Sotto le ali dell'airone

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La cittĂ raccontata 6



Rosario Esposito La Rossa

SOTTO LE ALI DELL’AIRONE

Marotta & Cafiero editori


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©Marotta & Cafiero editori Via Andrea Pazienza 25 80144 Napoli www.marottaecafiero.it

ISBN: 978-88-88234-97-7 Copertina e foto di Tiziana Mastropasqua Terza ristampa ottobre 2012


A mia mamma, a mio padre, stelle polari dei miei giorni. Scudo, braccia aperte, fiore felice delle mie notti. A voi grazie, per ciò che è stato, per ciò che sono.



“Non credo che il talento sia il risultato dell’allenatore. Penso sia una questione d’amore tra il bambino e la palla.”

Roy Keane



Prefazione

Lui già vedeva la rivoluzione

Abbiamo conosciuto l’Arci Scampia e Antonio Piccolo, il presidente, nel 2007. Arrivò in Fondazione accompagnato da Carlo Uccella e devo dire che al primo incontro non scoccò la scintilla, anzi ci fu, incredibile a dirsi col senno di poi, una reciproca diffidenza. Ci parlò del suo sogno e di come era determinato a far sì che si realizzasse. Aveva ottenuto il comodato d’uso da parte del Comune, di quella struttura che oggi è l’Arci Scampia, e mostrava un atteggiamento non propriamente morbido, fin troppo “determinato” ad ottenere i fondi per rimetterlo a posto. Era disposto a fare qualunque cosa perché si realizzasse questa opportunità. Ostentava un ardore tale nella sua richiesta che in Fondazione rimanemmo quasi interdetti. Dava così per scontata la parte sociale intrinseca nel progetto, da non farne quasi menzione. Infatti rimanemmo un attimo interdetti, non riuscivamo a capire se si trattava realmente di un progetto sociale o di un progetto per realizzare una bella, ma ordinaria e semplice, scuola di calcio. La scintilla della curiosità, però, scattò e successivamente ci incontrammo per andare a vedere la struttura e fare un giro per il quartiere accompagnati da lui. Lì nacque l’innamoramento. Nel corso di quella passeggiata incontrammo non so quante 11


persone e non c’è n’era una che non lo conoscesse, che non lo salutasse, che non lo ringraziasse per quanto aveva fatto per sé, per un proprio figlio o per una persona a lui vicina. Man mano, durante i vari incontri e riunioni che si susseguirono, capimmo che Antonio era una persona che non faceva il sociale, lui “era” il sociale. Capimmo anche che quella veemenza e tutta quella energia nell’esporre il desiderio di realizzazione del suo sogno era dettata dalla forte volontà di dare una grande opportunità a tanti ragazzi del suo quartiere. Nella realizzazione del suo progetto non c’era nulla che potesse portare ad un beneficio meramente personale, era tutto per l’amore per il suo quartiere, per la sua gente, che fino a quel momento aveva comunque sostenuto al meglio anche se con scarse strutture e mezzi. Lui già vedeva la rivoluzione, che la bella struttura che oggi è, avrebbe portato in quel quartiere tanto martoriato. É per me sempre una grande emozione ricordare la nascita del nostro rapporto, approfondito e consolidato nel tempo. Da lì inizia la nostra collaborazione, riunioni su riunioni, battaglie per cercare di raggiungere l’obiettivo fino all’incontro con Fondazione Vodafone Italia che ci ha permesso la realizzazione del sogno. Poi arrivò il giorno dell’inaugurazione: eravamo un po’ tutti frastornati e felici della realizzazione di quell’opera che solo pochi mesi prima ci sembrava irraggiungibile. Anche Ciro, Fabio, Antonio Bernardi, il Presidente della Fondazione Vodafone Italia erano presenti alla festa di inaugurazione dell’Arci. La loro reazione, il loro compiacimento, il loro stupore per quello che tutti insieme eravamo riusciti a fare ci hanno resi ancora più orgogliosi. In questi quattro anni abbiamo condiviso decine e decine di momenti di festa, di aggregazione, progetti, esperienze bellissime e coinvolgenti con la partecipazione di tantissima gente. 12


Non smetterò mai di ringraziare Antonio Piccolo, Carlo Uccella, Carlo Sagliocco, Rosario Esposito La Rossa, Franco Riso, Enzo Tipaldi e tutti i collaboratori, persone di cuore prima di tutto e di grande competenza e professionalità. Ci hanno permesso di conoscere il grande cuore di Scampia, la bella gente, la grande umanità, solidarietà, che difficilmente si trovano, soprattutto in un quartiere tanto maltrattato dai media, la cui immagine percepita dall’esterno è molto lontana dalla realtà. É sempre una grande emozione osservare Antonio che ancora oggi, dopo questi quattro anni, guarda i suoi ragazzi, la sua gente, con gli occhi lucidi, ancora incredulo di quello che è riuscito a fare. Osservando la passione e l’amore che lui con il suo staff ci mettono quotidianamente nel loro lavoro, non mi riesce difficile capire quanto siano riusciti a costruire in termini di umanità, di valore, per così tante persone in venticinque anni. Immagino quante storie di vita abbiano visto e contribuito a salvare in tutti questi anni, loro sanno accogliere chiunque e sanno trasferire con grande garbo, ma allo stesso tempo con grande forza, quei sani principi di cui sono naturalmente portatori. La loro sensibilità si evince dai piccoli gesti che quotidianamente compiono. Andare all’Arci non solo per me, ma per tutto lo staff della Fondazione, è sempre una gioia. Sembra di tornare a casa ed è proprio questa la cosa stupefacente! Non per la bella accoglienza che sempre riceviamo, ma per l’aria che si respira. Oggi l’Arci Scampia vede oltre cinquecento ragazzi iscritti ai vari campionati, tra l’altro con risultati spesso molto positivi. Alcuni atleti sono stati addirittura trasferiti a società importanti, ma quello che mi preme sottolineare è la soddisfazione e la felicità di vedere il Centro sempre pieno di bambini e ragazzi di ogni età con le loro famiglie, che in questa struttura trovano un loro spazio vitale ed un luogo dove aggregarsi. 13


Vorremmo che Napoli offrisse tanti posti del genere ed il progetto realizzato all’Arci dimostra che tutto questo è possibile se l’incontro tra le forze sane della città si focalizza su obiettivi virtuosi. Ognuno di noi dovrebbe mettere un piccolo mattone per la ricostruzione della dignità morale e valoriale della nostra città. L’Arci lo ha fatto, lo fa quotidianamente e lo farà ancora nel futuro. Vincenzo Ferrara

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Eravamo solo sette

Correva l’anno 1986, nasceva la scuola calcio Arci Scampia.

Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, ricomincia la storia del calcio. Jorge Luis Borges

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l cigolio della porta di metallo annuncia l’inizio del primo allenamento. Non un alito di vento, la polvere del campetto del rione Monterosa resta immobile sotto il peso delle scarpette chiodate di Antonio Piccolo. È il 1986, è settembre, in campo sette ragazzi. Non cinquanta, settanta, venti, solo sette ragazzi. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei e sette. Li guarda il baffuto Antonio Piccolo, fischio d’inizio, tutti in fila, è nata la scuola calcio Arci Uisp Scampia. Mentre si corre, mentre la fase di riscaldamento mette in moto i muscoli dei ragazzi che Antonio Piccolo, segretario di sezione del PCI di Scampia, della Casa del Popolo di Scampia, pensa alle migliaia di volantini sparse per il quartiere. “Sono aperte le iscrizioni alla scuola calcio Arci Scampia”, volantini sparsi dovunque, tra i negozi, sui muri, per le strade. Un nuovo annuncio per i settanta mila abitanti del quartiere a Nord di Napoli. 15


I ragazzi in campo sono figli di amici, parenti, compagni. Si inizia con niente, senza magliette, palloni, ostacoli, birilli, niente tranne la passione, il credo che la vita di un uomo è limitata se non mette a disposizione degli altri le proprie potenzialità. Sugli spalti, appoggiati alla rete metallica, ci sono cinque vecchietti. Michele, Carmine, Vincenzo, Luigi e Don Mario, il grande Don Mario. Con curiosità bloccano i loro sguardi sul nuovo pazzo del quartiere, sul signore che da un giorno all’altro arriva e dice di voler fare una scuola calcio. “Ma siete sicuro, qui, a Scampia?” “Il campo c’è?” “Il campo ci sta.” “E non vi preoccupate.” Ne aveva parlato tra i compagni della sezione Antonio Piccolo, “avrei intenzione di aprire una scuola calcio, di mettere a disposizione dei ragazzi le competenze sportive, culturali, che dite ci siete?” Qualche accenno, alcuni consensi, ma ora in campo c’è solo lui con sette ragazzi. Sarà stato più o meno nel momento in cui uno degli allievi si avvicinò e gli chiese come lanciare quella sfera polverosa in rete, che Antonio Piccolo, si trasformò in Mister Piccolo. Nemmeno lui immaginava quello che stava per accadere, quanto lontano sarebbe andato quel pallone lanciato in rete. Al secondo allenamento i ragazzi diventarono quindici e al terzo trenta. Così la scuola calcio Arci Scampia si iscrisse al suo primo campionato Giovanissimi. In campo i ragazzi nati nel 1972/1973. Prima partita, la periferia Nord sfida quella Est. A Ponticelli l’Arci sfida il San Pietro. La partita finisce con un secco 3 a 0 per il San Pietro. Nel frattempo i ragazzi aumentavano e Mister Piccolo si circondò dei primi collaboratori, Vincenzo Fasano, Antonio Uccella e Falsone. A San Rocco, non molto distante da Scampia, una scuola calcio locale chiudeva i battenti. Per duecentomila lire 16


il presidente Piccolo acquistò palloni, casacche, magliette. La mamma di Luca Bifulco, allievo dell’Arci creò la prima bandiera, invece alla moglie di Mister Piccolo toccò rattoppare tutte le casacche. Don Mario, dagli spalti, si esaltava nel veder correre sul campetto di terra battuta decine di ragazzi, che accorrevano numerosi da ogni angolo del quartiere. La perplessità iniziale si trasformò in enfasi, voglia di fare, di collaborare, di dare una mano. Il campetto del Monterosa, al centro del rione con i suo 40 x 60 metri non raggiungeva però le dimensioni minime per lo svolgersi delle partite ufficiali dei ragazzi, cosi le prime sfide casalinghe dell’Arci Scampia si svolsero a Villaricca, una delle ultime società che aveva avuto tra i pali il portiere Antonio Piccolo. La guardia storica del calcio di Scampia non si fece attendere, gli ex giocatori dell’Ina Casa, polisportiva del quartiere, misero a disposizione dei bambini la propria maestria. Fu così che Gennaro Petriccione, il difensore Alfredo Riso, Salvatore Barrelli, il talentuoso Gaetano Miele e Carlo Sagliocco, si aggiunsero allo scacchiere degli allenatori dell’Arci Scampia. La presenza di questi mister favorì l’arrivo di numerosi ragazzi, rassicurati dagli idoli calcistici del quartiere. A dicembre la squadra Giovanissimi era ultima in classifica. Fu in uno di quegli allenamenti invernali, una di quelle sere dove il freddo ti entra nelle ossa, che Mister Piccolo sancì un patto con i ragazzi. “Non dobbiamo arrivare ultimi, l’obiettivo è non arrivare ultimi.” Forse fu l’umiltà, le motivazioni, le parole del mister, ma a giugno, al triplice fischio dell’ultima partita di campionato, la prima squadra Giovanissimi dell’Arci Scampia era quinta in classifica.

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Il trampoliere romagnolo

Genesi di uno stemma di speranza cucito sul petto.

Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. Pier Paolo Pasolini

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urono i Pulcini classe 1977 a far brillare il palmares della scuola calcio Arci Scampia. Furono loro a vincere il campionato regionale Uisp (Unione Italiana Sport per Tutti). Le mamme festeggiavano, i bambini avevano portato il quartiere sul tetto della regione Campania. Quella vittoria era soprattutto un lasciapassare per le fasi nazionali organizzate dalla Uisp. Le venti società vincitrici dei campionati regionali si sfidavano per il titolo nazionale. Bisognava però superare un ostacolo, la partita eliminatoria secca, o dentro o fuori. C’era fermento tra i giovani scampioti, si prospettava un viaggio, la possibilità di giocare in trasferta, di confrontarsi con giovani di altre regioni. Il sorteggio proclamò l’Emilia Romagna. “La scuola calcio Arci Uisp Scampia della Campania sfiderà la scuola calcio Porta Mare Frutteti di Ferrara, Emilia Romagna. La sfida si svolgerà in campo neutro ad Arezzo.” I Pulcini ’77 dello Scampia si giocavano l’accesso alle finali in terra toscana. Erano anni di grande fermento quelli, gli anni di un certo Diego Ar18


mando Maradona, del Napoli in Coppa dei Campioni, del Napoli che batte il Milan, la Juve di Platini, l’Inter, le blasonate squadre internazionali. Erano gli anni in cui gli sponsor iniziavano ad impadronirsi di uno sport, anni in cui diventare un calciatore significava diventare miliardari. Fu così che molti papà vedevano nel futuro dei propri figli la Nazionale, i gol, ma soprattutto valigette di centomila lire. E molti napoletani, scaramantici sin dentro le vene, auguravano il successo ai nascituri chiamandoli Diego. Nel clima del nascente calcio capitalista l’Arci Scampia sfidò in agguerrita partita i ragazzi di Ferrara. Fu un match indimenticabile, corretto, ricco di emozioni. In campo i ragazzi diedero il massimo. La spuntò il Porta Mare Frutteti. Nel terzo tempo i ragazzi si abbracciarono, vincitori e perdenti, lontani dal campo, dal sudore, dall’agonismo, si brindava insieme, atleti e dirigenti di due regioni così lontane. Tra il tintinnio dei calici ci si sentiva italiani. Quel giorno nacque una forte amicizia tra due società sportive che muovevano insieme, verso ambiti traguardi, i primi passi. Alcuni mesi dopo squillò il telefono del presidente Piccolo, era il 1987, gli amici romagnoli invitavano l’Arci Scampia per un torneo, “Torneo Porta Mare Frutteti”. Alla competizione partecipavano le leggendarie squadre di Serie A, Milan, Juventus, Torino, Inter, ma anche Padova, squadre come l’Atalanta, da sempre rinomata per i suoi giovanissimi talenti. Con curiosità, speranza e tanta voglia di fare, i ragazzi dell’Arci partirono nuovamente. Partirono per dieci anni consecutivi. Mai furono la cenerentola del torneo. Per dieci lunghi anni l’Arci Scampia e il Porta Mare Frutteti furono le uniche società non professionistiche a partecipare al torneo. Quell’amicizia tra Nord e Sud si rinsaldò notevolmente. Ai dirigenti dell’Arci piacque il logo, lo stemma, la bandiera del Porta Mare. In un mare d’azzurro un airone volava verso il pallone. Quel simbolo di speranza nato nella mente di chissà quale ro19


magnolo fu trasportato a Scampia. Stilizzato in modo diverso e bagnato dal bianco e rosso dell’Arci Scampia, l’airone romagnolo diventò napoletano. Stemma romantico cucito sul petto di ogni giovane allievo, racchiude un sogno, la speranza di ogni bambino di diventare un calciatore. L’uccello trampoliere è simbolo di libertà, è quella voglia irrefrenabile di correre e calciare, innata in ogni bimbo che varca le porte del campo, che percorre decine di chilometri verso chissà quale meta, chissà quale scopo. L’airone cucito sul petto è in volo, la destinazione è nel cuore di ogni atleta.

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Ancora rimbombano i tacchetti

Vita e morte di un romantico campetto di periferia.

