esposizione del Metropolitan nel 2008, e Alberto Burri, di cui quest’anno si celebra il centenario dalla nascita con mostre in tutto il mondo.

Ma questa è la serie A del mercato, quella a cui ci si può avvicinare solo con un portafogli di qualche centinaio di migliaia di euro (per cominciare). Esiste poi un’altra fascia già storicizzata ma ancora accessibile su cui è bene informarsi per i prossimi acquisti. Il Gruppo T, il Gruppo N o la pittura analitica sono un esempio dei movimenti recentemente rivalutati e in ragionevole crescita.

Un artista come Giorgio Griffa è stato onorato con una grande retrospettiva al Centro d’Arte Contemporanea di Ginevra e questo ha scatenato una reazione a catena di mostre in Italia e all’estero con corrispondente aumento dei prezzi. E poi Nanda Vigo, la designer artista

già vista all’Italian Sale di Christie’s del 2014, Vincenzo Agnetti o addirittura Piero Dorazio, che ha avuto molte flessioni ed esplosioni nelle quotazioni, oggi più stabili e ragionate.

Le piazze per investire sono principalmente aste e fiere. Le vendite all’incanto di Pandolfini o della rinnovata Finarte sono ottime, così come Artefiera a Bologna, a gennaio, o Artissima e FlashBack a Torino, a novembre. E, ancora, il Brafa a Bruxelles all’inizio del 2016 o Modenantiquaria sotto la guida di Pietro Cantore, senza dimenticare la raffinatissima Biennale internazionale dell’antiquariato di Palazzo Corsini a Firenze, dove l’alta qualità richiama innanzitutto i top client.

Per concludere, sbagliando, qualcuno potrebbe pensare non sia troppo prudente un acquisto relativo a un giovane sotto i quarant’anni; d’altronde, però, le grandi collezioni sono sempre iniziate in questo modo: con la passione.

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Sopra Lucio Fontana, Concetto spaziale, la fine di Dio Sotto Giorgio Griffa, Une rétrospective 1968-2014, Ginevra, Centre d’Art Contemporain

OTTORINO DE LUCCHI Si è laureato in Chimica (1975) e Farmacia (1977) presso l’Università di Padova. Durante la sua vita ha sempre svolto attività artistica intercalandola con la professione di chimico universitario soprattutto nel corso di lunghi periodi all’estero. Nella sua lunga permanenza negli Stati Uniti ha potuto visitare e osservare da vicino l’opera di Andreu Wyeth, appassionandosi alla tecnica e al virtuosismo dei suoi dipinti definiti «dry brush». Senza ulteriori informazioni, ha iniziato una serie di sperimentazioni che hanno portato allo sviluppo indipendente di una tecnica del tutto originale sia nell’esecuzione che nei soggetti. La tecnica prevede l’uso della pittura ad acquerello, dove il rapporto pigmento-legante è ottimale sia per quanto riguarda la trasparenza che la vivacità e la luminosità dei colori.

La tramatura pittorica ottenuta utilizzando indistintamente pennelli, carta e tessuti è particolarmente adatta a descrivere la superficie di nature morte, figure e paesaggi. Le velature e le applicazioni di colore ottenute sia direttamente che attraverso attente rimozioni del colore stesso permettono esiti non ottenibili con altre tecniche pittoriche. I risultati particolarmente rilevanti per contrasto e luminosità hanno sorpreso molti cultori sia italiani che stranieri tanto che è stato più volte invitato a illustrare la tecnica in accademie e in istituti d’arte. Vive e lavora a Padova. ottorinodelucchi.com

A sinistra Autoritratto a 54 anni, dry brush, 2005

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