Cominciamo dal Capitolo I delle Ordinanze o “Leggi”, dopo che il Signore AutoEsistente, il Logos Non-manifestato delle “Tenebre” Sconosciute, diviene manifestato nell’Uovo d’Oro. È da questo Uovo, da: 11. “Ciò che è la Causa indivisa (non differenziata), eterna, che è e non è, è da Esso che è emanato quel Maschio che è chiamato nel mondo Brahmâ”. Qui, come in tutti i veri sistemi filosofici, troviamo che perfino “l’Uovo”, o il Cerchio, o lo Zero, l’Infinito Illimitato, è indicato con il pronome neutro “Esso”1; e Brahmâ, che è la sola prima Unità, è chiamato il Dio “Maschile”, e cioè il Princìpio fecondante. È o 10 (dieci), la Decade. È soltanto sul piano del Settenario, il nostro Mondo, che è chiamato Brahmâ. Su quello della Decade Unificata, nel regno della Realtà, questo Brahmâ maschile è un’Illusione. 14. “Da Sé (Âtmanah) egli creò la Mente, che è e non è; e dalla Mente, l’Egoismo (l’Auto-Coscienza), (a) il governatore, (b) il Signore”. (a) La Mente è Manas. Medhâtithi, il commentatore, fa qui giustamente osservare che è precisamente il contrario di questo, e che ciò dimostra già la presenza di interpolazioni e riadattamenti, poiché è Manas che scaturisce da Ahamkâra o Auto-Coscienza (Universale), come Manas nel microcosmo emana da Mahat o Mahâ-Buddhi (nell’uomo, Buddhi). Poiché Manas è duale. Come dimostra Colebrooke nella sua traduzione, “la Mente, servendo tanto i sensi che l’azione, è un organo per affinità, essendo simile al resto”,2 il “resto” avendo qui il significato che Manas, il nostro Quinto Princìpio (il quinto, perché il corpo è stato chiamato il primo, ciò che è l’opposto del vero ordine filosofico), ed è in affinità tanto con ÂtmâBuddhi quanto con i Quattro Princìpi inferiori. Da qui il nostro insegnamento: e cioè che Manas segue Âtmâ-Buddhi nel Devachan, e che il Manas Inferiore, ossia i sedimenti o residui di Manas, rimane con il Kâma Rûpa nel Limbo, o Kâma Loka, la dimora dei “Gusci”. (b) Medhâtithi traduce ciò come “colui che è cosciente dell’Io”, o Ego, e non il “governatore”, come fanno gli orientalisti. Essi traducono pure così la shloka seguente: 16. “Anche Egli, avendo fatto la parte sottile di quei sei (il grande Sé ed i cinque organi dei sensi) di uno splendore illimitato, per penetrare negli elementi di sé (âtmâmatrâsu), creò tutti gli esseri”. Mentre, secondo Medhâtithi, si dovrebbe leggere mâtrâbhih invece di âtmamâtrâsu, e ciò vorrebbe dire: “Avendo Egli permeato le parti sottili di quei sei di splendore illimitato mediante elementi di sé, creò tutti gli esseri”. Quest’ultima traduzione deve essere quella giusta, poiché Egli, il Sé, è ciò che noi chiamiamo Âtmâ e che costituisce così il settimo princìpio, la sintesi dei “sei”. Questa è pure l’opinione dell’editore del Mânava Dharma Shâstra che, tramite la sua intuizione, sembra aver penetrato molto più profondamente del traduttore, il defunto dr. Burnell, lo spirito della filosofia; infatti non esita affatto fra il testo di Kullûka Bhatta ed il commentario di Medhâtithi. Respingendo i tanmâtra, o elementi sottili, e l’âtmamâtra di Kullûka Bhatta, egli dice, applicando i princìpi al Sé Cosmico: “I sei sembrano essere piuttosto il manas più i cinque princìpi dell’etere, dell’aria, del fuoco, dell’acqua e della terra; avendo unito cinque parti di quei sei con l’elemento spirituale (il settimo) esso creò (così) tutte le cose esistenti.... âtmamâtra è dunque l’atomo spirituale opposto agli ‘elementi’ elementari, non riflessivi, ‘di se stesso’ ”. Egli corregge così la traduzione del verso 17:
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Il vertice ideale del Triangolo Pitagorico. Vedere la traduzione di A. Coke Burnell, edita da Ed. W. Hopkins, Ph. D.
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