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Chicago Symphony Orchestra - Riccardo Muti

Chicago Symphony Orchestra Direttore

Riccardo Muti

Concerti Straordinari 2016/ 2017

20 gennaio - 21 gennaio 2017 Concerti Straordinari 2016 / 2017


Foto Marco Brescia e Rudy Amisano



Teatro alla Scala il TEmPiO delle meraviglie The temple of wonders Der Tempel der Wunder Le temple des merveilles

A film BY lUCA lUCiNi SilViA CORBETTA PiERO mARANGHi


IN ESCL U S I VA N E L L E M I G L I O R I G I O I E L L E R I E D ’ I TA L I A

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a cura di Armando Torno

Nel salotto del Teatro alla Scala incontriamo i grandi compositori e i loro scritti Museo Teatrale alla Scala Largo Ghiringhelli, 1 - Milano 5 dicembre 2016, ore 18.00

16 dicembre 2016, ore 18.00

18 gennaio 2017, ore 18.00

Giacomo Puccini. Epistolario I, 1877-1896

In occasione del 225° anniversario della morte del compositore

Carteggio Verdi-Morosini (1842-1901)

A cura di Gabriella Biagi Ravenni e Dieter Schickling

Tutte le lettere di Mozart 1755-1791 A cura di Marco Murara

A cura di Pietro Montorfani, apparato critico e note di Giuseppe Martini e Pietro Montorfani

Il diario di Nannerl Mozart A cura di Olimpio Cescatti 10 febbraio 2017, ore 18.00

8 marzo 2017, ore 18.00

Paolo Gallarati

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Verdi ritrovato Ingresso libero fino ad esaurimento posti Per informazioni e prenotazioni: museoscala@fondazionelascala.it 02 88792380

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Tutti i giorni ore 9.00 / 17.30

Museo Teatrale alla Scala Largo Ghiringhelli, 1 - Milano

Si ringrazia

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BRESCIA E AMISANO @ TEATRO ALLA SCALA


Il 2017 è un anno speciale per il Gruppo Bracco perché celebriamo il nostro 90° anniversario. Anche in questa occasione siamo onorati di essere vicini al Teatro alla Scala sostenendo il concerto diretto dal M° Riccardo Muti in tour europeo con la Chicago Symphony Orchestra





Concerti Straordinari 2016-2017

Chicago Symphony Orchestra Riccardo Muti Direttore

EDIZIONI DEL TEATRO ALLA SCALA


VenerdĂŹ 20 gennaio 2017

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Chicago Symphony Orchestra Direttore

Riccardo Muti

Alfredo Catalani Contemplazione Richard Strauss Don Juan op. 20 Pëtr Il’icˇ Cˇajkovskij Sinfonia n. 4 in fa min. op. 36 Andante sostenuto – Moderato con anima Andantino in modo di canzona Scherzo. Pizzicato ostinato. Allegro Finale. Allegro con fuoco

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Foto Todd Rosenberg


Sinfonismo poetico Cesare Orselli

Alfredo Catalani, Contemplazione Gli anni che precedono il “grande silenzio”, l’inattività creativa che Giuseppe Verdi vive dopo la creazione di Aida (1871), sono quelli che vedono maturare nel mondo musicale, segnatamente a Milano, i principi estetici del movimento letterario della Scapigliatura, l’idea di un teatro d’opera rinnovato che prenda le distanze dalla drammaturgia romantica e dalle sue convenzioni, l’aspirazione a una dignità sinfonica di cui dotare la musica italiana. Titoli come Amleto (1865) e Mefistofele (1868), nati dalla collaborazione fra Arrigo Boito e Franco Faccio con l’ispirarsi a capolavori della grande letteratura inglese e tedesca, ne furono gli emblemi; infelici peraltro, poiché Boito dovette rifare radicalmente il suo Mefistofele e poi lasciare un incompiuto Nerone; e Faccio dedicarsi solo alla direzione d’orchestra. Boito e Faccio sono i personaggi che sostengono le prime esperienze del giovane lucchese Alfredo Catalani: dopo sei mesi a Parigi, dove aveva conosciuto Bizet, Massenet, Gounod, nel 1873 egli si era tuffato nell’atmosfera della bohème milanese, stringendo rapporti con i due musicisti scapigliati, con Emilio Praga e Tranquillo Cremona, che chiederà il suo volto malinconico come modello dell’amante che si avvinghia alla bionda dama nel celebre quadro L’edera. Ed è proprio Boito che gli fornisce il libretto di un’egloga orientale, La falce (1875), con cui Catalani conclude i suoi studi al Conservatorio di Milano: esito felicissimo, soprattutto del Prologo sinfonico, che sembra rispondere al principio di Boito “esercitiamoci alla Sinfonia e al Quartetto per poter affrontare il Melodramma”, e che fa apparire il giovane toscano come una delle voci più interessanti dell’Italia musicale di quegli anni. Anche Franco Faccio, ammirato, proporrà alla Società del Quartetto il Prologo, costruito a mo’ di poema sinfonico, e mentre Catalani attende inquieto un nuovo libretto da musicare, gli chiede di comporre un pezzo da eseguire nei concerti che con l’orchestra della Scala dovrà dirigere nel giugno 1878 a Parigi, alla sala del Trocadéro, per l’apertura dell’Esposizione Universale. Catalani scrive per Faccio non una ma due composizioni: Contemplazione (con lo stesso titolo di una pagina di Faccio) e Scherzo, che verranno eseguite in un programma di autori italiani e poi replicate in un’altra serata, davanti a un

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pubblico che apprezza stupito questi documenti dell’Italia sinfonica. Contemplazione, rimasta a lungo, inspiegabilmente, inedita, fino all’intelligente recupero di Riccardo Muti, si presenta come una lunghissima e translucida melodia affidata ai violini, di carattere statico, sostenuta da un calmo accompagnamento sincopato – lo stesso che apre il brano pianistico In sogno –, il cui disegno, non particolarmente memorabile come cantabilità, è però caratterizzato da una continua e suggestiva fioritura di abbellimenti (quartine, appoggiature, trilli) e da uno svolgimento di amplissima arcata: più di venti battute, di cui nessuna “ripete il disegno ritmico delle precedenti e delle successive” (Gatti). Ma il pensiero melodico non trova una conclusione, e procede svolgendosi e variandosi con continue alterazioni armoniche e cambiamenti di accompagnamento ritmico, aprendosi a delicati interventi solistici di oboe e clarinetto, fino a un climax indicato come “grandioso”: l’orchestra, che fino ad allora si è espressa con sonorità raccolte e sommesse, si esalta in una maestosa pienezza, come se la “contemplazione” lirica e sognante si aprisse finalmente a una visione luminosa e solenne, degna di apparire in un momento trionfale di un poema sinfonico di Strauss. Poi, la riproposta di tutto l’ampio pensiero di apertura, con il limpido suono degli archi, suggerisce la caduta dalla grandiosa visione e ci riporta al primitivo clima sognante, alla contemplazione estatica da cui si è mossa l’ispirazione di Catalani; che di questa pagina dovette avere una forte opinione, tanto che ne approntò una versione pianistica, pubblicata dall’editrice Lucca un anno dopo l’esecuzione parigina.

Alfredo Catalani.

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Alfredo Catalani in un ritratto di Leonardo Bazzaro.

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Richard Strauss, nel 1893.

