Attraverso lo "specchio": la donna nel cinema, dentro e fuori il linguaggio degli uomini

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DELLA BASILICATA POTENZA

*** DIPARTIMENTO DI SCIENZE UMANE CORSO DI LAUREA IN SCIENZE FILOSOFICHE E DELLA COMUNICAZIONE

TESI DI LAUREA IN STORIA DEL CINEMA

Attraverso lo “specchio”: la donna nel cinema, dentro e fuori il linguaggio degli uomini

RELATORE: Chiar.mo Prof.

Manuela GIERI

CANDIDATO: Maria MARTINELLI Matr. 41166

ANNO ACCADEMICO 2013 – 2014 1

A mia madre, la prima donna della mia vita, è grazie a lei che ho imparato quanto può essere grande la forza delle donne.

A mio padre e a mio fratello Canio, da sempre i miei due pilastri nei momenti difficili.

E a tutte le donne e gli uomini, che mi hanno insegnato che essere è piÚ importante che apparire.

2

INDICE INTRODUZIONE

4

CAPITOLO I 1.1 Parliamo il linguaggio degli uomini o il silenzio delle donne?

11

1.2 Introduzione al femminismo

21

CAPITOLO II 2.1 La critica cinematografica femminista

39

2.2 Il cinema lavora per Edipo

53

2.3 Alfred Hitchcock: piacere e voyeurismo

61

CAPITOLO III 3.1 Cecilia Mangini: il cinema dei luoghi, del lavoro e delle donne

71

3.1.1 StendalĂŹ (Suonano ancora)

76

3.1.2 Essere donne

82

3.2 Liliana Cavani: tra sacro e profano

85

3.2.1 Francesco

90

3.2.2 Il portiere di notte

93

CONCLUSIONE

102

FILMOGRAFIA

111

BIBLIOGRAFIA

118

SITOGRAFIA

123

3

INTRODUZIONE

La società contemporanea è indubbiamente di tipo patriarcale e la donna, come una moderna Alice nel Paese delle meraviglie, deve continuamente farsi strada attraverso il labirinto di ostacoli e di pregiudizi che la società le impone da sempre. Tutto questo è evidente già a partire dal linguaggio di tutti i giorni. Il termine “uomo”, ad esempio, viene usato per designare il genere umano nella sua totalità. Teresa De Lauretis osserva che questo termine include anche le donne, ma solo quando queste ultime, in un dato contesto, sono percepite come esseri umani privi di genere e, dunque, come uomo. 1 Il termine “donna”, invece, è sempre marcato dal genere e quindi non può essere usato per indicare soggetti maschili. A tal proposito, la De Lauretis scrive:

Spesso i tentativi femministi di invalidare questo assunto sono rimasti impigliati nella trappola logica di tale paradosso. Alcune sono partite dal presupposto che “il soggetto”, come “l'uomo”, sia un termine generico, e in quanto tale designi allo stesso modo e allo stesso tempo il soggetto maschile e quello femminile, col risultato di cancellare la sessualità e la differenza sessuale dalla soggettività. Altre hanno dovuto ricorrere a una concezione opposta, quella di un soggetto “femminile” caratterizzato dal silenzio, dalla negatività, da una sessualità naturale o una vicinanza alla natura non contaminate dalla cultura patriarcale […] Questo soggetto femminile non è un soggetto diverso, un soggetto ingenerato o costituito semioticamente da una forma di esperienza specifica, ma può invece continuare comodamente ad essere inteso come la mera componente o controparte sessuale del soggetto generico (maschile o maschio).2 1 2

T. DE LAURETIS,Sui Generis: scritti di teoria femminista, Feltrinelli, Milano 1996, p. 102.

Ivi, pp. 102-103.

4

Da sempre, dunque, la donna è definita sulla base di un soggetto maschile e la femminilità è descritta come l'altra faccia della mascolinità. Da qui deriva la capacità delle donne di riuscire a parlare contemporaneamente il linguaggio degli uomini e il silenzio delle donne. 3 Verso la fine degli anni '60, la questione del genere diventa l'istanza principale della riflessione femminista, cioè, nel momento in cui il soggetto donna inizia ad avere piena coscienza di sé e delle proprie formazioni sociali. Il soggetto dell'enunciazione nel discorso teorico femminista è un “soggetto eccentrico”, che contemporaneamente risponde e resiste ai discorsi che lo interpellano. 4 Nel corso della Storia, il soggetto eccentrico è in costante costruzione, si reinterpreta e si riscrive a partire da un'altra concezione del sociale, della cultura e della soggettività.

«L'umanità è maschile e l'uomo definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso; non è considerata un essere autonomo […] Egli è il Soggetto, l'Assoluto: lei è l'Altro» 5, sostiene Simone De Beauvoir, la quale continua suggerendo che il soggetto maschile pone la donna come oggetto in una dimensione di alterità radicale, ma poiché continua ad avere bisogno di lei come “sesso”, per soddisfare i suoi desideri sessuali e di prole, il soggetto maschile rimane legato alla donna e così pure lei a lui, come accade nel rapporto tra padrone e servo.6 Questo è quello che Teresa De Lauretis definisce, 3 4 5 6

I vi, p. 24.

T. DE LAURETIS,Soggetti eccentrici, Feltrinelli, Milano 1999, p. 8.

S. DE BEAUVOIR,Le deuxième sexe, 1949; tr. it. di R. Contini, F. Andreose, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1984, p. 16.

DE LAURETIS,Soggetti eccentrici, p. 14.

5

significativamente, il “paradosso donna”, ovvero di un soggetto altro dall'uomo ma allo stesso tempo essenziale per la sua sopravvivenza; anche se tale bisogno è reciproco, però, esso finisce per essere sempre a favore dell'oppressore contro l'oppresso.7 Il genere, secondo Catharine MacKinnon, è la conseguenza ideologica di una modalità del sapere maschile e, per questo motivo, il genere stesso non è tanto una questione di differenza sessuale, quanto un esempio di tale dominazione. 8 Il soggetto occidentale maschile controlla la donna attraverso la sua oggettivazione e erotizza l'atto stesso del controllo. È necessario, quindi, come sostiene De Lauretis, che il pensiero femminista si soffermi sulla costruzione dell'identità della donne, che non si rivolga più solo all'esterno, ma anche e, soprattutto, all'interno verso la ricerca e la costruzione della coscienza di sé. MacKinnon scrive: «l'autocoscienza è la principale tecnica analitica, struttura organizzativa, modalità di pratica, e teoria del cambiamento sociale del movimento delle donne». 9 Secondo Teresa De Lauretis, il femminismo deve essere inteso come una pratica politica, teorica e autoanalitica attraverso la quale rielaborare le relazioni tra le donne e la realtà che le circonda. 10 Le indagini e gli studi femministi si sono sviluppati in tutti gli ambiti dell'esperienza umana, e hanno trovato un terreno particolarmente fertile nel cinema. Tra gli anni '70 e '80, infatti, nei paesi anglosassoni si è sviluppata la 7 8 9

I vi, p. 15.

Ivi, p. 16.

N.C.M. HARTSOCK,The Feminist Standpoint: Developing the Ground for a Specifically Feminist Historical Materialism, in Discovering Reality. Feminist Perspectives on Epistemology, Metaphysics, Methodology, and Philosophy of Science, a cura di S. Harding, M.B. Hintikka, Reidel, Dordrecht 1983, p. 5.

10 DE LAURETIS,Sui Generis, p. 130.

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Feminist Film Theory, ossia una vera e propria riflessione sul linguaggio del cinema, oltre che un metodo di lavoro, di codifica e di decodifica, che si interroga sostanzialmente sul rapporto tra rappresentazione e differenza sessuale. Questa disciplina ha fatto del “guardare” il suo oggetto privilegiato di indagine.

Un contributo fondamentale alla teoria culturale e visuale del cinema, viene dal saggio Visual Pleasure and Narrative Cinema (Piacere visivo e cinema narrativo, 1975) di Laura Mulvey, la cui opera ha favorito lo sviluppo dell'interpretazione psicoanalitica del dispositivo cinematografico, del testo filmico e dei processi coinvolti nella visione. Mulvey pone al centro del suo discorso lo sguardo, che è il vettore del funzionamento dell'apparato, delle dinamiche diegetiche del testo filmico e del rapporto tra schermo e spettatore. 11 Nel cinema esiste, secondo la studiosa inglese, una “relazione tra tre sguardi”, ovvero una convergenza tra il dispositivo cinematografico, il linguaggio del cinema e l'immaginario del film. La differenza di gender (genere) quindi è iscritta non solo nella rappresentazione filmica, ma anche nell'esperienza cinematografica. Laura Mulvey analizza, in particolare, il cinema classico hollywoodiano definendolo profondamente patriarcale, in quanto il piacere del guardare (la cosiddetta scopofilia) è strettamente collegato all'immagine della donna. Lo sguardo maschile proietta la sua fantasia sulla figura femminile e le donne diventano semplici oggetti di quello sguardo. Lo spettatore, poi, si identifica con il protagonista maschile e riesce, implicitamente, a possedere la donna. In Piacere visivo e cinema narrativo l'autrice usa la teoria psicanalitica 11 V. PRAVADELLI, “Le teorie di Laura Mulvey e gli studi di cinema”, in L. MULVEY, Cinema e piacere visivo, Bulzoni Editore, Roma 2013, p. 15.

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come strumento politico per dimostrare in che modo l'inconscio della società patriarcale abbia influenzato e strutturato la forma filmica. Il documento filmico riflette, rivela e mette in scena fedelmente quell'interpretazione socialmente stabilita della differenza sessuale che controlla le immagini, l'erotismo dello sguardo e lo spettacolo stesso.12 Si pensi, ad esempio, ai film di Alfred Hitchcock che sono sempre al limite tra voyeurismo e feticismo, e divengono così rappresentative di quel cinema che la Mulvey ha definito “ontologicamente patriarcale”: l'uomo è sempre dalla parte giusta della legge, mentre la donna rappresenta l'elemento di disturbo, che ostacola il libero fluire dei progetti del protagonista maschile. 13 D'altra parte, nella società contemporanea, la donna continua ad essere rappresentata e modellata secondo quello che è l'ideale del desiderio maschile. Le donne hanno iniziato a guardare se stesse con occhi maschili, perdendo così la loro identità e la loro unicità. Per poter invertire questa tendenza, dunque, è necessario costruire un cinema che parta dal punto di vista delle donne e da quelle che sono le loro aspirazioni e i loro desideri; c'è bisogno di imparare a scrivere e a raccontare le storie partendo dallo sguardo e dal vissuto delle donne.

Cecilia Mangini è stata la prima documentarista italiana del dopoguerra, ed è riuscita a farsi strada in un settore, quello del documentario e più in generale quello della regia, ritenuto solitamente di dominio maschile. Attraverso il suo sguardo sensibile e discreto la regista pugliese ha descritto la Storia dell'Italia degli anni '60 completamente trasformata dallo sviluppo industriale, ma 12 I vi, p. 29.

13 L. MULVEY, “Piacere visivo e cinema narrativo”, in MULVEY, Cinema e piacere visivo, Bulzoni Editore, Roma 2013, p. 39.

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soprattutto ha raccontato la storia delle donne che lavorano. Nei suoi documentari emerge quasi una connessione fisica che lega la regista con le protagoniste del film. La Mangini ha documentato il dolore lancinante di quelle madri che devono sopportare la perdita di un figlio, nonché la fatica delle operaie che in una fabbrica del Nord lavorano quasi dieci ore al giorno e poi a casa continuano con i lavori domestici; ma anche dello sfinimento fisico e mentale delle braccianti del Sud, che lavorano senza sosta nei campi e sognano un lavoro in fabbrica; e, infine, ha raccontato cosa significa, per una donna, sopportare i sensi di colpa che la comunità religiosa le infligge, poiché ha preso la difficile decisione di abortire. «Il prete durante la predica ci dice: non negate un'anima al Signore». 14 Temi così tipicamente femminili, vengono affrontati e raccontati, seppure in modo diverso, anche da Liliana Cavani. Definita da molti “la regista dello scandalo”, nei suoi film parla di amore, di religione, di passioni carnali, di prigioni, e, soprattutto, di donne. Anche se quello della Cavani non può essere definito un cinema femminista militante, la regista si è sempre dimostrata molto attenta verso i problemi della donna contemporanea. A tal proposito Brignoli afferma: «La donna di Liliana Cavani è un soggetto indipendente; mai vittima, è piuttosto eroe, nunzio, daimon; appassionata sperimentatrice di sé e del mondo, senza remore e risparmio; un ponte verso altro, verso il nuovo e il bello». 15 Non è un caso, infatti, che le prime donne di cui parla la Cavani siano le partigiane che liberarono l'Italia dal fascismo nel film La donna nella Resistenza (1965). A tale proposito, la regista affermò: «queste donne dimostrarono un impegno per la 14 Commento dal filmEssere Donne (1965) di Cecilia Mangini.

15 F. BRIGNOLI,Liliana Cavani. Ogni possibile viaggio, Le Mani, Genova 2011, p. 45.

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parità sessuale che allora sembrava imminente e che ancora non c'è [...] Che dispersione di energie la mancata utilizzazione dei cervelli femminili». 16 È opportuno, dunque, domandarsi cosa succede quando la donna funziona come uno specchio che riflette le altre donne. 17 Oriana Fallaci, in uno dei suoi primi libri Il sesso inutile (1961) sostiene di avere sempre cercato di evitare di parlare delle donne e dei loro problemi. Ciò che la faceva sentire a disagio era il fatto che la donna, soprattutto sui giornali, era sempre trattata come una categoria a parte, «come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico». 18 La condizione delle donne, soprattutto in occidente, è molto migliorata rispetto al passato, tuttavia, è ancora opportuno chiedersi cosa accade quando una donna realizza un film, e se una regista racconti una storia in modo diverso rispetto a come la racconterebbe un uomo.

16 B. PALOMBELLI,Il mio Galileo censurato dalla DC, «Corriere della sera», 21 maggio 2005.

17 T. DE LAURETIS,Alice Doesn't: Feminism, Semiotics, Cinema, Indiana University Press, Bloomington 1984, pp. 7-8.

18 O. FALLACI, “Prefazione”, inIl sesso inutile, BestBUR, Milano 2014, (e-book Amazon Kindle).

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CAPITOLO I

1.1 Parliamo il linguaggio degli uomini o il silenzio delle donne?

“When I use a word”, Humpty Dumpty said, in a rather scornful tone, “it means just what I choose it to mean – neither more nor less”. “The question is”, said Alice, “whether you can make words mean so many different things.” “The question is”, said Humpty Dumpty, “which is to be master – that's all”.19

Nel romanzo di Lewis Carroll The Annotated Alice (Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, 1963), la coraggiosa e sensibile Alice decide di entrare nel mondo degli specchi, che non è altro che il mondo del discorso e dell'asimmetria.20 Alice può, così, essere considerata un'eroina femminista, poiché anche il femminismo sfidò il labirinto del linguaggio, sognò e venne sognato dal Re Rosso, incontrò il suo Humpty Dumpty e il suo benevolo Cavaliere Bianco. 21 Da sempre la donna è stata definita sulla base di un soggetto maschile: c'è sempre stato un Humpty Dumpty, un capo che ha stabilito le regole del linguaggio e, sulla base di queste, la femminilità è sempre stata spiegata come l'altra faccia della mascolinità. Se guardiamo al passato, possiamo osservare infatti che, almeno in Italia, la maggior parte delle donne scrittrici erano monache o cortigiane, provenienti da famiglie nobili e colte. Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, 19 L. CARROL,The Annotated Alice, The World Publishing Company, Cleveland and New York 1963, p. 269.

20 DE LAURETIS,Alice Doesn't, p. 2.

21 Ibid.

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nobildonna veneziana, nel 1678 ottenne il dottorato in filosofia e cioè un titolo di studio sino ad allora mai assegnato ad una donna. Era la figlia del Procuratore di San Marco, il quale ne incoraggiò i prodigiosi risultati scolastici e le fece impartire lezioni di grammatica, lingue, matematica e musica. A ventisei anni si trasferì a Padova, per proseguire gli studi di filosofia, dialettica, astronomia e teologia, ma solo vicino e non dentro l'Università. A questo punto il padre, desiderando un riconoscimento pubblico dell'erudizione della figlia, fece richiesta al rettore affinché le fosse concesso di sostenere la tesi di dottorato in teologia. Il cardinale Barbarigo, vescovo di Padova e cancelliere della Facoltà di Teologia dell'Università, rispose come segue: «Come? Una donna dottore e insegnante di Teologia? Mai! […] La donna è destinata alla maternità, non al sapere». 22 Poiché all'epoca il settore accademico era molto legato alla politica, alla fine, Barbarigo, comprendo i vantaggi che ne sarebbero derivati, acconsentì che Elena Lucrezia potesse laurearsi: questa storia insegna, però, che una donna intelligente e capace riuscì a studiare solo previo consenso e per intercessione degli uomini. È opportuno, poi, ricordare anche Anna Maria von Schuurman, la prima donna a cui fu consentito di studiare presso l'Università di Utrecht, ma solo a condizione che rimanesse celata in una stanza in legno con dei fori sulle pareti, collocata a sua volta all'interno dell'aula universitaria. Contemporanea di Elena Lucrezia, Anna Maria non riuscì ad ottenere il dottorato. Altra figura significativa per il nostro discorso fu Belle van Zuylen, o Isabelle de Charrière, che visse nel diciottesimo secolo, e alla quale è stata dedicata la cattedra di professore associato 22 MONS. N. FUSCO,Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, Hunt Foundation, Pittsburgh 1978, pp.

35-36.

12

all'Università di Utrecht.23 Belle van Zuylen scriveva in francese e non in olandese, la sua lingua madre. Elena Lucrezia, Anna Maria, Belle: erano, queste, tutte donne il cui talento per le lingue, come afferma Teresa De Lauretis, si accompagnava a un difficile rapporto con il linguaggio, all'imposizione del silenzio o all'esilio linguistico. 24 Anche oggi, quella che viene vista come la donna “liberata” in realtà non lo è affatto o non del tutto, in quanto ci sono ancora sia limitazioni sia confini stabiliti socialmente. L'esempio più significativo ci viene, in questo caso, dal Premio Nobel per la Pace 2014: Malala Yousafzai, giovane donna, studentessa e attivista pakistana, la quale, celata dietro lo pseudonimo di Gul Makai (nome dell'eroina di un racconto popolare Pashtun), per anni ha scritto su un blog della BBC, documentando sia le difficoltà quotidiane delle donne sotto il regime talebano nel distretto dello Swat sia la prossima approvazione di un editto contro l'istruzione femminile. Nonostante lo pseudonimo, la sua vera identità venne scoperta e il 9 ottobre 2012 alcuni uomini armati salirono sullo scuolabus che la stava riportando a casa e le spararono al collo e alla testa. Dopo le prime cure in Pakistan, vista la gravità delle ferite, Malala fu trasferita all'ospedale di Birmingham, dove venne sottoposta ad un delicato intervento chirurgico per rimuovere i proiettili. Malgrado la lunga degenza, Malala oggi sta bene, vive a Birmingham con i suoi genitori e studia alla Edgbaston High School for Girls.

Anche lei, come le donne citate in precedenza, fu costretta a lasciare il suo paese 23 La cattedra fu istituita nei primi anni ottanta, con lo scopo di ospitare eminenti studiosi la cui reputazione internazionale e i cui metodi innovatori fossero di ispirazione per la comunità accademica. Quando possibile, il Dipartimento di Women's Studies di Utrecht fa sì che la cattedra venga assegnata a studiose femministe.

24 DE LAURETIS,Sui Generis, p. 18.

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natale e all'esilio linguistico: dalle prime righe dei post pubblicati sul blog della BBC fino agli ultimi libri e discorsi pubblici, Malala ha sempre utilizzato l'inglese e non il pakistano, sua lingua madre.