Ci sono alcuni paesi e villaggi del Brasile che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza un campo di calcio. Eduardo Galeano

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entre le gru d’acciaio tiravano su i palazzoni di Scampia, mentre i frutteti, i peschi in fiore lasciavano spazio al cemento della nuova 167 dell’area Nord di Napoli, nel rione Monterosa, l’ultimo scampolo di Napoli, cinque anziani compagni ridavano vita ad un quadrato incolto di periferia. Si strappavano le erbacce, si recintava, si dava vita al campetto del rione Monterosa. In prima fila Don Mario, amatissimo Don Mario, seguito da Carmine, Luigi, Michele e Vincenzo. Erano tempi in cui non esistevano console, giochi virtuali, erano tempi in cui ci si divertiva in strada, tempi in cui un portone arrugginito si trasformava nella porta del San Paolo. Quel campo rappresentò immediatamente un punto di riferimento per il quartiere, lo stadio dell’Ina Casa, la grande Polisportiva Ina Casa, squadra di Promozione. Tempi in cui in Promozione si giocava davvero a calcio, quando, lontani dalle pay 21


tv, la domenica vestiti per bene si tifava per gli idoli del quartiere, idoli poveri, ma veri. Don Mario e gli altri avevano espropriato il proprietario dei 45 x 90 metri necessari per il rettangolo di gioco. Un esproprio proletario. Pagavano anche una quota al padrone, anche se questi non era mai stato d’accordo. Poi arrivò la scuola calcio Arci Scampia, arrivarono i ragazzi, decine e decine, vestiti di rosso correvano sulla terra battuta, la terra battuta rivendicata da Don Mario. Con i suoi capelli bianchi Don Mario diventò il nonno di tutti, una parte dell’Arci, del quartiere, riconosciuta da molti. Il campetto del Monterosa non raggiungeva le dimensioni necessarie per lo svolgimento di gare ufficiali, così i ragazzi del quartiere si giocavano i punti di “casa” a Villaricca. Innamorati dell’ambiente, di quella grandissima famiglia chiamata Arci, che cresceva sempre di più, Don Mario, Carmine, Luigi, Vincenzo e Michele, allargarono il campo, utilizzarono tutto lo spazio a disposizione, ogni lembo di terra, cemento o materiale che fosse. Fu così che il campetto del Monterosa divenne regolamentare, raggiunse le dimensioni minime per lo svolgimento delle partite. Il campo era ingrassato per amore dei ragazzi, per volere degli anziani del quartiere, il regalo di una generazione che passava il testimone. L’Arci Scampia passò da semplice cliente a cuore pulsante del campetto. In uno sgabuzzino fatto di lamiere c’era la segreteria-magazzino della scuola calcio, una stanza con panche e tubi che lanciavano acqua diventò uno spogliatoio, e una collinetta ai lati del campo divenne la curva dell’Arci Scampia. In breve tempo i papà, i fratelli, le mamme, i parenti, i nonni, accorrevano la domenica per le sfide dei ragazzi dell’Arci Scampia. E anche chi non aveva in campo nessun calciatore speciale, passeggiando per il quartiere, si fermava ad osservare i ragazzi. Si usciva dalla parrocchia e ci si ritrovava al campetto del Monterosa per gli aironi biancorossi. C’era chi in22


collato alla rete urlava per incitare i ragazzi, chi dal balcone si godeva l’effetto stadio e chi, come gli autisti dei pullman, si riposava cinque minuti godendosi le prodezze dei bambini. In breve tempo su quel campo improvvisato arrivò la Società Sportiva Calcio Napoli, la Rappresentativa Campania e tante altre rinomate società. Don Mario volle così omaggiare i ragazzi e i genitori con nuove strutture. Nonostante i soldi non fossero tanti, vennero costruiti altri due spogliatoi per consentire lo svolgersi di due gare consecutive. Nei nuovi spogliatoi non c’erano docce. Ci si poteva solo spogliare. Poi a gara finita si passava nelle vecchie stanze che lanciavano acqua. Tutto in modo spartano, ma per i ragazzi, l’Arci e il quartiere fu importante. Sulla collinetta, con tubi innocenti e lamiere ondulate, venne innalzata una tribuna coperta, niente di che, ma quando pioveva riparava molti. Don Mario eliminò dalla vista dei ragazzi e dei passanti anche lo scasso di auto che sorgeva nei pressi del campo. Un muro ne eliminò la visuale. Il campetto del Monterosa era l’unico campo in Campania dove si giocava sempre, indipendentemente dalle condizioni atmosferiche, assorbiva tantissimo. Un campo sempre asciutto. Don Mario e gli altri seguivano i ragazzi nelle trasferte, supporter unici e indimenticati nel cuore di tanti allievi. Alla fine degli anni novanta, dopo anni di battaglie gli abitanti delle Vele di Scampia riuscirono a convincere le istituzioni che i palazzoni in cui abitavano non avevano nulla di umano. Infiltrazioni, pareti non insonorizzate, degrado, mancanza di ascensori in condomini di quattordici piani, topi, spaccio di droga. Era necessaria una soluzione definitiva, veloce e per tutte le famiglie. Si decise di abbattere le Vele, simbolo negativo del quartiere, ma bisognava trovare ad ogni costo uno spazio per costruire nuovi alloggi. Tra i lotti individuati compariva anche il romantico campo del rione Monterosa. Tra l’incudine e il martello, Don Mario, l’Arci Scampia e i ragazzi si ritrovarono tra la voglia di giocare in un campo che amavano profondamente e il sogno di una casa 23


diversa. Insieme si scelse per le nuove case. L’Arci Scampia emigrò al GP di Melito e al Mariolina Stornaiuolo di Arzano. Un giorno tra il silenzio dei palazzi, un bulldozer buttò giù le porte bianche del campetto. Appoggiati alla rete c’erano Don Mario, Carmine, Luigi, Michele e Vincenzo a cui va la stima, la gratitudine, l’affetto di tutti quei ragazzi che hanno calpestato con gioia l’incredibile terreno del campetto del Monterosa. Oggi, quei Pulcini diventati papà, abitano nei nuovi alloggi costruiti per gli abitanti delle vele. Ogni tanto, però, verso le tre del pomeriggio, mentre i nonni fanno la controra, ancora rimbombano le scarpette di mandrie di bambini, si alza il polverone d’estate e qualcuno tra i raggi vede ancora Don Mario.

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Avere parte

A Scampia la coppa dedicata a Simonetta Lamberti, vittima innocente di camorra.

Non importa quanto corri, ma dovi corri e perchè corri. Zdenek Zeman

È

il 29 maggio del 1982. Cava de’ Tirreni, Salerno. Il giudice Alfonso Lamberti, procuratore di Sala Consilina è in macchina con sua figlia Simonetta. Un auto si avvicina, a bordo tre uomini. Sparano. Il giudice Lamberti viene ferito, Simonetta come una rosa maggese perisce sciolta in un lago di sangue e piombo. Come una farfalla fulminata in primavera s’accascia tra il biondo dei suoi capelli. 11 anni. Vittima innocente di camorra. La prima di una lunga serie di bambini uccisi in faide, vendette trasversali, omicidi mirati. Sono gli anni di ‘O Professore di Vesuviana, di Raffaele Cutolo e della NCO, gli anni in cui si ammazzavano trecento persone all’anno. Come tante vite spezzate dal putrido odore dei soldi sporchi, Simonetta rischiava in breve tempo di diventare una manciata di lettere seppellita in un dimenticatoio comune. Sarà stata l’indignazione della gente, quella morale, virtù nascosta dentro arterie sconosciute, che divampa ogni santa volta che non si può non rimanere esterrefatti davanti alle barbarie dell’uomo, ma il 2 aprile del 1983 lo stadio 25


di Cava de’ Tirreni fu intitolato a Simonetta Lamberti. Una vittoria per la popolazione indignata, un dovere verso una tenera fanciulla uccisa per fatti che nemmeno immaginava. Nel 1989 l’Arci Scampia muoveva ancora i primi passi. Aveva appena compiuto tre anni. Si è appena conclusa la stagione, si tirano somme, bilanci, si fanno i conteggi. Gli Esordienti ’78 sono una buona squadra, iniziano a muoversi bene, sono attenti, ottime individualità. Molti ci puntano sui quei ragazzi. Fa caldo quando il presidente Piccolo riceve una telefonata, i casi della vita. “Ragazzi, è ufficiale siamo stati invitati al Torneo Internazionale Simonetta Lamberti. Mancava una squadra russa e hanno subito pensato a noi, che facciamo ci andiamo?” La risposta fu l’euforia dell’intera scuola calcio. Partecipavano a quel prestigioso torneo squadre giovanili provenienti da tutto il mondo, da tutta l’Europa. Polacchi, ungheresi e tanti altri. Tra i ’78 c’è ancora voglia di giocare nonostante il caldo. Cavoli è il primo torneo internazionale per l’Arci, la prima trasferta, il primo scenario importante. Si va in terra salernitana carichi di entusiasmo e voglia di fare, ma pur sempre con i piedi per terra. La Cavese, la squadra di casa, aveva fatto realizzare per l’occasione uno splendido trofeo da un artigiano del posto. Una coppa meravigliosa in ottone. Una base rettangolare sosteneva un grosso cilindro alla cui sommità capeggiava un pallone. Non un semplice trofeo di plastica e finto marmo, ma una vera e propria coppa, pensante, da alzare con fatica. Gli Esordienti ’78 dell’Arci passano il girone, già un ottimo risultato in un torneo del genere. Ma sforzo dopo sforzo, partita dopo partita, stilla di sudore dopo stilla di sudore, i ragazzi passano i quarti e poi le semifinali e a gran sorpresa arrivano in finale. Ad attenderli c’è la squadra di casa, la Cavese. Nella testa di molti scampioti sarà balenata l’idea “ma forse possiamo farcela, a questo torneo non eravamo nemmeno invitati e siamo arrivati in finale. Siamo partiti come ruota di scorta e ci ritroviamo finalisti. Forse è il destino”. 26


Stadio Simonetta Lamberti. Triplice fischio, Cavese 0 - Arci Scampia 3. In rete Petriccione e doppietta di Musella. A consegnare il trofeo il calciatore Salsano, noto a tanti. Tomi tomi i ragazzi di Scampia alzano la pesante coppa e la portano in periferia. Appoggiata su una mensola speciale, molti la guardano mentre si riempie di polvere. Una manciata d’adolescenti aveva vinto una coppa dedicata ad una vittima innocente di camorra e con speranza l’aveva portata a Scampia, tra palazzoni di cemento armato e primordiali piazze di spaccio. Chissà se tra Bim Bum Bam e le figurine erano coscienti di ciò che avevano fatto. A vent’anni di distanza lo scrittore Roberto Saviano, minacciato dalla camorra e sotto scorta, ha scritto: “A volte anche un semplice gesto da parte di ognuno può servire più di quanto sembri. Basta fare la propria parte, nel proprio piccolo. Ecco, questo noi dobbiamo cercare di avere, parte. Tutto qui”. Quel giugno 1989 i miei amici ’78 ebbero parte.

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La traccia vale più di tutto

1994. Ciò che conta è il percorso.

Il senso del calcio è che vinca il migliore in campo, indipendentemente dalla storia, dal prestigio e dal budget. Johan Cruijff

C

i sono partite che non te le dimentichi più. Ci sono partite che non te le dimentichi più anche se non le hai viste. Partite che forse le hai sognate, qualcuno le ha raccontate, partite immortalate dentro una fotografia. Penso al bambino di appena otto anni che euforico entra nella sede dell’Arci Scampia, pronto per ritirare il suo completino, pronto per iniziare la sua avventura. Ascolta i primi consigli di Mister Piccolo, sta buono sotto le carezze del papà, poi, così, senza farci caso, i suoi occhi si perdono in una foto. Undici ragazzi si abbracciano, undici giovani atleti sono in posa per una foto di rito. Posizione stereotipata, scatto ripetuto mille e mille volte. Niente di anormale se non fosse per il fatto che alla spalle dei piccoli allievi campeggia ingombrante la scritta: “Stadio San Paolo di Napoli”. E via, la mente del bimbo corre via, velocemente attraversa gli anni, le partite, i gol e chiudendo gli occhi si sente vivo in quella foto. 28


L’avrò vista un milione di volte e un milione di volte il mio cuore ha applaudito quei ragazzi, che con coraggio e con impegno hanno scalato le vette del campionato regionale 1994/1995, sino alla finale. Borrelli, Capasso, Coscione, Arpino, Piccolo, Contemi, Miele, Gelotto, Riso, Salvati, Parisi, Mandato, Angiolino, Santaniello, Agrillo e Chimenz, classe 1980. Maglia, pantaloncini e calzerotti rossi, nient’altro che un manipolo di giovani sognatori. La loro magica avventura partì nel settembre del 1994, sotto l’attenta guida di Alfredo Riso. Una cavalcata immensa nel girone, partita dopo partita i punti si accumulavano inesorabilmente, la prima posizione in classifica spingeva i ragazzi a fare sempre di più. Alla fine giunsero ai play off del campionato regionale. I ragazzi di Mister Riso ebbero la possibilità di confrontarsi con le squadre più importanti della regione. Certo, questo era già un ottimo traguardo ma, negli occhi di quei giovani, c’era altro, altre ambizioni. Passarono gli ottavi di finale e poi i quarti e ancora la semifinale, fino al traguardo più ambito, la finalissima da giocare allo Stadio San Paolo di Napoli. Arci Scampia contro Junior Gragnano. Partita trasmessa in diretta tv. Allo stadio ventimila persone. Ventimila persone per una partita tra ragazzi. Un terzo dello stadio pieno. Roba da far venire la pelle d’oca a chiunque. Fu una partita tiratissima. Uno di quei match tosti, pesanti, bellissimi da vedere. Una di quelle partite memorabili dove due squadre di ragazzi si danno battaglia per coronare un sogno che dura da dieci mesi, da dieci anni, da una vita. Al triplice fischio il risultato è 0 a 0. Il portiere del Gragnano, Imperiale, ha parato di tutto. Si va ai rigori, la sorte decide per tutti. Chissà cosa avranno pensato quei ragazzi mentre tiravano un rigore, mi chiedo spesso. Chissà quanto piccola era la porta e quanto pesanti fossero le gambe. Chissà quanti dubbi amletici annebbiavano il cervello e quanto gigantesco fosse il portiere fermo sulla linea. 29


Alla fine la spuntò il Gragnano. L’Arci Scampia, la nostra Arci Scampia perse. Ho scritto queste righe perché alcune volte la vittoria, l’arrivare primi, non conta assolutamente nulla. Vincere è bello, la gloria riempie le pance, ma ciò che conta è il percorso, ciò che conta è la strada che ci lasciamo alle spalle. Di quella squadra 1980 numerosi ragazzi furono venduti alla Nocerina, altri al Napoli e a tante altre realtà professionistiche. Gente come Salvati ha debuttato in Serie C, gente come Gelotto è un prezzo pregiato del calcio campano da anni. A quei ragazzi fermi in quella foto, pronti per scattare in campo, pronti per la finalissima sempre sognata, dico grazie. Grazie perché siete stati negli anni un esempio. Uno stimolo ad andare avanti. E ogni santa volta che guardo i vostri occhi attenti in quella foto, ricordo a me stesso e a chi è intorno a me, che le sconfitte fanno parte della vita, che le vittorie sono note felici di un attimo, ma la traccia che lasciamo vale più di tutto. Voi avete scavato un solco con i vostri piccoli tacchetti.

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La costellazione delle scarpette

Il “Torneo Antonio Bergamasco” e altre stelle cadenti.

Il pallone è una bella cosa, ma non va dimenticata una cosa: è gonfio d’aria. Giovanni Trapattoni

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i sono alcuni che sostengono che i veri calciatori si plasmano in strada. Tra i vicoli, tra gli stradoni di cemento armato, sotto i porticati, calciando super santos a “cocozza”. C’è gente che sostiene che la “cazzimma” che ti da la strada, il confrontarti continuamente, per ore, senza sosta con i “guaglioni” del tuo rione, è qualcosa che nessun mister potrà mai insegnarti. C’è chi giocando a pallone nel cortile del proprio palazzo muore, ucciso da un tubo piovuto dall’alto. C’è chi giocando a pallone nel cortile di casa perde la vita, resta per sempre in tribuna. Antonio Bergamasco era un allievo della scuola calcio Arci Scampia, mentre divertendosi con gli amici cercava di migliorare, migliorarsi, fu stroncato da un tubo innocente staccatosi dalle impalcature utilizzate per la ristrutturazione di alcuni stabili del suo rione. Improvvisamente, da un giorno all’altro, si rimane orfani di un compagno. Da un momento all’altro la rosa della squa31


dra perde un petalo, il pianoforte un tasto. La mente non ci arriva, non esiste tragedia più grande di un padre che sopravvive al figlio. E in campo, tra il lutto ampliato dal silenzio dei fischietti, si ripensa all’ultima azione, a quell’attimo, a quella prodezza. Ma ciò che fa tremare le corde del cuore è la paura di dimenticare. La paura che man mano affievolisca il ricordo, i lineamenti ora impressi in mente. Per non dimenticare l’Arci Scampia organizzò un torneo dedicato alla memoria di questo giovane scomparso, orfano del campo, il “Torneo Antonio Bergamasco”. Una manifestazione che sin dalla sua nascita ha avuto immediatamente un risalto importante a livello campano. Partecipavano al torneo le prime otto classificate al prestigiosissimo Torneo di Natale, le squadre che nel periodo invernale avevano più stupito la platea giovanile. Esattamente dopo quattro mesi gli atleti di queste società si rincontravano, a Pasqua riscendevano in campo per confrontarsi nuovamente. Partita secca, dentro o fuori. Quarti, semifinale e finale. Il “Torneo Antonio Bergamasco” è stato negli anni un evento importante per ogni allievo della scuola calcio, si sentiva un forte fermento nell’aria, l’adrenalina per una manifestazione casalinga importante, che tutti rispettavano. Nato sul campo del Monterosa e poi trasferitosi allo storico Mariolina Stornaiuolo, il “Torneo Antonio Bergamasco”, attirava decine e decine di osservatori, che visionavano, opzionavano, cercavano di acquistare giovani talenti che si esprimevano sul campo in memoria di chi non c’era più. Ogni anno veniva consegnato un premio a chi si era distinto nel mondo del calcio giovanile, a chi aveva dato cuore ed anima per i giovani. Tanti sono stati premiati ricordando Antonio, da Mario Cacciatore, storico organizzatore del Torneo di Natale, ad Antonio Porta e Vincenzo Montefusco, allenatori delle giovanili del Napoli, fino a Nicola D’Alessio, pregiato istruttore di base. Nelle undici edizioni che si son svolte, mai l’Arci Scampia è riuscita a vincere il torneo. É riuscita a trionfare in im32


portanti manifestazioni di livello internazionale, ma nel torneo più sentito dai suoi ragazzi e dalla dirigenza mai. Forse quello era il messaggio di Antonio, un messaggio che invogliava a riprovarci un altro anno ancora. Nonostante il “Torneo Antonio Bergamasco” sia stato sospeso contemporaneamente al Torneo di Natale, molti alla scuola calcio Arci Scampia hanno un ricordo felice di quelle sfide alle porte di Pasqua. C’è chi nostalgico invita la dirigenza a nuove edizioni. Durante quei giorni febbrili, ansiosi, eccitati, il ricordo volava alto nel cielo verso tutti quei ragazzi dell’Arci Scampia seduti al fianco di Antonio Bergamasco. In venticinque anni tanti, forse troppi, prematuramente ci hanno lasciato, se ne sono andati verso stelle a noi sconosciute. La strada, le moto, gli incidenti autostradali, ci hanno tolto volti gentili e paffuti come quelli di Ciro Brandi, Luca Caiafa ed Ercole Sabatino. Malattie infernali hanno spento giovani atleti, penso ad Angelo Autore e al piccolo Giuseppe Ramaglia. Questo triste elenco si arricchisce anche dei nomi di Claudio Ferrara, amico ’87 e Luigi Tammaro, vittima del degrado culturale di un quartiere. E infine c’è chi è morto sul lavoro, mentre cercava di aggiustare un condizionatore, precipitato dall’alto verso il basso. Raffaele Chianese, morto in una città dove il lavoro è un lusso, dove si sgobba senza sicurezze, senza prospettive, senza un futuro. Siamo convinti che da un lontano pianeta fatto di porte, reti e spalti, dove sugli alberi di cuoio crescono palloni, questi nostri eroi moderni, sostengono con trombe e fumogeni le nuove generazioni dell’Arci Scampia. Sono sicuro che, riparato sotto un albero, palleggia Raffaele Chianese, biondo dalle infinite prodezze, che da bambino infiammavi le folle stupite dai tuoi tacchi. E di sera mentre nel letto continuiamo a rigirarci per l’ansia della partita più importante della stagione, dalla finestra tra le nuvole e la luna scorgiamo la costellazione delle scarpette, insieme di stelle cadenti incastonate nel cielo. 33


Le uova tra i baffi

Esodo di una scuola calcio. Il Gp, ovvero, la tana dell’airone.