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Richard Strauss, Don Juan op. 20 Nel 1886, a soli ventidue anni, il bavarese Richard Strauss, già autore di musica da camera di discendenza brahmsiana, di Lieder e di lavori sinfonici, entrava in contatto con i principi estetici della Neudeutsche Schule: la musica, secondo le teorie di Friedrich von Hausegger, doveva farsi interprete non solo di sentimenti umani o di vicende personali, ma essere eco, traduzione sonora di immagini naturali o poetiche, di idee filosofiche, di personaggi storici, in opposizione al formalismo di Eduard Hanslick, alla sua idea di musica “als tönend bewegte Form”, forma pura che si muove attraverso i suoni, esprimendo solo se stessa. Proseguendo, come Smetana, Cˇajkovskij e Rimskij-Korsakov, sulla linea dei poemi sinfonici di Liszt, Strauss si diceva convinto che opere come “il Coriolano, Egmont, Leonora n. 3, Les adieux [...] non avrebbero mai veduto la luce senza una premessa poetica”. Così, le sue creazioni orchestrali si configurano come risposta al classicismo brahmsiano vicino all’esaurimento, e proprio durante la composizione di Don Juan, nel 1888, Strauss confermò a Hans von Bülow, che si era mostrato critico in proposito, le sue convinzioni: “Se si vuol creare un’opera artistica unitaria, e se si vuole che essa agisca in senso plastico sull’ascoltatore, bisogna che ciò che l’autore intende dire appaia anche plasticamente agli occhi del suo spirito. Ciò è possibile quando esista lo stimolo di un’idea poetica [...] aggiunta o meno all’opera come programma”. Con queste premesse – non diversamente da Gustav Mahler, che appose dei titoli (Titano, Resurrezione) o un “programma interiore” alle sue prime quattro sinfonie – Strauss individuava la propria natura di musicista gestuale ed eminentemente “teatrale” ancor prima del suo incontro con l’opera, e per un decennio la Tondichtung, che Liszt aveva definito Miniaturoper ohne Gesang, “opera in miniatura senza canto”, divenne per lui il genere musicale ideale, lo strumento attraverso cui il suo prorompente vitalismo, la sua inarrestabile capacità di far musica si espressero con maggiore felicità. Strauss, un po’ come l’amato Mozart, è convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili, e di doverne offrire al suo pubblico la più ricca e varia traduzione in immagini sonore. I suoi poemi mostrano un’affascinante varietà ritmica, una assoluta padronanza del mezzo orchestrale, di dimensioni grandiose e di camaleontici colori, in cui l’inventiva feconda e piena di sorprese di Strauss sa sempre trovare il “gesto” sonoro – magari costituito di poche note – che raffigura o evoca non solo un evento naturale (vento, temporale, scorrere dell’acqua, sorgere del sole) o traduce lo scampanio di greggi o lo scalpitio di cavalli secondo i canoni di un’estetica naturalistica e illustrativa; magistrale è anche la sua capacità di inventare le frasi musicali che cantano lo slancio amoroso o “la voluttà del soglio” di un Macbeth, traducono lo sberleffo di un Till Eulenspiegel o l’angoscia, illuminano la meditazione religiosa, al limite il ragionamento filosofico di Zarathustra: ma sempre con uno spessore sonoro, una “carnalità”, una potenzialità visiva che tolgono alla sua musica ogni tentazione di intellettualismo. “Strauss riassume l’esperienza musicale romantica”, ha scritto Luigi Rognoni, “sino a congelarne i mezzi espressivi nel gesto coreografico e nell’ironizzazione esterna dell’immagine sonora, dove ogni singolo strumento diviene personaggio mimico e dove il discorso musicale, apparentemente provocatorio, è in effetti lo specchio deformante delle convenzioni e dei modelli della società borghese e del suo ambizioso sogno di potenza.” Attingendo con slancio giovanile


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alle più varie suggestioni letterarie (più raramente a vicende personali, come nel caso di Ein Heldenleben), Strauss attuò un progetto fortemente intriso di cultura tardo-romantica, che ammiccava alla solida borghesia della Germania guglielmina e al suo desiderio di gratificazione intellettuale, presentandole ritratti di “eroi” quali Till Eulenspiegel, Don Giovanni, Don Chisciotte, Zarathustra, in cui potersi riconoscere o ritrovare emblemi alti a cui aspirare. Ma a un ascoltatore del terzo millennio, la raccolta dei suoi poemi sinfonici può apparire l’incarnazione di un progetto più sottile: andando al di là del programma lisztiano, Strauss si muove verso una possibile lettura in chiave autobiografica, trasformando protagonisti e vicende dei sette poemi della sua prima stagione creativa in incarnazioni di un’unica storia interiore. Con il suo straordinario talento di narratore, Strauss componeva così i capitoli di una storia autentica, e con queste opere apparentemente intrise di letteratura, lasciava a noi quasi un autoritratto di ampio respiro, delineando “una specie di cammino dal teatro al teatro”, come ha scritto Franco Serpa, “cioè dal dramma wagneriano, visto come perfezione impossibile, al dramma della cultura europea decadente”. Con i suoi poemi sinfonici, il compositore più ammirato, l’interprete più attuale dello spirito superomistico di fine secolo segnava l’esaurimento di un genere e poneva le premesse per la nascita del suo teatro musicale, tutto calato nel secolo ventesimo. La prima ispirazione del poema Don Juan, il grandioso tema iniziale, balenò a Strauss nel maggio 1888 a Padova, durante una visita alla Basilica di Sant’Antonio; la suggestione poetica, invece, risale quasi sicuramente al 13 giugno 1885, quando, in compagnia di Bülow, assistette a Francoforte alla tragedia di Paul von Heyse Don Juans Ende (“La fine di Don Giovanni”). Il musicista approfondì ulteriormente il suo interesse per tale personaggio, leggendo altri testi e soprattutto il romantico dramma (del 1844) dell’austriaco Nikolaus Lenau – il poeta che aveva ispirato un Lied, un Melodram e i Mephisto-walzer di Liszt –, il quale presenta un Don Juan molto diverso da quello fresco e vitale del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, passato poi nell’opera di Mozart-Da Ponte. Questo di Lenau è un Don Giovanni ritratto non nella sua illuministica sfida ai pregiudizi morali, o soltanto nell’esaltazione della sua sensualità, come simbolo di un Eros inesauribile, ma che si presenta stanco di se stesso, vecchio, pervaso da un senso di inutilità e di tedio; e che anche nel duello con Don Pedro di Calatrava, quando ha la possibilità di ucciderlo, esclama: “Il mio nemico mortale, lo tengo in pugno; ma anche questo mi annoia, come mi annoia l’intera vita”, e preferisce lasciarsi trafiggere. Fedele al principio che “un’opera musicale che sia priva di un vero contenuto poetico da esprimere è tutto, fuorché musica”, Strauss premise alla partitura, che egli stesso diresse l’11 novembre 1889 nello Hoftheater di Weimar, tre frammenti di Lenau, relativi ad aspetti fondamentali dell’eroe: l’inesausto desiderio di piacere, “attraversare il cerchio magico, esteso senza limiti, delle seduzioni femminili”; l’attrazione sempre nuova provata per ogni donna; il disincanto e la rassegnazione al proprio destino (“Fu bella la tempesta che mi ha agitato / ora è passata e rimane il silenzio. / Ogni desiderio e speranza è apparenza di morte”). Tutto ciò viene tradotto in una struttura musicale libera, in un tempo unico ricollegabile per grandi linee alla forma sonata, per la contrapposizione e l’elaborazione degli spunti tematici, e intrecciata con il Rondò. Molte invenzioni tematiche incisi-

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Richard Strauss.

ve e fascinose si uniscono e si combinano in prospettive cangianti, creando un ordito sonoro lussureggiante e virtuosistico per le soluzioni tecniche richieste a un’orchestra che pure non presenta un organico di eccezionali dimensioni: piuttosto, Strauss lavora sulla timbrica, con viole e contrabbassi divisi, le sonorità degli archi al ponticello, gli strumenti spinti ai limiti inediti delle loro tessiture (“Il primo clarinetto non si era mai trovato dinanzi a passi che giungevano sino al fa diesis acuto,” si compiaceva il compositore: “i contrabbassi non avevano molta confidenza col si acuto, [...] alla prima tromba non era mai stata richiesta tanta agilità da giungere al si acuto”). A proposito delle sue arditezze strumentali, Strauss riferiva al padre delle prove per la prima esecuzione: “L’orchestra è rimasta ansante e senza fiato, ma ha fatto un lavoro di prim’ordine. Uno splendido divertimento: dopo il Don Juan un corno, madido di sudore e senza fiato, ha sospirato: ‘Dio santo, che cosa abbiamo fatto di male perché ci fosse mandato questo flagello? (il flagello sono io) Non sarà facile liberarci tanto presto di lui’. [...] E proprio i corni avevano suonato con reale disprezzo della vita!”. Ma se la trama sonatistica testimonia di un rapporto ancor saldo con la tradizione, il metodo compositivo di Strauss si serve largamente del sistema wagneriano del Leitmotiv, per cui sono densi fasci di temi a tratteggiare il carattere del protagonista, nella sua viva sensualità e volontà di conquista, con una giovanile identificazione personale che accantona il ritratto oscuro di Lenau per dar voce, come ha scritto Vito Levi, “a quella forza bramante di cui parla Kierkegaard nello studio su Mozart e l’erotico nella musica”. Irruento ed entusiasta il tema d’apertura in mi

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Pëtr Il’icˇ Cˇajkovskij.

maggiore, più solenne ed eroico l’altro, in do maggiore, esposto dai corni: temi che si alternano a più delicati o ardenti motivi “femminili” o più semplicemente amorosi, proposti, secondo un preciso gioco di tonalità (si e sol maggiore), dal violino solo, dal clarinetto, dagli oboi. Un autentico contrasto, quasi si trattasse di un ritratto di donna che finalmente si afferma, è creato dal lungo e malinconico canto dell’oboe solo che si ascolta più avanti. Nell’ultima sezione ricompaiono il tema “femminile” in si maggiore e i vari motivi di Don Giovanni ancora ardenti e vitali; e solo nella Coda Strauss sembra recuperare la lettura seriosa di Lenau. Il Don Juan si conclude in una grigia tonalità di mi minore, in cui l’energia sonora si smorza e finisce con tre colpi di timpani in pianissimo. Spento ogni desiderio, la morte avanza “e il mondo si fa oscuro e deserto”.