Da sempre l'attività creativa e intellettuale delle donne è caratterizzata da un nesso tra conoscenza e reclusione, scrittura e silenzio. Possiamo domandarci cosa spinga le donne a ricercare un sapere non proficuo, non scambiabile sul mercato e tanto meno permesso. Ma anche, da dove venga il desiderio delle donne per la creazione intellettuale, per i saperi formali o astratti, per la poesia e la teoria. Gli studi femministi non sono riusciti a trovare le risposte a queste domande nel passato, poiché le donne non hanno scritto la propria storia. Le donne sono state rappresentate, costruite, modellate secondo quello che è l'immaginario degli uomini e, a volte, anche attraverso immagini potenti: femmes fatales, eroine dei film noir, desiderate e dannate.

Come sostiene Teresa De Lauretis, si può affermare che esiste una contraddizione specifica e costitutiva all'interno del discorso femminista, e cioè il fatto che le donne siano in grado di parlare contemporaneamente il linguaggio degli uomini e il silenzio delle donne. 25 Affermare l'esistenza di tale paradosso, significa accettare che sia proprio il linguaggio a definire la differenza di genere: le donne sono definite dal discorso patriarcale, ma solo in esso possono costituirsi come soggetto. Non è possibile evitare tale paradosso e da qui deriva la necessità di parlare al tempo stesso il linguaggio degli uomini e il silenzio delle donne, o meglio, perseguire le strategie del discorso che riescono a dare voce al silenzio

25 Ivi, p. 24.

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delle donne dentro, attraverso e contro il linguaggio degli uomini. 26 La questione del genere, per molto tempo evitata sia dalla critica maschile sia dagli scritti delle donne, viene sollevata e resa pertinente come istanza letteraria dalla critica femminista verso la fine degli anni '60. L'esistenza delle donne è da sempre segnata da una differenza non solo sessuale, ma anche sociale, che non può essere compresa facendo riferimento a categorie come la classe o la povertà, poiché queste danno per scontata la differenza di genere. Il percorso che ha portato al femminismo non è stato affatto lineare, ma nella sua traiettoria emergono tutte le figure di quella contraddizione che lega scrittura e silenzio, reclusione e conoscenza.27 Questo permette di spiegare il senso della metafora su cui è basato il testo di Virginia Woolf A Room of One's Own (Una stanza tutta per sé, 1929), e cioè la concreta raffigurazione di uno spazio testuale contemporaneamente pubblico e privato. Questo testo, scrive la De Lauretis, produce la rappresentazione della contraddizione di un soggetto di genere femminile: l'iscrizione della scrittura nel silenzio e l'iscrizione del silenzio nelle parole e nella scrittura di una donna. 28 Da una parte, spiega ancora la De Lauretis, la scrittura della donna non può essere definita direttamente, ma solo indirettamente e negativamente. Dall'altra parte, la possibilità di parlare come donna dipende proprio dalla capacità di riconoscere tale contraddizione.29 È interessante notare, inoltre, che in nessuna parte del testo sopra citato i termini io, donna e donne si riferiscono a qualcosa di concreto, ma

26 27 28 29

I vi, p. 25.

Ivi, p. 29.

Ibid.

Ivi, p. 30.

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tutte le donne compaiono come costruzioni del discorso, in quanto, come spiega De Lauretis, la parola stessa di una donna è possibile soltanto come finzione. 30 Si legge nel saggio della Woolf: «La parola io è soltanto una comoda designazione per nominare qualcuno che non esiste realmente […] chiamatemi Mary Beaton, Mary Seton, Mary Carmichael o come meglio vi piace, non ha alcuna importanza».31 Il pubblico al quale la Woolf si rivolge diviene esso stesso una figura iscritta nel testo, un'altra voce che parla in una conferenza letta da una donna davanti ad un pubblico di donne. Ad un certo punto quella voce dice “noi” e così il pubblico finisce per diventare anch'esso un personaggio. Da questo dialogo tra “io” e “noi” emerge Judith Shakespeare, come ulteriore figura femminile, sorella del più famoso Shakespeare, la quale morì giovane e in silenzio ma che potrebbe rinascere, vivere e scrivere le sue poesie. 32 Rivedendo le storie di Elena Lucrezia, Anna Maria, Belle, Malala, Judith e infine anche di Virginia Woolf, comprendiamo che esse compaiono sulla scena del linguaggio, anche se si tratta di un linguaggio che non le significa: un linguaggio le cui regole sono state definite dagli uomini e che poco si adatta al silenzio delle donne. È proprio da questa contraddizione che è divenuto possibile autodefinirsi e che può avere inizio una storia delle donne. In Una stanza tutta per sé, spiega Teresa De Lauretis, Virginia Woolf definisce le donne come soggetti dotati di una specificità e di una storia, con legami e obiettivi comuni, che costruiscono una comunità di lettori, scrittori e parlanti fatta di donne. 33 Produce cioè tutte le 30 I bid.

31 V. WOOLF, A Room of One's Own, Harcourt Brace and World, New York and London 1929; tr. it. diS. Perosa, Una stanza tutta per sé, Mondadori, Milano 1978, pp. 716-717.

32 DE LAURETIS,Sui Generis, p. 31.

33 Ivi, p. 33.

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condizioni necessarie per la nascita del pensiero femminista, ovvero la possibilità per le donne di parlare alle donne e delle donne. Mentre nel 1929 sugli scaffali delle biblioteche c'erano per lo più libri scritti da uomini sulle donne, oggi sono per lo più le donne a scrivere di donne e per le altre donne. Ritornando alla metafora di Alice, la De Lauretis si chiede: «cosa succede quando la donna funziona come uno specchio che riflette le altre donne?». 34 Una delle risposte possibili si può trovare nella teoria femminista, che riesce a combinare il desiderio di conoscenza formale e astratta con l'impulso all'autoaffermazione di un soggetto donna e traduce la possibilità di soggettività politica nella creazione di nuove figure nel nostro destino.35 Il soggetto dell'enunciazione nel discorso teorico femminista è un “soggetto eccentrico”. De Lauretis scrive: «eccentrico rispetto al campo sociale, ai dispositivi istituzionali, al simbolico, allo stesso linguaggio, è un soggetto che contemporaneamente risponde e resiste ai discorsi che lo interpellano e al medesimo tempo soggiace e sfugge alle proprie determinazioni sociali». 36 Un soggetto capace di allontanarsi dalle proprie conoscenze e dalle formazioni culturali dominanti e allo stesso tempo essere critico verso quelle minoritarie, tra le quali si potrebbe collocare un certo femminismo omologato, razzista o perbenista.37 Nel corso della storia, il soggetto eccentrico è in costante costruzione, si reinterpreta e si riscrive a partire da un'altra concezione del sociale, della cultura e della soggettività. La teoria femminista, quindi, comincia nel

34 35 36 37

DE LAURETIS,Alice Doesn't, pp. 6-7.

Ivi, p. 34.

DE LAURETIS,Soggetti eccentrici, p. 8.

Ibid.

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momento in cui la donna diventa consapevole di sé e delle proprie formazioni sociali. Come afferma Adrienne Rich, poetessa e femminista statunitense: «la teoria femminista comincia con il riconoscere il nostro posizionamento, il dare un nome alla terra dalla quale proveniamo, le condizioni che abbiamo dato per scontate».38 Per poter andare avanti con il lavoro di trasformazione sociale e soggettiva, la teoria femminista allarga e riconfigura i precedenti confini discorsivi includendo nuove categorie. La trasformazione, come osserva De Lauretis, comporta uno spostamento, significa lasciare un posto che è sicuro, che è “casa” – in senso socio-geografico, affettivo, linguistico, epistemologico – per un posto sconosciuto, in cui si è concettualmente a rischio. Un posto nel quale pensare e parlare non sono garantiti, ma nonostante tutto andarsene era l'unica opzione possibile, perché lì non si poteva più vivere. 39 Ogni tipo di spostamento è doloroso, sia da un punto di vista affettivo sia epistemologico, poiché “spostarsi” significa attraversare frontiere e confini per ridisegnare la propria identità e comunità, e ciò spiega perché ad affrontare questo rischio siano state per prime le femministe di colore e lesbiche. Come afferma De Lauretis, tale dis-locamento e dis-identificazione da un gruppo, una famiglia, un sé è anche un dis-locamento del proprio modo di pensare. Significa creare nuovi saperi e nuove modalità di conoscenza per rivedere sia la teoria femminista sia la realtà sociale da un punto di vista interno ed esterno alle loro determinazioni. Teresa De Lauretis afferma che tale punto di vista o posizione discorsiva eccentrica è necessaria al pensiero femminista e aggiunge: «È il risultato della resistenza e della capacità di agire e 38 A. RICH,Politica del posizionamento, «Mediterranean», 2, 1996, pp. 15-22.

39 DE LAURETIS,Soggetti eccentrici, pp. 47-48.

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pensare in modo eccentrico rispetto agli apparati socioculturali dell'eterosessualità, attraverso una pratica cognitiva che non è solo personale e politica, ma è anche testuale o meglio una pratica di linguaggio». 40 La De Lauretis propone come figura testuale di tale soggettività eccentrica il saggio di Monique Wittig One is not Born a Woman (Donna non si nasce, 1992). Wittig riprende la frase da Le Deuxième sexe (Il secondo sesso, 1949) di Simone De Beauvoir, ma sposta l'enfasi dalla parola “nasce” alla parola “donna”.

La definizione convenzionale ed eterosessuale di donna data da Beauvoir viene dislocata, negata e riscritta secondo una prospettiva eccentrica. Wittig parte dalla premessa che le donne non siano un gruppo con caratteristiche biologiche comuni, ma piuttosto una categoria sociale, ovvero il prodotto di rapporti economici di sfruttamento e di costruzione ideologica. Tale oppressione di genere offre alle donne una prospettiva di conoscenza e di lotta analoga a quella del proletariato, poiché esse possono prendere coscienza di sé in quanto classe e questa presa di coscienza in un movimento politico è ciò che rappresenta il femminismo. 41 Quindi, citando Christine Delphy, una delle più importanti esponenti del femminismo materialista, si potrebbe dire che la consapevolezza delle donne di essere oppresse cambia la definizione stessa di oppressione. Teresa De Lauretis la definisce una categoria politica e soggettiva, alla quale si arriva attraverso la lotta solo dal punto di vista delle oppresse e che va distinta dalla categoria economica dello sfruttamento, che è una categoria oggettiva. 42 Quindi per superare tale oppressione, le donne dovrebbero lottare per una società omogenea e non divisa in 40 I bid.

41 Ivi, p. 49.

42 Ivi, p. 50.

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classi, o, meglio, una società che veda la scomparsa delle “donne” in quanto tali, in quanto classe sociale. Wittig immagina come sarebbero le persone oggi chiamate donne in una società senza donne e una possibile risposta le viene dalla presenza di una “società lesbica”, che se pur marginalmente, funziona autonomamente dall'istituzione eterosessuale. 43 Le lesbiche, sostiene Wittig, non sono donne: «il rifiuto di diventare (o rimanere) eterosessuali ha sempre voluto dire rifiutare di diventare un uomo o una donna, consciamente oppure no. Per una lesbica questo va oltre il rifiuto del ruolo donna. È il rifiuto del potere economico, ideologico e politico dell'uomo». 44 Quindi, continua Wittig, nel momento in cui scopriamo e percepiamo che le donne sono oggetti di oppressione e di appropriazione, diventiamo soggetti cognitivi. La coscienza dell'oppressione non è solo una reazione, ma anche la completa rivalutazione concettuale del mondo sociale, una vera e propria pratica cognitiva soggettiva. L'obiettivo del femminismo, secondo Wittig, deve essere la scomparsa delle donne: la lotta contro gli apparati ideologici e le istituzioni socio-economiche dell'oppressione delle donne consiste nel rifiutare i termini del contratto eterosessuale, non solo nella pratica del vivere ma anche nella pratica del conoscere. Il soggetto sociale va concepito in maniera eccentrica, ovvero autonoma dalle categorie di genere.

Questo, osserva la De Lauretis, è quanto accade con il termine “lesbica”, che è straordinariamente resistente alle procedure standard di analisi semantica, perché le lesbiche non sono contemplate dallo schema concettuale dominante. 45 Marilyn Frye, filosofa e teorica femminista americana aggiunge, a questo punto, che essere 43 Ivi, p. 52.

44 M. WITTIG,One is not Born a Woman, Beacon Press, Boston 1992, p. 13.

45 DE LAURETIS,Soggetti eccentrici, p. 55.

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fuori dal sistema concettuale ci impone un riorientamento dell'attenzione e delle nostre capacità percettive. Se la nostra posizione è fuori dal sistema concettuale, per assumerla dobbiamo dissociarci, dis-identificarci, dis-locarci e acquisire un punto di vista eccentrico.46

1.2 Introduzione al femminismo

La teoria femminista come la conosciamo oggi, si è costituita in un'ottica postcoloniale, precisamente nel momento in cui il pensiero femminista ha iniziato a interrogarsi sulle relazioni tra soggetti, discorsi e pratiche sociali.

Simone de Beauvoir, insegnate, scrittrice, filosofa e femminista francese, e, tra le altre cose, compagna di Jean Paul Sartre e, come lui, esponente dell’esistenzialismo, scrisse: «L'umanità è maschile e l'uomo definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso; non è considerata un essere autonomo […] Egli è il Soggetto, l'Assoluto: lei è l'Altro».47 Per Beauvoir, l'alterità è una categoria fondamentale del pensiero umano e le sue origini vanno rintracciate nella coscienza stessa. Facendo riferimento al pensiero di Hegel, Beauvoir comprende che il soggetto si pone solo opponendosi, si afferma come essenziale e costruisce l'altro come inessenziale, come oggetto. Quindi, il soggetto maschile della coscienza pone la donna come oggetto in una dimensione di alterità radicale, ma poiché continua ad avere bisogno di lei come “sesso”, per soddisfare 46 Ibid.

47 DE BEAUVOIR,Le deuxième sexe, p. 16.

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i suoi desideri sessuali e di prole, il soggetto maschile rimane legato alla donna e così pure lei a lui, come accade nel rapporto tra padrone e servo. 48 Teresa De Lauretis lo definisce il “paradosso donna”, ovvero un essere umano fondamentalmente essenziale per l'uomo e allo stesso tempo oggetto inessenziale e radicalmente altro. Anche se il bisogno è reciproco, però, esso finisce per essere sempre a favore dell'oppressore contro l'oppresso.49 Teresa De Lauretis a questo punto si domanda cosa spinga la donna ad accettare lo status di oggetto, e perché essa decida di non rivendicare lo status di soggetto con una propria coscienza. A queste domande Beauvoir risponde affermando che il vincolo che unisce la donna al suo oppressore non è paragonabile a nessun altro legame, poiché esso non può mai essere spezzato. La divisione dei sessi è un dato biologico e non un momento nella storia umana. Una teoria femminista cosciente di sé e della propria storia non può ignorare il “paradosso donna”, che non è una contraddizione apparente o illusoria, ma una contraddizione vera e propria. Quasi a voler rispondere al testo di Beauvoir, Catharine MacKinnon, avvocato e femminista americana, afferma che il femminismo è una critica della dominazione e del punto di vista maschile che si è imposto nel mondo e nella storia come modalità del sapere e della conoscenza.

Fare appello alla biologia come dato di fatto che determina la differenza sessuale tra uomo e donna, è la conseguenza ideologica di una modalità del sapere maschile, e, per questo motivo, il genere stesso non è tanto una questione di differenza sessuale, quanto un esempio di tale dominazione. 50 Il soggetto 48 DE LAURETIS,Soggetti eccentrici, p. 14.

49 Ivi, p. 15.

50 Ivi, p. 16.

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occidentale maschile controlla la donna attraverso la sua oggettivazione e erotizza l'atto stesso del controllo. In questo senso, spiega MacKinnon, erotizzare la dominazione e la sottomissione crea il genere; l'erotico è ciò che definisce il sesso come diseguaglianza e come differenza significativa. 51

Una donna deve costantemente guardarsi. […] Gli uomini guardano le donne. Le donne si guardano essere guardate. Ciò determina non solo la maggior parte dei rapporti tra uomini e donne ma anche il rapporto tra le donne e se stesse. La parte della donna che si osserva è maschile: la parte che si sente osservata è femminile. Così la donna si trasforma in oggetto e più precisamente in un oggetto di visione: una veduta.52

Diversamente da quanto afferma il determinismo biologico, è l'oggettivazione che costituisce la donna come essere sessuale, ponendo la sessualità, e non la differenza sessuale che definisce la donna e causa la sua oggettivazione, al centro della vita materiale delle donne. È in questa presenza materiale della sessualità come oggettivazione che MacKinnon individua la specificità della soggettività e della coscienza femminile.

Le relazioni tra dominazione, sessualità e oggettivazione sono affrontate dalla filosofa femminista Nancy Hartsock, anche lei, come la MacKinnon, parte dai concetti marxisti di lavoro e sfruttamento di classe come direttamente pertinenti alla teoria femminista. Per Hartsock, un punto di vista femminista (feminist standpoint) può aiutare a comprendere le istituzioni e le ideologie patriarcali, mentre per MacKinnon il marxismo e il femminismo sono teorie del 51 C. MacKINNON,Feminism, Marxism, Method, and the State: an Agenda for Theory, in Feminism Theory: a Critique of Ideology, a cura di N.O. Keohane, M.Z. Rosaldo, B.C. Gelpi, University of Chicago Press, Chicago 1982, p. 26.

52 Ibid.

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potere e della sua distribuzione ineguale. Tuttavia, come osserva la De Lauretis, mentre Hartsock cerca di tradurre il punto di vista del proletariato, basato sulla divisione sessuale del lavoro, nell'ambito di studi femminista, MacKinnon costruisce un parallelismo tra le due teorie affermando che la sessualità sta al femminismo come il lavoro sta al marxismo. 53 Da queste premesse i percorsi delle due studiose prendono strade diverse.

Nella sua analisi della divisione sessuale del lavoro, la Hartsock afferma che le donne sono istituzionalmente responsabili della produzione sia di beni materiali sia di esseri umani. Le donne “ri-producono” anche gli esseri umani e questo dà loro un'esperienza più intensa di relazione e continuità tra il corpo e la mente. La specificità delle donne, in quanto esseri sociali, consiste nel loro lavoro riproduttivo, e per la Hartsock tutto questo rende l'esperienza femminile sensuale, relazionale, in rapporto di continuità e connessione con gli altri e con il mondo naturale. Il legame tra lavoro mentale e manuale, tra il mondo sociale e quello naturale, afferma ancora la Hartsock, dipende dal fatto che i corpi delle donne sono essi stessi strumenti di produzione, a differenza di quelli degli uomini. 54 Questa teoria, inoltre, fa intravedere un lieto fine, in quanto ipotizza la possibilità di una comunità completamente umana, una comunità strutturata dalla connessione piuttosto che dalla separazione e dall'opposizione 55; in questo senso, la posizione di Hartsock sta esattamente all'opposto del percorso che delinea MacKinnon, la quale propone uno scenario di lotta continua da parte della donna.

La De Lauretis sostiene che nel punto in cui questi due percorsi divergono sta la 53 I vi, p.12.