Ogni volta che respiro l’odore dell’erba mi ritorna addosso l’infanzia. Jorge Valdano

A

lcune volte ciò che cerchiamo è dietro l’angolo. Alcune volte l’oasi di pace e tranquillità è nascosta da un velo sottile. Ci vuole fortuna, ma anche fede. È successo più o meno questo alla scuola calcio Arci Scampia. In uno di quei momenti difficili, momenti in cui ti viene sottratto un campo storico, campo ricco di stille di sudore di centinaia di ragazzi, campo che darà posto a centinaia di alloggi per gli stessi allievi. In quel momento è sbucato fuori il GP. Il GP è un piccolo campetto di terra battuta, nascosto dai palazzoni di un parco rosa alla periferia di Melito, comune limitrofo di Napoli e del quartiere Scampia. Un campetto che è diventato per dieci anni la seconda casa della scuola calcio Arci Scampia. Fu quella la sede scelta da Mister Piccolo e tutti gli altri, per continuare le attività sportive. Tutto ridotto, piccola sede, piccolissimo campo. Piccoli spogliatoi. L’Arci Scampia, con coraggio e dedizione, non si è abbattuta davanti agli ostacoli della sua storia, ha ingranato la marcia ed è ripartita. 34


Ricordo il momento preciso in cui varcai quel cancello grigio, ricordo il pavimento un po’ in pendenza, ricordo curato e impettito Gigi D’Amore ad attendermi all’ingresso. Gigi D’Amore era il responsabile del campetto, figura nota a tutti gli allievi, figura che abbiamo imparato a conoscere, ad apprezzare, a rispettare. Ricordo con amore la mia prima iscrizione alla scuola calcio Arci Scampia. Mister Mandato con i suoi occhiali e la testa china sul primo tesserino, l’iscrizione ufficiale nei registri FIGC. Mia mamma firmò, firmò perché sorridevo, punto e basta. E questo succede tutt’ora per decine di bambini, centinaia di volte, ogni santo settembre. Non è facile raccontarvi un campo, sembra qualcosa di banale, ma forse il modo migliore per farlo è lasciare su queste pagine sensazioni, piccoli odori, ricordi nascosti nei meandri del cuore. Eravamo trecento ragazzi. Alcune volte giocavamo in quaranta in un campo per dieci. Ci allenavamo, sognavamo. Davamo una mano ad annaffiare il campo per non far alzare la polvere, per non far protestare gli inquilini del Parco del Sole. Tutto ciò può sembrare una pazzia e invece resta e resterà un’indelebile sensazione d’amore verso lo sport. Adattarsi per amore. Sarà stato difficile traslocare dal Monterosa al GP, ma poi ci si è abituati, poi col tempo ci si è innamorati di quel posto, tutti insieme, perché anche il più estraneo dei luoghi se vissuto con armonia diventa la dolce casa desiderata da tutti. Saranno tanti a ricordare insieme a me l’odissea di lavarsi in uno spogliatoio di calcio a cinque, quello stare gli uni sugli altri, vestiti dentro le borse, borse inzuppate d’acqua. Alla fine non ci lamentavamo più, perché stavamo bene insieme. Come dimenticare le giornate di pioggia, momento in cui il GP si trasformava in una gigantesca piscina a cielo aperto, gigantesca pozzanghera dentro cui schizzare con scarpe chiodate. E come dimenticare il giorno dopo la pioggia, momento in cui il terreno su cui correvamo assumeva la strana forma di una poltiglia di fango e segatura. E 35


noi, giovani atleti, eravamo lì, con le nostre piccole scarpette a correre sulle figure immaginarie di fango, per livellare il tutto. “Correte negli angoli” urlava Gigi D’Amore. E noi correvamo negli angoli. La nostalgia s’impossessa di me tutte le volte che immagino Mister Piccolo dietro quella sua minuscola scrivania al GP, sommerso dalle coppe, parlarmi di calcio, darci il cappellino come regalo di natale, la maglietta per la domenica. Mai dimenticherò le urla di Mister Mele, ogni volta che con un errore tecnico spedivamo il pallone fuori dal campo che puntualmente piombava sulla sua Punto grigia. Ci siamo divertiti e se in queste righe scovate una sottile vena di amarezza e malinconia, non preoccupatevi è l’effetto dei ricordi belli. L’Arci Scampia ha questo potere, la forza di far diventare il calcio qualcosa di collaterale, nient’altro che un gioco, la forza di farti amare la famiglia, la squadra, quella strana magia dello stare insieme. Il GP è stato la fedele tana dell’Arci, il nido dell’airone. Tra le foglie e i ramoscelli di quel nido c’era un uomo a cui molti di noi allievi hanno legato ricordi felici. Raffaele, comunemente noto a tutti come “Rafele”. Una sorta di bidello barista del campo, l’anima del campo. Con i suoi baffi ci allietava con pronostici e colorati in bocca al lupo. Ci strillava quando allagavamo spogliatoi o lasciavamo alle nostre spalle porcili di carte, calzerotti e bottiglie di shampoo vuote. In quei baffi si nascondevano uova di airone. Non lo diceva spesso con quella voce possente e ricca di napoletanità, ma amava profondamente stare lì tra i ragazzi. Rafele se ne è andato all’improvviso. Da un giorno all’altro, se n’è andato lasciando un vuoto profondo, un silenzio particolare tra gli spogliatoi e l’improvvisato bar. Ma a me piace pensare che le uova d’airone nascoste nei suoi baffi siano state rubate da una banda di ribelli allievi, uova coccolate, uova che hanno liberato aironi vivi, aironi bianchi e rossi. A lui va il nostro grazie, il grazie di una generazione. 36


So che passeranno gli anni e per le nuove leve il GP sarà poco più che un flebile ricordo, ma forse queste righe servono proprio a questo, a rendere indelebile un’impresa. A ricordare ai nostri allievi, ai cinquecento ragazzi della scuola calcio Arci Scampia, coloro che oggi si allenano su spettacolari campi in erbetta sintetica ben curati, che noi, manipolo di giovani degli anni ’90, abbiamo buttato il sangue su un campetto d’argilla e segatura. Che Vincenzo Regina, portiere classe 1988, non aveva una porta per allenarsi insieme agli altri portieri, che non ci dividevamo campi, ma fette di metà campo, che avevamo tre docce e un bagno, che nonostante tutto ci siamo divertiti un casino.

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Non bastano più le sedie

Panarielli e Patanelle. Speranzoso anno che vieni.

Il calcio ha le sue ragioni misteriose che la ragione non conosce. Osvaldo Soriano

U

no dei rischi di una grossa scuola calcio è quello di creare al suo interno tante piccole realtà autonome, una sorta di mini scuola calcio indipendente, tanti pezzi liberi, tante categorie non comunicanti tra loro. Forse è per questa ragione, per scampare a questo pericolo che a Mister Piccolo e a tutto lo staff dell’Arci Scampia venne in mente l’idea di creare momenti in cui tutte le categorie, tutti i ragazzi della scuola calcio, potessero comunicare tra loro, conoscersi, divertirsi al di là del calcio. Un momento in cui anche i genitori dei Pulcini e degli Allievi potessero sentirsi parte di una grande famiglia. Questo concetto d’unione, di familiarità, di appartenenza, è perfettamente incarnato in una delle manifestazioni più importanti della nostra scuola calcio, ovvero, la Tombolata. Una gigantesca tombola con centinaia di cartelle, con decine e decine di premi e regali, a cui negli anni nessun genitore e bambini ha rinunciato a partecipare. Ogni allievo dell’Arci ha nell’album dei suoi ricordi il “panariello” della Tombolata. Imbuto di paglia che ruota velocemente nell’aria sfidando la sorte. 38


La Tombolata è uno di quei momenti in cui i sorrisi prendono il sopravvento sui problemi. Si gioca tutti insieme, ci si riscalda tutti insieme, si respira ancora l’aria di Natale. I bambini si siedono vicini, preoccupati per le vacanze che finiscono, ancora felici per i regali ricevuti, vogliosi di scendere in campo. La Tombolata è bella, punto e basta. La Tombolata la devi vivere. Devi vivere i mesi che la precedono, quando genitori, mister e conoscenti s’impegnano a vendere migliaia di biglietti a costi popolari per finanziare la serata, per comprare premi, regali per gli allievi, per i bimbi. I biglietti si vendono veloci, freneticamente si inseriscono nel magico scatolo di cartone, ognuno spera che il proprio numero sia estratto, ognuno spera che la sorte gli faccia portare a casa un tv color, un elettrodomestico, una bella collana. A me piace molto quella frenesia prenatalizia, quello sventolare di biglietti della lotteria targata Arci Scampia. In quel gran baccano vedo la passione di chi si impegna gratuitamente per la riuscita di un buon evento che faccia sorridere la collettività. Ogni euro raccolto con la Tombolata viene reinvestito in premi. Forse è questo, forse è perché la gente ci crede, ma quella scatola di cartone ogni santo anno si riempie di biglietti ricchi di speranza. Gli occhi dei bambini brillano ogni volta che vedono sul palco giocattoli, magliette autografate, palloni, una befana anticipata. Mi sarebbe piaciuto farne un quadro, dipingere Mister Piccolo con il microfono in mano che annuncia a tutti che anche quest’anno i premi sono costati due milioni di euro. Mi sarebbe piaciuto dipingere le urla sorridenti dei genitori che non credono a quel prezzo e ancora Mister Piccolo che rilancia e annuncia che il pallone che tiene in mano vale duecento euro. Mi sarebbe piaciuto dipingere Mister Patanella che balla sul palco, che fa ridere il pubblico, che diventa protagonista della serata. Chissà se nella tavolozza dei colori sarei riuscito a tirar fuori il luccichio degli occhi dei bambini quando dal palco si annuncia che i Pulcini possono ritirare la calza e allora tutti in piedi, tutti in fila per i dol39


ciumi. E Massimo Sagliocco che dirige il traffico, che invita i bimbi a stare calmi, “uno alla volta, uno alla volta. Ce ne sono per tutti”. Prima del gran giorno tutti i familiari passano da Mister Piccolo per ritirare le cartelle da gioco. Dietro ogni cartella c’è un numero. Infatti, non si vince solo facendo ambo, terno, quaterna, cinquina e tombola; non si vince solo con l’estrazione dei biglietti venduti, si vince anche con il numero della cartella. Ogni tanto, Mister Piccolo ferma il “panariello” ed estrae da un altro scatolone i numeri della cartella. Quasi tutti vincono, si torna a casa sempre con un premio. Si vince qualsiasi cosa, dal kit dell’Arci, alle maglie del Napoli, passando dalle cene per due persone. Molti amici della scuola calcio mettono in palio ciò che vendono, ciò che hanno e la serata si fa sempre più bella. Come dimenticare la voce della signora anziana seduta all’ultima fila che urla “alzate la voce”, o il genitore appoggiato al muro che non ha ancora “messo un numero” e vuole che si giri il “panariello”. E la signora che non ha mai vinto niente e appena sente il suo numero balza in piedi, “ho sentito bene ha detto trenta, ha detto trenta” e orgogliosa ritira il premio, rossa paonazza. Che belle le facce di chi vedendo salire sul palco per il quinto anno consecutivo il papà del portiere per ritirare il premio della quaterna sottovoce dice “e che culo, questo vince sempre”. Ho avuto la fortuna più volte di salire su quel palco, ho avuto il piacere di guardare la diversità e i colori della famiglia Arci Scampia, ho visto da quella prospettiva il mondo, che senza accorgercene, rappresentiamo. Quando tutto finisce ci si fa un grande applauso, ci si emoziona, si pensa tutti insieme al nuovo anno, speranzoso anno che viene. Quando tutto finisce una lunga scia di cartacce e mozziconi ricopre il pavimento, per qualcuno è monnezza, per altri segno di una serata vissuta. Da alcuni anni la Tombolata non si fa più, da quando i ragazzi sono aumentati, da quando gli iscritti 40


sono diventati più di cinquecento, non riusciamo a trovare un posto per contenere la nostra famiglia. Per contenere mister, allievi, genitori, nonni, conoscenti, ospiti. Un po’ mi dispiace, un po’ sono convinto che presto troveremo un posto, un po’ sono felice perché siamo cresciuti, siamo tanti, tantissimi. Non bastano più le sedie.

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Formare l’uomo

Mister che vanno, mister che restano. Gente col fischietto da vent’anni.

L’allenatore di calcio è il mestiere più bello del mondo, peccato che si ci siano le partite. Nils Liedholm

S

ono le sette del mattino. Fa freddo, è gennaio. Attendo l’arrivo di Mister Antonio Mele. È puntuale, Vincenzo, il figlio, dorme in macchina. La Fiat Punto grigio metallizzata si riempie di giovani atleti, le borse si accatastano nel cofano, strappano fili, saltano gli altoparlanti. Mister Mele un po’ si incazza, poi lascia stare. Costanti sugli ottanta all’ora ci avviamo seguiti da una carovana di macchine amiche a Bellizzi. Noi di questo posto non sappiamo nulla, ciò che ci è noto è solo la loro posizione in classifica. Vinciamo di misura 1 a 0. Gli altoparlanti si rompono definitivamente. Quando sono arrivato all’Arci Scampia la Fiat Punto di Mister Mele era nuova, dopo cinque anni e centinaia di chilometri percorsi verso campi sconosciuti, era da rottamare. Fare il mister è una missione, non c’entra niente il successo, la carriera personale, le vittorie, è il piacere di stare insieme, la passione per il calcio, a trasformare sacrifici in momenti positivi. I 42


mister dell’Arci Scampia sono innanzitutto un gruppo, una famiglia variegata fatta di gente per bene. Di gente che sacrifica il tempo, le risorse economiche, per stare insieme ai ragazzi, per trasmettergli competenze, ma soprattutto valori. Gente che chiede permessi a lavoro, che mette a disposizione degli altri strumenti, esperienze e anche Fiat Punto. La gratuità rende magico e romantico il lavoro di questi uomini che ogni settimana, indipendentemente dal freddo, dalle vacanze, dalle festività, sono sul campo ad insegnare, a formare prima uomini e poi atleti. Formare l’uomo in un quartiere come Scampia è più che un obiettivo, è una frase scolpita nei fischietti dei mister. È ormai noto che i ragazzi vedono nei loro allenatori un modello, bisogna approfittare di questa fiducia dei ragazzi per andare al di là dei passaggi e dei cross, per fargli capire che non tutti saranno campioni nel calcio, ma molti potranno esserlo nella vita. Qui non si gioca a far gli eroi, non si gioca a fare i salvatori della patria, i maestri di strada, qui si fa il mister, si cerca di livellare le opportunità. Ogni volta che qualcuno mette piede all’Arci Scampia e guardandosi intorno si rende conto di essere circondato da un ambiente sano, la scuola calcio vince. Ogni volta che Scampia offre ai ragazzi ciò che viene offerto a Bologna, Modena, Cuneo, Novara, ogni mister esulta. Il lavorare gratis, l’essere tutti sullo stesso livello, sempre con caratteristiche diverse, permette a molti ragazzi di frequentare la scuola calcio senza pagare un centesimo. Anche questo è livellare le opportunità, significa dare la possibilità ai ragazzi del territorio di allenarsi indipendentemente dal peso dei portafogli dei papà. Significa non creare discriminazioni interne, con quella maglietta rossa e bianca si è tutti uguali, figli di impiegati, carcerati, operai e imprenditori. Ma è il rapporto con i ragazzi che non ti fa mollare mai, quella sinergia mista ad affetto che ti lega a quegli occhi che troppo spesso racchiudono storie non adatte alla loro età. È la malinconia, quello che non si può dire perché cambierebbe tutto, quello 43


che si mescola con il nocciola, verde, azzurro, nero degli occhi dei ragazzi, che fa scattare nei mister il senso del riscatto. Riscatto di un quartiere intero. Allora bisogna ripetere ai ragazzi che bisogna fare di più, bisogna essere di più, che in campo non si è semplicemente una squadra di pallone, ma si rappresenta una comunità martoriata a colpi di articoli indigesti e servizi televisivi avvelenati. Si resta gratuitamente in questa scuola calcio perché si vuol essere la rappresentazione concreta di un’altra Scampia, o forse della vera Scampia, fatta di gente che si sacrifica per la famiglia, che fa i salti mortali per pagare il kit, che onnipresente, nonostante macchine fatiscenti, accompagna i figli a giocare. Non sono certo le vittorie a gratificare i mister della scuola calcio Arci Scampia, è la stretta di mano con l’avversario a fine partita, è il ragazzino preso in giro da tutti che s’inserisce, è il chiattone che a fine anno sa fare i palleggi, è l’incontro tra lo scugnizzo e il figlio di papà, è la diversità che si mescola a dare senso ai sacrifici di un anno. Poi magari qualcuno parte verso sogni professionistici, ed è bello pensare che nel bagaglio calcistico e culturale di quell’aspirante calciatore ci sia una minuscola fetta di nozioni e ricordi che porta il nome di un semplice mister di Scampia. Chissà quanti ragazzi non sono arrivati a calpestare i prati di San Siro perché “la testa non è buona”, ecco che diviene fondamentale fondere cervello e piedi, connubio indivisibile, accoppiata necessaria per evitare delusioni, sconfitte, ragazzi che si perdono, che ti ricordano dietro sbarre di ferro, famiglie improvvisate, rimpianti, rimorsi. Sconosciuto a noi tutti, Dio del pallone, con mani di cuoio, capelli di erba e cuore colmo di sudore, dai la forza a questi mister di evitare rimpianti e rimorsi. E nel delirio di un società, che caccia questi ragazzi dalle scuole, che non fa sentire loro vicini le istituzioni, nella crisi generale della famiglia che si spezza, che soffia droga al posto di fiori colorati, dai la forza a questi mister di andare casa per casa a convincere il futuro di Scampia che il calcio può essere una 44


strada, che si va avanti insieme, ma soprattutto si perde insieme. Dio del pallone, sconosciuto a noi tutti, a chi dubita di questi uomini, a chi non comprende il senso della missione, a chi non sa e giudica, dai la forza per capire. Tanti mister hanno dato tutto sotto le ali dell’airone trampoliere dell’Arci Scampia, tanti son passati, un anno, forse due, ma c’è chi è in campo da una vita, c’è chi è Arci Scampia da vent’anni. Sono convinto che ogni allievo porta dentro di sé una speciale foto del proprio mister, un particolare ricordo, episodio, gol. Qui, in questo spazio ridotto fatto di righe e inchiostro, si tenta semplicemente di raccontare una foto di classe, lo zoccolo duro dei mister dell’Arci Scampia.