Pëtr Il’icˇ Cˇajkovskij, Sinfonia n. 4 in fa minore op. 36 “Pëtr Il’icˇ, voi non siete altro che la vostra musica, e la vostra musica non è altro che voi, il vostro vero io”: così, con evidente enfasi, la grande amica e generosa protettrice di Cˇajkovskij, Nadežda von Meck riteneva di svelargli la sua natura più riposta. In effetti, se la dimensione della confessione autobiografica è modulo ricorrente della creatività romantica, è difficile trovare un compositore che delle sue angosce esistenziali, delle sue privatissime vicende abbia dato una registrazione così ampia e ricorrente al pari di Cˇajkovskij. Egli ne era perfettamente cosciente, e a più riprese si assiste nei suoi scritti alla messa a fuoco di una concezione pessimistica del vivere, al graduale intensificarsi delle nevrosi che troveranno nelle opere della maturità una realizzazione poetica. Cardine del pessimismo cˇajkovskiano è l’idea di Fato, che egli così definisce alla von Meck: “Una forza del destino che ci impedisce di godere la felicità, che versa un lento veleno nell’anima. Bisogna sottomettersi ad essa, rassegnarsi a una tristezza senza uscita”: l’eroica tensione fra uomo e destino, di matrice beethoveniana, ha ceduto il campo a una accettazione passiva e sfibrata, a una denuncia d’impotenza, a una rinuncia che si compiace quasi, masochisticamente, della propria sofferenza, e non riesce più ad avere di fronte a sé alti ideali morali o principi politico-civili. È il dì delle generose speranze romantiche che volge al termine e Cˇajkovskij, in questo, appare molto più occidentale del “nazionale” Gruppo dei Cinque, i quali ancora credono nei valori solidi della terra russa, del popolo e delle sue incontaminate espressioni musicali. Pëtr Il’icˇ, pur attingendo a piene mani alle tradizioni della propria nazione, per un melodizzare intriso di modalità popolare, non meno russo di quello di un Borodin o di un Rimskij-Korsakov, ci appare nostro semblable et frère non tanto per l’adozione delle grandi forme strumentali classico-germaniche, quali il concerto, la sinfonia, il quartetto, ma per essere stato interprete – al pari di Brahms, ad esempio – di una fase estremamente travagliata della coscienza europea in prossimità dello scadere del secolo romantico. E i suoi frequenti viaggi verso l’Europa occidentale (e l’Italia in particolare) sembrano ulteriori conferme di tale desiderio di ritrovare, fuori dalla Russia, un dialogo con civiltà e personaggi che Cˇajkovskij sentiva più suoi, partecipi di tormenti ed ansie più analoghe alle proprie. Fu durante uno di questi viaggi (Cˇajkovskij si trovava a San Remo) che a Mosca venne eseguita, ma senza un successo strepitoso, la Sinfonia n. 4 in fa minore, l’o-

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pera che suggellava l’inconsueta amicizia con la von Meck, nata da meno di un anno. Era il 22 febbraio 1878, e già nel maggio precedente il compositore aveva offerto alla nobile e ricchissima dama la dedica del lavoro, definito nella loro fittissima corrispondenza “la nostra sinfonia”. Essa nasceva in un momento dei più tragici nell’esistenza del nevrotico musicista: un incauto matrimonio con una giovanissima ammiratrice naufragato nel breve spazio di tre settimane veniva a interrompere la composizione, che fu ripresa durante una fuga verso l’Italia e di là spedita a Mosca. Non doveva certo mentire Cˇajkovskij quando scriveva alla von Meck che “nessuna delle mie composizioni sinfoniche mi è costata tanta fatica”, aggiungendo: “ma anche a nessuna ho lavorato con tanto amore. Com’è consolante per me il pensiero che Ella, quando l’avrà ascoltata, potrà sapere come ad ogni battuta io abbia pensato a Lei!”. La Quarta Sinfonia inaugura una serie di lavori fortemente improntati di autobiografismo (come la Quinta e la Sesta Sinfonia, “Patetica”, o il poema sinfonico Fatum); ma, mentre rende omaggio alle forme del sinfonismo germanico, Cˇajkovskij non riesce a sfuggire a una forte carica di programmaticità, quasi che al lavoro fosse sotteso, come a un poema sinfonico di ascendenza lisztiana, un assunto narrativo. È l’epistolario con la von Meck a fornirci puntuali indicazioni: La nostra sinfonia ha un programma esiste cioè la possibilità di tradurne in parole il contenuto. [...] L’introduzione contiene il germe dell’intera sinfonia; l’idea principale è il Fato, forza nefasta che si oppone perfidamente alla nostra felicità [...] che, sospesa come la spada di Damocle sul nostro capo, incessantemente ci amareggia l’animo”. Nel primo tempo “abbattimento e disperazione si fanno sempre più forti; ma ci abbandoniamo ai sogni, e questi a poco a poco si impadroniscono del nostro animo. Ci scordiamo di tutto ciò che è cupo, negato alla gioia. Ecco la felicità! Così la nostra esistenza è un continuo alternarsi di aspre realtà e di fugaci sogni. Il secondo tempo esprime un diverso grado di malinconia; quella che si prova la sera quando soli, stanchi dal lavoro, si prende un libro... ma esso ci cade di mano, e un’onda di memoria si riversa su di noi. Com’è dolce ripensare alla giovinezza, ai giorni in cui il sangue ci pulsava nelle vene, e la vita non dava che soddisfazioni! Ma mancavano, anche allora, i giorni difficili? Che cosa a un tempo dolorosa e dolce è immergersi nel passato! Il terzo tempo non esprime sentimenti definiti. Sono arabeschi bizzarri, figure inafferrabili che attraversano la nostra mente come quando si è bevuto del vino. [...] Ma ecco: improvvisamente ricompare alla memoria un piccolo contadino ubriaco e l’eco di una canzone udita per strada. In lontananza, passano soldati. [...] Quarto tempo: se non riesci a trovare in te motivi di gioia, guardati intorno. Vai fra la gente, partecipa a un’allegra festa popolare; così, dimentichi la tua pena finché, implacabile, torna a farsi sentire il fato. La gente non si occupa di te e non si accorge di quanto tu sia solo e triste. Sono tutti allegri, dominati da sentimenti semplici e spontanei! Esci da te! Partecipa della felicità altrui. La vita ha pure i suoi lati belli.

Sul piano più strettamente musicale, si noterà che il tema del fato funziona come una idée fixe berlioziana, ritornando in forma ciclica nell’opera, ed emblematicamente nel finale, ad oscurare “la felicità altrui”, dopo l’enunciazione, affidata a

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una minacciosa fanfara di ottoni e legni, nell’Andante sostenuto iniziale. Ma anche dove il tema non compare tangibilmente, se ne avverte la presenza nel registro dolente delle invenzioni melodiche: così nella tortuosa, trascinante linea del tema principale del primo tempo, in fa minore (indicato “in movimento di valse”: i grandi amori borghesi, salottieri di Cˇajkovskij entrano anche in questo quadro di sconsolata desolazione), come nel malinconico Andantino in modo di canzona, aperto da un assolo di oboe, in si bemolle minore, accompagnato da archi pizzicati (il cui colore nazionale appare evidente), o nella melodia del Finale, che recupera una celebre canzone popolare russa, Stava una betulla in un campo. Libero del tutto da incrostazioni programmatiche, pagina di autentico virtuosismo orchestrale è invece lo Scherzo, in fa maggiore, tutto giocato su un lungo pizzicato ostinato degli archi che si contrappone a brevi episodi affidati prima a legni poi a ottoni e timpani soli, di carattere fra il sorridente e il grottesco; è un brano di distesa semplicità e trasparente scrittura, in cui si può cogliere l’eco di una celebre pagina del Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn, autore molto ammirato da Cˇajkovskij. Poi, nel Finale, questa parentesi lirica è oscurata dal nuovo insorgere di espressioni di grandiosa, gridata desolazione: il canto contadino, immagine di una dimensione serena perduta o vissuta solo da altri, rifluisce nel minaccioso tema del fato, che torna a suggellare pessimisticamente la sinfonia.

Pëtr Il’icˇ Cˇajkovskij.

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17 Foto Todd Rosenberg


Sabato 21 gennaio 2017

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Chicago Symphony Orchestra Direttore

Riccardo Muti

Paul Hindemith Konzertmusik per archi e ottoni op. 50 Mäßig schnell, mit Kraft. Sehr breit, aber stets fließend Lebhaft. Langsam. Im ersten Zeitmaß (Lebhaft) Edward Elgar In the South (Alassio) op. 50 Modest Musorgskij Una notte sul Monte Calvo Quadri da un'esposizione (orchestrazione Maurice Ravel) Promenade 1. Gnomus. Promenade 2. Il vecchio castello. Promenade 3. Tuileries. Dispute d’enfants après jeux 4. Bydlo. Promenade 5. Ballet des poussins dans leurs coques 6. Samuel Goldenberg et Schmuyle 7. Limoges: Le marché 8. Catacombae: Sepulchrum Romanum. Cum mortuis in lingua mortua 9. La cabane sur des pattes de poule (Baba Yaga) 10. Le grande porte de Kiev

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Foto Todd Rosenberg


Sinfonismo spettacolare Carlo Maria Cella

Sono nato nel 1895 a Hanau. Ho iniziato gli studi a dodici anni. Come violinista e violista, pianista o batterista, ho arato nei seguenti campi musicali: cameristica di ogni genere, cinema, caffè concerto, sale da ballo, operetta, jazz-band, banda militare. Dal 1916 svolgo l’attività di primo violino all’Opera di Francoforte. Come compositore ho scritto prevalentemente pezzi che non mi piacciono più: musica da camera nelle più svariate formazioni, Lieder e roba per pianoforte. Anche tre opere in un atto per il teatro, probabilmente destinate a rimanere uniche perché, a causa dei continui rincari della carta da musica, si potranno scrivere, ormai, solo partiture brevi. Non posso offrire analisi dei miei lavori perché non so come spiegare un brano di musica in poche parole; nel tempo che mi occorre per farlo, preferisco scriverne un altro. Inoltre, ritengo che le mie composizioni siano di facile comprensione per chi ha orecchie per capire; un’analisi sarebbe inutile. La gente senza orecchio non può invece essere aiutata nemmeno con certe guide da idioti. Non ritengo di dover buttare giù nemmeno temi sparsi, suggeriscono sempre una falsa immagine. Paul Hindemith, biografia d’autore. Dalla “Neue Musikzeitung”, 1922.