54 HARTSOCK,The Feminist Standpoint, p. 299.

55 Ivi, p. 305.

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sessualità e il suo rapporto con la coscienza. 56 Secondo la Hartsock, la sessualità e l'autocoscienza delle donne sono in rapporto diretto e non contraddittorio: entrambe sono incluse e sfruttate nella e dalla maternità. La De Lauretis nota che la Hartsock non spiega cosa trasformi l'esperienza femminile in coscienza femminista, mentre lo fa MacKinnon mettendo in rilievo proprio la coscienza come prodotto e forma della pratica femminista. Quest'ultima afferma, infatti, che «l'autocoscienza è la principale tecnica analitica, struttura organizzativa, modalità di pratica, e teoria del cambiamento sociale del movimento delle donne». 57 Attraverso la presa di coscienza, il femminismo ha dato alle donne la possibilità di vedere come la propria identità sociale e sessuale sia qualcosa di costruito sia dall'esterno sia dall'interno. Ne consegue, sostiene De Lauretis, che la teoria femminista non è volta soltanto all'esterno, ma anche e soprattutto all'interno, verso la ricerca e la costruzione della coscienza di sé.

Verso la metà degli anni '80, donne di colore e lesbiche nell'ambito della loro attività politica, hanno redatto scritti fortemente critici verso il femminismo precedentemente teorizzato. Questi interventi, osserva De Lauretis, hanno interrotto un discorso femminista ancorato al singolo asse del genere come differenza sessuale e opposizione tra uomo e donna, femminile e maschile. 58

Abbiamo parlato di noi stesse come popolazione colonizzata, abbiamo concepito il corpo femminile mappato dal desiderio fallico e territorializzato 56 DE LAURETIS,Soggetti eccentrici, p. 19.

57 MacKINNON,Feminism, Marxism, Method, and the State, p. 5.

58 DE LAURETIS,Soggetti eccentrici, p. 37.

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dal discorso edipico. Ci siamo viste guardare soltanto attraverso occhi maschili. Abbiamo pensato che il nostro parlare fosse sintomatico o non autorizzato, e che la nostra scrittura, nel migliore dei casi, potesse esprimere il silenzio delle donne nel linguaggio degli uomini.59

Teresa De Lauretis continua affermando che le strategie di resistenza e di lotta nate da tale analisi si sono sviluppate principalmente in due direzioni: la prima era orientata verso l'uguaglianza, ed in essa si accettava l'idea della donna come biologicamente, emotivamente e socialmente diversa dall'uomo, ma complementare ad esso. In questo modo, la donna poteva rivendicare gli stessi diritti mirando all'omologazione e creando un posto per le donne all'interno del discorso egemonico. L'altra direzione era il separatismo radicale, ovvero la netta opposizione nei confronti degli uomini, che si prefiggeva di creare un controdiscorso. Secondo la De Lauretis, entrambe le direzioni erano e continuano ad essere importanti in contesti particolari o locali, anche se, entrambe sono ancora connesse con l'ambito del razzismo, del colonialismo e dell'eterosessismo. 60 Senza dubbio, tra le due strategie sopra citate, quella del separatismo resta la pi첫 complessa. Privo di una teoria specifica e imperniato sulla condanna etica al patriarcato, il separatismo radicale si fondava interamente sulla condanna etica del patriarcato. All'interno degli women's studies, il separatismo ha comportato la ricerca di uno spazio che la critica femminista di quegli anni descriveva come un territorio da occupare: una terra incognita, incolta e selvaggia da colonizzare

59 I bid.

60 Ivi, p. 38.

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(Elaine Showalter61), una natura fatta a immagine di donna (Susan Griffin 62), una “gin/ecologia” o etica di “pura libidine” (Mary Daly 63). Questa contestazione interna ha costretto il femminismo ad ammettere l'inadeguatezza dei concetti di genere e di differenza sessuale, riconosciuti come incapaci di far comprendere le relazioni di potere all'interno del contesto socio politico.

La rivendicazione di altri interessi e la presenza di elementi di disparità sociali quali la razza o il colore della pelle, l'appartenenza etnica e la sessualità, sostiene Teresa De Lauretis, sono state accolte troppo in fretta nel pensiero femminista e sono state poste sullo stesso piano. 64 In realtà, a seconda delle singole donne, questi concetti possono avere priorità diverse e incidere in maniera differente sul modo di concepire l'oppressione sociale. Nel saggio Toward a Black Feminist Criticism (Verso una critica femminista nera, 1982), la femminista lesbica militante afroamericana Barbara Smith osserva che i critici neri sono naturalmente in difficoltà nel comprendere l'esperienza delle donne nere, sia in termini sessuali sia razziali. Le donne nere, perciò, esperiscono il razzismo non in quanto persone nere, ma in quanto donne nere. La teoria della simultaneità delle oppressioni, continua De Lauretis, spiega che gli assi di differenza e i modi di oppressione che ne derivano non sono allineati e paralleli, ma sovrapposti gli uni agli altri. I sistemi di oppressione sono interconnessi e si determinano reciprocamente.65 61 E. SHOWALTER,Feminist Criticism in the Wilderness, in Writing and Sexual Difference, a cura di E. Abel, University of Chicago Press, Chicago 1982, pp. 9-35.

62 S. GRIFFIN,Woman and Nature: the Roaring Inside Her, Harper & Row, New York 1978; cit. in DE LAURETIS, Soggetti eccentrici, p. 38.

63 M. DALY,Gyn/Ecology: the Metaethics of Radical Feminism, Beacon Press, Boston 1978; cit. in DE LAURETIS, Soggetti eccentrici, p. 38.

64 DE LAURETIS,Soggetti eccentrici, p. 39.

65 Ivi, p. 41.

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Per poter elaborare un discorso femminista completo, oltre ad affrontare temi come la differenza di genere, il concetto “donna” inteso come alterità rispetto all'uomo, le differenze sociali e politiche, occorre approfondire anche la questione dell'esperienza e dell'autocoscienza. A tal proposito, è opportuno riprendere l'esempio della De Lauretis, la quale cita un passo famoso dell'inizio di Una stanza tutta per sé in cui l'io narrante di Virginia Woolf, passeggia sul prato di un collegio meditando sul rapporto tra donne e letteratura.

Subito apparve a intercettarmi la figura di un uomo. Non mi ero accorta che le gesticolazioni di questo oggetto di così strano aspetto, dalla giacca insolita e dalla camicia da cerimonia, si rivolgevano a me. La sua faccia esprimeva orrore e indignazione, l'istinto, più che la ragione, venne in mio aiuto; egli era un bidello; io ero una donna. Questo era il prato del collegio; il sentiero era quello. Su questo prato potevano passeggiare soltanto i professori e gli universitari; il mio posto era la ghiaia.66

Quello che la Woolf, in questo passo molto ironico, definisce “istinto”, Teresa De Lauretis preferisce chiamare “inferenza”: l'io narrante riesce, attraverso un ragionamento inferenziale, a comprendere una serie di cose, e cioè che l'uomo che gesticola si sta rivolgendo proprio a lei, che l'uomo è un bidello, che le sta intimando di spostarsi dal prato che è riservato a professori e alunni uomini, quindi il suo posto, essendo donna, è la ghiaia. Un ragionamento di tipo inferenziale è attivato dall'esperienza, parola assai frequente nel discorso femminista.67 Questo concetto, secondo De Lauretis, ha un'importanza cruciale per la teoria femminista poiché riguarda direttamente le principali problematiche 66 WOOLF,Una stanza tutta per sé, p. 718.

67 DE LAURETIS,Sui Generis, p. 100.

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originatesi dal movimento: la soggettività, la sessualità, il corpo e la pratica politica. L'esperienza che qui si prende in considerazione non è quella relativa alla sfera del singolo individuo, ma va intesa in senso lato, come un processo per mezzo del quale si costruisce la soggettività per tutti gli esseri sociali. Attraverso l'esperienza ci collochiamo o veniamo collocati nella realtà sociale e politica, con un procedimento continuo e interminabile che si rinnova quotidianamente. Per ogni persona, quindi, la soggettività non è un punto di partenza o di arrivo ma è perennemente in corso e Teresa De Lauretis la definisce come l'effetto dell'esperienza: essa è prodotta non da idee, valori o cause materiali esterne, ma dal coinvolgimento personale e soggettivo nelle pratiche, nei discorsi e nelle istituzioni che conferiscono significato agli eventi del mondo.

Date queste premesse, quindi, è giusto chiedersi come si costruisca il soggetto femminile, e come si costruisca la relazione tra le donne e la donna. Per rispondere a queste domande è necessario elaborare il concetto di esperienza da un punto di vista teorico, confrontandolo da un lato con le attuali teorie del senso e della significazione, e dall'altro con le concezioni attuali circa il soggetto.

La problematica del soggetto rientra in tutte quelle analisi che mirano ad elaborare una teoria della cultura, ed è stata, quindi, affrontata in svariati ambiti disciplinari. A dimostrazione di ciò, è sufficiente accennare alla polemica tra Sartre e Levi-Strauss, che coinvolse l'ambito semiotico: Sartre accusava il nascente metodo strutturalista applicato alle scienze umane di abolire il soggetto concreto e storico a vantaggio di strutture astoriche immanenti nel pensiero. Sia che si accettasse la definizione strutturalista o quella esistenzialista, il soggetto 29

umano era concepito teoricamente nei termini di un ordine simbolico patriarcale, rispetto al quale la donna rappresentava solo la componente o controparte sessuale.68 Questo è esplicitato quando Levi-Strauss definisce la donna allo stesso tempo uguale e diversa dall'uomo: sono esseri umani come gli uomini, ma la loro funzione specifica nella cultura e nella società è quella di essere strumenti di riproduzione sessuale. Nonostante l'evidente paradosso, però, non si può assolutamente escludere la donna dal genere umano; perciò Levi-Strauss opera un compromesso affermando che le donne, anche se sono vestite di cultura e di storia, restano esseri umani che però non parlano e non producono significato per se stesse, come accade per gli uomini. 69 Un paradosso analogo, la De Lauretis, lo individua anche in ambito grammaticale quando si parla di “uomo” come termine generico per designare tutto il genere umano: questo termine include le donne, ma non vale il contrario.

Teresa De Lauretis individua una seconda polemica nell'ambito della teoria del cinema citando l'attività della rivista inglese di critica cinematografica Screen, il cui numero speciale su Brecht (15, estate 1974) segnò l'inizio di un progetto che la redazione avrebbe portato avanti per diversi anni: una critica delle strutture ideologiche del cinema narrativo classico. Tutto iniziò quando Julia Lesage, critica cinematografica marxista femminista americana, criticò il modo in cui Screen aveva affrontato il concetto psicoanalitico di feticismo: pur riconoscendo loro il merito di aver diffuso studi europei di ispirazione marxista tra gli studenti

68 DE LAURETIS,Alice Doesn't, p. 160.

69 C. LEVI-STRAUSS,Mythologiques, IV: l'Homme Nu, Plon, Paris 1971; tr. it. di E. Lucarelli, L'uomo nudo (Mitologica IV), il Saggiatore, Milano 1974; cit. in DE LAURETIS, Sui generis, p. 102.

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americani di cinema, accusa gli autori di usare premesse di freudismo ortodosso e sessista a fondamento delle loro tesi politiche circa la forma narrativa; il feticismo viene descritto esclusivamente in termini fallici. 70 Il problema, osserva De Lauretis, è che il feticismo può essere descritto soltanto in termini fallici, perlomeno dalla psicoanalisi. Una descrizione non fallica, ammesso che sia possibile, finirebbe per nascondere il fondamento discorsivo del termine e il suo significato più profondo. Nei primi capitoli di Alice doesn't: feminism, semiotics, cinema (1984), infatti, Teresa De Lauretis osserva proprio che, mentre la psicoanalisi ammette la bisessualità intrinseca del soggetto, per il quale la femminilità e la mascolinità non sono qualità o attributi, ma posizioni nei processi di rappresentazione e autorappresentazione, essa stessa partecipa all'attribuzione ideologica del discorso. Da qui la tendenza ad usare “egli” negli scritti psicoanalitici. Detto questo, possiamo concludere che il problema principale della teoria femminista è accettare che il patriarcato esiste in modo concreto nei rapporti sociali e opera proprio mediante le stesse strutture discorsive che ci permettono di riconoscerlo.

Tornando alla domanda su come si diventi donna, anche Catherine MacKinnon prova a dare una risposta nel suo saggio Feminism, Marxism, Method, and State: an Agenda for Theory (1982), quando scrive che le donne acquisiscono l'identificazione di genere non tanto mediante la maturazione fisica o l'apprendimento di comportamenti consoni al ruolo, quanto mediante l'esperienza della sessualità.71 “Sesso” significa sia sessualità che genere, e entrambi sono 70 DE LAURETIS,Alice Doesn't, pp. 162-163.

71 C. MacKINNON,Feminism, Marxism, Method, and State: an Agenda for Theory, «Signs», 7, 3, primavera 1982, p. 531.

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definiti l'uno nei termini dell'altro, ma è la sessualità che determina il genere e non il contrario. De Lauretis riprende questa affermazione, pur ritenendo che sia necessario essere un po' più precisi nel definire il processo attraverso cui l'esperienza della sessualità determina o costruisce quello che possiamo definire un “soggetto donna”. Questo rapporto tra esperienza e soggettività va analizzato nel contesto più specifico della semiotica.

Dalla prima metà degli anni'70, la molteplicità degli studi in ambito semiotico sfociarono nella cosiddetta “polemica sull'iconismo”, che, soprattutto in Italia e in Francia, portò ad un vivace dibattito tra molti studiosi, i quali, allontanandosi dalla classificazione dei sistemi di segni (le loro unità di base, il loro livello di organizzazione strutturale), si vennero ad interessare all'esplorazione delle modalità di produzione di segni e significati, dei modi in cui sistemi e codici venivano usati, trasformati o trasgrediti dalla pratica sociale. Ciò che interessava non era più tanto lo studio dei sistemi dei segni (lingua, letteratura, cinema, architettura, musica, e così via), quanto il modo in cui i codici venivano trasformati e usati dagli individui. Il filosofo e semiotico Charles Sanders Peirce definiva il segno in questo modo:

Qualcosa che da un lato è determinato da un oggetto e dall'altro determina un'idea nella mente di una persona, in modo tale che quest'ultima determinazione, ciò che io chiamo interpretante del segno, è con ciò stesso mediatamente determinata da quell'oggetto. Un segno, quindi, ha una relazione triadica con il suo oggetto e con il suo interpretante. Ma è necessario distinguere l'oggetto immediato, o l'oggetto come il segno lo rappresenta, dall'oggetto dinamico, o oggetto realmente efficiente, ma non

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immediatamente presente.72

Secondo questa definizione, l'oggetto di riferimento, che viene definito come “oggetto dinamico”, non è mai colto se non come “oggetto immediato”, ossia come il contenuto mentale che produce a sua volta una catena virtualmente infinita di interpretazioni attraverso le rielaborazioni segniche, ovvero gli “interpretanti”. Questo è il processo che Peirce definisce come “semiosi illimitata”, poiché ogni conoscenza è determinata da conoscenze precedenti, attraverso un processo virtualmente infinito e perfettibile. 73 Attualmente esistono due opposte tendenze all'interno della teoria semiotica: da una parte, lo studio focalizzato sugli aspetti soggettivi della significazione e fortemente influenzata dalla psicoanalisi lacaniana, in cui il significato è inteso come effetto del soggetto; dall'altra parte, una semiotica dedita a sottolineare gli aspetti sociali della significazione, il suo uso pratico, estetico o ideologico nella comunicazione interpersonale. Gli studi di Umberto Eco possono essere inseriti nella seconda tendenza, in quanto egli riprende il concetto di semiosi coniato da Peirce per designare il processo mediante il quale una cultura produce segni e/o attribuisce loro un significato. Teresa De Lauretis sostiene che tra queste due tendenze esiste un'area di sovrapposizione teorica, una sorta di terreno comune nel quale è possibile individuare la questione della soggettività e dell'esperienza.74 Alla fine del Trattato di semiotica generale (1984), Eco descrive il 72 C. S. PEIRCE,Semiotica, a cura di M.A. Bonfantini, L. Grassi, R. Grazia, Einaudi, Torino 1980, pp. 194-195.

73 Ivi, p. 37.

74 DE LAURETIS,Sui Generis, p. 109.

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“soggetto umano” come l'attore della pratica semiosica: il mittente del messaggio, il soggetto dell'enunciazione o di un atto comunicativo, non il suo destinatario o ricevente; non il lettore ma il parlante/scrittore. 75 Tale soggetto dovrebbe essere preso in considerazione non solo come elemento della finzione testuale, ma soprattutto come soggetto concreto, radicato in un sistema di condizionamenti storici, biologici, psichici. Umberto Eco, tuttavia, riconosce che la semiotica può studiare il soggetto solo mediante categorie semiotiche, le quali escludono qualsiasi processo inconscio o pre-simbolico. In altri termini, la prospettiva semiotica includerebbe i campi dell'antropologia culturale e dell'economia politica, ma escluderebbe l'intera area della fisicità umana, il corpo, le pulsioni e le loro rappresentazioni. La semiotica di Eco esclude proprio quell'area in cui la fisicità umana viene ad essere rappresentata, ossia l'area delineata dagli studi di Freud. La decisione “metodologica” di escludere questa terra di nessuno tra natura e cultura (in cui era incappato e rimasto invischiato Levi-Strauss) equivale, secondo De Lauretis, ad un gesto politico, una sorta di«muro di Berlino teorico»76 : gesto assai vantaggioso per una teoria della produzione di significato che vuol essere scientifica e rigorosamente storico-materialista, come quella di Eco.

Se accetta criticamente questo suo limite metodologico, la semiotica sfugge al rischio idealistico. Anzi, lo capovolge: riconosce come unico soggetto verificabile del proprio discorso l'esistenza sociale dell'universo della significazione, quale essa è esibita dalla verificabilità fisica degli interpretanti, che sono, e occorre ribadire questo punto per l'ultima volta, 75 U. ECO,Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1984, p. 375.

76 Ivi, p. 113.

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espressioni materiali.77

Il progetto di Eco, quindi, è quello di delineare una teoria della cultura materialista, nella quale l'estetica possa fondarsi sulla comunicazione sociale e la creatività si integri nel lavoro umano, essendo la semiosi un lavoro svolto dai segni, che egli stesso definisce forze sociali. 78 Eco deve molto agli studi di Peirce, e, infatti, i concetti di interpretante e di semiosi illimitata sono centrali nel suo trattato. Quando Eco ridefinisce il concetto classico di segno, non fa altro che seguire il percorso tracciato dalla famosa definizione di Peirce:

Un segno, o rappresentamen, è qualcosa che sta per qualcuno in luogo di qualcosa in qualche rispetto o capacità. Esso si indirizza a qualcuno, cioè crea nella mente di quella persona un segno equivalente, o forse un segno più sviluppato. Il segno che esso crea lo chiamo interpretante del primo segno. Questo segno sta per qualcosa, il proprio oggetto. Esso sta per quell'oggetto, non sotto tutti i rispetti, ma in riferimento a una sorta di idea, che talora ho chiamato il ground della rappresentazione.79

La distinzione tra oggetto dinamico (esterno al segno) e oggetto immediato (come il segno stesso lo rappresenta) poggia proprio sulla nozione di ground: una sorta di contesto del segno, che rende pertinenti certi attributi o aspetti dell'oggetto e dunque è già una componente del significato. Il rapporto tra l'oggetto immediato e il rappresentamen viene fissato dall'interpretante, che è anch'esso un segno, forse il segno più sviluppato. Nel processo di semiosi illimitata il nesso tra 77 ECO,Trattato, p. 379.

