ESFOLIAZIONI

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ESFOLIAZIONI

I° Principio Termodinamica

«L'energia interna di un sistema termodinamico isolato è costante.»

L’energia può essere convertita da una forma ad un’altra ma non può essere né creata né distrutta.

Espressione del cedimento, geografia delle tensioni.

E’ nella frattura che la materia si rivela.

E’ un gesto che taglia e rivela. Non è semplice rimozione : è attraversamento. È penetrare nella superficie fino a destabilizzarla, fino a spingerla al limite del suo equilibrio, per ascoltarne il silenzio interno, per accogliere le sue resistenze e i suoi cedimenti. È un atto viscerale, primordiale, dove il controllo non si oppone all’istinto, ma lo accompagna nella sua traiettoria profonda. L’opera non nasce da un’idea da applicare, ma da una materia da interrogare, indagare.

La superficie - legno, cartone, fibra vegetale - diventa organismo, pelle, paesaggio. Viene attraversata dal fuoco, incisa, lacerata, consumata, abrasa. Spinta verso un punto critico. È in quel limite che accade qualcosa. La combustione non è un effetto, ma la calligrafia del disfacimento, grammatica del trauma. Ciò che emerge non è forma, ma condizione. Non un oggetto, ma espressione fissata, bloccata di una tensione, energia, uno stato.

In questa pratica, ogni lavoro è soglia. Frammento. Stato transitorio. Nessuna composizione chiusa, nessuna verità da esporre : solo un equilibrio al limite, una vibrazione materica, che resta in sospensione. La materialità che si ottiene non è volume, ma narrazione. Le stratificazioni non sono strutture, ma memorie. Le crepe, le escoriazioni, i rilievi non sono ornamenti: sono eventi. Ogni superficie diventa una geografia dell’interiorità , una mappa archeologica che ci guida dal conscio all’inconscio. Il processo non mira a compiere: mira a spingere oltre. L’incompiutezza non è mancanza, ma spazio fertile. È proprio lì, nel non definito, nel non concluso, che può ancora accadere qualcosa. E’ lì che il senso si muove, si frammenta, si apre, affiora la forza. Esfoliare non è altro che lasciar parlare il tempo. Lasciare emergere la pelle sottile delle cose. Non per ricomporle, ma per ascoltarne la voce, accettandone la fragilità, instabilità, la precarietà. È un atto di alleanza, un dialogo con ciò che si consuma e si trasforma. Perché solo ciò che si rompe davvero può diventare qualcos’altro.

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