Dopo certi colpi di rasoio, chiunque fosse chiamato a introdurre al pubblico la musica di Hindemith si troverebbe più esposto e scomodo di Marcel Duchamp (e Stravinskij e Marlene Dietrich e altri celeberrimi) nelle foto “ad angolo” di Irving Penn. Ma il dovere è dovere, e Hindemith nel 1922 aveva ancora da scrivere quasi tutta la musica per la quale occupò una delle più orgogliosamente libere posizioni nella Berlino anni Venti-Trenta. La Konzertmusik per archi e ottoni op. 50 è l’ultima partitura cui Hindemith attribuisca un numero d’opera, e nello stesso 1930 condivide idee e funzioni con una quasi sorella, la Konzertmusik op. 49 per pianoforte, ottoni e arpe. Entrambe hanno relazione con l’America: l’op. 49 fu scritta su commissione della mecenate statunitense Elizabeth Sprague-Coolidge, e per Koussevitzky; la Konzertmusik op. 50 per il cinquantenario della Boston Symphony. Hindemith cominciava a essere conosciuto e la sua musica richie-

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Paul Hindemith.

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sta e apprezzata, tranne che dalle correnti di pensiero che si stavano annidando in Germania in quegli anni – le stesse che poco dopo giudicheranno il Philharmonisches Konzert, brano apparentato alle Konzertmusiken, scritto per i cinquant’anni della Filarmonica di Berlino e per Wilhelm Furtwängler: “Uno di quei discutibili e riprovevoli tentativi compositivi di Paul Hindemith, che gode di protezione ebraica e la cui visione artistica si trova distante anni luce dall’anima tedesca” (“Völkische Beobachter”, organo ufficiale del Partito nazionalsocialista, 27 aprile 1932). Al contrario, oggi non dubitiamo affatto che la Konzertmusik op. 50 discenda dalla migliore tradizione strumentale tedesca, dall’alto artigianato e dalla disciplina dei maestri del Sei-Settecento, da Bach ma non solo, composta com’è con bella conoscenza dell’arte della fuga. La Konzertmusik op. 50 ha poi qualcosa di specialmente severo nell’impianto: divisa quasi esattamente in due parti – la prima Moderato veloce (o Allegretto), con forza, la seconda Vivace – riflette anche nella forma la divisione dell’organico, con gli archi che si oppongono agli ottoni in forma quasi antifonale, i violini quasi mai divisi. La prima parte si apre su un fronte massiccio di ottoni entro cui gli archi tentano varchi, poi aperti dal tacere dell’altra famiglia; e fortemente scandito è tutto il materiale tematico che si oppone e transita da un fronte all’altro, in uno scambio a blocchi di contrapposizioni e sovrapposizioni. Di tutt’altro segno, la seconda parte si apre sullo scatto leggero, quasi liberatorio, degli archi, ripiega in un episodio lento (G) che non delinea un vero movimento interno, e riguadagna lo scatto iniziale (K) fino alla corona finale dell’orchestra piena. Hindemith, antiretorico e antiromantico, non condividerà mai con i Viennesi l’idea di una eguaglianza infrangibile delle dodici note, non schematizzerà alcuna idea di armonia, né si porrà alcun problema a utilizzare liberamente la tonalità; scrupolo formalista di molte avanguardie future, anche vicine e vicinissime. La Konzertmusik op. 50 dimostra tutto questo: la melodia appare, e con estrema evidenza, usata quasi come un elemento strutturalmente aggregante; e, “all’antica”, gli strumenti si muovono lungo i disegni melodici su un piano di eguaglianza. Hindemith anticipò il pensiero di chi, anche molti anni dopo, pur indagando a fondo il suono si chiederà se sia possibile “fare a meno della tradizione”. Se allarghiamo la panoramica attorno a luoghi e tempo della Konzertmusik op. 50, possiamo capire anche altro di Hindemith. L’11 febbraio 1927, a Lipsia, Krenek riesce a mandare in scena Jonny spielt auf, opera piena di quel che fra pochi anni produrrà l’idea malata di Entartete Musik, “musica degenerata”: il jazz, un negro che canta, molti rinvii a culture “inferiori”. A Francoforte si esegue il Primo Concerto per pianoforte di Bartók (1 luglio), a Brno si ascolta la Messa glagolitica di Janácˇek; lontano, a Philadelphia, Varèse lancia Arcana. Il 31 agosto 1928, a Berlino deflagra L’opera da tre soldi di Brecht e Weill; nel dicembre del 1925, sempre a Berlino, s’era visto e ascoltato il Wozzeck di Berg. Poi tutto diventerà difficile o proibito. Sotto la falce cadrà anche Hindemith, pesantemente con Mathis der Maler (12 marzo 1934), e non basteranno le difese del “Consigliere di Stato Dr. Furtwängler”. La prima scelta fu di vivere silenziosamente la vita dell’esiliato in patria, il che fu possibile fino al 1936. Nel 1938 Hindemith riuscì ad aggirare la burocrazia


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nazista e trovò rifugio in Svizzera. Fra il 1937 e il 1939 visitò tre volte gli Stati Uniti prima di compiere il salto transatlantico, rinviato all’estremo limite, e là furono molti i riconoscimenti. In Europa come in America, qualcosa, della biografia-manifesto del 1922, Hindemith non smentì mai: l’apertura mentale. Molti anni dopo la sua morte, negli archivi della Scuola di Berlino, si trovarono i materiali delle sue lezioni sulla musica da film: straordinariamente al passo coi tempi, suoi e nostri. E l’attenzione verso il jazz, il non disprezzo per l’intrattenimento, furono sempre veri, mossi dalla consapevolezza, già nella Berlino degli anni Venti, che in altre parti del mondo e in altre culture si stavano trasferendo energie trainanti per la nuova musica. Paul Hindemith.

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Quando nel 1904 compose l’Overture in the South, op. 50 (Alassio), Edward Elgar, non ancora Sir, fu molto più gentleman con l’Italia di quanto il Sud fosse stato generoso con lui. Nell’inverno del 1903, Elgar era in fuga da quel che comunemente in Inghilterra si fugge, anche quando la salute non è delle migliori, com’era il suo caso: il freddo, la nebbia, la pioggia, le giornate senza luce. Sono situazioni in cui ogni suddito del Regno sogna un viaggio nella terra cui mancano molte cose tranne il sole, e la scelta cadde su Alassio. Peccato che quell’inverno, almeno nei giorni della vacanza, il clima nella Riviera di Ponente fosse inclemente. Elgar reagì con molto fair play: “Che importa se il Mediterraneo è agitato e grigio?”, scrisse all’amico Jaeger. “Che importa se piove a torrenti? Che importa delle burrasche? Abbiamo certo cibo, certo vino. Infine viviamo una vita!”. La seconda persona del plurale era la moglie, Alice, che fu importante, e molto, per la carriera di Elgar: quando nel 1891 lo spinse a uscire dai confini di una malinconica attività di provincia e quando nel 1920, lasciandolo vedovo, favorì il suo chiudersi in se stesso e il suo allontanarsi dalla composizione. La luce che inonda l’Overture in the South, composta nel grigio di Alassio, è dunque un atto di fede e un grande gesto di immaginazione che il sinfonista apprezzato da Strauss poteva tradurre in belle visioni orchestrali. Ma forse qualche giorno buono dovette esserci stato, se Elgar ammise che la partitura nasceva da “pensieri e sentimenti legati a un meraviglioso pomeriggio nella Valle d’Andora”. Quando firma In the South, Elgar è da poco famoso e padrone del suo destino, grazie soprattutto a due opere che sono mondi lontanissimi: le Enigma Variations, suo titolo-simbolo, poema sinfonico in cui molti hanno ceduto al fascino di una cifra segreta; e The Dream of Gerontius, oratorio eccentrico nella storia inglese da Händel in poi. Le Enigma Variations in 14 parti, pari ai ritratti di 12 amici più i due di Elgar e della moglie, vennero eseguite per la prima volta il 19 giugno 1899 sotto la bacchetta di Hans Richter (che dirigerà entusiasta anche la Sinfonia n. 1). L’enigma non esisteva e l’amico Jaeger alla fine svelò che non c’erano esercizi enigmistici da sciogliere: Elgar amava gli scherzi. Tutto era musica pura, fascino di una scrittura elegante, ricca e trasparente, che piacque subito a una serie molto assortita di maestri diversi, che la misero volentieri in repertorio per il piacere di dirigerla e di illustrare le rispettive orchestre, fisse o di passaggio: Fritz Steinbach, Arthur Nikisch, Felix Weingartner, Sergei Koussevitzky, Arturo Toscanini, Sergeij Rachmaninov e, nella sua ultima stagione a New York, Gustav Mahler. Tutt’altro che uno scherzo, The Dream of Gerontius è invece un oratorio commissionato giusto un anno dopo le Enigma Variations, allo scoccare del 1900, dal Festival di Birmingham: su un componimento epico-drammatico di John Henry Newman, Elgar affrontava l’insolito tema, allora, di un uomo che guarda la propria morte (“Ho fatto un sogno. Qualcuno sussurrava: Se n’è andato, e un gemito attraversava la sala”). L’eccentricità del Dream of Gerontius consiste nel fatto che il poema è di fede cattolica ed Elgar era di famiglia cattolica nella profonda provincia protestante inglese, con tutto il senso di diversità ed estraneità che fin da giovane Edward William aveva affron-