78 DE LAURETIS,Sui Generis, p. 114.

79 C. S. PEIRCE,Collected Papers, voll. 1-8, Harvard University Press, Cambridge, Mass. 19311958, p. 2.228.

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oggetto, segno e significato avviene attraverso una serie di mediazioni tra il mondo esterno e le rappresentazioni interne o mentali del soggetto. Il termine chiave alla base di queste mediazioni è l'interpretante. 80 Teresa De Lauretis sostiene, quindi, che il passo tratto dal testo di Virginia Woolf citato precedentemente, sia un'esatta rappresentazione dell'interpretante logico di Peirce: ciò che essa chiama «istinto più che ragione» altro non è che la semiosi. In Una stanza tutta per sé, l'autrice si domanda quale sia il processo attraverso il quale l'io giunge a sapersi una donna e il soggetto della scrittura si ingenera quale soggetto femminile. La risposta è quello che la Woolf chiama “istinto”, in mancanza di meglio. Teresa De Lauretis preferisce, invece, dare una risposta più completa a questa domanda, proponendo la parola “esperienza”, per designare un processo continuo tramite il quale si costruisce la soggettività, semioticamente e storicamente. Adottando la nozione di “abitudine” di Peirce come risultato di una serie di effetti di significato, la De Lauretis ha cercato di definire l'esperienza in maniera più precisa, come un complesso di abitudini derivanti dall'interazione semiotica tra mondo esterno e mondo interno. Sia il soggetto sia la realtà sociale possono essere intesi come segni, perciò è la semiosi che definisce il processo del loro reciproco costituirsi. A questo punto, sostiene De Lauretis, potremmo affermare che una data esperienza della sessualità produce come suo effetto l'essere sociale che chiamiamo il soggetto donna. Ciò che va analizzato, compreso e articolato dalla teoria femminista, perciò, deve essere quell'esperienza, quell'insieme di abitudini, disposizioni, associazioni e percezioni

80 DE LAURETIS,Sui Generis, p. 115.

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che ci rendono donne.81

La teoria femminista deve costituirsi come una riflessione sulla pratica e sull'esperienza: una esperienza in cui la sessualità va considerata centrale poiché essa, attraverso l'identificazione di genere, determina la dimensione sociale della soggettività femminile, l'esperienza di essere donna; e una pratica tesa a confrontarsi con quell'esperienza e a cambiare le vie delle donne concretamente, materialmente e consapevolmente.82

Per il femminismo teorico, quindi, sembra innegabile l'importanza del concetto di semiosi, così com'è stato delineato in queste pagine. Intendendolo, dunque, come una forma di critica politica o di politica critica, Teresa De Lauretis conclude affermando che il femminismo non solo ha inventato nuove strategie, nuovi contenuti semiotici e nuovi segni, ma ha anche effettuato un cambiamento di abitudini nei parlanti, producendo un nuovo soggetto sociale: le donne.

In questo consiste, a mio avviso, la specificità della teoria femminista: non in una ricerca della femminilità intesa come vicinanza alla natura, al corpo o all'inconscio, un'essenza intrinseca alle donne, secondo alcuni, o un effetto del simbolico patriarcale, secondo altri; non in una tradizione femminile immaginata come estranea alla storia, sotterranea eppure intatta, da scoprire e recuperare; e neanche nelle crepe dell'identità maschile o nel rimosso del discorso fallico. Ma proprio in una pratica politica, teorica e autoanalitica tramite la quale sia possibile riarticolare le relazioni del soggetto nella realtà sociale, a partire dall'esperienza delle donne.83

81 I vi, pp. 126-127.

82 Ivi, p. 128.

83 Ivi, p. 130.

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CAPITOLO II

2.1 La critica cinematografica femminista

[…] Uomini di nazioni diverse ebbero un sogno uguale, videro una donna correre di notte per una città sconosciuta, da dietro, coi capelli lunghi, ed era nuda. Sognarono di inseguirla. Gira gira ognuno la perdette. Dopo il sogno andarono cercando quella città; non la trovarono ma si trovarono tra loro; decisero di costruire una città come nel sogno […]

Questa fu la città di Zobeide in cui si stabilirono aspettando che una notte si ripetesse quella scena.84

Nel capitolo precedente, sono state ripercorse alcune delle tappe fondamentali del pensiero femminista. Si è visto come, ancora oggi, la donna continui ad essere descritta sulla base di un soggetto maschile e ad avere limitazioni e confini stabiliti socialmente. La teoria femminista ha descritto la donna in termini di “soggetto eccentrico”, e cioè di un soggetto che contemporaneamente risponde e resiste ai discorsi che lo interpellano. Per spiegare tutto questo, si è fatto riferimento a Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, saggio che può essere definito uno dei manifesti femminili del Novecento europeo, oltre che, il primo intervento sul tema “donne e scrittura”. Il leitmotiv della stanza, grembo e prigione dell'anima femminile, si allarga fino a comprendere tutti i luoghi della dimora umana: la natura, la cultura, la storia e infine la realtà stessa nella sua molteplicità. La teoria femminista, quindi, comincia nel momento in cui la donna diventa consapevole di sé e delle proprie 84 I. CALVINO,Le città invisibili, Oscar Mondadori, Milano 1993, p. 45.

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formazioni sociali. È a partire da questi studi che, tra gli anni '70 e '80, si è sviluppata la Feminist Film Theory (teoria e critica cinematografica femminista).

Le indagini e gli studi femministi si sono sviluppati in tutti gli ambiti della realtà umana e hanno trovato un terreno particolarmente fertile nel cinema. Quella che nei paesi anglosassoni è stata definita Feminist Film Theory è la dimostrazione della crescita numerica delle donne attive nel campo del cinema ed è la creazione di un nuovo campo di indagine. Essa è, infatti, una vera e propria riflessione sul linguaggio, oltre che un metodo di lavoro, di codifica e di decodifica, che si interroga sostanzialmente sul rapporto tra rappresentazione e differenza sessuale. Storicamente, la Feminist Film Theory è nata dall'interazione di fenomeni politico-culturali spuri e, all'origine, non collegati tra loro: l'organizzazione politica delle donne e il suo affermarsi in quanto sapere; il cinema indipendente; l'emergere e l'affermarsi di una controcultura fortemente connotata in senso intellettuale ed europeo. Questa critica cinematografica non ha inteso fare del femminile un campo separato, ma piuttosto ha teso a renderlo un punto d'incontro, giocando sulla sua doppia natura di sapere specialistico e di pratica politica. Se da un lato ha ottenuto rapidamente vasti riconoscimenti e ha assunto lo statuto di disciplina, dall'altro ha mantenuto il suo potenziale di trasgressività e il suo obiettivo di destabilizzazione dei codici correnti. Questa è poi diventata una delle punte di diamante della riflessione teorica delle donne, oltre che, in generale, uno dei punti di forza del pensiero teorico sul cinema. La sfera di influenza della Feminist Film Theory si è estesa sempre più ad altri campi, compresa la storia dell'arte, la teoria letteraria e la storia del teatro, che, mutuando 39

concetti e pratiche di indagine dalla teoria cinematografica al femminile, in un clima di scambi in parallelo, ha prodotto analisi sulla “logica dello sguardo”, estesa anche ai linguaggi narrativi o all'ambito pittorico. 85 La Feminist Film Theory è, dunque, una disciplina che ha trasformato i parametri intellettuali e al contempo ha fatto da specchio a un mutamento che era già in atto nel pensiero nordamericano. La Feminist Film Theory ha fatto del “guardare” e della decostruzione dei meccanismi stessi della visione, il suo oggetto privilegiato di indagine. Questo sapere, che non è un'esclusiva delle donne, ha scardinato i codici tradizionali e incrinato gli equilibri e le opposizioni uomo/donna a tal punto che si sono prodotti interessanti, se pur problematici, sconfinamenti di oggetto e soggetto tra maschile e femminile, tra uomo e donna. 86 L'intervento più importante della Feminist Film Theory è il saggio Piacere visivo e cinema narrativo di Laura Mulvey. Dopo quasi quarant'anni, la rilevanza di quest'opera appare ancora più significativa rispetto agli anni '70 e '80, e da tempo non viene considerato più solo come un semplice intervento di teoria femminista del cinema, ma come un contributo fondamentale della teoria culturale e visuale.87 Quest'opera ha partecipato, in modo cruciale, allo sviluppo della teoria del cinema e dell'analisi del film, favorendo lo sviluppo dell'interpretazione psicoanalitica del dispositivo cinematografico, del testo filmico e dei processi coinvolti nella visione, tanto che si è soliti considerarla l'opera fondativa della Feminist Film Theory. Questo lo si deve soprattutto al fatto che, con questo saggio, l'autrice è riuscita sia a superare i confini dell'ambito cinematografico sia a 85 M. NADOTTI,Feminist Film Theory, «Enciclopedia del cinema», 2003, www.treccani.it.

86 Ibid.

87 PRAVADELLI, “Le teorie di Laura Mulvey e gli studi di cinema”, p. 13.

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intervenire in altri settori disciplinari.

In quest'opera Mulvey propone una teoria fondata sulle dinamiche dello sguardo, che ha molti tratti in comune con le contemporanee teorie francesi (si pensi ai lavori di Jean-Louis Baudry, Raymond Bellour e Christian Metz).

L'originalità di Mulvey rispetto ai teorici francesi risiede in diversi aspetti, ma in particolar modo nella diversa articolazione del rapporto tra dispositivo cinematografico e film. Per Baudry e Metz il dispositivo cinematografico ha un'ontologia intrinseca che definisce in particolare le modalità della ricezione, così che l'esperienza dello spettatore non dipende dal tipo di film proiettato, ma piuttosto dalla natura del dispositivo. 88 Baudry afferma:

In fondo importano poco le forme del racconto, i contenuti dell'immagine dal momento che una identificazione è possibile. Si vede bene qui profilarsi la funzione specifica riempita dal cinema come supporto e strumento dell'ideologia […] È un apparato destinato a ottenere un effetto ideologico preciso e necessario all'ideologia dominante: creando una fantasmatizzazione del soggetto, il cinema collabora in modo molto efficace al mantenimento dell'idealismo.89

La posizione di Metz, invece, appare più morbida, poiché guarda alla dimensione immaginaria dell'esperienza spettatoriale in modo positivo, ma indubbiamente anche la sua, come quella di Baudry, è una teoria del “dispositivo”.90 Al polo opposto delle ricerche di Baudry e Metz, si pongono gli studi compiuti in quegli anni da Bellour, il quale si è interrogato, più che altro, sul 88 I vi, p. 14.

89 J. L. BAUDRY,L'effet cinéma, Editions Albatros, Paris 1978, p. 25.

90 PRAVADELLI, “Le teorie di Laura Mulvey”, p. 14.

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funzionamento dei film, lasciando ai margini le questioni relative al dispositivo.

L'intervento di Laura Mulvey ha avuto il merito e l'originalità di aver trovato un punto di incontro tra il funzionamento dell'apparato cinematografico e il funzionamento del film hollywoodiano, ovvero di aver proposto una terza ipotesi rispetto alle posizioni di Baudry-Metz e di Bellour. 91 Mulvey propone, infatti, una teoria psicoanalitica del film classico, dell'apparato cinematografico e dell'esperienza spettatoriale, e il tutto all’interno del modello classico hollywoodiano, ponendo lo sguardo come nucleo centrale del suo discorso. Lo sguardo, come osserva Veronica Pravadelli, è il vettore del funzionamento dell'apparato, delle dinamiche diegetiche del testo filmico e del rapporto tra schermo e spettatore.92 È proprio nello statuto di quest'ultimo aspetto che sta l'originalità del pensiero di Mulvey rispetto alla scuola francese. 93 Per la studiosa inglese, non è possibile pensare che la fruizione cinematografica possa dipendere soltanto dal dispositivo, ma, al contrario, è la convergenza tra dispositivo, linguaggio e immaginario del film che determina tale esperienza.

Laura Mulvey parla, a questo proposito, di “relazione tra tre sguardi”: lo sguardo dell'apparato (macchina da presa, proiettore), lo sguardo diegetico tra i personaggi e lo sguardo dello spettatore. 94 Il cinema classico fonde questi tre sguardi in uno solo “suturando” lo spettatore allo schermo, mentre, come osserva Pravadelli, lo spettatore di Mulvey viene relazionato ad immagini particolari, ovvero lo sguardo diegetico.95 È in questo frangente che la questione sessuale entra in gioco: Mulvey, 91 92 93 94 95

I vi, p.15.

Ibid.

Ibid.

MULVEY, “Piacere visivo e cinema narrativo”, p. 41.

PRAVADELLI, “Le teorie di Laura Mulvey”, p. 15.

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infatti, afferma che la differenza di gender è iscritta non solo nella rappresentazione filmica, ma anche nell'esperienza cinematografica. Prendendo in considerazione il cinema classico, risulta particolarmente evidente come esso sia costruito per il piacere dello spettatore maschile: poiché è il personaggio maschile a dominare la scena, con l'azione e lo sguardo, e, quindi, solo l'uomo in sala potrà identificarsi con l'eroe. Unendo il proprio sguardo a quello del personaggio, lo spettatore sarà in grado di possedere implicitamente la donna. La disparità nella rappresentazione si traduce, dunque, in una disparità spettatoriale e alla donna in sala verrebbe preclusa la possibilità di provare piacere, se non attraverso la sua sottomissione.96 Per Mulvey il cinema hollywoodiano è “ontologicamente patriarcale”, sia nelle forme della rappresentazione sia nella ricezione. Affinché il soggetto femminile possa vivere dinamiche di emancipazione, sullo schermo e in sala, è necessaria la creazione di un cinema alternativo. Con la sua opera, perciò, la studiosa inglese evoca la necessità di distruggere il piacere visivo del cinema classico “patriarcale”, in nome di una pratica filmica d'avanguardia basata su principi opposti. Il lavoro di Laura Mulvey, perciò, può essere collocato nell'ambito delle teorie sul cinema d'avanguardia, sul femminismo e sul modernismo politico che caratterizzava lo scenario inglese e americano dell'epoca, allontanandola dalle posizioni francesi. 97 Negli anni immediatamente successivi alla sua pubblicazione, Piacere visivo e cinema narrativo attirò su di sé molte critiche da parte delle studiose femministe. Tutte riconobbero l'importanza dell'intervento, ma non accettarono 96 MULVEY, “Piacere visivo”, pp. 36-37.

97 PRAVADELLI, “Le teorie di Laura Mulvey”, p. 16.

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l'idea che il cinema hollywoodiano non avesse lasciato spazio al desiderio della donna e al piacere femminile. Laura Mulvey considerò seriamente tali critiche e con il saggio Afterthoughts on “Visual Pleasure and Narrative Cinema” inspired

by King Vidor's Duel in the Sun (1981) fu tra le prime a sostenere che la relazione tra soggetto e desiderio/piacere non è fissa, ma caratterizzata dalla molteplicità. In quest'opera, l'autrice analizza situazioni e modalità di visione diverse da quelle analizzate nel primo saggio e opera una netta revisione dell'intervento precedente.

Come osserva Pravadelli, in

Afterthoughts Mulvey afferma che il cinema

classico, in realtà, permette alla spettatrice di identificarsi con l'immagine cinematografica: nonostante la sessualità femminile adulta sia segnata dalla passività, nella fase pre-edipica la bambina vive una fase fallica paragonabile a quella del maschio.98 I n Piacere visivo e cinema narrativo, Mulvey aveva sostenuto l'impossibilità per la spettatrice di identificarsi con il soggetto maschile attivo; invece, in quest'ultima opera, l'autrice avanza l'ipotesi che la donna, regredendo alla fase pre-edipica, possa identificarsi, al pari dello spettatore, con il protagonista maschile. Questa revisione alimentò la Feminist Film Theory, che riconobbe nell'esperienza del soggetto una molteplicità di posizioni e desideri.

Il lavoro sul desiderio e il piacere femminile è la linea di ricerca che Mulvey ha maggiormente influenzato, oltre che gli studi sulla mascolinità. È da una riscrittura di Piacere visivo e cinema narrativo, infatti, che inizia la riflessione sulla rappresentazione del corpo maschile e della mascolinità più in generale.

Steve Neale, ad esempio, nel suo saggio Masculinity as Spectacle (1983), applica il paradigma di Mulvey alle immagini maschili, per valutare se le questioni 98 Ivi, p. 19.

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relative all'identificazione, allo sguardo e allo spettacolo possano applicarsi, direttamente o indirettamente, anche alle immagini di uomo da un lato e allo spettatore maschile dall'altro. 99 Neale si domanda: «Cosa succede quando lo spettatore maschio guarda ad immagini maschili sullo schermo?». 100 Il genere western, ad esempio, è pieno di temi sadomasochistici e scene in cui il personaggio maschile diventa un oggetto erotico: le scene di duello e combattimento tra uomini sono spettacolo puro. Lo sguardo del cinema di intrattenimento, però, è maschile e questa è una delle ragioni per cui la dimensione erotica dell'immagine maschile deve essere negata: pena una troppo evidente iscrizione del desiderio omosessuale. 101 I suoi studi, inoltre, hanno influenzato anche le ricerche sull'identità etnica, razziale e culturale: molti studiosi erano convinti che un'analisi delle dinamiche di potere tra i vari soggetti non potesse arrestarsi al rapporto tra maschile e femminile, ma dovesse essere ripensata in funzione ad altre categorie identitarie. Verso la metà degli anni '80, Jane Gaines rivedendo la teoria dello sguardo di Mulvey, si è interrogata su come funzioni lo sguardo in un film in cui entrano in gioco anche dinamiche razziali.

Prendendo in considerazione il film Mahogany (Berry Gordy, 1975), infatti, Gaines osserva come l'immagine della diva (Diana Ross) sia offerta allo spettatore attraverso lo sguardo del personaggio maschile bianco (Sean), e non attraverso lo sguardo del personaggio maschile nero (Brian).102 Un'analisi delle dinamiche di 99 S. NEALE,Masculinity as Spectacle, in S. COHAN, I. R. HARK (edd.), Screening the Male.

Exploring Masculinities in Hollywood cinema, Routledge, Londra e New York 1993, pp. 9-20.

100 Ibid.

101 PRAVADELLI, “Le teorie di Laura Mulvey”, p. 21.

102 J. GAINES,White Privilege and Looking Relations: Race and Gender in Feminist Film Theory, in D. CARSON, L. DITTMAR, J. WELSH (edd.), Multiple Voices in Feminist Film Criticism, University of Minnesota Press, Minneapolis 1994, pp. 176-190.

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sguardo tra i vari soggetti, perciò, non si può fermare al rapporto tra maschile e femminile, ma deve tener conto anche della differenza razziale.

In Piacere visivo e cinema narrativo l'autrice usa la teoria psicanalitica come strumento politico per dimostrare in che modo l'inconscio della società patriarcale abbia influenzato e strutturato la forma filmica. Il film riflette, rivela e mette in scena fedelmente l'interpretazione socialmente stabilita della differenza sessuale, che controlla le immagini, l'erotismo dello sguardo e lo spettacolo stesso.103 Il cinema, in quanto sistema di rappresentazione avanzato, pone degli interrogativi circa i modi in cui l'inconscio struttura i modi di vedere e il piacere di guardare. Mulvey osserva che negli anni '40-'50, per quanto Hollywood riuscisse ad essere consapevole ed ironica, si limitava sempre ad una mise-en-scene formale. Lo stile classico hollywoodiano doveva la sua forza alla capacità di manipolare e soddisfare il piacere visivo dello spettatore. Il film tradizionale codificava l'erotico nel linguaggio dell'ordine patriarcale dominante. 104 Nella prima parte di Piacere visivo e cinema narrativo, Laura Mulvey concentra la sua attenzione sul piacere di guardare e osserva come il cinema sia in grado di offrire una varietà di possibili piaceri. Uno di questi è la scopofilia, ovvero l'insieme delle circostanze in cui il guardare stesso è fonte di piacere, proprio come, nel caso inverso, esiste un piacere nell'essere guardati.

Nell'affermare questo, l'autrice fa un chiaro riferimento agli studi di Freud, il quale associava la scopofilia alla condizione secondo la quale altre persone siano 103 MULVEY, “Piacere visivo”, p. 29.

104 Ivi, p. 31.

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assunti come oggetti, sottoponendole a uno sguardo di curiosità e controllo. I suoi studi si incentravano sulle attività voyeuristiche dei bambini, sul loro desiderio di vedere e accertarsi del privato e del proibito. Il cinema, osserva Mulvey, potrebbe sembrare molto lontano dal mondo segreto dell'osservazione furtiva di una vittima ignara e involontaria, poiché quello che si vede sullo schermo è manifesto.