Mister Antonio Piccolo, fondatore della scuola calcio. Nell’eleganza dei suoi gesti e l’equilibrio delle sue parole c’è rinchiuso il germe che ha fatto sbocciare l’Arci. Disponibile, è onnipresente nel ricordo di tutti, centinaia di ragazzi hanno trovato il sorriso tra quei baffi che diffondono sicurezza. Dio gli ha dato tutto meno che il cognome, non adatto ad uomo di tale stazza morale. Mister Carlo Sagliocco, pilastro d’acciaio e sincerità dell’Arci. Sono sicuro che se avessimo la possibilità di fare un viaggio con una navicella minuscola nel cuore di Mister Sagliocco, scopriremmo che le corde del suo cuore sono rivolte al futuro. Tuttofare, mai si abbatte, crede in ciò che fa, concreto, sicurezza per noi tutti.

Mister Aldo Giaquinto, eleganza, cordialità e professionalità. Il perfetto benvenuto, il perfetto biglietto da visita per ogni nuovo allievo dell’Arci. Instancabile massaggiatore, oggi è capo della segreteria, oggi presta le sue conoscenze a mamme e papà in difficoltà con documenti e scartoffie, il tutto con estrema umiltà. Un cavaliere. 45


Mister Alfredo Riso, gentile e saggio come pochi. Racchiude in quella sua voce antica un calcio puro, giocato, fatto di bambini che si divertono. Tra i primi allenatori della scuola calcio è uno di quelli che ha portato lontano gruppi importanti, verso vittorie e sogni inaspettati.

Mister Gaetano Miele, siamo tutti cresciuti al ritmo delle sue battute e barzellette. Quel suo modo di fare ti fa sentire a tuo agio in ogni situazione e partita. La semplicità dei suoi consigli ti ricorda che il calcio è un gioco, che non bisogna prendersi troppo sul serio. Tutti sappiamo che nelle sue gambe è nascosto un talento.

Mister Gennaro Mandato, ex segretario, ottimo allenatore di base. Minuziosamente insegna ai ragazzi gesti fondamentali, con costanza e cura ripete concetti e valori. Instancabile, amico di generazioni di allievi.

Mister Salvatore Barrelli, parla poco ma incide molto nei ragazzi. Centravanti, profondo conoscitore del calcio. Figura emblematica, avvolta tra nubi di fumo e parole di allievi.

Mister Antonio Mele, stratega, figlio d’arte, esperto di uno sport che porta dentro, che diffonde in ogni sua parola, gesto, azione. Fautore di un calcio moderno, fatto di collettività e bellezza, è apprezzato da tutti. Simbolo di serietà e professionalità, è un ricordo positivo nel cuore di molti giovani. Mister Carmine De Falco, tra gli ultimi arrivati eppure colonna della scuola calcio. Figura positiva, ha voluto sin da sempre far parte della straordinaria famiglia degli allenatori dell’Arci Scampia. Ha regalato a questa società un figlio allenatore, Angelo De Falco. 46


Mister Carlo Uccella, l’uomo che non si vede, l’uomo del dietro le quinte. Fondamentale per l’Arci la sua presenza, competenza, cultura e professionalità. Ideatore di molti progetti, instancabile guida per tutti. Mister Gennaro Marigliano, avvicinatosi all’Arci grazie ai figli, Lello e Antonio, oggi dopo un decennio è ancora in campo a fare sport con i bambini, a divertire e divertirsi. E infine Mister Franco Riso, conosciuto da tutti come “Patanella”. Il mito di molti, compagno di tanti, onnipresente con le sue battute e il suo modo di fare, collante tra mister, genitori e ragazzi. Immensamente divertente, ama profondamente ogni ragazzo che calcia un pallone all’Arci Scampia.

A questa carrellata di nomi si aggiungono le nuove leve, quella nascente generazione di allenatori plasmata dallo zoccolo duro. L’Arci Scampia del futuro, fatta di ex allievi, papà diventati allenatori e tanti altri. Una rigenerazione spontanea e voluta che poco si vede in giro per l’Italia. Una rigenerazione fatta di tanti che sono tornati alla base, che fortemente hanno voluto essere nuovamente parte della famiglia Arci. Primavera di mister che dà speranza, che annuncia altri venticinque anni di allenamenti, trofei, partite, sconfitte, ragazzi che vanno, ragazzi che vengono. Mister che daranno la possibilità ai propri allievi di tornare all’Arci accompagnando i propri figli. Angelo De Falco, Andrea Giaquinto, Alessandro Piccolo, Vincenzo Mele, Massimo Sagliocco, continueranno sulle orme dei padri, seguiti da ex allievi come Vincenzo Regina, Petriccione, Spennagallo e Gianluca Gelotto, e altri ancora come Paolo Guazzo, Enrico Guazzo, Mimmo Cannata, Antonio Merone, Raffaele Salvetti, Patrizio Romagnoli, Camerlengo Alessandro, Pasquale Di Celmo, Sgueglia, i preparatori atletici Giovanni Ma47


rigliano e Raffaele Iodice, il preparatore dei portieri Pasquale Rispoli, lo staff medico guidato da Palmieri e l’instancabile allenatore-magazziniere, nuova scoperta dell’Arci, Enzo Tipaldi. L’Arci proseguirà il suo cammino con mister che verranno, che partiranno, guidati da uno stile Arci Scampia intrecciato al rispetto, al riscatto, alla voglia di emergere.

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E che vi chiamino pure streghe

Mamme in campo. Un calcio al maschilismo.

Non più puttane, non più madonne, finalmente donne.

Slogan femminista degli anni ’70

C

’è un giorno all’anno in cui tutto si capovolge, in cui un gigantesco mago prende i campetti della scuola calcio Arci Scampia e li agita, quasi fossero fiocchi di neve in una palla di vetro. C’è un giorno all’anno in cui tutti i bambini sono sugli spalti e le mamme in campo. Centinaia di ragazzi ad osservare casalinghe, impiegate, commesse, semplici mamme che danno calci ad un pallone. È la Festa delle Donne della scuola calcio Arci Scampia, che da decenni attira squadre di calcio femminile improvvisate da tutta Napoli. C’è un po’ d’imbarazzo e stupore sui volti dei bambini calciatori, mentre dagli spogliatoi emergono mamme in calzerotti e pantaloncini, magari con le loro scarpette. Molti sorridono per i chili di troppo, per l’andamento lento, per le frasi del tipo “non sono più quella di una volta”, “non corro perché fumo”, “non ti dimenticare che ho fatto quattro figli”, “guarda che io tengo cinquant’anni”. Nel giorno del capovolgimento generale si dà spazio a chi in un anno intero ha dato l’anima per il proprio baby calciatore. Si respira un’aria speciale, un’aria di festa, armonia fusa a sport. Uno 49


di quei momenti dove si sta tutti insieme e la coppa del primo classificato è il tempo che trascorre sereno, il pomeriggio che se ne va tra risate, rigori sbagliati, mamme Maradona. È importante in un quartiere come Scampia avvertire il senso di famiglia, comunità, aggregazione. Famiglia allargata, famiglia con quattrocento mamme e quattrocento papà, con cinquecentosessanta figli, ottocento nonni. Come poter dimenticare la propria mamma che incita in campo le compagne “dai ragazze dobbiamo vincere”, come poter dimenticare la propria mamma con la borsa e la tuta, come poter dimenticare la propria mamma la sera stanca nel letto, con i crampi. Se ne avessi la possibilità, ogni tanto, senza che nessuno mi notasse, mi piacerebbe alzarmi lentamente in volo sopra le teste della famiglia Arci Scampia, per guardare da lontano il quadro, per godere dei colori in silenzio. Se fossi una cimice mi piacerebbe volare tra le teste dei bambini che guardano le mamme in campo, per sentire sottovoce “forza mamma”, per vedere le mani nei capelli dei nostri allievi ad ogni gol sfiorato. Ah, se avessi una macchina fotografica per immortalare quegli sguardi, tredicenni con bocche aperte, occhi tesi mentre la palla scivola in rete e la mamma rotola a terra, respiri che si bloccano nonostante il ritmo lento della gara. Mille flash scatterei, per ricordare a tutti che in fondo una scuola calcio è questo, un miscuglio di emozioni intense intrappolate in un gioco per bambini. Perché poi cari Pulcini, Piccoli Amici, Esordienti, si diventa grandi, ci si guarda sulle foto vecchie di dieci anni, quando non avevamo ancora la barba, e tra la malinconia e la gioia si dice “quanto eravamo felici, incoscientemente felici, mascalzoni allo sbaraglio con un sogno in comune”. Ogni anno l’8 marzo c’è una squadra di mamme che vince e una che perde, ci sono sempre polemiche sottobanco, inciuci, falli non fischiati. Coppe che si alzano, medaglie appese al collo. Ogni anno l’8 marzo c’è un applauso finale che chiude la festa, 50


una applauso dedicato a tutti, dedicato a chi ha voglia di star insieme, di far crescere i bambini in un ambiente sano. Tra le farfalle ballerine nate tra battiti di mani, fischi e urla, qualcuna colorata di rosso e bianco porta il nome di tante donne che nel mondo sono vittime di una mentalità maschilista, medievale, patriarcale. Tra quello stormo di farfalle che campano un minuto c’è il nome di Susana Chavez, poetessa messicana uccisa dai narcos, c’è il nome di San Suu Kyi imprigionata in Birmania, c’è il nome di Neda uccisa nelle rivolte in Iran, c’è il nome delle fanciulle acidificate, lapidate, violentante, uccise perché amano altri, nascoste dietro veli. Ogni anno l’8 marzo alla scuola calcio Arci Scampia ci si ricorda che la festa delle donne non è solo un party con le amiche, non è lo spogliarello dei machi di turno, non è l’acchittarsi e mostrare al mondo le proprie forme, non è la trasgressione di una sera. L’8 marzo è sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato a migliaia di donne in tutto il mondo. Lungi da noi, maledetta mentalità maschilista che fa delle donne, ragazze, bambine del nostro quartiere oggetti di proprietà. Lungi da noi, mentalità maschilista, che costringe le donne a vestirsi in un determinato modo, a stroncare le amicizie, che trasforma diciassettenni in prostitute per un bacio di troppo. Basta con la donna che fa la calzetta e il ragù, che deve crescere i figli e non deve lavorare, basta con il padre/marito padrone. L’8 marzo alla scuola calcio Arci Scampia mamme, sorelle, zie, nipotine, fidanzate, nonne, date un calcio al maschilismo con tutta la foga che avete in corpo, scaraventate in rete quel pallone colmo di pensieri del cinquecento. E che vi chiamino pure streghe, tanto a noi le mamme piacciono così: ribelli. Mister Piccolo saluta tutti, un altro anno è passato, nuovi vincitori festeggeranno con cene succulenti, ma tra le mamme perdenti c’è sempre qualcuna che di nascosto, al figlio, lontano da occhi indiscreti, dice: “Quest’estate mi metto in forma, andiamo a correre insieme, ti faccio vedere io l’anno prossimo”. 51


Protetto nel cuore un acrobatico airone

Storie di chi parte, storie di chi torna senza vergogna.

Un grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri. Vujadin Boškov

O

gni volta che l’arbitro fischia l’inizio di una gara, ogni bambino pensa: speriamo che questa è la volta buona. Ogni volta che dagli spalti un osservatore sommerso tra distinte, nomi e numeri butta l’occhio sul campo, le speranze dei ragazzi impazzano. Quel sottile desiderio di tentare la fortuna, di provare ad arrivare lontano, di indossare una maglietta che conta. La voglia di calpestare prati verdi, di sentire gli applausi dei tifosi. In fondo tutti, tra la veglia e il sonno, abbiamo alzato la coppa del mondo. In testa mi tuona Libertango di Astor Piazzolla, ogni benedetta volta che guardo uno dei ragazzi dell’Arci Scampia varcare il campo, farsi il segno della croce e guardare il cielo rivolgendosi chissà a quale Dio, chissà per quale grazia. Nelle note malinconiche, note immigrate argentine, s’insinuano tutte le difficoltà di un quartiere di stenti. In quei tre minuti di musica aliena s’intrufolano i sacrifici, il riscatto di una nuova generazione di ragazzi stanca del marchio camorra, droga, malavita. 52


Gente che ha buttato il sangue sui campi di “patate”, sudore, acqua, vento, fulmini, ginocchia scorticate, infortuni, cazziate del mister. Scuola, allenamento, studio e poi ancora scuola, allenamento, studio. Per farsi valere, per pareggiare le opportunità, con gli altri, con chi non deve combattere con la nomea, con l’etichetta, con chi non incute timore semplicemente perché abita a Nord di Napoli. Miliardi di volte avrò sentito la frase “mistè io me ne devo andare da tutta questa munnezza, voglio uscire dal letame a testa alta”. Tanti sono partiti da Scampia, coccolati dal nostro airone, si son riempiti la valigia di speranza e decisione verso destinazioni prima sconosciute. Il primo ragazzo venduto ad una società professionistica dalla scuola calcio Arci Scampia, fu il ’75 Liccardi Antonio, destinazione Napoli. Oggi non è un campione, ma un ottimo padre e i suoi figli, Carmine ed Alessio, sono ragazzi dell’Arci Scampia. Quanti giovani a giugno attendono una telefonata, un cenno del presidente, qualcosa di scritto per chiudere la valigia. Nel 1995 l’Arci Scampia vendette alla Nocerina ben sei calciatori, Arena, Gelotti, Piccolo, Parisi, Arpino e Borrelli. Sei undicesimi della Berretti Nazionale della Nocerina veniva dal martoriato quartiere di Scampia. Gelotti è arrivato in Serie C2, così come Ferdinando Salvati, venduto al Napoli e da anni prezzo pregiato del calcio campano. Alessandro Piccolo invece è diventato uno degli allenatori della scuola calcio Arci Scampia, è ritornato alla base, ha riaperto la sua valigia donando il contenuto alla nuove leve del quartiere. Alla fine degli anni novanta il Napoli pescò dalla squadra 1986 dell’Arci ben sei ragazzi. Il bomber Orefice, Martorelli, Allegra, Passeretti, Valentinelli e Sileno detto ‘O Tè. Alcuni giocano ancora, altri tornarono all’Arci e ripartirono nuovamente, certi oggi portano avanti famiglie. Moltissime storie sfuggono tra questi venticinque anni dell’Arci Scampia, nomi come Vincenzo Mele al 53


Giugliano in C2, l’89 Ciro Aliberti al Padova, il portiere Leonardo Quaranta alla Ternana. Non tutti quelli che vanno diventano calciatori, non tutti quelli che vanno saranno poi stipendiati, ma tutti hanno reso onore al quartiere dimostrando che tra il cemento e la camorra, ragazzi per bene, con sacrifici, puntano ad obiettivi lontani. E se qualcuno in queste parole scorge utopia e retorica, son fatti suoi, perché in ogni valigia chiusa c’è un pezzo di Arci Scampia, c’è un modo di pensare, un modo di essere, uno stile. Sarà anche bellissimo indossare colori sociali che contano, ma fare il capitano con la maglia numero dieci, difendere il bianco e il rosso del proprio quartiere, quello non ha prezzo. L’essere sempre perfetti in campo, non dar agli altri la possibilità al primo errore di dire “sono di Scampia”, dimostrare con l’educazione, il rispetto, il fair play, di essere validi, senza handicap, di potercela fare senza la violenza e la prepotenza, beh quella è un’altra storia. In questo calcio malato di milioni, strizzato dagli sponsor, non tutti accederanno all’Olimpo della Serie A, e menomale. Menomale che avremo altri Alessandro Piccolo, altri ragazzi che tornado indietro senza vergogna, rimorso o rimpianto, diventeranno salumieri, panettieri, aggiusteranno auto, si metteranno a disposizione. Perché in fondo ciò che ti resta dentro non è la vittoria che dimentichi, non è il trofeo che si consuma sulla mensola, non è la foto che ingiallisce nella cornice, ciò che resta sono attimi cuciti su una sfera di cuoio. Ti resta l’essere schiacciati in sette in una Fiat Punto, ti restano le battute di Massimo Russo, le risate di Andrea Giaquinto, ti resta il “tanto cambieremo il mondo” negli occhi dei tuoi amici sotto la doccia, dopo aver perso amaramente 3 a 0. Ti resta il mister, i suoi baffi, il suo dire “provoloni”, “siete una banda di musica”, “così come siete messi potete andare solo a Sanremo e nemmeno”. Chi se ne fotte dei 4-4-2, 3-5-2, dello schema ad albero, dello stopper, del terzino, mediano, panchinaro, mezz’ala, ala spersa, 54


ti rimane l’ambiente, certo te ne accorgi dopo, ma che importa, è bello lo stesso. Una volta vincemmo il campionato all’ultima giornata, a Salerno, contro il Maria Rosa, perdevamo 2 a 0. Recuperammo negli ultimi minuti, negli spogliatoi festeggiavamo sotto le docce. Poi altre squadre fecero ricorso contro una delle ultime classificate, recuperarono dei punti, insomma ci sorpassarono. Dicemmo a Mister Piccolo di fare ricorso perché anche noi volevamo andare nei play off, lui ci rispose: “Non facciamo nessun ricorso”. E noi da tredicenni infuriati quali eravamo gli chiedemmo il perché e lui aggiunse: “Perché siamo l’Arci Scampia”. Sono passati esattamente dieci anni da quel giorno e oggi capisco chi siamo, quali sono i valori che scendono in campo insieme a noi, l’onestà, il giocare per crescere insieme. Non esiste vittoria più grande dello stupore negli occhi dei genitori delle squadre avversarie, ogni volta che guardando i nostri ragazzi in campo, si ricredono, dimenticano i mostri che avevano immaginato e lasciano spazio ai nostri scugnizzi eleganti. In bocca al lupo a chi è ancora sul treno, in bocca al lupo ai 1995, che dopo un’annata straordinaria hanno riempito le file dell’Avellino e dell’Aversa Normanna, la stazione d’arrivo di questo treno dipende dalla vostra determinazione, forza Liccardi, Profeta, Merolla, La Rossa, Esposito, De Crescenzo. Tieni duro Pasquale Narciso, in gol al debutto in Serie D, e che gol! Che questi piedi possano portarti lontano, come hai sempre desiderato. Sei quasi arrivato Armando Izzo, in prestito dal Napoli alla Triestina. Stringi i denti, come chi sai tu avrebbe voluto. Per Emanuele Allegra, 94 in lista Champions League con il Napoli, siamo tutti orgogliosi di te. Ma orgogliosi siamo di tutti quelli che c’hanno provato e sono tornati con umiltà indietro, verso nuovi sogni, con nuove ambizioni. Protetto nel cuore un acrobatico airone. 55


Il pallone è rotondo

Calcio e sociale si fondono in campo. Almeno ci si prova, almeno non si soffre di rimorsi.