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Edward Elgar.

tato e non poco sofferto. Sebbene la prima esecuzione fosse andata male, soprattutto per colpa di una pessima esecuzione, anche The Dream of Gerontius conquistò il successo, innalzando la seconda colonna attraverso cui Elgar entrò nel club dei grandi e confinando nell’ombra la sua carriera di musicista di campagna arrivato a 42 anni senza visibilità, là dove conta. A conferma del sorprendente ma solido percorso verso la poltrona di maggior compositore inglese, cinque anni dopo le Enigma Variations e quattro dopo The Dream of Gerontius – ma anche dopo Cockaigne (1901), la più celebre delle sue ouverture, e l’avvio delle Pomp and Circumstance Marches (1901-1907) – il 14, 15 e 16 marzo 1904 fu organizzato al Covent Garden di Londra un Festival Elgar. Per la terza serata era attesa “la Sinfonia”, che Elgar non aveva ancora tentato. L’idea che un compositore dovesse misurare la sua grandezza con lo spettro che molti ne aveva atterriti, da Brahms in poi, resisteva ancora. Ma Elgar non era pronto, lo sarebbe stato nel 1908, e nel suo festival londinese del 1904 trovò giusta collocazione un poema sinfonico fresco di scrittura, in sintonia coi tempi, con il pensiero musicale anglosassone, con il talento e l’attrezzatura linguistica di Elgar nel 1904: Overture in the South op. 50 (Alassio). In mancanza del sole della Riviera, scopriamo in appunti a margine della partitura i raggi incorporei per l’immaginazione di Elgar: sono versi di Tennyson (“Quali ore le tue e le mie, nelle

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Modest Musorgskij nel 1874.

terre di palma e pino marittimo, nelle terre di palma e arancio in fiore…” ) e di Byron (“Una terra che fu la più potente nel suo antico comando ed è la più amabile, dove vennero cresciuti gli uomini di Roma. Tu sei il giardino del mondo”). L’orchestra di Alassio avvia il suo omaggio al Mar Ligure – per Elgar sempre “il Mediterraneo” – su un tema eroico che domina l’intero pezzo ed è solo il primo di un ricco tessuto in cui l’ispirazione melodica non soffre di pallore. Due temi in do maggiore servono da semplice transizione ad altri due in fa maggiore. L’arco lungo dell’Overture permette a Elgar di aprire nel cuore della pagina due episodi, uno dei quali è perfino una lusinghiera evocazione di antiche glorie nostre, con un corteo di legioni romane. Il secondo episodio cita una canzone popolare alla viola, che piacque a Elgar al punto da trasformarlo anche in piccolo brano per orchestra con il titolo Canto Popolare (Al chiaro di luna). La seconda parte non poteva che riprendere la piccola folla di temi eroici e scattanti della prima parte, sviluppandoli in grande souplesse fino alla fine. È probabile che, per i loro diari musicali, Mendelssohn, aikovskij e Strauss siano stati tutti baciati dal sole, dal mare blu e dal cielo azzurro. Di sicuro In the South (Alassio) imboccò, più o meno, la stessa strada costiera percorsa dalla Sinfonia “Italiana” (1834) e dal Capriccio italiano (1880), e senz’ombra di dubbio superò, in stile ed eleganza, Aus Italien (1886), che tra gli omaggi al Sud vanta il peggior finale: da torpedone tedesco, non da Grand Tour. “Riguardo alla forma e al carattere, la mia composizione è russa e originale. La sua atmosfera incandescente e caotica […] è un prodotto originariamente russo, non derivato dalla profondità e dal mestiere tedesco, ma erompente dai nostri campi e nutrito di buon pane russo.” Chissà, fu ancora una volta quell’atmosfera incandescente e caotica – ovvero il carattere che il pensiero moderno e contemporaneo ammirano in Modest Petrovicˇ Musorgskij – a scrivere la storia sofferta e tortuosa di Una notte sul Monte Calvo. E non è un caso che un risvolto anche mortificante, per Musorgskij, si sia aggiunto alla sorte toccata alla sua unica composizione per orchestra di un certo sviluppo, scritta fra l’aprile del 1866 e il giugno del 1867. Il destino della musica di Modest è sempre attraversato da un nome e un cognome, in questo caso due, con relativi patronimici: Milij Alekseevicˇ Balakirev e Nikolaj Andreevicˇ Rimskij-Korsakov- il padre guardiano del Gruppo dei Cinque e il più dotato (tecnicamente) di tutti loro. Quando, come d’uso e dovere, Musorgskij sottopose il manoscritto al giudizio severissimo di Balakirev, si ritrovò commenti a margine intonati tutti al concetto di “porcheria”. Con segni rossi e blu così autorevoli e autoritari, Musorgskij non poteva nemmeno pensare a una esecuzione pubblica. Perché il giudizio di Balakirev fosse così decisivo per le sorti di certe pagine, non solo di Musorgskij, lo scrive nelle sue memorie Rimskij-Korsakov, che fu amico sincero, collega, ma anche professore aggiunto per Modest: “Balakirev era un giudice tecnico di prim’ordine: sentiva istintivamente il minimo errore. Quando noi giovani gli sottoponevamo i nostri saggi di composizione, riconosceva immediatamente gli errori di armo-

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Ritratto di Modest Musorgskij (1881) di Repin.

nia, di costruzione, di modulazione e improvvisava spontaneamente al pianoforte le correzioni. […] Balakirev esigeva dai suoi allievi che gli facessero esaminare i loro progetti fin dalla concezione, quando non avevano scritto che quattro o cinque battute. […] Non apprezzava né la velocità di scrittura né la fecondità d’ispirazione… Essendo dotato di carattere dispotico, chiedeva che l’opera fosse modificata esattamente come proposto da lui, dettagliato da lui […] al punto che intere parti di certe composizioni erano sue e non dell’autore presunto”. Detto da Rimskij. Dopo una lettera costernata di Musorgskij a Balakirev, del 24 settembre 1867, il destino del manoscritto fu di rimanere tale, nei cassetti di Modest, con il suo titolo originale (La notte di San Giovanni sul Monte Calvo), ma anche con la convinzione pervicace, nel suo autore, che si trattasse di materiale buono, da utilizzare almeno in altre forme che non fossero quelle di un poema sinfonico (con occhi bene aperti su Liszt e Berlioz). E le riscritture furono tre: nel 1871-72, con coro, per l’opera-balletto collettiva Mlada, rimasta incompiuta; nel 1880, facendo confluire il sabba di San Giovanni in un Interludio che accompagna il sogno-incubo di Gricˇ’ko nella Fiera di Sorocˇincy, opera pure incompiuta. E qui nella storia della Notte di San Giovanni entra in gioco il secondo nome. A Nikolaj Rimskij-Korsakov si devono, direttamente o indirettamente: 1) l’idea che La notte di San Giovanni sul Monte Calvo sia nata come pagina sinfonica per pianoforte e orchestra sul modello della Totentanz di Liszt; 2) che La notte di San Giovanni sul Monte Calvo sia un torso incompiuto. La prima affermazione non è grave e nemmeno fuori luogo (l’ombra di Liszt c’è sempre), forse pure favorita dal fatto che Balakirev fin dal 1860 insisteva affinché Musorgskij, poco più che ventenne, scrivesse una sinfonia. In realtà non ci sono documenti che accertino un primo pensiero per pianoforte e orchestra della Notte di San Giovanni. La seconda è invece falsa, perché nel 1968, cento anni dopo, il manoscritto originale di Musorgskij fu scoperto, e lo si trovò completo in ogni sua parte, scrittura orchestrale compresa, à la Musorgskij, ovviamente. Dalla convinzione di un’opera incompiuta nasce la versione che Rimskij-Korsakov si dedicò a scrivere, a completamento dell’originale, tre anni dopo la morte di Musorgskij, per una esecuzione postuma che doveva suonare come indennizzo; versione che, con il titolo attuale di Una notte sul Monte Calvo, è arrivata fino ai giorni nostri come uno dei più celebri, grandi pezzi da concerto. Nel manoscritto originale, La notte di San Giovanni sul Monte Calvo (altura nei pressi di Kiev, ma anche luogo fantastico in cui s’immagina celebrato un rito nero di mezza estate), è divisa in quattro parti: 1) la riunione delle streghe, le loro chiacchiere; 2) il corteo di Satana; 3) la messa nera, oscena glorificazione del Demonio; 4) il sabba delle streghe. Ma l’ultima parte, soprattutto, non si trova nella Notte sul Monte Calvo strumentata da Rimskij, che nella sezione finale non celebra alcun sabba bensì conclude su una lunga, delicatissima chiusa che vira l’eccitazione del segno orchestrale della prima parte in un raffinato cesello di archi, con i demoni dispersi e l’intuizione coloristica di un’alba evocata dal canto di clarinetto e flauto su brevi disegni dell’arpa.