Eppure, aggiunge: «la produzione cinematografica tradizionale ritrae un mondo ermeticamente chiuso che si svolge magicamente e indifferentemente dalla presenza del pubblico».105 Gli spettatori si sentono separati dal mondo sullo schermo, che gioca con le loro fantasie voyeuristiche, e l'estremo contrasto tra l'oscurità in sala (che isola anche gli spettatori l'uno dall'alto) e lo splendore delle immagini sullo schermo contribuisce a favorire l'illusione di una separazione voyeuristica. Anche se il film viene davvero mostrato ed è lì per essere visto, le condizioni di proiezione e le convenzioni narrative danno allo spettatore l'illusione di gettare lo sguardo su di un mondo privato.106 D'altro canto, però, il cinema non si limita a soddisfare il desiderio di guardare con piacere, ma è anche in grado di sviluppare la scopofilia nel suo aspetto narcisistico. A tal proposito, Laura Mulvey afferma:

Le convenzioni del film tradizionale concentrano l'attenzione sulla forma umana. La scala, lo spazio, le vicende sono antropomorfici; la curiosità e la voglia di guardare si mescolano con una fascinazione della somiglianza e del riconoscimento: il volto e il corpo umano, il rapporto tra la forma umana e ciò che la circonda, la presenza visibile della persona nel mondo.107

105 Ivi, p. 32.

106 Ibid.

107 Ibid.

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Ancora una volta, l'autrice ricorre alla psicoanalisi per dimostrare la sua teoria. Qui, il riferimento è a Jacques Lacan, il quale ha descritto come il momento in cui un bambino riconosce la propria immagine nello specchio sia cruciale per la costruzione dell'io. La cosiddetta “fase dello specchio” compare nel momento in cui il bambino guardando la sua immagine riflessa, si riconosce.

Tutto questo apporta gioia al bambino, il quale crede che la sua immagine rispecchiata sia più completa e più perfetta rispetto all'esperienza che ha del proprio corpo. Il riconoscimento, osserva Mulvey, è ricoperto dal misconoscimento, poiché l'immagine è riconosciuta come quella del proprio corpo, a cui vengono attribuite caratteristiche superiori. 108 Nel film, quella che Mulvey definisce la «lunga relazione/disperazione amorosa fra immagine e immagine di sé»109, trova una grande intensità espressiva.

Questi due piaceri, il primo scopofilo e il secondo narcisistico, sono chiaramente contraddittori: uno nasce dal piacere di usare un'altra persona come oggetto della stimolazione sessuale attraverso la vista; l'altro si sviluppa attraverso la costruzione dell'io e deriva dall'identificazione con l'immagine vista. Laura Mulvey precisa:

in termini cinematografici, l'uno implica una separazione dall'identità erotica del soggetto dall'oggetto sullo schermo, l'altro esige l'identificazione dell'io con l'oggetto sullo schermo tramite la fascinazione dello spettatore e il riconoscimento del suo simile. Il primo è una funzione degli istinti sessuali, il secondo della libido dell'io.110

108 Ibid.

109 Ivi, p. 33.

110 Ibid.

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Il piacere del guardare, soprattutto nel cinema classico, era collegato all'immagine della donna. In un mondo ordinato dalla disparità sessuale, tale piacere è stato scisso in attivo/maschile e passivo/femminile. Lo sguardo maschile, determinante, proietta la sua fantasia sulla figura femminile, che è definita di conseguenza. Le donne sono simultaneamente guardate e mostrate, sono connotate dall'essere oggetto dello sguardo: il corpo femminile sostiene lo sguardo, interpreta e significa il desiderio maschile. 111 La presenza della donna è un elemento indispensabile dello spettacolo nel normale film narrativo, anche se la sua presenza visiva tende ad ostacolare lo sviluppo della vicenda, a congelare il fluire dell'azione in momenti di contemplazione erotica. Questa presenza estranea, quindi, deve essere integrata nella coesione narrativa. 112 Budd Boetticher afferma:

Ciò che conta è quel che l'eroina provoca, o piuttosto quel che rappresenta. È lei, o meglio l'amore o la paura che ispira l'eroe, o anche l'interesse ch'egli prova nei suoi confronti, a farlo agire in quella data maniera. In se stessa, la donna non ha la benché minima importanza.113

Una simile divisione eterosessuale del lavoro fra attività e passività, precisa Mulvey, controlla anche la struttura narrativa. Se al personaggio maschile viene attribuito un ruolo attivo, è lui che fa progredire la vicenda, che fa accadere le cose. Lo spettatore si identifica con il protagonista maschile e il potere di quest'ultimo nel controllare gli eventi coincide con il potere attivo dello sguardo erotico. In contrapposizione alla donna come icona, la figura attiva maschile

111 Ivi, p. 34.

112 Ivi, p. 35.

113 Ivi, p. 34.

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richiede uno spazio tridimensionale, corrispondente a quello del riconoscimento allo specchio in cui il soggetto alienato interiorizzava la sua stessa rappresentazione di questa esistenza immaginaria. Egli è la “figura in un paesaggio”: la tecnica cinematografica e i movimenti di macchina, combinati con il montaggio invisibile, tendono tutti a rendere indistinti i limiti dello spazio sullo schermo.114 Negli anni successivi alla pubblicazione del suo primo volume, Laura Mulvey ha continuato a lavorare nell'ambito dell'interpretazione psicoanalitica del film, allargando sensibilmente il campo della ricerca sia in relazione alla teoria psicoanalitica sia in relazione alla produzione cinematografica. In uno dei suoi saggi più recenti, The Possessive Spectator (Lo spettatore possessivo, 2006) la studiosa inglese prende in esame le nuove tecnologie cinematografiche per fare un confronto tra il vecchio e il nuovo cinema. Tale sviluppo ha sollevato nuove questioni circa la psicoanalisi della spettatorialità e la rilevanza psicoanalitica dell'invecchiamento di un medium un tempo “supremamente” moderno. Come osserva Mulvey, per anni il cinema è stato un mezzo fruito da un pubblico riunito in una sala buia, mentre la striscia di pellicola creava l'illusione di un movimento vivo e il proiettore emanava il suo fascio di luce 24 fotogrammi al secondo. 115 Ora, le nuove tecnologie permettono allo spettatore di manipolare la linearità e il fluire del film. I cinefili, i teorici del cinema e chiunque sia interessato, possono trovare nuovi modi di entrare in rapporto con i vecchi film: portare stasi nel movimento,

114 Ivi, p. 36.

115 L. MULVEY, “Lo spettatore possessivo: la Feminist Film Theory nella nuova era tecnologica”, in MULVEY, Cinema e piacere visivo, Bulzoni Editore, Roma 2013, p. 81.

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ripetizione nel flusso e disturbo nella coerenza unificante della narrazione. 116 Ciò che a Laura Mulvey interessa dei nuovi media, non è il fatto che questi ultimi diano nuova vita al vecchio, ma piuttosto che essi generino nuove relazioni di desiderio, alterando le configurazioni di gender così centrali nelle sue precedenti teorizzazioni. Nel processo di messa in pausa dell'immagine, le proprietà nascoste del medium ormai perduto trovano nuova visibilità e la pausa lascia il tempo di riflettere sul film. Il delayed cinema (cinema rallentato), così lo definisce l'autrice del saggio, influisce anche sulla relazione dello spettatore con la figura umana, così centrale nell'antropomorfismo di base del cinema, e sulla circolazione del desiderio attraverso lo star system tanto evoluto del cinema industriale.117 L'autrice spiega, inoltre, che il semplice passare del tempo ha influito sul cinema, rendendolo perturbante. Nel cinema rallentato, infatti, il piacere dello spettatore possessivo coinvolge l'atto di trasformare la figura della star dall'immobilità al movimento e la sottopone ad un infinito tornare indietro e ripetersi. Il processo di ripetizione trasforma la performance cinematografica in modo tale che l'aspetto meccanico, piuttosto che umano, comincia ad emergere nella consapevolezza dello spettatore. 118 Il passaggio dal medium elettronico a quello digitale ha prodotto un immediato senso di perdita: 119 lo spettatore opera una violenza intrinseca nella manipolazione del film e del suo fluire. Tutto questo, però, come conclude Mulvey, appare necessario, perché strappando il film dal suo contesto adeguato

116 Ivi, p. 82.

117 Ibid.

118 Ivi, p. 88.

119 Ivi, p. 82.

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nasce un nuovo desiderio per il cinema. 120

2.2 Il cinema lavora per Edipo

In un saggio pubblicato nel 1957 come Mythologies, Roland Barthes affermava che il raccontare è un fatto universale, poiché è presente in ogni società, in ogni epoca e in ogni cultura.

Al racconto può servire da supporto il linguaggio articolato, orale o scritto, l'immagine, fissa o mobile, il gesto e la commistione coordinata di tutte queste sostanze; il racconto è presente nel mito, le leggende, le favole, i racconti, la novella, l'epopea, la storia, la tragedia, il dramma, la commedia, la pantomima, il quadro (si pensi alla Sant'Orsola di Carpaccio), le vetrate, il cinema, i fumetti, i fatti di cronaca, la conversazione. […] Il racconto si fa gioco della buona e della cattiva letteratura: internazionale, trans-storico, transculturale, il racconto è come la vita.121

Questa affermazione fece da introduzione al numero di Communications, del 1966, dedicato all'analisi strutturale del racconto, un'opera fondamentale per quella che oggi va sotto il nome di narratologia e senza dubbio una pietra miliare per la teoria narrativa. Quelli di Barthes non furono gli unici studi di quel periodo sull'argomento; infatti, nel 1958 esce alla stampa Antropologia strutturale (Anthropologie Structurale) di Lévi-Strauss e la traduzione inglese di Morfologia 120 Ibid.

121 R. BARTHES,Introductions to the Structural Analysis of Narratives, in Image-Music-Text, tr.

Ingl. di S. Heath, Hill and Wang, New York 1977; tr. it. di L. Del Grosso Destrieri e P. Fabbri, Introduzione all'analisi strutturale dei racconti, in AA. VV., L'analisi del racconto, Bompiani, Milano 1984, p. 7.

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della fiaba (Morfologiija Skazki) di Propp. Nessuno di questi autori ipotizzava e tantomeno ammetteva l'esistenza di un nesso tra il sadismo e la narrazione, come, invece, sostenne poi Laura Mulvey quando affermò che il sadismo esige una storia.122 Possiamo chiederci in che modo e con quali mezzi il desiderio operi insieme con la narratività. Se ci poniamo questa domanda, sostiene Teresa De Lauretis, dobbiamo, in primo luogo, riesaminare il rapporto della narrazione con i generi letterari e i modelli epistemiologici. «Il problema» continua la studiosa: «è che molte delle attuali descrizioni del processo narrativo trascurano il fatto che la soggettività partecipa dei meccanismi della narrazione e anzi si costituisce proprio nella relazione tra narrazione, senso e desiderio». 123 Questi studi non riescono, in pratica, ad immaginare un soggetto costituito materialmente, nella storia e nell'esperienza, un soggetto “ingenerato” proprio dal processo del suo coinvolgimento nei generi narrativi. In secondo luogo, il legame tra narrazione e desiderio va ricercato nella specificità di una pratica testuale, in cui questa relazione è materialmente inscritta. Ciò è particolarmente vero, sostiene De Lauretis, se esaminiamo la questione della narratività del cinema. 124 Il problema della narrazione è stato, inoltre, l'oggetto del contendere e la misura della “differenza” tra il cinema dominante o commerciale e quello indipendente o d'avanguardia. La specificità materiale del cinema, la sua dipendenza immediata da fattori socioeconomici e tecnologici, fanno si che la teoria e la pratica cinematografica siano strettamente connesse, unite da forti vincoli di prossimità 122 MULVEY, “Lo spettatore possessivo”, p. 87.

123 DE LAURETIS,Sui Generis, p. 39.

124 Ibid.

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storica. Non è una semplice coincidenza, quindi, se il ritorno alla teoria della narrazione, il suo crescente interesse per la narratività, corrisponde ad un ritorno della narrazione nelle pratiche cinematografiche alternative e d'avanguardia.

Come ha osservato per prima Claire Johnston nel saggio Women's Cinema as Counter-cinema (Cinema delle donne come contro-cinema, 1974), la narrazione è una questione fondamentale nel cinema delle donne: una strategia femminista dovrebbe combinare e non contrapporre la nozione di film come strumento politico e quella di film come spettacolo. Il lavoro politico e analitico del cinema delle donne è quello di evidenziare che il cinema implica la produzione di segni e che il segno è sempre un prodotto.125 Ciò che coglie la macchina da presa, quindi, non è la realtà in quanto tale, ma il mondo naturale dell'ideologia dominante. Il progetto della critica cinematografica femminista, dunque, era quello di costruire u n corpus sistematico di conoscenze sul cinema maschile borghese per poi rielaborare il concetto di desiderio. Per la teoria femminista l'interesse per la narratività significava un ritorno teorico alla narrazione e porre alcuni interrogativi che erano stati annullati o spostati dagli studi semiotici. Questo ritorno equivale, ad esempio, ad una rilettura dei testi sacri sotto la spinta di una diversa problematica, una diversa pratica e un diverso desiderio. 126 Possiamo domandarci cosa ne sia stato della Sfinge dopo l'incontro con Edipo sulla via di Tebe e, anche, cosa provò Medusa nel vedersi riflessa nello specchio di Perseo prima di essere uccisa. Teresa De Lauretis si pone queste

125 C. JOHNSTON,Women's Cinema as Counter-cinema, in Notes on Women's Cinema, Seft, London 1974; tr. it. di D. Lodi, Cinema delle donne come contro-cinema, in «Nuova DWF», 8, 1978, pp. 63-64.

126 DE LAURETIS,Sui Generis, p. 41.

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domande e spiega che la nostra cultura, cosi come la Storia e la scienza non danno una risposta. Medusa e Sfinge, come gli altri mostri dell'antichità, sono sopravvissute perché inscritte in racconti di eroi, in storie altrui, e non nella propria.127 La mitologia classica era popolata da mostri, ma solo alcuni sono sopravvissuti attraverso i secoli e, forse, non è un caso se quei pochi superstiti sono inscritti narratologicamente in storie di eroi e semanticamente associati al confine.128 De Lauretis fa notare che i mostri antichi avevano un sesso, proprio come gli déi, in una mitologia la cui ricca e scrupolosa articolazione della differenza sessuale si sarebbe poi condensata nella rigida opposizione platonica uomo/non-uomo. Il Minotauro, ad esempio, frutto dell'unione innaturale di Pasifae con un toro, viene descritto come metà toro e metà uomo. Medusa e Sfinge, al contrario, sono più umane che animali e certamente di sesso femminile: quest'ultima ha il corpo di un leone alato ma la testa di donna; Medusa è donna e bella, pur essendo anch'essa associata alla bestialità. Il potere di Medusa, il suo sguardo malvagio, è più esplicito di quello della Sfinge, ma l'effetto di entrambe a lungo termine è analogo: esse non solo uccidono o divorano, ma accecano. Le leggende di Perseo e di Edipo, in cui sono inscritte, dicono con chiarezza che esse minacciano la vista dell'uomo, e De Lauretis aggiunge che il potere di questi “mostri al femminile” sta nel loro enigma e nella loro capacità di farsi guardare, nell'adescare lo sguardo maschile nel “continente oscuro”, come lo chiama Freud, nell'enigma della femminilità. 129 Sono ostacoli, questi, in cui l'uomo si imbatte del sentiero della vita e devono essere uccise o sconfitte affinché egli possa avanzare 127 Ivi, p. 43.

128 Ibid.

129 Ivi, p. 44.

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e portare a compimento il proprio destino e la propria storia.

In questo meccanismo mitico-testuale, l'eroe dev'essere maschio, perché l'ostacolo, qualunque sia la sua personificazione, è morfologicamente femminile.

L'eroe, il soggetto mitico, si costituisce come essere umano e come maschio: egli è il principio attivo della cultura, colui che stabilisce distinzioni, il creatore delle differenze. Il femminile, scrive Teresa De Lauretis, è ciò che non è suscettibile di trasformazione, di vita o di morte: è un elemento dello spazio-intreccio, un topos, una resistenza, matrice e materia. 130 Sconfiggendo la Sfinge, Edipo ha varcato il confine e ha così affermato il suo status di eroe.

Teresa De Lauretis afferma:

Il soggetto mitico ha il compito di costruire le differenze; ma poiché il meccanismo ciclico continua a operare nella narrazione – integrando accadimenti ed eccesso, modellando i personaggi […] nei ruoli mitici di soggetto e ostacolo, e proiettando queste posizioni spaziali nello sviluppo temporale dell'intreccio – è la narrazione stessa ad assumere la funzione di soggetto mitico.131

Dire, quindi, che la narratività è la produzione di Edipo, equivale a dire che ogni lettore (maschio o femmina) è costretto e definito all'interno delle due posizioni di una differenza sessuale che è così concepita: maschio-eroe-umano, dalla parte del soggetto; donna-ostacolo-confine-spazio, dalla parte dell'oggetto. 132 Il quesito, dunque, posto da De Lauretis su che cosa provò Medusa nel vedersi riflessa nello scudo di Perseo prima di essere uccisa, va intesa come 130 Ivi, p. 54.

131 Ivi, p. 56.

132 Ibid.

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domanda retorica. È un quesito che il discorso femminista deve porsi e la De Lauretis sostiene che alcune di noi sanno bene cosa provò Medusa, poiché lo hanno visto al cinema con Psycho (Psyco, 1960) e Blow Out (1981); eppure, continua la studiosa, quell'emozione viene liquidata come soggettiva e idiosincratica dai critici cinematografici e priva di valore teorico dai teorici del cinema. Quindi, nel contesto cinematografico, potremmo domandarci che cosa provò Medusa nel vedersi uccisa e appesa a schermi, muri, tabelloni pubblicitari e altri scudi dell'identità maschile. 133 In questo modo, diventa una domanda chiaramente politica, che concerne la questione dell'identificazione nel cinema e del rapporto spettatoriale con l'immagine filmica: il rapporto tra soggettività femminile e ideologia nella rappresentazione del desiderio e della differenza sessuale, le posizioni accessibili alle donne nel cinema e nei film, le condizioni della visione e della produzione di senso, per le donne. 134 Un film, per avere successo, deve piacere. Affinché funzioni, un film deve offrire ai suoi spettatori qualcosa di interessante da un punto di vista tecnico, artistico, critico, oppure un qualche tipo di intrattenimento ed evasione. Questi piaceri sono strettamente connessi con la questione del desiderio e fanno appello alla soggettività dello spettatore e alla sua possibile identificazione nel e con il film. Per quanto riguarda le dinamiche del desiderio e del piacere, Laura Mulvey ha spiegato bene il ruolo fondamentale svolto in questo senso dallo sguardo, che è centrale nella rappresentazione cinematografica. Lo sguardo della macchina da presa (verso l'evento pro-filmico), lo sguardo dello spettatore (verso il film 133 Ivi, p. 74.