Non c’è nulla di male ad essere ultimi, se lo si è con dignità. Zdenek Zeman

“Q

ua non si fa solo calcio. Il calcio è un mezzo. Questa è prima una scuola e poi una scuola calcio. Qui contano i ragazzi. Non dimentichiamoci che siamo a Scampia. Non dimentichiamoci che noi siamo al servizio dei ragazzi.” L’avrò sentite un milione di volte queste frasi/principi scolpite nel DNA della scuola calcio Arci Scampia. Basta guardarsi intorno per capire che il calcio è un effetto collaterale, parte di un programma più ampio, di un progetto variegato. È difficile fare calcio e calcio sociale bene, entrambi, insieme. Se all’Arci Scampia da venticinque anni questo connubio persiste, forse è grazie a quelle doti nascoste dei nostri ragazzi. È grazie a quegli occhi di gatto, al pepe nelle gambe, alla pelle scura simbolo degli scugnizzi del nostro quartiere. I ragazzi da noi vogliono rispetto e competenza, questo dobbiamo dargli e niente più. Qui non giochiamo a far gli eroi. Qui non si creano finti idoli. 56


Ma cos’è questo sociale ambito da molti, spacciato, abusato, bandiera di tanti? Non sono certo le parole sontuose dei dirigenti, i loghi di beneficenza, il piangersi addosso, il dire “veniamo da un quartiere disastrato”. Il sociale è nascosto nei silenzi. Negli sguardi tra mister e allievo. Tra genitore e presidente. Il sociale naviga sott’acqua. Non lo si sputtana sui giornali. Fai sociale quando sono gli altri a fartelo notare. Credo che il sociale sia nella verità, nel rapporto sincero con i giovani del nostro quartiere. Sia nel dirgli in faccia, nonostante i loro sogni in fiamme, che non tutti diverranno calciatori, che nonostante la passione bisogna andare a scuola, che fare il muratore, il salumiere, il saldatore, è un mestiere dignitoso. Il sociale è insegnare ai ragazzi la differenza tra la protesta e il lamento. È cantargli “tu ti lamenti, ma che ti lamenti, piglia lu bastone e tira fora li denti”. Sto benedetto sociale non è fargli il regalino a fine anno, abbassare i prezzi del kit, è provare a far le cose bene insieme, farle bene e un po’ di più. Una scuola calcio come l’Arci Scampia assume un ruolo determinante quando fonde gli allenamenti con le lezioni in classe. Quando si crea un intoccabile filo invisibile tra il calcio e l’istituzione scuola. Quando si fa comprendere ai ragazzi che mister e professori si parlano, che non si fa il “bravo” solo in campo per giocare la domenica, che il “bravo” lo si fa dovunque, perché tante volte “bravo” fanno un uomo. Non succede spesso che sport extrascolastico e scuola pubblica s’incontrino per il bene dei giovani. Ma quando succede, quando un insalvabile, uno condannato alla bocciatura, comprende anche grazie al calcio, che bisogna invertire rotta, che le sospensioni, le bocciatore e gli accompagnamenti non sono fighi quanto i gol, allora la speranza e il cambiamento ardono impavidi tra i tigli e cedri di Scampia. Il sociale è nascosto nella magia del gruppo, nel fischietto fatato del mister che mette insieme bambini di diversa estrazione sociale, bambini con passato e probabili futuri diversi. Quando in un rettangolo verde si è tutti uguali, non ci sono le maschere di 57


bullismo e prepotenza viscida del quartiere, quando in quello spazio di polvere e pietre si suda insieme per un obiettivo comune, per me lì si consuma il comunismo magico. E quando ciò si manifesta, quelli che sembravano scalmanati, irrecuperabili, ragazzi difficili, ti seguono e vengono con te anche al museo, sul Vesuvio, ai cineforum. Il calcio ha il potere di distruggere il branco per la creazione del gruppo. E al gruppo, si insegna prima di tutto a perdere. Ad accettare le sconfitte. Tutto questo è una sinergia invisibile a tutti, è l’aria che respirano gli Esordienti, i Pulcini, i Giovanissimi. È quel sentirsi parte di un cerchio. È far comprendere che la gioia vale doppia se condivisa. Se ognuno sta in campo al proprio posto, se fa bene la propria parte, se si mette a disposizione della squadra, se aiuta il compagno, rispetta l’avversario. Il gruppo è una scommessa sancita dal primo fischio dell’allenatore, è una probabilità, è il lavoro costante sul campo. A Scampia, per molti scempio dello spazio comune, luogo simbolo del vuoto, lavorare con i ragazzi sul concetto di “casa di tutti” è una sfida al sistema. È credere che in quelle teste matte, vagabonde, ossessionate dai sogni, non manchi la rotella del ragionamento. Si entra in campo insieme, si esce insieme, si raccolgono le bottiglie vuote, non si rompono le docce, non si sporcano i muri, intasano i bagni. Quel che conta non è che tutto quello appena descritto si avveri, non è la pulizia e l’ordine, è la voglia dei ragazzi di rispettare il luogo in cui svolgono gli allenamenti, perché lo sentono proprio, lo sentono una casa. “Questo è il mio campetto, indipendentemente dal fatto che io giochi, che io mi alleni, che io frequenti questa scuola calcio.” La battaglia più grande con i ragazzi del nostro quartiere la si affronta tutti i santi giorni sul concetto di giustizia. Sul concetto di giustizia fai da te, giustizia delegata alla criminalità. “Io ti mando, io appartengo, io conosco”, paradigmi infami che anni58


chiliscono il valore della giustizia nelle menti dei ragazzi. Io sono forte perché abito lì, tu mi rispetti perché il mio rione fa paura, io ti schifo perché il mio isolato è contro il tuo. Sottoregole bugiarde, subcultura mischiata ad ignoranza. Chissà quanti di voi leggendo queste righe si staranno chiedendo “e una scuola calcio fa tutto questo?” No, ma si prova insieme a farlo. E lo si fa con l’umiltà del probabile fallimento. Tre allenamenti settimanali non competono con migliaia di ore passate per strada, ma certe volte una parola, un gesto, e perché no, anche un libro, possono inaspettatamente cambiarti la vita. In questa società pompata di pubblicità, individualismo sfrenato, logica del possesso, lavorare sul problema consumismo diviene quantomeno necessario con questi nostri ragazzi. La bellezza non sta nelle scarpe della Nike, nell’abito firmato, ma prodotto in Cina, sottopagando gli operai. Un cappello non vale tanto perché costa tanto, io non ti rispetto per gli zero del tuo conto in banca, per le scarpette all’ultimo grido che indossi, io ti rispetto per il sale che hai nella zucca. Cavolo ragazzi, i vostri compagni hanno perso la vita su questi motorini veloci e ancora ci crediamo miti senza il casco, ancora crediamo che il ciuffo e il vento tra i capelli innalzi le possibilità d’incontrare una bella fanciulla? Oh, piccole donne del nostro quartiere, mostrate a questi bambini amanti del calcio, che oltre l’SH, cercate qualcos’altro. Ci sono due cose che fanno letteralmente imbestialire i ragazzi. Il chiedergli di fare qualcosa senza dargli spiegazioni e vietargli un’azione senza proporne un’altra. S’incazzano tremendamente quando gli dici “questo non si fa e basta”, quando noi stupidi grandi cancelliamo la bellezza dei perché. Quando noi stupidi grandi regaliamo nozioni preconfezionate a questi bambini invece di condurli ad una soluzione tramite il ragionamento. “La coca cola non si beve e basta. Il perché non ve lo dico perché non sono cose da bambini, perché non capireste.” Meglio un ra59


gazzo scosso dalla verità, ma consapevole delle proprie azioni, piuttosto che un automa tredicenne obbediente ed incosciente. Abbiate pazienza adulti e mister, dedicate il vostro tempo alla spiegazione, riempiamo insieme il libro dei perché. I ragazzi si esauriscono quando al veto imposto non gli viene concessa la possibilità dell’alternativa. Questo avviene perché abbiamo paura di costruire con i bambini, abbiamo paura di dire “i film al cinema fanno schifo, creiamo un nostro cineforum alla scuola calcio”, abbiamo paura di dire “la frutta OGM è vergognosa, scaviamo la terra e facciamo un orto all’Arci, nel nostro cortile”. Noi abbiamo ancora paura di consegnare buone pratiche e futuro nelle mani dei nostri figli, abbiamo paura di farli partecipare e contribuire al cambiamento. C’è un momento nella lunga trafila di categorie, in cui ragazzi vengono colpiti da una sottile membrana di malinconia. È il preciso istante in cui la fine della carriera alla scuola calcio si avvicina. Quando le ultime partite da Allievi sono una realtà non lontana. Quando si scopre che forse non si diverrà calciatori e che poi in fondo a scuola non siamo proprio delle cime. Due anni fa, grazie al progetto “Campioni nella Vita”, alcuni ragazzi della scuola calcio Arci Scampia ebbero la possibilità di sperimentarsi con una professione. Ebbero la possibilità di apprendere un mestiere: il pizzaiolo. Eterno mestiere napoletano. La mattina corso a base di impasto e mozzarella nel Centro Sportivo e poi il pomeriggio sul campo a correre e sudare. Quello fu un momento straordinario. Negli occhi di quei ragazzi vedevi la luce della possibilità, dell’opportunità, il credere che non si è soli in questo mondo, che la società che hai intorno ti sostiene. Fu chiaro il discorso: “Non diventerete calciatori, ma forse riuscirete ad essere buoni pizzaioli, riuscirete a lavorare in questa città orfana di salari.” Gli Allievi 1993 che parteciparono al corso, che dedicarono le loro mattine all’apprendimento, piuttosto che all’ozio, giunsero sino alle semifinali del campionato regionale. Ad 60


un passo dal titolo, classificandosi tra le prime quattro squadre della Campania. Esultammo tutti, eravamo orgogliosi di loro. A giugno, sera afosa d’estate, mi recai in pizzeria per un pollo ed una marinara, indaffarato e sporco di farina, nascosto tra pile di cartoni e piatti giganti, vidi Toscanesi, uno dei nostri allievi. Non dissi nulla, non mi feci notare, ma il mio cuore esultò. E per l’amor del cielo, tutto quanto appena impresso su queste pagine può sembrare un sogno irrealizzabile, l’ennesima utopia scritta, pronunciata e mai realizzata, ma perché non provarci? Perché arrendersi prima di aver provato, prima di aver lanciato disinteressatamente il seme del cambiamento nelle fertili meningi dei nostri impavidi giovani? Tutto quello che può attenderci è il dispiacere di non esserci riusciti, ma mai ci colpirà il rimorso che attanaglia chi non tenta. I nostri ragazzi lo sanno bene, indipendentemente dalla carta, dall’altezza, dalla fama e dalla forza degli avversari, si scende lo stesso in campo, perché come i profeti del football ci ricordano “il pallone è rotondo”.

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Mamme semplicemente Mamme

Benzina e pilastro di una scuola calcio di maschi.

In fin dei conti il calcio è fantasia, un cartone animato per adulti. Osvaldo Soriano

O

nnipresente la signora Nappo siede in tribuna a guardare il nipote. È lì da dieci anni. Prima col figlio e poi con i nipoti. Il tempo è passato, ma lei è sempre lì, seduta, con le mani l’una dentro l’altra. Ricoperta da sottili stoffe di fiore in estate e grossi cappotti d’inverno, osserva un pezzo della sua famiglia in campo. Le sue gambe anziane ne hanno macinati di chilometri, i suoi piedi stanchi ne hanno calpestati di campi, in giro per tutta la Campania. Ormai esperta, protesta per fuorigioco non fischiati, per le entrate violente, per tutte le volte che stupidi papà vogliono per i figli la carriera che non hanno mai avuto. Nascoste tra le rughe di quel volto familiare a molti ci sono decine di partite, tra le sue mani che lanciano applausi l’ansia e la sofferenza di tante sfide, in quella voce rauca, fusa con la lava del Vesuvio e il tufo giallo, la speranza di vedere uno dei suoi bambini in Serie A. Ciò che colpisce però è il sorriso, quel riso arcano, impastato con l’argilla dei pastori e il profumo delle pizze fritte dei vicoli, in quel sorriso c’è la costanza delle mamme di Scampia. 62


Stupido colui che pensa che una scuola calcio viva grazie agli uomini. Stupido colui che pensa che il motore abbia il sesso di Adamo. Invisibili per chi vede nel calcio solo uno sport dove ventidue pivelli rincorrono una palla, le mamme di Scampia, le mamme dell’Arci Scampia sono benzina e pilastri. Bisognerebbe con un elicottero alzarsi in volo, allontanarsi dall’ansia del venerdì, dalla fretta degli allenamenti, per scorgerle, sparse qua e là, tra il bar e le reti del campo. Ci sono immagini che come istantanee andrebbero incollate nell’album dei ricordi. La mano della mamma che stringe quella minuscola del figlio mentre attraversa la strada per giungere sul campo, quella stretta forte, luccicante per la fede, stretta protettiva. La mano stanca che penetra tra i rombi della rete, mentre si attende il “tutti sotto la doccia” del mister. La mano tremolante della mamma che firma il cartellino. Gli occhi di mamma che guardano in un punto indefinito, mentre la mente vaga tra il cosa cucinare a cena e le ansie per i figli. Sono le mamme stufe, infreddolite, che si riposano, che si divertono, che inciuciano, mamme capere, che odiano il calcio, che ne sanno più di un uomo, che non vogliono perdere, che urlano sugli spalti, che si dimenticano gli orari delle partite, che fanno sempre tardi, che si preparano eternamente, che non si preparano per niente, sono loro la linfa nascosta della scuola calcio Arci Scampia. Quell’elisir di protezione e amore, che lento sale dalle viscere del cuore fino alle foglie calciatori dell’albero Arci. Mamme vicine che si proteggono dal freddo nei lunghi e bui pomeriggi d’inverno, mamme che si stringono intorno ad un caffè, mamme che lavano i figli sotto docce improvvisate tra il vapore e decine di calzini, mamme che asciugano pisellini, piedini, teste che hanno fatto gol. Per molti la scuola calcio finisce quando il campo chiude, quando si stringe la mano al mister, dopo l’arrivederci, il “ci vediamo domenica”, ma non per le mamme. Nel silenzio delle mura domestiche strofinano calzettoni sporchi di fango, stirano ma63


glie sudate, stropicciate, rammendano, puliscono scarpette incrostate, preparano le borse (anche se non dovrebbero). Portano le borse anche se non dovrebbero. E mentre il papà alle tre del pomeriggio, di domenica, dopo la partita del figlio, siede in poltrona pronto per la partita del Napoli, la mamma è ai fornelli alle prese con il ragù: marito e figlio devono pur nutrirsi, anche se l’attaccante di casa si è mangiato tre gol. Mamme che stringono amicizie, che vanno al mare insieme, mamme che si incontrano perché si incontrano i figli, che parlano per ore raccontandosi ciò che un uomo non potrà mai capire, mamme che si lamentano sempre, mamme motore di un quartiere martoriato dalla camorra. Quartiere donna, dove i maschi escono la mattina e ritornano la sera. Mamme che tengono d’occhio i figli, che tolgono dalla strada i figli. Straordinarie mamme che si sfogano alle feste, mentre il presidente Piccolo ricorda i successi e Mister Patanella balla sotto il palco. Mamme a sedici anni, mamme che hanno quattro figli a venticinque anni, mamme che il venerdì vanno al colloquio alle sei del mattino, che lavano le scale, mamme che con coraggio e umiltà ammettono di non avere i soldi per pagare la retta. Mamme che l’8 marzo scendono in campo, mamme che sfilano, che si fanno guardare, sempre in tiro, unghie perfette, permanente, colpi di sole, colore, meches. Mamme che riempiono di baci i figli adolescenti che non vogliono, che ancora vogliono accompagnarli sul campo a quattordici anni, che li chiamano Principino, Cucciolotto, Tesoro mio. Mamme a cui dobbiamo dire Grazie. Mamme che non bastano i gol che facciamo, che non bastano le coppe, che non bastano gli sguardi, le righe appena scritte. Mamme che non sapremmo come fare senza voi. Mamme che non vi fermate sennò si ferma la scuola calcio, mamme non vi scocciate sennò mi offendo, mamme fidatevi di noi che abbiamo capito, mamme ci siamo innamorati ma voi siete sempre 64


le numero uno, mamma mi serve un euro per la pizzetta ma dopo ti do un bacio, mamma ormai sono grande per gli schiaffi ti fai male tu. Mamma il calcio non è un gioco scemo lo sai pure tu. Mamme semplicemente mamme.

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Arrivati a questo punto

Voli arancioni e scatti con Santa Maradona.