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Eppure di questo finale – ultimo paradosso – è pur responsabile Musorgskij: Rimskij, oltre a modellare l’orchestra con la sua nota, peculiare abilità, riprese il terzo rimaneggiamento di Modest per il sogno di Gricˇ’ko nella Fiera di Sorocˇincy, il cui finale evoca la quiete e le campane del mattutino. Così, Una notte sul Monte Calvo, poema sinfonico germinato da due sulfurei progetti, fermi allo stato di desideri – nel 1859 da La notte di San Giovanni di Gogol’ e nel 1860 dal dramma Le streghe di Mengden – rimane a giganteggiare nel repertorio delle grandi orchestre come un saggio di virtuosismi e di incredibili sovrapposizioni, correzioni, spunti, idee, stili, intenzioni e pensieri musicali diversi. Tanto poteva Musorgskij. Sol fa si bemolle do-fa re, do-fa re si bemolle do sol fa. La più celebre passeggiata in musica si presenta così, sul rigo, e si muove sul metro flessibile di 5/4 e 6/4, “in modo russico, senza allegrezza, ma poco sostenuto”. Le note, almeno nella prima esposizione, dovrebbero essere allineate sul pianoforte con una certa meccanicità, messe giù come un arido o neutro elenco. Sono i passi del visitatore di una mostra, che si avvicina ai quadri esposti ancora senza emozioni. Nel corso della visita le note della Promenade ricompariranno, nel girovagare da un quadro all’altro, fungendo da interludi, e allora i soggetti diversi e le differenti emozioni le scalderanno, le faranno vibrare, ne cambieranno il passo. La forma dei Quadri da un’esposizione è questa: una non-forma, un libero legame tra i fogli sparsi di un album. La Promenade li tiene insieme. È qualcosa di aperto, come un racconto, un programma, però necessario. Senza quella mutevole Promenade i fogli volerebbero via. Ma l’invenzione è forte e profonda, perché in realtà i Quadri di Modest Petrovicˇ Musorgskij non sono la trascrizione di immagini – quelle vere dei disegni di Viktor Hartmann, o Gartman, l’amico architetto e pittore morto il 23 agosto del 1874 di aneurisma, a trentanove anni – ma la plastica creazione di oggetti sonori proiettati sullo schermo della memoria e della fantasia. Anche il titolo originale, Kartinki s vystavki, suggerisce non una appartenenza – Quadri a un’esposizione –, ma un’appropriazione: Quadri da un’esposizione, staccati dai muri, sottratti al formalismo dello sguardo per guadagnare nella musica la pulsazione del corpo. C’è del teatro sommerso nei Quadri, ed è questa teatralità – estremo paradosso – ad averne deciso il destino sinfonico. Virtaki s vysloki sono infatti il pezzo per orchestra che Musorgskij non scrisse mai, e nemmeno avrebbe mai scritto, nel modo in cui il pubblico ormai li conosce e li ama, se pure fosse vissuto ben oltre i suoi quarantadue anni e dentro il nuovo secolo, quando se ne appropriò, nel 1922, Maurice Ravel, fantasista dell’orchestra cui già Stravinskij aveva cambiato forma, forza e connotati. I Quadri da un’esposizione sono prima di tutto pianoforte, eppure un destino grandioso li perseguita; una vera e propria congiura per la loro conquista da parte del regno dell’orchestra. Non è chiaro per quali ragioni un lavoro così essenziale e moderno, scavato sulle idee, sia stato conteso da tanti strumentatori e tante bacchette. Forse è già tutto in quella Promenade, che, per quanto insista a presentarsi in forma piana e meccanica, prima delle aggiunte accordali, rivela consonanze strette con l’idea melodica principale della scena dell’Incorona-

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zione del Boris Godunov. Se anche una semplice passeggiata rinvia alla grandiosità, che grandioso sia tutto, sembrano essersi detti. La mutazione sinfonica dei Quadri di Musorgskij comincia presto, favorita ancora dall’amico Rimskij-Korsakov. La prima orchestrazione dei Quadri è del 1886, per mano di Michail Tušmalov, allievo di Rimskij. È un’orchestrazione ben diversa da quella di Ravel (quarant’anni, a cavallo fra i due secoli, sono un’enormità), più compatta e meno virtuosistica, più omogenea e cupa, meno squillante di fiati, più ottocentesca e russa; ma più impersonale e comunque infedele, perché sopprime alcuni quadri e diverse riprese della Promenade, snaturando il piano del ciclo, spezzandone l’arco. Prima e dopo Ravel, una schiera di strumentatori continuerà a pensare che sia un vero peccato lasciare i Quadri al pianoforte e ne proporrà una sua versione per orchestra: Sir Henry Wood (1915), Leonidas Leonardi (1925), Lucien Cailliet (1937), Leopold Stokowsky (1938), Walter Goehr (1942), Sergej Gorcˇakov (1954) e Vladimir Ashkenazy, nel 1982, autore anche di un Urtext dello spartito pianistico, quello sì necessario. Ma la versione che suona e risuona nelle sale da concerto è sempre e solo quella di Maurice Ravel. Che cosa portò a questa attrazione fatale? Perché, a un certo punto, proprio il caleidoscopico Ravel sentì il bisogno di orchestrare un pianoforte anche scabro ed essenziale, che tanti pianisti virtuosi si sono sentiti in diritto di ritoccare e imbottire di note non scritte perché “non suona abbastanza”? La scintilla ha un nome e si chiama Sergej Diagilev. Con tanta voglia di bissare il successo di pezzi come i Quadri di Russia pagana del suo compositore prediletto – ovvero Le sacre du printemps di Igor’ Stravinskij – l’impresario dei Ballets Russes pensò di dare Chovanšcˇina di Musorgskij in forma scenica e danzata, alla sua maniera, cioè a brani. Alla strumentazione si applicarono appunto Ravel e Stravinskij insieme. Il progetto fu accantonato, i fogli già scritti andarono quasi tutti perduti, ma forse di lì comincia il love affair di Ravel con Musorjanin; di lì nascono, nel 1922, i Quadri alla francese come il grande pubblico li conosce. Fu fedele Ravel? Apparentemente sì. Musicò tutto nota per nota, pur sopprimendo la quinta Promenade, aggiungendo due battute alla tromba nella prima parte di Baba Yaga e altre sul finale della Grande porta di Kiev, per sopperire al crescendo dell’orchestra. Mutò anche le indicazioni espressive e dinamiche, ma in sostanza rispettò lo scritto. Fu genialmente infedele, invece, nell’uso della massa orchestrale, nel protagonismo dei fiati, nel trionfo dei colori, nel carattere di alcuni passaggi e quadri. La Promenade non è più il passo neutro di un visitatore ma la marcia trionfale di un reggimento; il primo quadro non è più un buffo gnomo saltellante ma una scavallata di King Kong; il Vecchio Castello suona il sassofono, alla James Dean; Bydlo, il carro trainato da due buoi, con un’orchestra di pesantezza bellica rulla come un cingolato. La strumentazione di Ravel – dice bene Ashkenazy – è “troppo profumata e troppo poco russa”: proietta in un Novecento esplosivo l’Ottocento di Musorgskij. Con pagine che Modest aveva pensato da disegnatore, Ravel si comportò pittoricamente, da grande maestro del colore qual era, facendo trionfare il suo tocco assolutamente magistrale. E Satie, perfido, commentava nel suo diario: “Maurice Ravel rifiuta la Legion d’onore, ma tutta la sua musica l’accetta”.