134 Ibid.

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proiettato sullo schermo) e lo sguardo intradiegetico di ciascun personaggio del film (verso gli altri personaggi, oggetti, ecc.) si intersecano, si uniscono e si sostituiscono a vicenda in un sistema complesso. Lo sguardo definisce e governa la rappresentazione della donna nel cinema. 135 Teresa De Lauretis afferma che, se la posizione femminile nel racconto viene fissata dal meccanismo mitico in una certa porzione dello spazio-intreccio che l'eroe attraversa o raggiunge, un effetto analogo viene prodotto nel cinema narrativo dall'apparato degli sguardi che convergono sulla figura femminile. La donna è inquadrata dallo sguardo della cinepresa come un'icona, oggetto dello sguardo: un'immagine fatta per essere guardata dallo spettatore, il suo sguardo è rilanciato da quello del personaggio maschile e vi si sovrappone.136 Quest'ultimo è anche il “portatore” dello sguardo dello spettatore, è quello che abbiamo definito, nel paragrafo precedente, come la “figura in un paesaggio”. La posizione femminile corrisponde, quindi, non solo ad una data porzione dello spazio-intreccio, ma essa rappresenta anche il movimento della narrazione verso quel paesaggio, quello spazio. De Lauretis precisa dicendo che essa rappresenta la conclusione narrativa. 137 In questo senso, come ha suggerito Stephen Heath, il racconto è un processo di recupero che dipende, in ultima istanza, dall'immagine della donna, generalizzata in ciò che egli chiama “l'immagine narrativa”. 138Quella che mostrano le foto e le locandine poste all'esterno delle sale cinematografiche per adescare i passanti, precisa la De Lauretis, non è solo un'immagine di donna, ma è

135 Ivi, p. 77.

136 Ivi, p. 78.

137 Ibid.

138 S. HEATH,Questions of Cinema, Indiana University Press, Bloomington 1981, p. 121.

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l'immagine della sua posizione narrativa. 139 L'immagine narrativa della donna è un'espressione felice, che suggerisce l'unione di immagine e storia, il raccordo dei registri visuali e narrativi attuato dall'apparato cinematografico dello sguardo. 140 Teresa De Lauretis conclude la sua riflessione sul desiderio e lo sguardo nel cinema, affermando che attualmente sia possibile un cinema delle donne che risponda all'appello di Mulvey contenuto nel suo saggio del 1975. De Lauretis continua dicendo che il progetto del cinema femminista è già stato, in parte, realizzato, e ciò è avvenuto grazie al lavoro prodotto in risposta a quell'autodisciplina e alla conoscenza generata dalla pratica del femminismo e del cinema.141 Bisogna, quindi, imparare a riscrivere e a raccontare le storie in modo nuovo. Supponiamo che Edipo non sia riuscito a risolvere l'indovinello della Sfinge. Quest'ultima lo divorerebbe per la sua arroganza, oppure sarebbe lui ad uccidersi per il disgusto, quello che è certo è che se Edipo non avesse risolto l'indovinello non sarebbe stato più se stesso. In questa nuova versione della storia, la Sfinge non si ucciderebbe perché odia se stessa, ma continuerebbe ad enunciare l'enigma della differenza sessuale, della vita e della morte e la questione del desiderio.142 Questa potrebbe essere la fine della storia di Edipo:

Molto tempo dopo, Edipo, vecchio e cieco, camminava per strada. Sentì un odore familiare. Era la Sfinge. Edipo disse: «Voglio fare una domanda.

Perché non ho riconosciuto mia madre?». «Hai dato la risposta sbagliata» disse la Sfinge. «Ma ha reso tutto possibile» disse Edipo. «No» disse lei.

139 DE LAURETIS,Sui Generis, p. 79.

140 Ibid.

141 Ivi, p. 97.

142 Ivi, p. 98.

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«Quando ti ho chiesto: che cosa cammina con quattro gambe al mattino, con due a mezzogiorno e con tre la sera, tu hai risposto l'Uomo. Non hai parlato della donna». «Quando si dice Uomo» disse Edipo «sono incluse anche le donne. Lo sanno tutti». Lei disse «Questo lo pensi tu».143

2.3 Alfred Hitchcock: piacere e voyeurismo

Nel saggio del 1975, Laura Mulvey ha definito il cinema classico hollywoodiano come “ontologicamente patriarcale”. Esso fonde i tre sguardi (quello dell'apparato cinematografico, quello diegetico e quello dello spettatore), “suturando” lo spettatore allo schermo. È a questo punto, secondo Mulvey, che entra in gioco la questione sessuale ed emerge la differenza di gender. È chiaro che il cinema classico è costruito per il piacere dello spettatore maschile, il quale si identifica con il protagonista maschile che domina la scena, con l'azione e con lo sguardo. Alla donna in sala, invece, è preclusa la possibilità di provare piacere, se non attraverso la sua sottomissione.

Questa disparità spettatoriale è ben rappresentata nei film di Alfred Hitchcock, il quale ha giocato molto sulle potenzialità dello sguardo, che è sempre al centro dell'intreccio, oscillando tra voyeurismo e fascinazione feticistica. Come una distorsione o una manipolazione in un certo senso rivela il normale processo del vedere, così Hitchcock svela l'aspetto perverso del processo di identificazione solitamente associato con la correttezza ideologica e il riconoscimento della moralità stabilita. 144 143 M. RUKEYSER,Myth, in The Collected Poems, McGraw-Hill, New York 1978, p. 498.

144 MULVEY, “Piacere visivo”, p. 38.

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Come fa notare l'autrice del saggio, Hitchcock non ha mai dissimulato il suo interesse per il voyeurismo e i suoi eroi sono esemplari dell'ordine simbolico e della legge – un poliziotto in Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) e un maschio dominante che possiede denaro e potere in Marnie (1964) – ma le loro pulsioni erotiche li conducono a situazioni compromettenti. 145 L'uomo è dalla parte giusta della legge, mentre la donna è dalla parte sbagliata. Mulvey nota che, il potere di assoggettare un'altra persona sadicamente alla volontà o voyeuristicamente allo sguardo è rivolto contro la donna, oggetto di entrambi. 146 L'abile utilizzazione, da parte di Hitchcock, dei processi di identificazione e l'abbondante uso della ripresa soggettiva dal punto di vista del protagonista maschile, attraggono profondamente gli spettatori nella sua posizione, facendo loro condividere il suo sguardo inquieto.147 Laura Mulvey riprende l'analisi di Jean Douchet, il quale interpreta Rear Window (La finestra sul cortile, Alfred Hitchcock, 1953) come metafora del cinema, e afferma:

Jeffries è il pubblico, gli eventi nell'isolato di fronte corrispondono allo schermo. Quando egli osserva, si aggiunge una dimensione erotica al suo sguardo, e una immagine centrale al dramma. La sua ragazza, Lisa, ha avuto uno scarso interesse sessuale per lui, è stata più o meno un peso, fintanto che è rimasta dalla parte dello spettatore. Quando attraversa la barriera tra la stanza di Jeffries e la casa di fronte, la loro relazione rinasce eroticamente (figg. 1-2). Egli non si limita a osservarla attraverso il suo obiettivo come una remota immagine significativa, la vede anche come una colpevole intrusa, smascherata da un uomo pericoloso che la minaccia di punizione, e 145 Ivi, p. 39 146 Ibid.

147 Ibid.

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quindi alla fine la salva. L'esibizionismo di Lisa è già stato dimostrato dal suo interesse ossessivo per l'abbigliamento e la moda, nel suo essere un'immagine passiva della perfezione visiva; il voyeurismo e l'attività di Jeffries sono già stati accertati attraverso il suo lavoro di fotogiornalista, creatore di storie e cacciatore di immagini. Comunque, la sua inattività forzata, legandolo alla sedia come uno spettatore, lo pone direttamente nella disposizione fantastica del pubblico cinematografico.148

Laura Mulvey ha analizzato e studiato molto attentamente i film di Hitchcock e, tra le altre cose, nel 2006 ha scritto su di lui un intero saggio intitolato Alfred Hitchcock's Psycho (Psyco di Alfred Hitchcock). A più di 50 anni dalla sua uscita, questo film continua ad essere una pietra miliare del cinema internazionale. Secondo Mulvey, Psyco rappresenta un momento di svolta nella storia dell'industria cinematografica, uno spartiacque: torna indietro nella storia del cinema con la quale Hitchcock è così legato e, allo stesso tempo, rappresenta anche una rottura decisiva con quel tipo di cinema. 149 Nel secondo dopoguerra, Hollywood stava attraversando un periodo di grande crisi e questo permise ad Hitchcock di scrivere l'epitaffio della vecchia industria cinematografica e allo stesso tempo trascendere le sue convenzioni e creare qualcosa di sorprendentemente nuovo. Come fa notare la studiosa inglese, infatti, con il ritorno alle riprese in studio e al bianco e nero, Psyco prende a modello un'era precedente di Hollywood, ma il basso costo e i valori produttivi ridotti si accordano con l'emergere di nuove forze: la televisione, ma anche il cinema indipendente americano low budget e il cinema d'autore europeo. 150 148 J. DOUCHET,Hitch et son public, «Cahiers du cinéma», n. 113, novembre 1960, pp. 7-15.

149 L. MULVEY, “L'immobilità e la morte: Psyco di Alfred Hitchcock”, in MULVEY, Cinema e piacere visivo, Bulzoni Editore, Roma 2013, p. 163.

150 Ibid.

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Psyco è interessante, ai fini del nostro discorso, in quanto rappresenta un chiaro riferimento al complesso di Edipo: la presenza ingombrante e costante della madre che si riflette nei pensieri e nelle azioni del protagonista maschile. Norman Bates, allo stesso tempo, ama e odia la madre (la cui presenza sulla scena viene spesso rievocata dalle immagini di uccelli impagliati), lui stesso la definisce prima come la migliore amica che un uomo possa avere e poi come una trappola nella quale si è trovato rinchiuso fin dalla nascita. Il corpo materno rappresenta l'oggetto perturbante e ad esso viene associata la riflessione sul rapporto tra vita e morte, movimento e immobilità. 151 Si tratta di un film altamente formale e minimalista, collocato saldamente all'interno del racconto tradizionale, ma che, come abbiamo detto, è in grado di raggiungere una moderna riflessività. Psyco è un film guidato dalla pulsione di morte e i motivi associati alla morte appaiono non solo nella storia di Marion, ma anche nella rivelazione finale. Dopo l'omicidio di Marion, la narrazione cambia e si passa dalla pulsione di morte allo spazio del perturbante. Al centro di Psyco, nota Mulvey, c'è lo shock dell'omicidio di Marion e dopo l'esplosione della violenza, c'è una pausa momentanea che segna la transizione da essere umano vivente, la cui storia ha coinvolto completamente lo spettatore, a cadavere. 152 Hitchcock estende il passaggio dalla vita alla morte negli elementi del profilmico: per un momento, l'immobilità del corpo fino a poco prima animato è giustapposta al flusso di acqua che sgorga dalla doccia, materiale inanimato in movimento incessante.153 In primo piano, l'acqua scorre nello scarico, creando un asse 151 Ivi, p. 166.

152 Ivi, p. 164.

153 Ivi, p. 165.

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circolare che la macchina da presa imita appena prima che l'immagine si dissolva e il movimento circolare prefigura il successivo primo piano dell'occhio di Marion. (fig. 3). Proprio quando la fissità dell'immagine sembra derivare da una fotografia, nota Mulvey, una singola goccia d'acqua cade davanti alla macchina da presa e rianima l'immagine.154 C'è sempre il paradosso dell'incerto confine tra immobilità e movimento, tra morte e vita.

Attraverso un abile movimento di macchina si passa, dall'inquadratura del volto di Marion, che giace morta sul pavimento del bagno, all'inquadratura di casa Bates. Da questo momento in poi, il materiale psicoanalitico del film sarà imperniato sul perturbante: la storia di Marion e il suo corpo sono sostituiti, nell'immagine e nel racconto “dall'enigma Madre”. Con il corpo della madre il problema ultimo della morte, cioè della fine, si fonde con un altro problema, quello del materno e delle origini dell'uomo.

Con questo film, Hitchcock ha portato la morte in primo piano e ha reso esplicita la questione della sua rappresentazione cinematografica. Laura Mulvey afferma: «Hitchcock ha strappato l'armatura romantica con cui Hollywood e il racconto popolare in generale, di solito, addolciscono lo spettacolo e lo spazio della morte violenta». 155 Queste scene di morte, inoltre, nei film di Hitchcock sono dominate dalla suspance e dalla spettacolarità, così da costituire il climax narrativo di tutto il film. Cinematograficamente, la morte di Marion viene rappresentata in modo spettacolare e segna la fine del suo viaggio, della sua storia, e dà inizio a una nuova fase del racconto in cui la pulsione del desiderio è 154 Ibid.

155 Ivi, p. 169.

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sostituita dalla pulsione della curiosità e della scoperta. 156 Ora al posto di Marion, c'è Lila, sua sorella, il cui desiderio di scoprire la verità sulla sua morte nutre l'impulso narrativo. Attraverso le sue indagini, Lila scopre, involontariamente, un passato arcaico e nascosto in casa Bates: oltre lo spazio segreto della detective story, l'investigazione penetra nello spazio dell'inconscio. 157 La struttura narrativa del film è divisa in due parti e ciascuna è incorniciata da due movimenti di macchina, uno di apertura e uno di chiusura. Attraverso questi movimenti, la macchina da presa assume il ruolo di narratore e ciò dimostra la capacità stessa del cinema di creare significato e rappresentare materialmente la “pulsione”. Laura Mulvey analizza il film nel seguente modo:

Psyco si apre con una serie di movimenti di macchina verso le finestre ai piani alti di un hotel di Phoenix. Giunta a una finestra la macchina da presa penetra lo spazio e la privacy della coppia all'interno. Questo atto di penetrazione prefigura una serie di violazioni dello spazio lungo tutto il resto del film, di cui l'intrusione violenta nello spazio della doccia, combinata con la penetrazione del coltello nel corpo di Marion, è la più scioccante. Anche se in seguito la macchina da presa si lega ai movimenti di un personaggio o di un punto di vista limitati, questa scena dà inizio alla pulsione trascendente verso una fine che si realizza definitivamente nella sequenza di chiusura.

Nell'ultima inquadratura, dopo un lungo e lento movimento di carrello, il film giunge a un momento di stasi: il primo piano di Norman/Madre che guarda dritto verso la macchina da presa. Proprio come lo sguardo del pubblico è stato attirato con il primo movimento, che era staccato da qualsiasi punto di vista soggettivo, così esso è inscritto nell'ultimo spostamento. Il movimento si trasforma in immobilità e poi in morte: il cranio della Madre compare in sovrimpressione sul viso di Norman e i due si 156 Ivi, p. 170.

157 Ibid.

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fondono. Il film indica la “FINE” con l'ultima inquadratura, che incapsula il movimento immobilizzato, trasforma l'animato in inanimato, l'organico in inorganico. Questi movimenti di apertura e di chiusura si incontrano nell'inquadratura perno che segue l'omicidio, quando la macchina da presa trasferisce la traiettoria narrativa del viaggio di Marion a casa Bates. E l'inquadratura finale dell'auto di Marion, rimanda alla morte, vera pulsione del racconto (fig. 4).158

In questo film, quindi, la madre diventa il luogo del terrore e della follia.

La bellezza affascinante delle dive bionde, che Hitchcock aveva scelto per i suoi film fino a quel momento, avevano mascherato e rimosso una parte del corpo femminile: il fascino perturbante della madre. Mulvey afferma: «È come se la scomparsa femminile feticizzata avesse consentito l'indagine nel perturbante materno e la sua relazione con lo spazio della casa». 159 Infatti, Norman, ad un certo punto del film, afferma: «Questo posto è la mia casa [...] questo posto si dà il caso che sia il mio unico mondo. Sono cresciuto in quella casa lassù. Ho avuto un'infanzia davvero felice. Mia madre e io eravamo molto felici».

Fino all'ultimo, conclude Laura Mulvey, Psyco conserva un elemento di incertezza che prepara la strada al reale segreto del film: la signora Bates è sia viva che morta. Quando Lila trova la signora Bates nella cantina, la vecchia sembra muoversi rispondendo alla sua voce e al suo tocco. Poi, quando il cadavere si gira e il teschio guarda direttamente in macchina, la lampadina che oscilla sembra animare il corpo inanimato. Questo breve momento rappresenta un istante di terrore in cui l'incerto confine tra l'immobilità del cadavere e il suo falso

158 Ivi, p. 171.

159 Ivi, p. 173.

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movimento è rappresentato con un effetto davvero gotico. 160 Il finale, poi, è dominato dalla pulsione di morte: la fusione inquietante tra Norman e la signora Bates (fig. 5) rompe la distinzione non solo tra madre e figlio, ma ancora una volta, tra animato e inanimato, tra ciò che è vivo e tra ciò che è morto. Questo è, infatti, un confine che il cinema spesso supera, Bazin afferma:

Il film non si contenta più di conservare l'oggetto avvolto nel suo istante, come, nell'ambra, il corpo intatto degli insetti di un'era trascorsa... Per la prima volta, l'immagine delle cose è anche quella della loro durata e quasi la mummia del cambiamento.161

160 Ivi, p. 174.

161 A. BAZIN,“Ontologie de l'image photographique”, in Che cos'è il cinema?, Garzanti, Milano 1973, p. 9.

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Fig. 1

Fig. 2

Fig. 3

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Fig. 4

Fig. 5

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CAPITOLO III

3.1 Cecilia Mangini: il cinema dei luoghi, del lavoro e delle donne

Il rapporto con la pellicola è un rapporto soprattutto fattivo. Ho un ricordo molto preciso dell'odore che emana la pellicola che corre nella moviola. È qualcosa che sta dentro di me. Quel fascio di luce che s'accende, il rumore della “croce di Malta” della macchina da presa: questo ingranaggio meraviglioso che fa scorrere la pellicola e suona in contemporaneo. Io credo che in quel momento il cinema mi abbia catturato. Catturato per sempre.162

Cecilia Mangini nasce a Mola di Bari il 31 luglio 1927, da padre meridionale e madre toscana. Nel 1933, la grande crisi economica colpisce anche la sua famiglia, che per cercare lavoro si trasferisce a Firenze. È nel capoluogo toscano che Cecilia si avvicina al mondo del cinema attraverso l'esperienza dei CineGUF (Cinema dei Giovani Universitari Fascisti).

Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in tutta l'Italia si respirava un'aria nuova, una ventata di cambiamento, e anche il cinema si risvegliò da una sorta di torpore durato vent'anni. Durante il ventennio fascista, il cinema era completamente al servizio del regime e non lasciava alcuno spazio per il racconto della vita reale e dei problemi delle classi sociali più povere. 163 Mentre in altri paesi europei nei primi decenni del XX secolo si erano sviluppati i diversi movimenti di avanguardia cinematografica, in Italia non c'era stata quasi alcuna 162 Commento di Cecilia Mangini nel documentarioNon c'era nessuna signora a quel tavolo. Il cinema di Cecilia Mangini (2013) di Davide Barletti e Lorenzo Conte.

163 G. SCIANNAMEO,Con ostinata passione. Il cinema documentario di Cecilia Mangini, Edizioni dal Sud, Bari 2010, p. 25.

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sperimentazione, e il cinema era rimasto legato alle esigenze del fascismo, rappresentando l'arma più raffinata di una complessa macchina propagandistica.

Era il periodo del “cinema dei telefoni bianchi”, un cinema edulcolorato in cui non si coglieva in alcun modo il dramma che l'Italia stava vivendo. Gianluca Sciannameo afferma: «la realtà era percepita come una zona pericolosa, dove si annidava insofferenza, disagio e drammi sociali che dovevano essere rimossi e sostituiti dal trionfalistico racconto delle meraviglie del regime [...] Con la guerra, questo controllo totalitario iniziò a sfaldarsi e l'umanità cominciò a riprendersi quello spazio negato».164 Come rifletteva Carlo Salinari, partigiano di origini lucane e critico letterario italiano:

Se si voleva ricostruire il Paese dando concretezza ad un movimento che molti auspicavano potesse essere autenticamente rivoluzionario e non solo culturale, si doveva in qualche modo ripartire dalla narrazione di quello che c'era, dalla scoperta di un'Italia reale, con le sue miserie e le sue arretratezze, le rovine materiali e i traumi collettivi.165

Il cinema si riappropriò dell'immagine del quotidiano, di quella che Sciannameo definisce significativamente la “materia primordiale”. 166 Tutto quello che era stato rimosso o mascherato nel ventennio fascista e umiliato dalle distruzioni della guerra, andava riscoperto e raccontato con occhi nuovi. Lo sguardo innocente dei bambini, che in Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945) assistevano all'esecuzione di Don Pietro, è la metafora dell'obiettivo di 164 Ivi, pp. 25-26.