Se puoi sognarlo, puoi farlo. Walt Disney

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utti i bambini vorrebbero giocare in trasferta. Per trasferta non intendo giocare a pochi chilometri dal campo di allenamento, non intendo andare ad Arzano, Ponticelli, Barra, in provincia, magari ai confini della regione Campania. Per trasferta intendo il “viaggio”, il dormire fuori casa, il confrontarsi con altri ragazzi di altre città. Confrontarsi con chi parla un dialetto diverso dal nostro. Ciò non avviene sempre, è difficile organizzare un viaggio, è costoso per le società e le famiglie, ma ci sono alcuni tornei che magicamente danno queste opportunità. Nel 2003 in tutto il mondo venne organizzata la manifestazione Fox Kids Cup. Non ho sbagliato a scrivere, la manifestazione venne organizzata in tutto il mondo, in tutti i cinque continenti, coinvolgendo migliaia di bambini di diversi colori. Qualcosa di grandioso, geniale, un torneo che accendeva mille fantasie nelle menti dei ragazzi. La Fox Kids Cup venne organizzata anche in Italia, anche in Campania. Si prevedevano fasi regionali, poi nazionali e infine i 66


vincitori partecipavano alla finalissima internazionale. Nel 2003 parteciparono alla manifestazione anche i ragazzi 1990/1991 della scuola calcio Arci Scampia, gruppo guidato da Salvatore Barrelli. Tra i titolarissimi Raffaele Chianese, il portiere Giuseppe Brasile e il difensore De Falco. È vero che l’importante è partecipare, ma alcune volte la scintilla del sogno perpetuo arde in direzione di un’impresa. I ragazzi di Mister Barrelli stracciarono letteralmente le fasi regionali. Vinsero meritatamente il torneo della regione Campania. E diciamoci la verità, questa è già una gran bella soddisfazione. Cavoli, si parte, si va a Roma, si rappresenta un’intera regione. Migliaia e migliaia di ragazzi campani. Credo che la frase “arrivati a questo punto ce la giochiamo” balenò nella mente di tanti addetti ai lavori, ma soprattutto prese piede nelle giovani rivoluzionarie teste dei 1990/1991. Partita dopo partita i ragazzi scalarono le vette del torneo. Girone eliminatorio, poi play off e poi i quarti che si avvicinano, la semifinale che non sembrava lontana. “Diamine ma vuoi vedere che arriviamo fino in fondo?” E fino in fondo arrivammo, giungemmo alla finale nazionale del torneo Fox Kids Cup. Dagli spalti tutti, facendo mille gesti scaramantici, sussurravano sottovoce “e no, questa volta non facciamo i cretini, siamo qua, non ci facciamo fregare. Dai ragazzi, l’ultimo sforzo”. I ragazzi non tradirono le aspettative e vinsero anche quella finale, entusiasmo alle stelle, gioia impazzita, campioni d’Italia. Ma non era il traguardo appena raggiunto a far volare alti nel cielo i cuori dei protagonisti dell’impresa appena narrata, la sola idea di confrontarsi con ragazzi di altre nazioni faceva tremare le gambe ai più. Fase internazionale a Rotterdam, Olanda, Nord Europa. I ragazzi non ci credevano, dovevano partire, dovevano prendere l’aereo, dormire in albergo, come una vera e propria squadra. Giocare con l’Olanda, la Francia, il Brasile, i campioni di mezzo 67


mondo. “Ma è tutto un sogno? Davvero devo indossare la maglietta azzurra della nazionale?” Fu un’esperienza incredibile, un’esperienza straordinaria, una di quelle che non dimentichi più, nemmeno dopo cinquant’anni. I nostri ragazzi non vinsero la fase internazionale, ma tornarono da eroi, tornarono da vincitori. Avevano rappresentato con onore e rispetto un’intera nazione in uno dei tornei più belli del mondo e l’avevano fatto partendo dal Sud, partendo da Napoli, partendo da un quartiere disastrato, martoriato, preso quotidianamente a schiaffi. Siccome a Scampia ogni errore vale doppio, ogni pecca viene amplificata, io mi sento di dire che il successo di questi ragazzi vale il triplo, il quadruplo. E non fa niente se non ha avuto lo stesso risalto sui giornali dell’ultimo morto ammazzato, non fa niente se hanno dedicato a questa piccola impresa un trafiletto in settantesima pagina, noi siamo lo stesso orgogliosi di voi, di noi, di un quartiere che non molla, che come un cactus resiste e ogni tanto, nel deserto che avanza, sboccia il fiore rosa nascosto di un’umanità che non stenta a sognare. Stesso identico percorso si verificò con la Danone Cup, con i ragazzi classe 1993/1994. Altro stupendo torneo internazionale. L’Arci Scampia dopo aver nuovamente vinto le fasi regionali approdò a quelle nazionali. Purtroppo il sogno di volare verso Parigi per le fasi internazionali si interruppe in finale, dove i nostri ragazzi persero. Poteva sembrare un’occasione mancata, uno di quei rospi che ti restano in gola per sempre. E invece la sconfitta regalò a quei ragazzi un’opportunità, un’occasione irripetibile. I ragazzi della scuola calcio Arci Scampia furono invitati a disputare una partita allo Stadio San Paolo di Napoli, partita che avrebbe preceduto l’addio al calcio di Ciro Ferrara. Bingo! Non solo la possibilità di calpestare il prato verde del San Paolo, ma addirittura l’occasione di incontrare, abbracciare gente del calibro di Ciro Ferrara. A quell’addio al calcio parteciparono straordinari 68


campioni: da Buffon a Di Livio, passando per Zidane, Trezeguet, Nedved, Cannavaro, Zola, Fonseca, Di Canio, Vialli, Zambrotta, Thuram, Bruscolotti e tantissimi altri. E festa fu! Migliaia di foto furono scattate in uno stracolmo San Paolo. E poi come una favola che si conclude nel migliore dei modi ecco arrivare in campo l’idolo indiscusso della tifoseria napoletana, il re del calcio partenopeo: Diego Armando Maradona. Il resto lo lascio all’immaginazione di chi legge. Questo è semplicemente un racconto, un ricordo, una testimonianza per tutti quelli che da Scampia hanno rappresentato la Campania, l’Italia. Sono righe che sottolineano il talento dei nostri giovani, la classe straordinaria della scugnizzeria bianco rossa. Queste parole ci raccontano di ragazzi che si sono uniti, attenti sotto la guida del proprio mister, ragazzi che si sono scrollati di dosso pesanti marchi, per giungere verso obiettivi inaspettati, per trionfare insieme nonostante tutto.

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Andava fatto

Randagi e siringhe lasciano posto a cinquecento bambini.

I miracoli sono sogni che diventano luce. Alan Drew

S

i possono avere passione, grinta, entusiasmo e ottimismo, ma per trasformare semi in fiori c’è bisogno dei luoghi. Dei posti in cui far crescere serenamente chi ne ha bisogno, posti in cui giocare, divertirsi, stare con gli altri, in tranquillità. Negli anni alla scuola calcio Arci Scampia è sempre mancato un posto, un luogo sognato, da progettare, da far crescere, luogo per ospitare, luogo dell’accoglienza. Io me lo immagino Mister Piccolo la sera nel letto che pensa, che guarda il soffitto e immagina un centro sportivo, un luogo all’altezza dei giovani del quartiere. Io me lo immagino Mister Sagliocco mentre a lavoro tra mille problemi segna su un pezzo di carta improvvisato idee e cose da fare. Io me lo immagino Mister Uccella che alla luce di una calda lampada mette su carta un sogno. Dopo la costruzione di nuovi alloggi per gli abitanti delle Vele sui terreni del campetto Monterosa, dopo l’esponenziale crescita delle iscrizioni al GP di Melito, occorreva un posto grande, un posto degno delle attività della scuola calcio. Le istituzioni non 70


hanno fatto altro che promettere “noi vi daremo, noi faremo, per ora arrangiatevi così”. Quando l’Arci Scampia lasciò il Monterosa, i politici di turno dissero che avrebbero costruito un altro campo, un campetto per una scuola calcio. Ci sono voluti dieci anni. Dieci anni per avere uno stadio gigantesco che per molto tempo si allagava ogni volta che pioveva, ma questa è un’altra storia. La storia che vi voglio raccontare io è la storia di due mister che dopo l’ennesima domenica passata sui campi sono in macchina a ripararsi dalla pioggia. Mister Piccolo e Mister Sagliocco lentamente dal GP si dirigono verso le proprie case. Passano per via Fratelli Cervi, amati Cervi, partigiani Cervi. Tra le gocce di pioggia che battono dirompenti sui finestrini, i due allenatori scorgono in lontananza un campetto abbandonato, degli spalti malandati, erbacce, branchi di cani. Si fermano, scendono dalla macchina e aprono l’ombrello. Sotto una pioggia incessante guardano le rovine di un campetto polifunzionale, per terra ancora evidenti le linee di un campo di basket. I randagi si riparano dall’acqua sotto un enorme masso di cemento armato. I sogni nascono vivi nelle menti di chi ha il potere di immaginare altro al posto di ciò che vede. Basta uno sguardo panoramico per partorire un sogno. Io li immagino mezzi inzuppati indicare aiuole incolte e dire “qua facciamo un campetto di calcio a cinque per i più piccoli” e poi Mister Sagliocco che aggiunge “qua invece un campo di bocce per i nonni, magari in questa zona mettiamo su la segreteria, che ne dici Tonino?” É così che parte il sogno del Centro Sportivo Arci Scampia, ma come sempre tra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di soldi da cercare. Il progetto è fantastico, ma parliamo di recuperare un’area gigantesca, centinaia di metri quadri da riqualificare. I soldi che occorrono sono tantissimi. Nel frattempo ci si anticipa, Mister Piccolo riesce a farsi assegnare dal Comune di Napoli la zona abbandonata, luogo per tossici e segno del degrado urbano. 71


Mister Uccella, nel frattempo prepara il progetto di quello che si prevede, di ciò che si sogna. I grandi progetti si realizzano solo attraverso sinergie condivise e il Centro Sportivo Arci Scampia ne è l’esempio. Il primo ente a credere in questo magico sogno, ovvero quello di realizzare in un quartiere periferico e ad alto tasso di criminalità, un luogo vivo dove poter svolgere attività sportive e non solo, è la Fondazione Banco di Napoli. Aldo Pace e il Dottor Giannola, arrivati sul centro grazie ad una straordinaria giornalista e amica dell’Arci, Diletta Capissi, contribuiscono immediatamente ed economicamente alla realizzazione del centro. Mister Sagliocco disse ai dirigenti della Fondazione Banco di Napoli: “Dottò qua deve venire la gente!” Non sarà stato facile per quel dottore immaginare in una steppa di erbacce e macerie un luogo d’aggregazione. Ma i soldi non bastavano, così i mister sognatori dell’Arci Scampia, continuarono la ricerca di fondi e realtà che potessero rendere concreto un sogno. La Fondazione Banco di Napoli riuscì a tirare dentro il progetto la San Paolo Imi di Torino e Mister Piccolo, grazie ad Andrea Cozzolino, la Regione Campania. L’ingresso di questi due enti all’interno del progetto diede ulteriore forza ed energia agli addetti ai lavori dell’Arci Scampia. La molla che fece trasformare un sogno nato in un giorno di pioggia in concretezza estrema fu l’incontro con la Fondazione Cannavaro Ferrara. Inizialmente non ci fu amore a prima vista. Tre donne arrivarono in un gippone a Scampia, Mister Piccolo e gli altri le portarono a fare un giro per il quartiere. Fu il momento in cui si misurarono, in cui reciprocamente compresero che si poteva lavorare insieme. La Fondazione Cannavaro Ferrara si attivò alla ricerca di fondi e riuscì a trovare l’interlocutore giusto nella Fondazione Vodafone Italia. I soldi c’erano, ora bisognava trasformare il marciume in terra fertile. In breve tempo spogliatoi pieni di siringhe, erbacce, spalti pericolanti e carcasse di moto rubate, lasciarono spazio al sogno. L’Arci Scampia assistette incre72


dula alla nascita, pietra dopo pietra, del Centro Sportivo Arci Scampia. Man mano prendevano forma il campetto in erbetta sintetica di calcio a cinque, poi il calciotto, il campetto di bocce, le aiuole nuove, giganteschi spalti, posti a sedere per tutti e oltre sei spogliatoi. Fino al grande giorno dell’inaugurazione. Giorno in cui tutto è pronto, giorno in cui arrivano Fabio Cannavaro e Ciro Ferrara a dare il calcio di inizio, a fare i primi tiri in porta. Festa, festa, festa. Gioia, gioia, gioia. Che bel momento, riscatto per un intero quartiere, riqualificazione attraverso lo sport. La cittadinanza attiva recupera uno spazio e lo mette al servizio degli altri, dei bambini. Oggi il Centro Sportivo Arci Scampia è uno dei luoghi più belli della città di Napoli. È un luogo sano, dove si respira aria sincera, di sport, di educazione, rispetto e pedagogia. Nella bistrattata periferia Nord sorge un luogo di speranza ed entusiasmo. Oggi oltre cinquecento bambini si allenano quotidianamente sull’erbetta dei nostri campi. Oggi il Centro Sportivo Arci Scampia è un luogo di tutti, delle mamme che vengono a fare quattro chiacchiere, mamme che fanno ginnastica, dei papà che tra la partita a bigliardino e le discussioni senza fine si divertono, giocano la sera. Casa per nonni, luogo sicuro per tutti. C’è chi dopo tre ore di allenamento resta al Centro a giocare a ping pong, a festeggiare al bar il compleanno dell’amico. Oggi il Centro Sportivo Arci Scampia è un luogo all’altezza dei ragazzi del quartiere. Con i suoi tre campi, area per portieri, spazi polifunzionali, è un gioiellino vivo nel disinteresse generale. Raccontare ciò che significa starci è arduo, raccontare il tramonto del caldo giugno quando all’ombra della magnolia ci si rinfresca in attesa delle ferie, è impossibile. Raccontare la frenesia degli spogliatoi dopo gli allenamenti, il via vai di gente la domenica, è troppo difficile per chi scrive. Mi piacerebbe che questo racconto si trasformasse in un biglietto d’ingresso, un invito per tutti quelli che nel quartiere, in città, in Italia vogliono vedere un 73


sogno realizzato, vogliono vedere una Scampia nuova, vera. Non vi do indicazioni stradali, ve ne accorgerete dal profumo dei bambini, dal rumore dei palleggi. Oggi il Centro Sportivo Arci Scampia è più che un campo, è una casa rispettata e abitata da bambini. Io immagino Mister Piccolo che a luglio chiude solitario il Centro Sportivo. Chiude gli spogliatoi per andare in vacanza, si chiude attendendo l’anno nuovo, la nuova stagione sportiva. L’immagino passeggiare lento sulla soffice erbetta, guardare gli spalti poco prima colmi, sentire ancora i sorrisi dei bambini, le pallonate che gonfiano la rete. L’immagino ridere sotto i suoi baffi, vagare con la mentre a venticinque anni fa quando da solo, con sette bambini, diede vita ad un sogno. L’immagino girare la chiave nella serratura e dire: “Andava fatto!”

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La ricompensa è nei sorrisi

Sostenitori che diventano amici. Io ci sono perchè ci credo.

A causa dell’ingresso di grandi sponsor sembra che il denaro abbia spostato i pali delle porte. Enzo Bearzot

C

i sono certe persone che appena respirano l’aria firmata Arci Scampia vogliono assolutamente farne parte, immediatamente. Ci sono persone che vogliono contribuire, lasciare il segno, dare una mano. Ed è fondamentale per tutti quelli che ogni santo giorno spendono tempo e fatica sul campo per i ragazzi, sottolineare quanto sia importante quella mano. Quell’aiuto che permette il compiersi di tante attività. Penso alla ditta VLF che da più di dieci anni è uno degli sponsor ufficiali della scuola calcio Arci Scampia. Un’azienda che produce cuscinetti a sfera. È ovvio che il logo della VLF sulle maglie dell’Arci non porta all’azienda nessun ritorno di vendite, cosa mai possono aver in comune i cuscinetti a sfera con una scuola calcio? Niente, se non passioni e umanità condivise. Se non la voglia di sostenersi entrambe. Vale la pena aprire una breve parentesi su questa realtà imprenditoriale. Tempo fa a Napoli c’era la FAG, ditta importante con molto personale. Ditta in cui lavoravano numerose persone. Per vari 75


motivi questa azienda cessò la sua attività e molte famiglie si trovarono da un momento all’altro in mezzo ad una strada. Tre signori, Laudonia, Vessicchio e Frattasio, rilevarono le attrezzature, i macchinari e il personale della FAG napoletana, e rimisero in piedi l’azienda. Un gesto chiaro, un gesto riconoscibile, apprezzato da molti. VLF sostiene l’Arci perché ne condivide gli obiettivi, perché si riconosce in un’attività che mira al futuro, alla costruzione di un quartiere e di una società nuova, diversa, ricca di valori. I contributi delle realtà come VLF permettono ad una società come l’Arci Scampia, non solo di sostenersi, ma di essere sostegno per numerose famiglie che non hanno, in un quartiere popolare come il nostro, mezzi per permettersi una retta o un kit. A Laudonia, a Vessicchio e a Frattasio va il sincero grazie di tutti quegli allievi e genitori, che hanno la possibilità di allenarsi e far fare sport ai propri figli, di divertirsi e crescere serenamente grazie al loro prezioso contributo. L’elenco delle realtà che ogni anno si schierano al fianco dell’Arci Scampia è lungo, variegato e indubbiamente apprezzato. C’è chi contribuisce mettendo a disposizione le proprie strutture e competenze, come il Ristorante Hotel Stefano a Melito, sede storica delle cene dell’Arci Scampia, casa per tutte le squadre che giungono da altre regioni a Napoli, squadre ospitate e invitate dall’Arci. E poi la tipografia Ampa, che stampa bigliettini, distinte e scartoffie varie per la scuola calcio, sempre con dedizione e professionalità. Come dimenticare la ditta Di Palma, che quotidianamente cura il centro sportivo Arci Scampia e l’Ecolit, azienda che recupera oli vegetali usati, azienda che ha permesso al centro sportivo dell’Arci Scampia di diventare un punto raccolta oli esausti, iniziativa utile e fondamentale per tutto il quartiere. E poi ci sono tutti gli altri che contribuiscono per amore del calcio e del quartiere, l’Emme Bi di Bocchetti, la Divisat, Tecno 76


Feed, PLC System ed, ancora, coloro che nel corso degli anni sono stati fondamentali anche senza accorgersene. A questo elenco vanno sicuramente aggiunte tre fondamentali realtà che sono state determinanti per la crescita esponenziale della scuola calcio Arci Scampia degli ultimi anni. Parlo della Fondazione Banco di Napoli, sostenitrice assidua che da sempre crede in ciò che fa la nostra scuola calcio e nei sogni, sempre vivi nel nostro DNA. La Fondazione Banco di Napoli è stata la prima realtà a credere concretamente nel progetto del Centro Sportivo Arci Scampia. Ha creduto nel sogno, ha visto in un campetto abbandonato di periferia la possibilità di un altro mondo. E per questo meraviglioso incontro, connubio, è importante sottolineare la preziosa presenza di Diletta Capissi, giornalista e amica, collante fondamentale per una collaborazione sincera e duratura. Ad essa si aggiunge la Fondazione Vodafone e la Fondazione Cannavaro e Ferrara, straordinari compagni di vita, splendido incontro nel percorso della nostra scuola calcio. Loro hanno continuato ciò che la Fondazione Banco di Napoli ha iniziato. Loro sono stati tra i promotori del progetto “Campioni nella Vita”, splendido progetto che ha unito calcio, scuole e associazioni del quartiere, progetto che tra borse di studio e percorsi formativi è stato determinante per tanti giovani. Alla fine si diventa amici, penso ai momenti trascorsi insieme, ai progetti che si moltiplicano, alle cene, agli incontri, ai sorrisi. Penso a Serena, Claudia, Vincenzo, Maddalena, a chi con la propria dedizione e passione si è messo al servizio di una realtà come la nostra, a chi crede, a chi dà speranza, dà la forza di continuare. Un grazie speciale va, infine, alla Federazione Italiana Giuoco Calcio e all’Unione Italiana Sport per Tutti, compagni di viaggio, siamo orgogliosi di far parte di queste immense famiglie che rappresentano. Grazie anche all’Arci (Associazione Ricreativa Culturale Italiana), perche la nostra scuola calcio è prima di tutto un circolo Arci e ne condivide gli obiettivi, i principi, le battaglie. 77


Il perché di questo che sembra un interminabile elenco di sponsor, commerciale pubblicità, è molto chiaro: far comprendere ai genitori, ai parenti, ai bambini e agli addetti ai lavori, che c’è chi crede in una scuola calcio di periferia. Queste parole servono a far conoscere chi ci sostiene, le storie impresse nei loghi delle nostre magliette. Le facce e i nomi di tutti quelli che concretamente contribuiscono ad una stagione sportiva animata da più di cinquecento bambini. Il grazie stampato su questo foglio, sicuramente, non è sufficiente ad esprimere l’affetto e la gratitudine che l’Arci riconosce alle realtà appena elencate, credo che questi amici trovino la ricompensa dei lori gesti nei sorrisi dei bambini che calciano un pallone verso la rete.