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Riccardo Muti

A Napoli, città in cui è nato, studia pianoforte con Vincenzo Vitale, diplomandosi con lode nel Conservatorio di San Pietro a Majella. Prosegue gli studi al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, sotto la guida di Bruno Bettinelli e Antonino Votto, dove consegue il diploma in Composizione e Direzione d’orchestra. Nel 1967 la prestigiosa giuria del Premio Cantelli di Milano gli assegna all’unanimità il primo posto, portandolo all’attenzione di critica e pubblico. L’anno seguente viene nominato Direttore musicale del Maggio Musicale Fiorentino, incarico che manterrà fino al 1980. Già nel 1971, però, Muti viene invitato da Herbert von Karajan sul podio del Festival di Salisburgo, inaugurando una felice consuetudine che lo ha portato, nel 2010, a festeggiare i quarant’anni di sodalizio con la manifestazione austriaca. Gli anni Settanta lo vedono alla testa della Philharmonia Orchestra di Londra (1972-1982), dove succede a Otto Klemperer; quindi, tra il 1980 e il 1992, eredita da Eugène Ormandy l’incarico di direttore musicale della Philadelphia Orchestra. Dal 1986 al 2005 è Direttore musicale del Teatro alla Scala: prendono così forma progetti di respiro internazionale, come la proposta della trilogia Mozart-Da Ponte e la tetralogia wagneriana. Accanto ai titoli del grande repertorio trovano spazio e visibilità anche altri autori meno frequentati: pagine preziose del Settecento napoletano e opere di Gluck, Cherubini, Spontini, fino a Poulenc, con Les dialogues des Carmélites che gli sono valsi il Premio Abbiati della critica. Il lungo periodo trascorso come direttore musicale dei complessi scaligeri culmina, il 7 dicembre 2004, con la trionfale riapertura della Scala restaurata, dove dirige l’Europa riconosciuta di Antonio Salieri. Eccezionale il suo contributo al repertorio verdiano; ha diretto Ernani, Nabucco, I Vespri siciliani, La traviata, Attila, Don Carlo, Falstaff, Rigoletto, Macbeth, La forza del destino, Il trovatore, Otello, Aida, Un ballo in maschera, I due Foscari, I masnadieri. La sua direzione musicale è stata la più lunga nella storia del Teatro alla Scala. Nel corso della sua straordinaria carriera dirige molte tra le più prestigiose orchestre del mondo: dai Berliner Philharmoniker alla Symphonieorchester des Bayerischen Rundfunks, dalla New York Philharmonic all’Orchestre National de France e alla Philharmonia di Londra, oltre, naturalmente, ai Wiener Philharmoniker, ai quali lo lega un rapporto assiduo e particolarmente significativo, e con i quali si esibisce al Festival di Salisburgo dal 1971. Invitato sul podio in occasione del concerto celebrativo dei 150 anni della grande orchestra viennese, Muti ha ricevuto l’Anello d’Oro dell’orchestra, onorificenza concessa dai Wiener in segno di speciale ammirazione e affetto. Ha diretto per ben quattro volte il prestigioso Concerto di Capodanno a Vienna nel 1993, 1997, 2000 e 2004. Nell’aprile del 2003 viene eccezionalmente promossa in Francia una Journée Riccardo Muti in cui per 14 ore ininterrotte l’emittente nazionale France Musique trasmette musiche da lui dirette con tutte le orchestre che lo hanno avuto e lo hanno sul podio, mentre il 14 dicembre dello stesso anno dirige l’atteso concerto di riapertura del Teatro La Fenice di Venezia. Nel 2004 fonda l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, formata da giovani musicisti selezionati da una commissione internazionale fra oltre 600 strumentisti provenienti da tutte le regioni italiane. La vasta produzione discografica, già rilevante negli anni Settanta e oggi impreziosita dai molti premi ricevuti dalla critica specializzata, spazia dal repertorio sinfonico e operistico classico al Novecento. L’etichetta discografica che si occupa delle registrazioni di Riccardo Muti è la RMMusic (www.riccardomutimusic.com).

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Il suo impegno civile di artista è testimoniato dai concerti proposti nell’ambito del progetto “Le vie dell’Amicizia” del Ravenna Festival in alcuni luoghi simbolo della storia, sia antica che contemporanea: Sarajevo (1997), Beirut (1998), Gerusalemme (1999), Mosca (2000), Erevan e Istanbul (2001), New York (2002), Il Cairo (2003), Damasco (2004), El Djem (2005), Meknes (2006), Roma (2007), Mazara del Vallo (2008), Sarajevo (2009), Trieste (2010), Nairobi (2011), Ravenna (2012), Mirandola (2013) e Redipuglia (2014) con il Coro e la Filarmonica della Scala, l’Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino, i Musicians of Europe United, formazione costituita dalle prime parti delle più importanti orchestre europee, e recentemente con l’Orchestra Cherubini. Tra gli innumerevoli riconoscimenti conseguiti da Riccardo Muti nel corso della sua carriera si segnalano: Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana e la Grande Medaglia d’oro della Città di Milano; la Verdienstkreuz della Repubblica Federale Tedesca; la Legion d’Onore in Francia (già Cavaliere, nel 2010 il Presidente Nicolas Sarkozy lo ha insignito del titolo di Ufficiale) e il titolo di Cavaliere dell’Impero Britannico conferitogli dalla Regina Elisabetta II. Il Mozarteum di Salisburgo gli ha assegnato la Medaglia d’argento per il suo impegno sul versante mozartiano; la Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna, la Wiener Hofmusikkapelle e la Wiener Staatsoper lo hanno eletto Membro Onorario; il presidente russo Vladimir Putin gli ha attribuito l’Ordine dell’Amicizia, mentre lo Stato d’Israele lo ha onorato con il premio Wolf per le arti. Numerose sono le lauree honoris causa che gli sono state conferite, ultima delle quali, nel 2014, dalla Northwestern University di Chicago. Ha diretto i Wiener Philharmoniker nel concerto che ha inaugurato le celebrazioni per i 250 anni dalla nascita di Mozart al Grosses Festspielhaus di Salisburgo. La costante e ininterrotta collaborazione tra Riccardo Muti e i Wiener Philharmoniker nel 2017 raggiungerà i 47 anni. A Salisburgo, per il Festival di Pentecoste, a partire dal 2007 ha affrontato insieme all’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini un progetto quinquennale mirato alla riscoperta e alla valorizzazione del patrimonio musicale, operistico e sacro, del Settecento napoletano. Da settembre 2010 è Direttore Musicale della prestigiosa Chicago Symphony Orchestra. Nello stesso anno è stato nominato in America “Musician of the Year” dalla importante rivista “Musical America”. Nel febbraio 2011, l’esecuzione e registrazione live della Messa da Requiem di Verdi da lui diretta con la C.S.O. vince la 53° edizione dei Grammy Awards come “Best Classical Album” e “Best Choral Album”. Nel marzo 2011 è stato proclamato vincitore del prestigioso premio Birgit Nilsson, che gli è stato consegnato il 13 ottobre alla Royal Opera di Stoccolma alla presenza di Re Carl XVI Gustaf e della Regina Silvia di Svezia. A New York nell’aprile 2011 ha ricevuto l’Opera News Award. Nel maggio 2011 è stato assegnato a Riccardo Muti il Premio Príncipe de Asturias per le Arti, massimo riconoscimento artistico spagnolo, consegnatogli dal Principe Felipe de Asturias a Oviedo nell’autunno successivo. Nel luglio 2011 è stato nominato membro onorario dei Wiener Philharmoniker e in agosto 2011 Direttore Onorario a vita del Teatro dell’Opera di Roma. Nel maggio 2012 è stato insignito della Gran Croce di San Gregorio Magno da papa Benedetto XVI. Nel 2016 ha ricevuto dal governo giapponese la Stella d’Oro e d’Argento dell’Ordine del Sol Levante. Nel luglio 2015 si è realizzato il suo desiderio di dedicarsi ancora di più alla formazione di giovani musicisti: la prima edizione della Riccardo Muti Italian Opera Academy per giovani direttori d’orchestra, maestri collaboratori e cantanti si è svolta al Teatro Alighieri di Ravenna e ha visto la partecipazione di giovani talenti musicali e di un pubblico di appassionati provenienti da tutto il mondo. Obiettivo della Riccardo Muti Italian Opera Academy è quello di trasmettere l’esperienza e gli insegnamenti di Riccardo Muti ai giovani musicisti e di far loro comprendere in tutta la sua complessità il cammino che porta alla realizzazione di un’opera. Alla prima edizione, dedicata a Falstaff, hanno fatto seguito quelle sulla Traviata a Seoul e Ravenna nel 2016. (info: www.riccardomutimusic.com)