165 C. SALINARI,Profilo storico della letteratura italiana, Vol. III, Editori Riuniti, Roma 1962, pp. 315-316.

166 SCIANNAMEO,Con ostinata passione, p.27.

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questo nuovo cinema: approcciarsi in modo del tutto nuovo all'Italia e agli Italiani, come se ci si trovasse ad osservare il mondo con gli occhi dei bambini.

Attraverso il Neorealismo, il cinema tornò a raccontare quella materia pericolosa e difficile da gestire che è la realtà. Come sostiene Sciannameo, ci fu una vera e propria rivoluzione formale, il cinema italiano subì uno svecchiamento dello sguardo, una rinnovata capacità di essere strumento per esaltare il racconto del reale e si pose in diretta continuità con i valori della Resistenza. 167 Il Neorealismo, considerato ancora oggi uno dei periodi migliori del cinema italiano, fu apprezzato molto per i suoi contenuti, ma allo stesso tempo criticato per il fatto di essere deprimente e pessimista. Molti, soprattutto dagli ambienti politici dell'epoca, affermavano che con questo tipo di film si rappresentava l'Italia come un Paese di straccioni e non si faceva altro che ricordare alle persone le loro difficoltà, invece di indicare loro la via per superarle. È tristemente famosa l'affermazione di Giulio Andreotti, quando nel 1947 come Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega al cinema del Governo De Gasperi, disse: «i panni sporchi si lavano in famiglia»; 168 affermazione che ricorda la più recente dichiarazione di Silvio Berlusconi, quando nel 2010, allora Presidente del Consiglio, a proposito di Gomorra di Roberto Saviano, commentò: «un libro che non fa altro che danneggiare l'immagine dell'Italia all'estero». 169 Nel dopoguerra, alla condanna esplicita del Neorealismo per voce del Ministro Andreotti e della sua “legge censura” della produzione filmica italiana, seguì quella dei suoi registi. Molti intellettuali di sinistra accusavano alcuni di loro, 167 Ivi, pp. 27-28.

168 P. NOTO, F. PITASSIO,Il cinema neorealista, Archetipolibri, Bologna 2010, p. 21.

169 REDAZIONE,Berlusconi contro Gomorra e la Piovra, «www.repubblica.it», 16 aprile 2010.

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infatti, di aver tradito lo spirito della Resistenza, mentre gli ambienti clericali li accusavano di affrontare temi che offendevano la morale cattolica. Fu così che, intorno alla metà degli anni '50, dal Neorealismo classico si passò al cosiddetto Neorealismo rosa, nel quale le tematiche tipiche del Neorealismo propriamente detto venivano veicolate dalla commedia.

A partire dai primissimi anni '50 e in diretta continuità espressiva con il Neorealismo, mosse però i primi passi una nuova generazione di cineasti: Lino Del Fra, Luigi Di Gianni, Giuseppe Ferrara, Gianfranco Mingozzi, Ermanno Olmi, Francesco Rosi, Vittorio De Seta e, tra questi una donna, Cecilia Mangini. È grazie a loro che, attraverso il documentario, possiamo conoscere quella parte del Paese che poi sarebbe stata completamente trasformata dallo sviluppo industriale.170 Gianluca Sciannameo descrive in questo modo il lavoro di Cecilia Mangini:

Due sono le cifre che caratterizzano tutta l'opera di Cecilia Mangini: una sostanziale invisibilità, non cercata ma subita, e l'ostinazione della propria passione civile.

Cecilia Mangini ha sempre considerato il cinema, al di là delle diverse forme che poi hanno caratterizzato le sue opere, come possibilità concreta per favorire un risveglio delle coscienze, una presa di posizione nei confronti del mondo. Sempre ostinatamente libera, la regista pugliese ha vissuto il suo lavoro come una sfida costante non solo alla società, al conformismo, ma anche a quell'idea, ancora così forte in Italia, che il cinema fosse un territorio, soprattutto nella sua parte realizzativa, quasi esclusivamente “maschile” […] Il racconto del cinema di Cecilia è perciò il racconto di una 170 SCIANNAMEO,Con ostinata passione, pp. 11-12.

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battaglia politica e culturale affrontata con coraggio in anni che, soprattutto al cinema, furono tra i più vitali della nostra storia.171

Nel suo cinema, dunque, possiamo individuare, come nota Sciannameo, quelle che lo storico francese Guy Gauthier descrive come le due vocazioni del cinema documentario: da una parte la volontà di raccontare il mondo esplorando le potenzialità espressive del cinema (si pensi a Dziga Vertov); dall'altra parte, narrare i fatti rispettando lo scorrere naturale degli eventi (si pensi a Robert Flaherty, pioniere del genere documentario). 172 Cecilia Mangini, con i suoi documentari, è sempre andata contro corrente evitando di “inciampare” nei classici stereotipi di genere e ha saputo esplorare la realtà nei suoi aspetti più nascosti. 173 La regista pugliese ha usato il cinema, e in particolare il documentario, come uno strumento per stimolare la coscienza civile degli italiani.

«I documentari della Mangini» afferma Sciannameo «conservano intatta una grande lezione per chi ha a cuore non solo il racconto del reale, ma la necessità stessa di essere partecipe della vita sociale, politica e culturale del proprio Paese».174 Lo spettatore guardando i documentari della Mangini si sente chiamato in causa e viene coinvolto emotivamente, diventando un critico attivo e partecipe verso quello che viene rappresentato sullo schermo. Sciannameo dice:

Il documentario è il luogo in cui è possibile vivere cinematograficamente quell'affascinante contatto con l'altro da sé, quella relazione che determina 171 Ivi, pp. 12-13.

172 Ivi, p. 14.

173 Ivi, p. 15.

174 Ivi, p. 17.

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fortemente la stessa possibilità che il dato documentario esista, che infiamma di passione il documentarista, il quale accetta di mettere in crisi innanzitutto se stesso nella relazione che avviene per il tramite della macchina da presa e che interessa il pubblico che ne segue lo svolgimento. È il cinema che diventa tramite per la costruzione di una relazione, un incontro che si fa nella vita prima ancora che sullo schermo, mettendo in gioco e rischiando direttamente anche la propria identità e le proprie convinzioni.175

La regista pugliese, quindi, con i suoi documentari, è riuscita nell'impresa di scavalcare lo schermo e portare alla luce l'essenza di un'epoca. Sciannameo, infatti, afferma: «È così che nasce lo stupore di chi assiste alla vitalità di un mondo ormai scomparso e si accende l'emozione di ritrovarlo tanto vicino a noi».176

3.1.1 Stendalì (Suonano ancora)

Durante il ventennio fascista, molte problematiche del Paese che erano state “occultate”, poi, con la caduta del regime, riemersero con forza. Tra i tanti problemi irrisolti vi era il divario tra Nord e Sud. A questo proposito, Pasquale Iaccio osserva:

Per Cecilia Mangini e il suo sguardo appassionato per il Meridione d'Italia, con cui conserva innanzitutto un legame sentimentale, il documentario diventa un ottimo strumento per raccontare quel fermento che coinvolgeva un ampio territorio e per tentare di ribaltare gli stereotipi che pesavano sul Sud e che, con il Neorealismo rosa, con le commedie musicali, con i film 175 Ivi, pp. 18-19.

176 Ivi, p. 20.

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turistico-sentimentali il cinema aveva ripreso, con enorme successo di pubblico, ad “appiccicare” al Mezzogiorno.177

Il cinema della Mangini è un cinema politico, uno strumento di analisi e intervento sulla società, e questo è dimostrato dal fatto che essa rivendica sempre una posizione non neutrale di fronte allo spettacolo della realtà. I suoi documentari, quindi, raccontano in modo diverso il Sud, contribuendo a costruire nuove identità: racconta i drammi e le esistenze di uomini e donne che lottano per migliorare la propria vita, diventando finalmente protagonisti della Storia; si passa da un Sud rappresentato da sempre come vittima, ad un Sud impegnato e che lotta per risolvere i propri problemi; racconta una cultura che scompare, ma che avrebbe potuto diventare un modello alternativo di sviluppo. 178 In questo viaggio, che potremmo definire un ritorno alle origini, per la regista pugliese fu fondamentale l'influenza delle ricerche dell'antropologo Ernesto De Martino. Cecilia Mangini, infatti, può essere inserita in quel gruppo di giovani documentaristi che la critica ha definito “demartiniani”, 179 i quali hanno legato alle ricerche e alla figura del grande antropologo napoletano il proprio esordio cinematografico. Gli studi di De Martino sul mondo magico meridionale si legarono al fascino che il Sud esercitava su alcuni grandi registi alle prime esperienze cinematografiche: un gruppo responsabile della realizzazione di quelli che possono essere considerati i primi esempi di cinema di ispirazione

177 P. IACCIO,Cinema e mezzogiorno, in «Storia del Mezzogiorno», vol. XIV, Edizioni del Sole, Napoli 1991; cit. in SCIANNAMEO, Con ostinata passione, p. 53.

178 SCIANNAMEO,Con ostinata passione, p. 53.

179 In questo gruppo possiamo inserire, oltre Cecilia Mangini e il marito Lino Del Fra, anche Luigi Di Gianni, Giuseppe Ferrara, Gianfranco Mingozzi e Vittorio De Seta.

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antropologica del nostro Paese. 180 Ispirandosi principalmente a tre opere di De Martino, Morte e pianto rituale (1958), Sud e magia (1959) e La terra del rimorso (1961), nei suoi documentari, la Mangini contribuisce a svelare alcuni aspetti importantissimi del Sud: la creatività, la capacità e l'elaborazione del mito e la ricchezza del rituale. Gianluca Sciannameo scrive:

Il rituale è dotato finalmente della giusta dignità di espressione culturale non più considerato sinonimo di degrado morale, viene mostrato come un importante strumento sociale, creato per controllare l'effetto negativo che le situazioni di vita più difficili potrebbero avere […] La miseria economica del Meridione è il luogo in cui ampie fasce della popolazione lottano quotidianamente per la sopravvivenza, oppresse da antiche ingiustizie, che però trovano nell'elaborazione di forme di linguaggio magico una possibile soluzione.181

Tutto questo è particolarmente evidente in Stendalì (Suonano ancora) del 1960, nel quale Cecilia Mangini non si limita a descrivere un mondo contadino rimasto legato a tradizioni arcaiche, ma racconta la capacità del popolo di dare risposte al grande interrogativo della morte. 182 Il film si apre con le inquadrature di case e viuzze di un paesino deserto, l'unico suono è quello delle campane. Su queste immagini scorre il seguente testo, scritto da Pier Paolo Pasolini:

Qualcuno è morto. Lo annuncia il suono delle campane: le vicine di casa vengono a consolare le madri. Le spose o le sorelle a piangere con loro. È la visita funebre. Poi saranno i soli uomini ad accompagnare il morto nel 180 SCIANNAMEO,Con ostinata passione, p. 56.

181 Ivi, pp. 59-60.

182 Ivi, p. 63.

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cimitero. Intanto le donne nella casa continuano il pianto.

Il pianto così regolato e rituale èuna sopravvivenza arcaica in una società che, infatti, è per molti versi arcaica. La società delle aree depresse, cioè, di quasi tutta l'Italia Meridionale.

In una simile società oberata da condizioni economiche a volte disumane, la morte sarebbe intollerabile, priva di senso, se il suo dolore disgregatore non fosse contenuto dal rozzo istituto del pianto. Per cui le informi manifestazioni della disperazione vengono, per così dire, stilizzate.

Alcuni canti funebri, questi per esempio dei comuni pugliesi, di lingua greca, sono tra le più alte forme della poesia popolare.

Il suono delle campane è sostituito dal canto delle donne, ognuna di esse sa cosa fare e sa perfettamente qual'é il suo ruolo. Come se stessero recitando una parte, le madri portano avanti questo rito, che non è solo canto ma è anche gestualità; infatti, ad un certo punto diventa quasi un ballo. Le donne posizionate tutt'intorno alla bara del giovane ragazzo morto (fig. 1), agitano i loro fazzoletti con movimenti sincronizzati; altre, invece, prendono ciocche di capelli tra le mani e le muovono seguendo la musica (fig. 2). Il ritmo della narrazione si fa pian piano più veloce, quasi a presagire il momento più temuto: l'arrivo del prete. Il canto diventa sempre più forte e quelli che prima erano suoni intonati ora diventano urla e grida di disperazione. Il prete porta via la salma del giovane e, insieme ai soli uomini, va in processione verso il cimitero. Le donne continuano il rito, questa volta un pianto rotto, labili lamenti che lasciano spazio ad un silenzio funereo. In questo modo si conclude quello che è da molti considerato uno dei lavori più intensi di Cecilia Mangini.

Stendalì è la ricostruzione cinematografica di un lamento funebre 78

realizzato a Martano, paese della cosiddetta Grecìa Salentina (un gruppo di piccoli comuni a sud di Lecce) in cui è molto forte ed evidente l'origine greca degli abitanti. Cecilia Mangini, come nota Sciannameo, riesce a raccontare, a descrivere e a rielaborare la realtà, attraverso una meticolosa selezione degli elementi visivi e sonori che vengono combinati insieme alternando dettagli e campi più larghi. 183 In questa modalità d'uso del linguaggio cinematografico si nota l'influenza del cinema sovietico degli anni venti e, in particolare, di Dziga Vertov, il quale affermava che «La macchina da presa vede ciò che noi non vediamo, le riprese e il montaggio sono operazioni parallele […] che liberano il Cine-occhio dalla schiavitù dell'occhio dello spettatore». 184 Nel confronto con la realtà, quindi, la regista sperimenta nuovi stili: presta molta attenzione alla composizione dell'inquadratura e alla scelta di punti di vista sempre inediti (si veda la soggettiva del morto alla fig. 3).185 Ogni cosa che compare nell'inquadratura ha un significato molto preciso ai fini del racconto (si pensi, ad esempio, al dettaglio delle calze di nylon e dei tacchi a spillo di una delle lamentatrici); la macchina da presa è collocata in posizioni insolite, per riprese dal basso verso l'altro, dall'alto verso il basso e ad altezza del pavimento (altro riferimento al cinema sovietico); si nota anche la forte espressività dei primi piani, che riescono a catturare tutta la storia di un personaggio. Il montaggio, inoltre, contribuisce a ricreare un importante effetto di realtà, infatti Sciannameo afferma:

Il montaggio interagisce con la ripetitività del gesto, la circolarità, la ritualità 183 Ivi, p. 72.

184 G. GAUTHIER,Storia e pratiche del documentario, Lindau, Torino 2009, p. 220.

185 SCIANNAMEO,Con ostinata passione, p. 73.

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del mondo contadino nella ricostruzione della visione del cineasta […] Il montaggio ricostruisce cinematograficamente il rito, nel movimento alternato dei tempi, degli spazi e dei suoni, nell'essenzialità di un linguaggio cinematografico attento e curato.186

In Stendalì, la regista coglie l'occasione per riflettere sull'uomo utilizzando sia il punto di vista del cineasta sia il punto di vista dell'etnografo. 187 Come in tutte le sue opere, anche in Stendalì Cecilia Mangini, non usa una scrittura filmica obiettiva, ma sceglie un linguaggio cinematograficamente consapevole e mai neutrale. 188 In questo documentario, infatti, emerge tutta la vicinanza della Mangini alle donne di Martano: c'è condivisione geografica, ma anche un terreno sentimentale comune. La regista è parte di quel mondo e questo appare evidente nell'impostazione che ha deciso di dare al suo film. Sciannameo osserva:

Le donne di Stendalì appaiono consapevoli del proprio ruolo nel territorio del sacro. Si muovono a loro agio nella dimensione protetta in cui si agisce il dolore per una perdita che altrimenti sarebbe troppo tragica per essere accettata, anche nella consapevolezza di essere le ultime testimoni di una cultura.189

186 Ivi, p. 79.

187 Ivi, p. 74.

188 Ivi, p. 75.

189 Ivi, p. 78.

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3.1.2 Essere donne

Il processo di modernizzazione lascia dietro di sé una serie di scarti, e talvolta si parla proprio di “scarti umani”: chi non ce la fa a sostenere i ritmi imposti dalla produzione e chi non accetta lo sfruttamento che continua a ripetersi nei secoli.190 Cecilia Mangini affronta il tema dello sviluppo industriale e dei suoi effetti sul Paese e sugli italiani, in documentari come Brindisi '65 (1965) e Tommaso (1965): la regista parla della fabbrica non più come il luogo in cui si costruisce una nuova classe rivoluzionaria in grado di cambiare la società, ma come una fucina che produce scarti. Sciannameo afferma: «la grande fabbrica calata dall'alto rappresenta il tradimento delle aspettative di riscatto, finendo per diventare il luogo in cui si replicano tristi rapporti di predominio, di sottomissione e di ricatto».191È in un altro documentario dello stesso anno, però, che il tema del lavoro assume una risonanza e un coinvolgimento emotivo maggiore.

Essere donne è un lavoro che la Mangini realizza attraversando l'Italia da nord a sud, per raccontare la condizione lavorativa delle donne dell'epoca. Il film inizia con immagini di dive e donne bellissime che compaiono sulle copertine di riviste patinate. La voce fuori campo commenta:

Chi può riconoscersi in queste immagini? Non i 6.000.000 di donne che in Italia lavorano nella produzione. Non i milioni di donne che restano a casa legate alla fatica domestica. Non queste ragazze di 14/15 anni che lavorano in un panificio pugliese.

190 Ivi, p. 89.

191 Ivi, p. 90.

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Con questo documentario, Cecilia Mangini riesce ad entrare con la macchina da presa in una fabbrica del nord Italia. Al tempo, questa era un'impresa ardua, nella quale la regista riuscì grazie al PCI (Partito Comunista Italiano), che le commissionò la realizzazione del film. La Mangini riuscì a registrare i suoni, il rumore dei macchinari, il ticchettio degli orologi dei “tempisti”, ma soprattutto, le voci e le testimonianze delle lavoratrici. Mentre scorrono le immagini della catena di montaggio di una fabbrica del Nord, un'operaia dice:

Faccio più di 1.000 saldature all'ora […] ma quando arriva il tempista ci prende la paura che ci tagliano ancora i tempi o che ci vogliono licenziare.

Siamo al limite, non c'è più margine. Sono sempre gli stessi gesti calcolati al decimo di secondo e dopo otto ore andiamo a casa rotte, le ossa non ce le sentiamo più. Non ci rendiamo conto che moriamo venti anni prima.

Dalla fabbrica, la macchina da presa si sposta nei campi del sud Italia, dove le braccianti, pur lavorando senza sosta e con tanta fatica, ricevono una paga ingiusta. In questo le donne sono trattate come gli uomini, con la differenza, come fa notare il commento fuori campo, che sulle donne cade anche il peso di subordinazioni antiche e tradizionali. Vengono mostrate le donne inginocchiate a raccogliere le olive, mentre guardano la torre della fabbrica lì vicino: l'unica speranza di progresso è di sottrarsi al rapporto patriarcale con la famiglia e con l'uomo andando in fabbrica. Ci sono le bambine costrette a crescere in fretta e a lasciare la scuola per badare ai fratelli più piccoli, «ragazzine il cui rapporto con la cultura non è mutato da quello delle loro nonne che filavano la lana», 192 ma ci sono anche le donne che non avendo nessuno a cui lasciare i propri figli, sono 192 Commento dal filmEssere Donne (1965).