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Altri occhi

Bambini con quattro mani e con piedi parlanti.

L’errore peggiore è pensare che quello che conta più di tutto in una partita sia vincere. Niente affatto. Quello che conta è la gloria. È giocare con stile, con bellezza, è andare in campo e travolgere l’avversario, non aspettare che sia l’avversario a farsi avanti e così morire di noia. Robert Dennis

Q

uesto non è un racconto. Questo è un invito. Una manciata di parole rivolta a tutti quelli che ogni santo giorno in piedi, dietro reti di ferro, osservano giocare i bambini della nostra scuola calcio. Queste righe sono dedicate a tutte quelle persone, genitori, nonni, mister, che nel magico rotolare del pallone vedono i dollari, vedono il successo, le tv. I bambini mi hanno insegnato, o meglio nuovamente insegnato, qualcosa che da grandi si dimentica: lo stupore. La meraviglia, la piacevole soddisfazione di superare con le proprie forze piccoli ostacoli, intoppi da lasciarsi alle spalle senza guadagnarci niente, se non la splendida soddisfazione di colpire la palla di contro balzo, al volo, di punta. I miei bambini mi hanno insegnato a guardare il calcio con altri occhi e l’hanno fatto con l’entusiasmo di chi non ha paura di fallire. Saranno forse le tv, i 79


contratti milionari, a farci dimenticare del sapore genuino del tocco di classe. Sarà che non ci interessa nient’altro che il raggiungimento dei nostri obiettivi, l’essere primi, ma a me stesso e agli altri rinnovo l’invito di innamorarsi delle piccole cose, dei piccoli gesti. In fondo, come i miei ragazzi di sette anni mi ricordano, il calcio è qualcosa di innaturale. Il sentire, accarezzare con i piedi la palla non rientrava nei piani di madre natura, nei processi evolutivi della nostra specie. Le mani le usiamo tutti i giorni, stringiamo, afferriamo, pigiamo, diecimila azioni quotidiane stancano le nostre amiche mani. Ma i piedi no, i piedi sopportano la fatica dei passi e l’insistenza della corsa, i piedi pilastri ci sorreggono e per molti questo basta. Ma chi ama il calcio chiede ai piedi di trasformarsi in mani, di avvertire l’effetto di una sfera gonfia d’aria, di domare un pallone che pesante scende dal cielo, di scaraventare con violenza qualcosa di angelicamente fermo su un dischetto. Bambini miei a voi va il nostro più grande applauso perché avete il coraggio di chiedere sacrifici di adattamento al vostro corpo, a voi bambini alieni con quattro mani, vanno i nostri sorrisi. Me lo ripeto sempre, forse noi mister e genitori siamo annebbiati dal gol, dal voler vincere, ma come non stupirsi davanti al gesto tecnico, alla rapidità di pensiero che si sviluppa nei nostri fanciulli giorno dopo giorno? Seguite quello che sto per dire, immaginate nella vostra mente il tutto come un film. Il portiere tira avanti, l’attaccante stoppa, tira e la palla va fuori. Conclusione dell’99% dei comuni mortali: fallimento. Ma ora mettiamoci nei panni di un bambino di sette anni, in una frazione di secondo deve: calcolare in quanto tempo arriverà la palla, con quale velocità e potenza, in che direzione, con quale parte del corpo bloccarla, se accudirla o respingerla, deve pensare a chi deve dare la palla, dov’è il compagno, con quale parte del piede lanciarla, con quanta forza, in che direzione. Tutto questo in un secondo. Misero, comune, piccolo secondo. E pensiamo all’attaccante che ac80


cortosi di essere solo, dopo aver constatato che nessuno potrà ricevere il pallone da lui stoppato, decide di tirare. Tirare in qualsiasi condizione pur di segnare, di concludere quello che gli altri hanno iniziato. Ci prova, la palla va fuori, deve abbassare il corpo, deve ancora imparare. Come possiamo noi adulti, chiamare tutto quello che è stato appena elencato: fallimento? È un successo diamine! - un grandissimo successo: un attaccante che si prende la responsabilità, un bambino che ci prova. Noi dobbiamo sempre e comunque applaudire chi ci prova. Perché solo chi prova sbaglia e solo chi sbaglia impara. In questi anni da mister della scuola calcio Arci Scampia, ho imparato dall’affetto di quelli con più esperienza, che un buon allenatore deve aver il coraggio di perdere. Deve avere il coraggio di dare l’opportunità a tutti. Forse sbagliamo a parlare di allenatore, questo secondo chi scrive non è il termine adatto. A sette anni non c’è niente da allenare, c’è da insegnare, forse istruttore si addice di più a chi porta appeso al collo un fischietto. Istruire viene dal latino e significa mettere insieme. In fondo ogni bambino porta dentro di sè i pezzi del puzzle necessario per diventare un campione, un buon mister muove i pezzi giusti. Istruire fa rima con costruire, mettere su, dare un impianto forte, delle basi. Ai ragazzi forniamo gli strumenti e mai dobbiamo chiedere di essere strumenti utili per la nostra vittoria personale. Io non credo che il calcio, come comunemente si dice, sia impresso nel DNA. O meglio, i bambini mi hanno insegnato che esistono diversi tipi di DNA. Esistono diversi livelli, con diversi obietti, con diverse vittorie, diverse sconfitte. C’è chi ha semplicemente bisogno di stare insieme agli altri e l’applaudiamo perché c’è. C’è chi ha bisogno di smaltire le merendine e lo sosteniamo con la frutta e le crostate. C’è chi a casa sta peggio che in campo e a lui sorridiamo. C’è chi come me ha semplicemente bisogno di stare insieme a piccoli sognatori. Forse una squadra è proprio questo, un insieme di DNA, che nonostante l’immensa 81


diversità si sanno parlare con i piedi. Ai papà e alle mamme, ai nonni e ai fratelli, scusateci quando umanamente sbagliamo, ma vi prego accompagnateci nel percorso complesso che affrontiamo insieme ai vostri figli, fate sì che la partita della domenica non sia nient’altro che un esame settimanale, un banco di prova per capire cosa non va, per segnarsi sul taccuino quello su cui bisogna ancora lavorare. Innamoriamoci noi tutti di quello che gli altri non vedono. Non chiediamo ai bambini di fare ciò che non vogliono, di essere ciò che non sono, smettiamola di imporre loro il dogma del gol. La legge del successo, del nome sul taccuino. Un passaggio, per esempio, è un atto di fiducia. Un grandissimo atto di reciproca fiducia. Consegnare la palla al compagno convinti che questi possa fare nella sua posizione meglio di noi. E l’assist: io immensamente amo l’assist, il momento in cui un bambino si trasforma in un veggente, in un architetto del campo. È lì, il numero sei, con la palla tra i piedi e nel misero spazio tra i due difensori centrali lancia il pallone. Nella sua piccola mente ha già realizzato che il compagno correrà, recupererà il pallone e lo scaraventerà in rete. L’assist è il sogno di un istante che si realizza nell’istante successivo. Come dimenticare il portiere, beffato da molti perché quando sbaglia se ne accorgono tutti, come dimenticare il bambino che infila i guanti ed eroicamente difende una linea. Uno spazio inconsistente. Difende l’ultimo fortino. Un piccolo cavaliere che diventa scudo delle bombe lanciate dagli avversari. Il portiere, ogni volta che scende nel campo, meriterebbe una stretta di mano da tutti gli spettatori, perché si assume una responsabilità, perché rischia, solo. Allora che senso hanno queste frasi poetiche scritte in quello che nemmeno abbiamo definito un racconto? Cosa vogliono trasmettere a chi legge? Spero possano essere occhiali, occhiali per vedere con altri occhi. E a me che mi appresto a concludere con un punto questa pagina ricordo sempre che la vera vittoria è fi82


glia di una lotta collettiva e non frutto della rapina di un fuoriclasse. A me ricordo che il calcio resta e per sempre resterĂ un gioco e che il vero mister, quello amato, al di lĂ dei risultati, delle vittorie, porta sui volti dei bambini il sorriso. Tutto il resto sono chiacchiere da bar.

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Il diritto di non essere un campione

Storia di una scelta. Ringraziamenti, promesse e primavere.

Odio chi trova la colpa nella sconfitta. La sconfitta è un dono non richiesto, accresce lo spirito e forgia l’anima. Mario Kempes

E

ra una sera di luglio quando Mister Piccolo chiamò mio padre. Mentre ascoltava, il mio papà cambiava faccia, sorrideva, gli occhi gli si illuminavano. Mise giù. “Sei un calciatore del Napoli.” Ero felice, molto felice, per gli amici, per i miei genitori, per me stesso. La sera nel letto come ogni buon bambino amante di calcio, sognavo gol impossibili al San Paolo. Durò giusto il tempo di qualche allenamento, e poi, a dodici anni, di mia spontanea volontà, senza pressioni, decisi di ritornare all’Arci Scampia. L’ambiente della Società Sportiva Calcio Napoli non faceva per me, quei ragazzi non facevano per me, quello non era il mio sogno. Ricordo che Mister Piccolo mi disse: “Tutti mi chiedono di rimanere al Napoli ad ogni costo, anche in panchina, anche in tribuna e tu dopo neanche un mese, vuoi ritornare di nuovo qui, al GP?” Sorrisi e dopo due minuti ero di nuovo su quel campetto di terra battuta a correre al fianco di Vincenzo Mele, fidato compagno di mille avventure. Mi sentivo bene, 84


mi sentivo parte integrante di un gruppo. Da lontano Mister Mele mi guardava, sotto i baffi rideva e per me quell’accenno di gioia valeva più di qualsiasi maglia titolata. Furono mesi difficili, c’era gente che continuava a dire “questo è scemo”, tiene le possibilità e non le sfrutta. In macchina con Vincenzo e Mister Mele giravamo l’Italia, la Campania, facevamo provini su provini, partite su partite e la sera nonostante tutto, mi sentivo bene. Quella maglia biancorossa, la fascia di capitano, l’appartenere alla squadra del mio quartiere, nella mia testa da dodicenne valeva tantissimo. In seguito ci furono contatti con il Lecce, ma in Salento giocai malissimo e non bastarono i complimenti di Pantaleo Corvino. Poi ci fu l’Ascoli che venne fuori pochi giorni dopo la morte di mio nonno Giuseppe e nemmeno ci andai. A dicembre, a quattordici anni, il Pescara Calcio, squadra di Serie B, ci chiamò. Andammo nelle terre adriatiche, andammo a vedere la scuola, il collegio, i campi. Partii il 6 gennaio, pioveva in modo incredibile. L’amico Rosario Battaglia, alle sei del mattino, puntale, sotto il mio palazzo, mi abbracciò e mi disse: “In bocca al lupo”. Sentivo che potevo farcela, che potevo resistere, lontano da tutto e da tutti, pensavo di poter competere calcisticamente con quei ragazzi che avevo visto all’ultimo provino. Ma non fu così, non ci riuscii e senza dire una parola ammisi il fallimento e ritornai a casa. Fallire aiuta a crescere, fallire è una mano che ti spinge a rialzarti. Notavo negli sguardi di tanti, note di delusione e fastidio nei miei confronti. La mia famiglia mi incitava a ripartire, a provarci nuovamente. Ma non volevo. C’è una cosa che voglio scrivere assolutamente in questo libro, una cosa che come allievo e uomo non dimenticherò mai. Nel delirio generale, mentre mio padre discuteva con l’osservatore Giuffrida, Mister Piccolo mi prese da parte e nel silenzio di Scampia mi disse: “Non pensare a nessuno, non pensare a quello che dicono, alle promesse che fanno, ai sogni che ti danno in pasto. Tu ci vuoi andare a Pe85


scara?” Risposi di no e lui fece tutto il resto, parlò con mio padre, con Giuffrida e sottovoce, quasi nell’orecchio, mi ricordò che domenica c’era una partita importante e che dovevamo vincere. Beh, in quel momento non mi sentii solo, in quel momento seppi su chi contare, seppi che c’era qualcuno che metteva il ragazzo davanti al calciatore. E per questo te ne sarò infinitamente grato Mister Antonio Piccolo. Nei mesi che seguirono ci furono amici, papà di amici e semplici conoscenti, che riversarono tutta la colpa di quel fallimento sulle spalle di Lena, mia amata Lena, compagna di vita. È tanto che desideravo scrivere queste righe, spiegare a tutti che Lena non è stato un ostacolo. Che quel fallimento è figlio di un quattordicenne che non riesce a star lontano da casa, che Lena mi ha sempre invogliato, mi ha sempre invitato a coronare il mio sogno. Tutto qui. E a chi dice che le donne stroncano la carriera ai calciatori, io dico bugiardi. Bugiardi perché l’amore, i sorrisi e i piccoli sguardi, valgono più di ogni finale. Niente di più bello è comparso all’improvviso nella mia vita come il dolce e giovane viso di Lena. E poi si sa, noi maschi facciamo i duri, ma nelle serate fredde d’inverno, avvolti nei giacconi dell’Arci Scampia, amiamo starcene in silenzio avvolti negli aliti caldi delle nostre amanti. Lena, se il prezzo da pagare per averti sono state le scarpette al chiodo, benedetto il giorno in cui ho impugnato il martello. La mia carriera si chiuse a Giugliano, ultima avventura Allievi Nazionali, insieme a Mele e Flaminio. Palermo, Bari, Lecce, Reggina, Catanzaro, avevamo calpestato campi importanti, partecipato a sfide stupende. Avevamo girato l’Italia felici e spensierati. Ci eravamo sentiti imbattibili. A giugno, a sedici anni, dissi a me stesso basta. Stop. Mi guardai intorno e senza far troppo rumore, conclusi che io volevo andare a scuola, che io, in fondo, amavo il calcio, ma non volevo fare il calciatore. Mi dissi che avrei sorriso di fronte a qualsiasi accusa, ingiuria, sguardo arrabbiato o mi86


naccioso e così ho fatto. Così ho fatto fin quando ho ribussato alla porta della scuola calcio Arci Scampia, per mettere le mie competenze al servizio delle nuove leve. “Vorrei dare una mano dove serve, caro Mister Piccolo.” “Sei il benvenuto.” “Grazie.” “Ricordati che il calcio è bello a tutti i livelli.” Quest’ultima frase è impressa dentro di me, il calcio è bello a tutti i livelli. Perché ho raccontato tutto ciò, tutti questi ricordi, aneddoti, che forse poco interessano ai più? Per dire semplicemente grazie, grazie a Mister Mele, per me un secondo padre, grazie a Mister Piccolo che mi ha insegnato i valori profondi del calcio. Grazie all’Arci Scampia che mi ha formato prima come uomo e poi come atleta. Grazie perché mi hai fatto amare il mio quartiere, perché con te l’ho difeso con una seconda pelle bianco rossa. E per tutti quelli che ci sono rimasti male, per tutti quelli che mi reputano uno stupido, che se fossero stati i miei genitori non mi avrebbero mai permesso di abbandonare queste mie fortune, i treni che passano una sola volta, a questi dico che mi sono avvalso del diritto di non essere un campione. Che ho avuto il coraggio di scegliere la mia strada, che scegliere fa crescere, che ogni tanto bisogna fermarsi e capire cosa si vuole veramente dalla vita. Fare tutto questo a sedici anni, mentre tuo cugino muore assassinato dalla camorra, non è facile, ma ti fa sentire infinitamente uomo, uomo di queste terre di cemento armato. Grazie anche a mio padre, che da me non ha mai preteso nulla, che mi ha detto sempre prima la scuola e poi il calcio, frase che ripeterò ai miei figli. Grazie a mio padre che dagli spalti non ha mai urlato, non ha mai preteso che io diventassi calciatore. Grazie a mia madre che si è spaccata la schiena sui calzerotti sporchi di fango, sveglia impeccabile delle mie trasferte. Grazie perchè, nonostante di calcio tu non capisca nulla, ti sei sacrifi87


cata per me, affinché io facessi sport, stessi insieme agli altri. Grazie perché lo hai fatto disinteressatamente. Grazie a Lena, perchè mi fai sentire ogni giorno il tuo campione. Perchè mi fai sentire il tuo Denilson nel campetto più squallido del mondo, che ad ogni gol, bello o brutto che sia, attendi un cenno, un bacio tra le reti arrugginite. Grazie a mio fratello Antonio, sognatore speciale, che insegui testardo i tuoi obiettivi, che nei momenti bui, tristi e difficili, mi hai sostenuto invitandomi a palleggiare con te. Grazie per avermi fatto capire che chi non arriva in Serie A non è un fallito, grazie per avermi riportato all’Arci Scampia. E nuovamente ti ricordo che comunque vada sarà un successo. Mentre scrivo queste parole, candida e soave, suona la melodia di Morricone, la colonna sonora del film “Nuovo Cinema Paradiso”, suono marziano, macchina del tempo, proiezione nel futuro. Non so se riusciremo a vedere i progressi, i fiori che sbocceranno, il risultato di ciò che ora stiamo seminando tra questi ragazzi definiti da molti difficili. Non so se ce ne renderemo conto, se faremo parte della “Primavera Umana” di Scampia, ma questa è la nostra parte e in queste terre annichilite da una mentalità camorrista fare le propria parte, farla bene, a testa alta, con coerenza e impegno, con fatica e sorriso, è un flebile atto rivoluzionario. Sarà il tempo a parlare per noi, saranno i prossimi venticinque anni di scuola calcio Arci Scampia, saranno le migliaia di ragazzi che giocheranno sotto le ali dell’airone a dirci chi siamo, dove siamo arrivati, quanto leggendari e forti sono i baobab da noi piantati, quanto è vera la speranza da noi annaffiata. E se ciò che abbiamo ora, se questa realtà sincera che viviamo tutti i giorni, è il risultato di un gruppo generoso di uomini che si è battuto per il proprio quartiere, per i propri figli, per la propria dignità, a noi non resta altro che continuare a credere, avere fede in un pallone. A noi non resta altro che scendere in campo, sotto la pioggia, col freddo, ogni pomeriggio e metterci a dispo88


sizione del futuro del nostro quartiere. Allenare la “Primavera Umana” di Scampia. Questo libro in fondo è una promessa dei giovani ai maestri. A quelli che senza pretendere niente in cambio ti hanno insegnato ad avere rispetto di te stesso e degli altri. A loro, straordinari mister, con venticinque anni di partite, esperienze, fischietti, ragazzi, rigori, falli ed espulsioni, promettiamo di esserci. Punto e basta, di esserci. E forse questa è la vostra più grande vittoria. A tutte le mamme, a tutti i ragazzi, nonni, fratelli e papà, a voi chiedo di credere insieme a noi che questo libro è solo un capitolo di una splendida favola. Il cuore brilla se penso che i miei figli cresceranno nello stile Arci Scampia, in quello stile d’onestà, ribellione e sport. Appuntamento tra venticinque anni…