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Foto Todd Rosenberg


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Chicago Symphony Orchestra

La Chicago Symphony Orchestra (CSO) è universalmente considerata una delle più importanti orchestredel mondo. Dal 2010 il suo Direttore Musicale è Riccardo Muti, uno dei più grandi direttori dei nostri tempi. È stata fondata nel 1891 dal suo primo Direttore Musicale, Theodore Thomas, e da allora ha avuto alla sua guida illustri direttori quali Frederick Stock, Désiré Defauw, Artur Rodzinski, Rafael Kubelík, Fritz Reiner, Jean Martinon, Sir Georg Solti e Daniel Barenboim. Il violoncellista Yo-Yo Ma è il consulente creativo “Judson and Joyce Green” dell’orchestra, mentre i compositori residenti attualmente sono Samuel Adams ed Elizabeth Ogonek. I famosi strumentisti della CSO padroneggiano un ampio repertorio e danno ogni anno oltre 150 concerti, la maggior parte dei quali si svolge al Symphony Center in Chicago e, dal 1936, in estate al Ravinia Festival. L’orchestra compie regolarmente tournée nazionali e internazionali. Dal suo primo tour in Canada nel 1892, si è esibita in 29 Paesi attraverso cinque continenti; la CSO è attualmente impegnata nella sua sessantesima tournée. Sin dal 1916, la produzione discografica dell’orchestra ha contribuito significativamente alla sua fama internazionale; le incisioni della CSO hanno ottenuto finora 62 Grammy Awards dalla National Academy of Recording Arts and Sciences. Nel 2007 l’orchestra ha creato una sua etichetta discografica, CSO Resound. Il CD della Messa da Requiem, con la CSO e il Chicago Symphony Chorus diretti da Muti, è stato premiato con due Grammy Awards. Il pubblico di tutto il mondo può ascoltare la CSO alla radio grazie alle trasmissioni settimanali CSO Radio Broadcast Series, diffuse da WFMT Radio Network e online su CSO.org/Radio. Il video dell’esecuzione della Nona Sinfonia di Beethoven diretta da Muti è stato visto più di quattro milioni di volte su YouTube. Oggi la CSO coinvolge oltre 200.000 persone di età, reddito e provenienza diverse attraverso gli innovativi programmi del Negaunee Music Institute, che gestisce anche la Civic Orchestra di Chicago, unica formazione pre-professionale di questo genere che sia affiliata a un’orchestra americana di primaria importanza. L’organizzazione dell’orchestra è affidata alla Chicago Symphony Orchestra Association (CSOA), di cui fa parte anche il celebre Chicago Symphony Chorus, diretto da Duain Wolfe. Nell’ambito del programma “Symphony Center Presents”, la CSOA presenta ogni anno decine di prestigiosi artisti ed ensemble ospiti, attivi in tutti i generi musicali, dalla musica classica a quella contemporanea, jazz e pop. Migliaia di mecenati, volontari e donatori sostengono ogni anno l’attività della CSOA. L’incarico di Direttore Musicale dell’orchestra è finanziato in perpetuo da una generosa donazione della Zell Family Foundation. La Negaunee Foundation fornisce in perpetuo il suo generoso sostegno al lavoro del Negaunee Music Institute. Lo sponsor per le tournée internazionali della CSO è la Bank of America.

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Chicago Symphony Orchestra Riccardo Muti, Direttore musicale Yo-Yo Ma, Consulente creativo “Judson and Joyce Green” Duain Wolfe, Maestro del Coro e Direttore Samuel Adams, Elizabeth Ogonek, Compositori residenti “Mead” Violini Robert Chen - Concertmaster The Louis C. Sudler Chair, endowed by an anonymous benefactor Stephanie Jeong - Associate Concertmaster The Cathy and Bill Osborn Chair David Taylor - Assistant Concertmaster Yuan-Qing Yu - Assistant Concertmaster* So Young Bae Cornelius Chiu Alison Dalton Gina DiBello Kozue Funakoshi Russell Hershow Qing Hou Nisanne Howell§ Blair Milton Paul Phillips, Jr. Sando Shia Susan Synnestvedt Rong-Yan Tang

Catherine Brubaker Youming Chen Sunghee Choi Wei-Ting Kuo Danny Lai Diane Mues Lawrence Neuman Daniel Orbach† Max Raimi Weijing Wang

Oboi Alex Klein - Principal The Nancy and Larry Fuller Chair Michael Henoch - Assistant Principal The Gilchrist Foundation Chair Lora Schaefer Scott Hostetler

Violoncelli John Sharp - Principal The Eloise W. Martin Chair Kenneth Olsen - Assistant Principal The Adele Gidwitz Chair Karen Basrak§ Loren Brown Richard Hirschl Daniel Katz Katinka Kleijn Jonathan Pegis† David Sanders Gary Stucka Brant Taylor

Corno inglese Scott Hostetler

Baird Dodge - Principal Sylvia Kim Kilcullen Assistant Principal Lei Hou Ni Mei Fox Fehling Hermine Gagné Rachel Goldstein Mihaela Ionescu Melanie Kupchynsky Wendy Koons Meir Matous Michal Simon Michal Aiko Noda Joyce Noh Nancy Park Ronald Satkiewicz Florence Schwartz

Contrabbassi Alexander Hanna - Principal The David and Mary Winton Green Principal Bass Chair Daniel Armstrong Roger Cline Joseph DiBello Michael Hovnanian Robert Kassinger Mark Kraemer Stephen Lester Bradley Opland

Viole Charles Pikler§ - Principal The Paul Hindemith Principal Viola Chair, endowed by an anonymous benefactor Li-Kuo Chang - Assistant Principal The Louise H. Benton Wagner Chair John Bartholomew

Arpe Sarah Bullen - Principal§ Lynne Turner Flauti Stefán Ragnar Höskuldsson Principal The Erika and Dietrich M. Gross Principal Flute Chair Richard Graef - Assistant Principal Jennifer Gunn Ottavino Jennifer Gunn

Clarinetti Stephen Williamson Principal John Bruce Yeh - Assistant Principal Gregory Smith J. Lawrie Bloom Clarinetto soprano John Bruce Yeh Clarinetto basso J. Lawrie Bloom Fagotti Keith Buncke - Principal William Buchman - Assistant Principal Dennis Michel Miles Maner Controfagotto Miles Maner Corni Daniel Gingrich - Acting Principal James Smelser David Griffin Oto Carrillo Susanna Gaunt Trombe Christopher Martin - Principal The Adolph Herseth Principal Trumpet Chair, endowed by an anonymous benefactor Mark Ridenour - Assistant Principal John Hagstrom Tage Larsen

Tromboni Jay Friedman - Principal The Lisa and Paul Wiggin Principal Trombone Chair Michael Mulcahy Charles Vernon Trombone basso Charles Vernon Basso tuba Gene Pokorny - Principal The Arnold Jacobs Principal Tuba Chair, endowed by Christine Querfeld Timpani David Herbert - Principal The Clinton Family Fund Chair Vadim Karpinos - Assistant Principal Percussioni Cynthia Yeh - Principal Patricia Dash Vadim Karpinos James Ross Bibliotecari Peter Conover - Principal Carole Keller Mark Swanson Personale dell'Orchestra John Deverman - Director Anne MacQuarrie Manager, CSO Auditions and Orchestra Personnel Tecnici di palcoscenico Kelly Kerins - Stage Manager Dave Hartge James Hogan Peter Landry Christopher Lewis Todd Snick Joe Tucker

*Assistant concertmasters are listed by seniority. †On sabbatical §On leave The music director position is endowed in perpetuity by a generous gift from the Zell Family Foundation. The Chicago Symphony Orchestra string sections utilize revolving seating. Players behind the first desk (first two desks in the violins) change seats systematically every two weeks and are listed alphabetically. Section percussionists also are listed alphabetically.

lo Sponsor per le Tournée Internazionali della Chicago Symphony Orchestra è la Bank of America

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Foto Todd Rosenberg



Fondazione di diritto privato

SOVRINTENDENZA

DIREZIONE GENERALE

Sovrintendente Alexander Pereira Responsabile Ufficio Stampa Paolo Besana Responsabile Controllo di Gestione Enzo Andrea Bignotti

Direttore Generale Maria Di Freda Responsabile Archivio Storico Documentale Dino Belletti Coordinatore Segreteria e Staff Andrea Vitalini Responsabile Ufficio Promozione Culturale Carlo Torresani Responsabile Segreteria Organi e Legale Germana De Luca Responsabile Provveditorato Antonio Cunsolo Direzione Tecnica Direttore Tecnico Marco Morelli Responsabile Manutenzione Immobili e Impianti Persio Pini Responsabile Prevenzione Igiene Sicurezza Giuseppe Formentini Direzione del Personale Direttore del Personale Marco Aldo Amoruso Responsabile Amministrazione del Personale e Costo del Lavoro Alex Zambianchi Responsabile Servizio Sviluppo Organizzativo Rino Casazza Responsabile Ufficio Assunzioni e Gestione del Personale Marco Migliavacca Responsabile Ufficio Lavoro Autonomo Giusy Tonani

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Direzione Marketing e Fund Raising Direttore Marketing e Fund Raising Lanfranco Li Cauli Responsabile Ufficio Marketing Francesca Agus Responsabile Biglietteria Annalisa Severgnini Responsabile di Sala Achille Gozzi Direzione Amministrazione e Finanza Direttore Amministrazione e Finanza Claudio Migliorini Capo Contabile Sefora Curatolo Museo Teatrale alla Scala Direttore operativo Museo Teatrale alla Scala Donatella Brunazzi


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Capi Scenografi Realizzatori Stefania Cavallin Emanuela Finardi Flavio Erbetta Capo Reparto Scultura Venanzio Alberti Scenografi Realizzatori Claudia Bona Verena Redin Massimo Giuliobello Sergio Mariotti Carlo Spinelli Barrile Costanzo Zanzarella Scenografo Realizzatore Scultore Silvia Rosellina Cerioli Responsabile Laboratori Scenografici Roberto De Rota Responsabile Reparto Costruzioni Paolo Ranzani Responsabile Reparto Sartoria Cinzia Rosselli Responsabile Sartoria Vestizione Patrizia D’Anzuoni

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