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Postfazione

Sognare è a costo zero

Quando si dice periferia bisogna sapere lontano da chi e da dove. Felice Pignataro

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iò che colpisce nel libro “Sotto le ali dell’airone” di Rosario Esposito La Rossa” è l’intreccio tra la trasformazione urbana e sociale di un quartiere, Scampia, e la storia di un’aggregazione di uomini, di donne, di ragazzi e bambini, che crescono e fanno crescere nel territorio la scuola calcio Arci Uisp Scampia. Rendendola riconoscibile agli occhi dei più, agli occhi di chi non vuole guardare al fatto che, al di là del centro urbano, esiste una vasta e vicina periferia che esprime una grande vitalità nell’associazionismo sociale e culturale. È la storia di un vissuto, di un impegno sociale e di una vittoria sul campo, vinta in pieno dalla scuola calcio Arci Uisp Scampia. E Rosario Esposito La Rossa descrive questa storia con passione e dovizia di particolari di chi ha vissuto da testimone la costruzione del progetto del centro sportivo, prima come allievo calciatore e poi come mister, allenatore dei pulcini. Traspare netta la funzione della scuola calcio e l’esperienza formativa vissuta su quei campetti del quartiere a contatto con i suoi mister. Una storia costruita, mattone dopo mattone, in venticinque anni di attività con 91


fondamenta e pilastri di acciaio, frutto di un’attività ed un impegno pervicace in un quartiere dove tutto si può disperdere e confondere con il degrado più diffuso. E invece l’Arci Scampia è diventata un faro, un segno forte e un tratto saliente di “riconoscibilità” del quartiere alla stregua di importanti segni ed elementi architettonici, che contribuiscono a rendere più identificabile un territorio. Scampia è un quartiere cresciuto a dismisura in un unico continuum di case e con tantissima popolazione che vi risiede. Dal terremoto del 1980 in poi, nel quale come in un frullatore sono confluite e confuse, mischiandosi e trasformandosi, diverse identità sociali rionali, tra quelle storiche e quelle meno storiche, tipo il rione Monterosa dell’Ina Casa con il nuovo insediamento della 167. Non a caso l’esperienza della scuola calcio parte proprio dal campetto del Monterosa, grazie all’intuito di Antonio Piccolo, attualmente presidente della scuola calcio, impegnato a tempo pieno insieme a tanti altri dirigenti ed allenatori, a tutti coloro ai quali, nel volume, Rosario riconosce il valore e lo spazio che meritano, descrivendone così bene per ciascuno, le qualità umane e l’energia. È la storia dunque di un percorso e di un approdo felice del progetto di recupero di una struttura sportiva abbandonata e vandalizzata, figlia del terremoto del 1980, affidata in gestione dal Comune di Napoli all’Arci Scampia. L’obiettivo principale di Piccolo, dei due Carlo, Sagliocco e Uccella, in totale dei trenta volontari che vi lavorano, è stato proprio quello di puntare alla riqualificazione di questa struttura. Idee insomma che diventano progetti, ma si sa i progetti, per realizzarli, hanno bisogno non solo di energie, ma soprattutto di risorse economiche e di sostegni istituzionali. Parte, dunque, un lavoro parallelo di ricerca di sponsor pubblici e privati, ma anche di semplici sostenitori per intervenire sulla struttura che versava in uno stato di totale fatiscenza e degrado. E mentre si iniziava a ridisegnare il progetto architettonico, prendeva contemporanea92


mente corpo il sogno di avere a disposizione un centro sportivo attrezzato dopo tanti campetti sottratti ai ragazzi per far posto ai brutti edifici. Anche qui l’intreccio tra bisogni delle famiglie dei ragazzi di avere una casa e la voglia dei ragazzi di giocare su quei campetti, simboli di libertà, si confondono. A prevalere però è sempre il bisogno di costruire case e sempre case! Si scorge insomma nella storia raccontata da Rosario un filo conduttore che accomuna questi uomini e donne che hanno creduto fermamente nel progetto: una visione collettiva, quell’energia che ti fa puntare in alto, costi quel che costi. Dovercela fare per assicurare “a questa famiglia allargata di allenatori, genitori, uomini, donne, ragazzi e ragazze, bambini” un centro sportivo attrezzato, che possa permanere nel tempo. Unita ad una politica di buona pratica che viene messa in campo: mostrare il progetto di recupero della struttura insieme allo studio di fattibilità. Chiedere a quanti ci avrebbero creduto di fare un investimento nel sociale, senza chiedere di andare oltre le risorse stabilite, una scommessa che principalmente gli attori di quel progetto volevano vincere e realizzare. E i risultati non si sono fatti attendere, oggi il Centro Sportivo Arci Uisp Scampia di Via Fratelli Cervi è una struttura sportiva molto attrezzata, ha più campi da gioco e un campo di pallavolo, è frequentata da oltre cinquecento ragazzi. Un investimento su cui hanno creduto in molti: gli enti locali, alcune fondazioni bancarie, la fondazione Ferrara-Cannavaro, alcune imprese che operano nell’area napoletana. Un grande ringraziamento va all’Istituto Banco di Napoli Fondazione, al suo presidente, professor Adriano Giannola, ed all’intero consiglio di amministrazione della Fondazione, che, sin dal primo momento, ha sostenuto il progetto della struttura sportiva. Una particolare gratitudine va anche al suo direttore generale, il dottor Aldo Pace, che non solo ha intravisto i germogli del progetto ma che, in molte occasioni, ha condiviso i momenti di gioia dei ragazzi sul campo, partecipando attivamente alle manifestazioni, 93


catturando l’interesse di questi giovani attraverso aneddoti ed esperienze di vita. Così come non si può trascurare il sostegno di un’altra prestigiosa Fondazione, la Compagnia di San Paolo di Torino, che ha contribuito finanziariamente ai lavori di riqualificazione della struttura sportiva. Mentre la Fondazione FerraraCannavaro ha promosso, insieme alla Vodafone, il progetto “Campioni nella Vita” coinvolgendo proprio i ragazzi che frequentano la struttura sportiva. L’affidamento in gestione del Centro Sportivo da parte del Comune di Napoli e l’impegno sul territorio della municipalità e, non di meno essenziale, l’intervento della Regione Campania. Intorno ad un progetto chiaro si può attivare una proficua convergenza istituzionale. E la disponibilità mostrata dai privati, di alcune imprese napoletane che hanno creduto nel progetto e nelle iniziative sportive e sociali. Le attività intraprese della Scuola Calcio sono molteplici, la gestione della struttura sportiva richiede una manutenzione continua mentre ai ragazzi vanno assicurati i servizi, le attrezzature e l’abbigliamento sportivo idonei per le gare. Il centro sportivo rappresenta dunque la sintesi migliore di uno sforzo corale ed è la conferma di un impegno sociale: quando si vuole fare qualcosa di positivo, anche nelle condizioni più avverse, si riesce a farlo. Una realtà sportiva costituita da oltre cinquecento ragazzi, trenta persone (volontari, allenatori) che dedicano il loro tempo, gratuitamente, considerandolo esclusivamente come un impegno di solidarietà sociale. Senza trascurare il grande attivismo delle donne che si adoperano per qualsiasi iniziativa da organizzare. La scuola calcio promuove anche iniziative socio-culturali a cui partecipano i genitori, i cittadini di Scampia, le scuole, le autorità dello sport, del volontariato, dell’associazionismo laico e cattolico. Pur avendo, infatti, una configurazione di tipo sportivo, è stata sempre attenta alle problematiche sociali del territorio, alla tutela dei minori a rischio, per ridurre la dispersione scolastica e per contrastare la cultura dell’illegalità. Perché 94


attraverso lo sport si trasmettono valori, idee, energie vive, s’insegnano, si praticano e soprattutto si rispettano le regole del gioco e della vita. I valori culturali e le regole del gioco scendono in campo, crocevia per l’agonismo di qualità e per lo scambio interregionale di modi di intendere la passione per il calcio, che consente ai ragazzi di superare ogni barriera e di incontrarsi sul gioco: il terreno più sano che li può aiutare nella loro formazione. Conta, infatti, la storia di ragazzi che, da nord al sud, s’incontrano senza pregiudizi di sorta mettendo in campo esclusivamente i valori umani e le regole della cultura dello sport. “Perché “l’obiettivo è quello di educarli allo sport” ripetono spesso i mister della Scuola “e cercare di parlare al cuore e alla testa di questi ragazzi per aiutarli a crescere sani”. Il presidente della Fondazione con il Sud, Carlo Borgomeo, visitando il centro sportivo pieno di ragazzi, il 23 maggio 2011, ha espresso con queste parole il compiacimento per la struttura sportiva: “Mi piace constatare che l’esperienza della scuola calcio, dei ragazzi e delle ragazze Arci Uisp di Scampia, duri da venticinque anni, traguardo davvero difficile da tagliare e da mantenere, in un territorio così complesso. Sono convinto che l’inclusione sociale può avvenire attraverso lo sport, togliere i ragazzi dalla strada, abituandoli attraverso la pratica dello sport e a crescere nel rispetto della cultura della responsabilità e di quella delle regole”. Una percezione del ruolo della scuola calcio è stata ben evidenziata dalla professoressa Noemi Sensenhauser della Scuola Media Virgilio, nel corso dell’incontro con la Fondazione per il Sud: “Conosco il centro sportivo attraverso i ragazzi che frequentano la mia classe e raccontano entusiasti le attività sportive che praticano su questi campi” ha dichiarato l’insegnante. “Questa è una realtà in fermento, che riesce a sensibilizzare i ragazzi e soprattutto a non perderli di vista in un quartiere che non offre molte alternative culturali. Questa struttura è molto importante per loro perché me ne parlano tanto a scuola.” 95


“Su questo territorio ci sono oltre quaranta associazioni, è una vera rete e rappresenta un modo nuovo di stare insieme” ha continuato Borgomeo “è il sociale concepito come capacità di innovazione, lo stare insieme per costruire regole e progetti comuni. La somma di queste cose può cambiare il volto di questo quartiere. Se continuate a lavorare insieme fate massa critica, mobilitando il territorio sarete sempre più punto di riferimento, un modello da insegnare alle altre realtà e non apparire come la condanna di chi vuole che siate un’eccezione. Perché da una piccola cosa può nascere una grande cosa”. Quando nel 1981, assieme ad un gruppo di neolaureati guidati da Antonio Oliva del Formez e da Vincenzo Andriello, della facoltà di Architettura di Napoli, ci recammo a Scampia con lo studioso americano Kevin Lynch, questi si meravigliò non tanto per il degrado sociale dell’area quanto di quello ambientale: dove sono le mamme a passeggio?” si chiese “dove giocano i bambini?” Se tornasse oggi, forse strabuzzerebbe gli occhi: una parte di quelle donne partecipa alle iniziative della scuola calcio, ai tornei di calcio dell’8 marzo, ma i loro figli giocano eccome. Giocano a calcio, sui campi sintetici perfettamente attrezzati, laddove una volta c’erano solo acquitrini e aree fangose. Giocano strillando come fanno tutti i ragazzi, ma all’interno di una struttura delimitata e ben delineata; con attrezzature definite e agibili, con allenatori che li guidano sul campo e nella vita. Essere riusciti ad allestire un complesso sportivo in un habitat così socialmente scosceso è invece uno dei tanti paradossi che allignano nell’hinterland napoletano, che danno la misura di quante energie ci siano e di come tante, troppe volte, vadano sprecate perché non c’è nessuno che le sappia indirizzare. Centinaia di ragazzi giocano al calcio sottraendosi, tanto o poco non importa, ai rischi dell’illegalità presente nel quartiere e questo non è solo e semplicemente un consistente fatto sportivo: è soprattutto la conferma che lo sport può fungere da catalizzatore delle diseguaglianze, esempio 96


di competizione corretta e civilizzatrice. I ragazzi, infatti, imparano a vincere e soprattutto a perdere, sono costretti a seguire delle regole e a interiorizzarle, imparano comportamenti e apprendono abitudini che li fanno cittadini. Mai come in questo caso, dunque, lo sport fatto di un pallone che viaggia da una porta all’altra, è metafora della vita, insegnamento propedeutico al corretto rapporto con l’autorità e con l’altro. “Mi accorgo, mentre li alleno, che ai ragazzi mancano” ebbe a dire proprio Rosario Esposito La Rossa nel corso dell’incontro con Borgomeo “gli strumenti per affrontare la vita lavorativa. Ci siamo stancati di progetti calati dall’alto. La scuola calcio è un esempio di come si possa modificare questa concezione partendo da un progetto concreto: noi invece lavoriamo per mettere insieme un teatro delle periferie, da Scampia a Ponticelli. Nel quartiere stiamo costruendo una biblioteca popolare, arrivano libri da tutta Italia ed abbiamo già raccolto ottomila volumi.” Il racconto di Rosario è intenso e serrato, una scrittura sciolta e appassionata, giocata con i sapienti strumenti della narrazione che ferma e riannoda quelle immagini di ragazzi, di giovani che purtroppo, per ragioni diverse, non ce l’hanno fatta. E Rosario li ricorda tutti. A loro va dedicato questo libro. “Noi abbiamo dei sogni per questi ragazzi, alcuni di questi li abbiamo realizzati, come il centro sportivo” dicono a voce alta i dirigenti e gli allenatori della Scuola Calcio “ma ci piace continuare a sognare visto che farlo è a costo zero”. Non è un sogno, ma è una scommessa ancora tutta vincere per la scuola calcio. Sempre presente nelle loro azioni quotidiane e nei loro discorsi: “Quando ci saranno tanti spazi, piazze in cui fermarsi, parlare, raccontare, giocare… allora anche Scampia potrà dirsi un quartiere “normale”. Diletta Capissi

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CARTA DEI DIRITTI DEI BAMBINI 1) Diritto di divertirsi e giocare. 2) Diritto di fare sport.

3) Diritto di avere i giusti tempi di riposo.

4) Diritto di beneficiare di un ambiente sano.

5) Diritto di praticare sport in assoluta sicurezza a salvaguardia della propria salute. 6) Diritto di essere circondato e preparato da personale qualificato. 7) Diritto di seguire allenamenti adeguati ai giusti ritmi.

8) Diritto di partecipare a competizioni adeguate alle varie età , seguendo allenamenti che corrispondano a giusti ritmi d’apprendimento.

9) Diritto di misurarsi con giovani che abbiano le stesse probabilitĂ di successo. 10) Diritto di non essere un campione.

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Indice

Prefazione - Lui già vedeva la rivoluzione

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Eravamo solo sette Il trampoliere romagnolo Ancora rimbombano i tacchetti Avere parte La traccia vale più di tutto La costellazione delle scarpette Le uova tra i baffi Non bastano più le sedie Formare l’uomo E che vi chiamino pure streghe Protetto nel cuore un acrobatico airone Il pallone è rotondo Mamme semplicemente Mamme Arrivati a questo punto Andava fatto La ricompensa è nei sorrisi Altri occhi Il diritto di non essere un campione

15 18 21 25 28 31 34 38 42 49 52 56 62 66 70 75 79 84

Postfazione - Sognare è a costo zero Carta dei diritti e dei bambini

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SCHEDA DI AUTOCERTIFICAZIONE CARATTERISTICHE Titolo: Sotto le ali dell’airone Autore: Rosario Esposito La Rossa Formato: 14 x 21 Pagine: 100 Anno: 2011 ISBN: 978-88-88234-97-7 Prezzo: 10,00 € DIRITTO D’AUTORE Licenza: Creative Commons Percentuale concessa all’autore: 10% PRODUZIONE Tipografia: Zaccaria SRL (Napoli) Carta: Riciclata Revive Natural 100 grammi Lavoratori: 12 Tempi di realizzazione: 7 mesi Costi di realizzazione: 1700 € Software utilizzati: Photoshop, QuarkXPress, Word REPERIBILITÀ Biblioteca: Biblioteca Popolare per Ragazzi di Scampia Rete: www.marottaecafiero.it POST PRODUZIONE Utile: Gestito in modo responsabile con finanza etica Progetti: Il ricavato del libro sarà utilizzato per la costruzione di una biblioteca sportiva al Centro Sportivo Arci Scampia


Finito di stampare nel mese di ottobre 2012 da Arti Grafiche Zaccaria


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