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costrette a licenziarsi per dedicarsi esclusivamente al lavoro domestico. «Quale ricompensa ricevono le donne per la perduta libertà di scegliersi un lavoro? Gli ipocriti rispondono: le gioie della famiglia», commenta la voce fuori campo. Il documentario si conclude, però, con un messaggio positivo. Le donne, nonostante le enormi difficoltà che sono state loro imposte dalla vita, continuano a lottare: le donne difendono le fabbriche insieme agli operai, si battono contro l'arretratezza del meridione insieme ai braccianti, e accorrono lì dove si manifesta contro i pericoli della guerra. Le donne hanno una grande forza, ma dovrebbero capire che la loro liberazione può avvenire solo in una società nuova, dove lo sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti.

I n Essere donne emerge chiaramente la connessione fisica che lega la Mangini con le protagoniste del film. Come osserva Gianluca Sciannameo, nelle interviste, nei primi piani, nei racconti di queste donne è possibile cogliere la capacità della regista di restare in equilibrio sulla frattura che separa i protagonisti dall'osservatore/regista.193 In questo documentario sono direttamente i protagonisti a parlare e a raccontare la loro personale visione della società dell'epoca, e concludendo, si ricordano le parole di Gianluca Sciannameo: «attraverso le inflessioni nelle voci delle protagoniste ne ascoltiamo il racconto; attraverso i loro sguardi osserviamo il loro mondo, che poi è anche il nostro».194

193 SCIANNAMEO,Con ostinata passione, p. 95.

194 Ivi, pp. 96-97.

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3.2 Liliana Cavani: tra sacro e profano

Fu la visione di Umberto D a rivelarmi la capacità di dare all'autore la stessa libertà che offre la penna e il foglio […] In sostanza scoprii che il cinema ha lo stesso potenziale narrativo della letteratura […] De Sica ci ha dato nella fase dei suoi grandi film dei personaggi anche se agiva dentro la poetica neorealista e non teorizzava niente, era un creativo formidabile, un cineasta puro.195

Regista dello scandalo, provocatrice, cattolica del dissenso, intellettuale laica, trasgressiva e “per di più donna”, questi sono alcuni dei tanti appellativi che sono stati usati per descrivere Liliana Cavani. Nonostante tale ricchezza, è difficile riuscire a “catturarla” in una definizione appropriata. Come afferma Francesca Brignoli: «nulla più del movimento sembra corrispondere a Liliana Cavani ed essere il fulcro del suo cinema. Movimento della ricerca, dell'esplorazione spesso rischiosa, di certo onerosa; scelta artistica, vocazione». 196 Movimento come libertà, quindi, occasione per allargare lo sguardo e la coscienza. La stessa Cavani diceva di sé: «mi sento una persona fuori, né apocalittica né integrata» 197, citando il titolo di un famoso e discusso libro di Umberto Eco, e proprio per questo suo modo di essere, fu da subito criticata, attaccata, censurata, amata e odiata allo stesso tempo. A causa dei suoi film, Liliana Cavani fu oggetto di giudizi poco lusinghieri, tanto che qualcuno le consigliò addirittura la psicanalisi.

195 L. CAVANI “Il cinema per capire”, in P. GOLDONI, Il cinema di Liliana Cavani, Grafis, Bologna 1993, p. 28.

196 F. BRIGNOLI,Liliana Cavani. Ogni possibile viaggio, Le Mani, Genova 2011, p. 3.

197 G. ALMANSI,Tra cinema e teatro, Marsilio, Venezia 1995, p. 59.

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È, dunque, legittimo domandarsi cosa abbiano i film di Cavani di così scandaloso. Secondo la Brignoli, ciò che rende questi film così “arditi” è la mitologia, il fatto che raccontano la storia di esseri umani comuni ma allo stesso tempo archetipici.198 Le opere della regista raccontano storie di uomini comuni, i quali, a volte, non riescono a domare i loro istinti primordiali. Come afferma Brignoli: «le personae di Cavani sono gli “effetti notte” della coscienza, a volte poetici, a volte no, che lei riprende sempre con lucida chiarezza geometrica». 199 Liliana Cavani nasce a Carpi, in provincia di Modena, il 12 gennaio 1937.

Il padre, appartenente alla ricca borghesia mantovana tradizionalmente legata al fascismo, era un architetto formatosi al Bauhaus. La madre, invece, proveniva da una famiglia contadina modenese di ideali opposti: il nonno materno era comunista e anarchico.200 Tre furono le donne che rappresentarono i punti fermi della sua vita: la madre, la nonna e la zia Libera, la quale, in particolare, ebbe un ruolo fondamentale fino alla sua piena maturità. La madre portava spesso al cinema la piccola Liliana a vedere i classici drammi d'amore degli anni '30 e '40 che costituirono così le prime esperienze e i primi ricordi legati al cinema della futura regista legati.201 Dopo aver conseguito la maturità, presso il liceo classico di Carpi, la Cavani si trasferì a Bologna, nella cui Università iniziò a frequentare il corso di laurea in Lettere antiche. In questo periodo, con alcuni amici fondò un cineclub a Carpi, ma fu a Bologna che ebbe l'opportunità di conoscere molte delle opere che fecero la storia del cinema. 202 Dopo la laurea, nel 1960, fu così forte il 198 BRIGNOLI,Liliana Cavani, p. 4.

199 Ivi, p. 5.

200 F. BUSCEMI,Invito al cinema di Liliana Cavani, Mursia, Milano 1996, p. 24.

201 Ibid.

202 Ivi, p. 25.

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richiamo del cinema che decise di trasferirsi a Roma, dove iniziò a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia. Il direttore del Centro, in quegli anni, era Leonardo Fiornavanti e tra gli allievi c'erano anche Marco Bellocchio e Silvano Agosti; Liliana Cavani era l'unica donna del corso di regia. Quello di questi autori emergenti, come fa notare Francesca Brignoli, fu un cinema che aveva superato il Neorealismo e si stava inventando nuove forme di rappresentazione del reale con uno stile più soggettivo.203 In ultima analisi, protagonista di tutto il cinema di Liliana Cavani è l'amore: «Un viaggio nel profondo e un'esperienza indelebile» 204, così la regista definisce questo sentimento. Brignoli aggiunge:

Come la bellezza, si manifesta sempre come un'epifania, davanti alla quale non resta che il silenzio […] È la passione per un'idea, per la conoscenza, per l'altro, per il mondo e per Dio. È una sfida, una lancinante esperienza emotiva davanti alla cui pericolosità è impossibile arretrare e che induce a una posizione agonistica e di contrapposizione con l'ordine interno ed esterno a sé.205

Attraverso il cinema di Cavani, fa notare Brignoli, emerge la natura ambivalente dell'amore: la grazia e la gravosità, la beatitudine e la dannazione; un'esperienza che coinvolge allo stesso modo sia l'anima sia il corpo. 206 Si pensi a Francesco, Francesco (1989) il cui amore si esprime nel desiderio di adesione al Crocefisso e a Dio; oppure a Max e Lucia, Il portiere di notte (1974), i quali 203 BRIGNOLI,Liliana Cavani, p. 16.

204 L. CAVANI,Abelardo e Eloisa una storia d'amore e d'anarchia, «Tuttolibri», 8 dicembre 1979.

205 BRIGNOLI,Liliana Cavani, p. 33.

206 Ivi, pp. 33-34.

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cercano e subiscono un sentimento che, contemporaneamente, è esaltazione e condanna.207 Francesca Brignoli osserva:

Se Francesco è l'eroe dell'amore “orizzontale” che libera e apre l'individuo a tutte le possibilità, visibili e invisibili, dell'esistenza, quello che lega l'ex-SS e la ragazzina incontrata nel lager è la forza terribile che chiude in una geometria verticale rivolta anch'essa verso l'assoluto ma che condanna alla profondità di un sottosuolo in cui il bene e il male si confondono, precipitando l'uno nell'altro, come fanno gli stessi protagonisti che si scambiano i ruoli e le paure, mischiando pelle e psiche, in una sfida letale all'autorità.208

Il volto dell'amato diventa il riflesso della propria immagine, proprio come in un gioco di specchi ed è nell'amore che si concretizza l'unità fisica e psichica tra i due amanti.209 Liliana Cavani affermava che «l'amore ha sempre avuto a che fare con il divino»,210 perciò per lei questo sentimento è sempre un accadimento miracoloso in cui il sacro prende letteralmente corpo. 211 Il luogo della celebrazione assoluta dell'amore, quindi, per Liliana Cavani è il corpo. Dal primo al secondo Francesco - Francesco di Assisi (1966) e Francesco - la regista parte dal corpo e ritorna sempre ad esso, ed anche la parola, il verbum, per essere vista deve farsi carne.212 Il corpo è il luogo della ribellione, infatti, Francesco lo usa nudo per allontanarsi dal suo stile di vita precedente, fatto di lusso e divertimenti.

207 Ibid.

208 Ivi, p. 35.

209 Ibid.

210 L. Cavani intervistata da Mons. A Comastri per Radio Vaticana; www.radiovaticana.org, febbraio 2006.

211 BRIGNOLI,Liliana Cavani, p. 35.

212 Ivi, p. 29.

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La Brignoli sostiene che Liliana Cavani ha sempre affrontato le problematiche del soggetto donna con molta passione e attenzione, ma sarà a partire dalla fine degli anni '80 che dimostrerà una partecipazione sempre più attiva e quasi di protezione nei confronti delle donne. 213 Molta responsabilità in questo, secondo la Cavani, è da attribuire alla Chiesa, che da sempre garantisce il perpetuarsi di una concezione patriarcale del potere. Nel dicembre 2009, la regista intervenne nella vita pubblica italiana firmando, insieme ad Emma Fattorini, l'articolo «Un sinodo sulla donna», nel quale esponeva proprio questa sua convinzione. Secondo la Cavani, negando alla donna lo status di soggetto indipendente dall'uomo e dalle varie convenzioni sociali, non si fa altro che giustificare l'idea del suo possesso.214 È a questo punto che può consumarsi la violenza sulle donne, un'emergenza sulla quale la regista ha indagato attraverso il film per la televisione Troppo amore (2011), che racconta un caso di stalking.

Eppure il cinema di Liliana Cavani non è un cinema di o sulle donne, e lei stessa affermò: «Esiste il cinema e basta, fatto da chiunque».215 La stessa regista, d'altra parte, aveva dichiarato più volte di non essersi mai posta il problema del rapporto tra il suo essere una donna e l'aver scelto di fare un mestiere da uomo. 216 Quello della Cavani, quindi, non è certo un cinema femminista militante, e, forse, è anche per questo motivo che non fu mai particolarmente amata dal movimento femminista. Il portiere di notte, ad esempio, fu accettato con molta difficoltà dalle femministe dell'epoca, poiché in esso non c'è alcuna parità tra uomo e donna.

213 Ivi, p. 43.

214 Ivi, p. 44.

215 CAVANI “Il cinema per capire”, p. 78.

216 BRIGNOLI,Liliana Cavani, p. 45.

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Il portiere di notte faceva un bel falò di tutte queste teorie, per raccontare una storia scomoda ma terribilmente verosimile: un uomo che sopraffaceva la donna di cui era già stato l'aguzzino e ne riceveva in cambio amore. Lo scandalo era d'obbligo per un film che andava contro tutto e tutti.217

La donna di Liliana Cavani, però, non è mai semplicemente una vittima, ma a volte può essere il “carnefice silenzioso” 218, o, come la definisce Brignoli, «un soggetto indipendente, che, senza remore e risparmio, porta avanti una sperimentazione di sé e del mondo». 219 Non è un caso, infatti, che le prime donne di cui ci parla Liliana Cavani nei suoi film, siano le partigiane che liberarono l'Italia dal fascismo, in La donna nella Resistenza (1965).

3.2.1 Francesco

Nel 1989, dopo ventitré anni e nove film, Liliana Cavani torna a raccontare la storia di Francesco, concentrandosi sulle scelte che hanno trasformato questo giovane, prima spregiudicato e superficiale, nel Santo simbolo di libertà e di semplicità. Il 9 novembre dello stesso anno cade il muro di Berlino e in questo clima di rinnovata libertà e speranza per il futuro, la regista ritiene necessario riproporre la storia di Francesco, simbolo di amore puro e fratellanza tra i popoli.

Come interprete per il ruolo del protagonista la Cavani scelse Mickey Rourke, dopo averlo particolarmente apprezzato in Year of the Dragon (L'anno del dragone, 1985) di Michael Cimino e l'attore diede corpo a un Francesco 217 BUSCEMI,Invito al cinema, p. 72.

218 E. TROIANELLI, “Liliana Cavani e la critica femminista”, in P. GOLDONI, Il cinema di Liliana Cavani, Grafis, Bologna 1993, p. 66.

219 BRIGNOLI,Liliana Cavani, p. 45.

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potente, spregiudicato e malinconico. 220 Nella sequenza iniziale, Chiara viene ripresa dall'alto all'interno della chiesetta di San Damiano. Il corpo morto di Francesco viene deposto al suo fianco e di fronte al grande crocefisso. Si forma visivamente un triangolo, in cui Francesco e Chiara sono la base, mentre il vertice è rappresentato dal crocefisso/Cristo (fig. 4). Come fa notare la Brignoli, Francesco è il doppio speculare di Cristo, il suo corpo disteso rappresenta l'Alter Christus.221 Chiara abbassandosi, prende la mano di Francesco e la bacia. La sequenza si conclude con Chiara che si sdraia accanto a Francesco in posizione prona, formando un insieme speculare che si completa a vicenda e che Brignoli definisce «lo specchio di Cristo».222 Attraverso i ricordi di Chiara e dei suoi amici, poi, hanno inizio una serie di flashback, con i quali si ripercorrono le tappe più importanti della vita di Francesco.

Liliana Cavani si sofferma molto sul legame tra Chiara e Francesco, che Francesca Brignoli definisce così:

Una delle novità fondamentali dell'esperienza francescana, uno dei suoi aspetti di più grande modernità: la conquista della libertà di vivere aderendo al proprio ideale senza essere costretti da impedimenti di nessun tipo.

Francesco, e con lui Chiara, fanno una scelta essenzialmente d'amore – un amore che penetra tutto l'esistente, senza limiti – e che per questo suo continuo sconfinamento non concepisce neppure gli ostacoli imposti dalle differenze, a partire dalla barriera divisoria tra maschile e femminile, che oltrepassano senza accorgersene, con silenziosa naturalezza.223 220 Ivi, p. 223.

221 Ibid.

222 Ibid.

223 Ivi, p. 225.

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Chiara è per Francesco una visione (accresciuta dal bianco della veste e dalla nebbia presente in alcune scene) quando la incontra mentre passeggia per Assisi, rappresentata come una città onirica e buia.224 Quelli sono i giorni della crisi per Francesco, il cui disagio è rappresentato dalla tosse convulsa e psicosomatica che lo assilla in continuazione. Chiara, dopo avergli mostrato il gesto caritatevole dell'elemosina, fa entrare per la prima volta Francesco nella chiesa di San Damiano, ed è sempre lei che, dopo averlo svegliato, lo osserva abbracciare fisicamente il Crocefisso, 225 senza inibizioni, come a voler accogliere tutti i corpi sofferenti del mondo 226 (si pensi all'abbraccio con il lebbroso). Ma anche Francesco è una visione per Chiara, e lo si capisce dagli sguardi che si scambiano durante il loro primo incontro. Chiara, infatti, afferma: «Io ero caritatevole solo perché ero stata abituata ad esserlo […] Ma chi ero io?». La ragazza scopre chi lei sia veramente, la sua vera essenza, solo nel momento in cui decide di seguire Francesco.

Chiara apre e chiude il film, ed infatti è suo l'ultimo ricordo di Francesco quando afferma: «Pensai che l'amore aveva reso il suo corpo uguale al corpo dell'Amato. Mi chiesi se mai sarei riuscita ad amare così tanto».

Francesco è un film sensuale e con un profondo senso religioso. Francesca Brignoli a tale proposito afferma:

Cavani immerge Francesco in un mondo dove l'invisibile si fa visibile 224 Ivi, p. 226.

225 Gesto che ricorda quello della Santa Susanna nell'omonima opera di August Stramm (Sancta Susanna, 1921).

226 BRIGNOLI,Liliana Cavani, p. 227.

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impastandosi di materia, di pietra,fango, acqua, terra e sangue: il corpo è il luogo per sperimentare la piena esistenza. Francesco fa del suo stesso corpo una preghiera[…] Francesco – che parla sempre meno, sottraendosi alla logica della parola – é il verbum che si fa carne: meta finale del viaggio cominciato con il flashback di Chiara che ricorda le mani di Francesco, e che finisce con lui che si contempla sorridendo le mani insanguinate.227

3.2.2 Il portiere di notte

Nel 1965 Liliana Cavani girò un servizio speciale per il telegiornale, La donna nella Resistenza e, in quell'occasione, ebbe modo di intervistare due donne sopravvissute ai lager nazisti. Una di loro, residente a Cuneo, aveva trascorso a Dachau tre anni e la sua colpa non era di essere ebrea, ma di essere partigiana. Ciò che colpì la regista fu sapere che la donna continuava, ogni estate, ad andare a Dachau per trascorrervi le vacanze. Un'altra donna, di Milano e partigiana anch'essa, riuscì a sopravvivere all'orrore di Auschwitz. Apparteneva ad una famiglia benestante, ma nonostante questo, lei scelse di vivere nella periferia milanese in una casa abbastanza miserevole. La Cavani ricorda, così, quell'incontro:

[…] Accadeva, invece, che lei si vergognasse davanti agli altri di essere una sopravvissuta all'inferno, di essere il testimone vivente e quindi il cocente ricordo di qualcosa di imbarazzante che tutti volevano scordare il più in fretta possibile […] A turbarla era il fatto che nel lager lei ebbe modo di conoscere a fondo la propria natura, cioè quello che era capace di fare di bene e di male. Sottolineò la parola male. Disse che non perdonava ai nazisti 227 Ivi, p. 231.

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di averle fatto scoprire a fondo di che cosa è capace l'uomo.228

Fu da queste testimonianze e dai sentimenti che le provocarono, che Liliana Cavani decise di realizzare Il portiere di notte.

Il film si svolge in una Vienna piovosa e malinconica nel 1957. La regista scelse di ambientare la storia di Max e Lucia in questa città, osserva Brignoli, perché Vienna è il luogo che racchiude simbolicamente due dimensioni: quella del presente post-nazista e quella della vecchia capitale dell'impero austroungarico. 229 La città è protagonista fin dalle prime immagini del film; la macchina da presa, infatti, seguendo Max, ripercorre i luoghi simbolo di Vienna: Kunstinstorisches Museum, Michaelerplatz, Josephsplatz e Palazzina della Secessione. Come fa notare Francesca Brignoli, la Cavani semina nel film le tracce della storia viennese, che da custode dei tesori della Mitteleuropa si trasformò in un sarcofago contenente i resti del nazismo (l'Austria registrò, infatti, il più alto numero di criminali nazisti).230 Vienna è, inoltre, la città di Sigmund Freud e della psicanalisi, le cui teorie rivivono nel rapporto tra Max e Lucia. 231 Il tempo della storia non è lineare, ma è continuamente interrotto da flashback, attraverso i quali la regista ripercorre il passato e i ricordi di Max e Lucia. I due protagonisti si muovono e si perdono in un reticolo di ricordi e il senso di prigionia è formalmente reso esplicito dalla scelta di piani ravvicinati. 232 Durante il loro primo incontro nella hall dell'hotel, c'è il primo e breve flashback

228 L. CAVANI, Il portiere di notte, Einaudi, Torino 1974, pp. VII-VIII. 229 BRIGNOLI,Liliana Cavani, p. 161.

230 Ivi, pp. 162-164.

231 BUSCEMI,Invito al cinema, p. 75.

232 BRIGNOLI,Liliana Cavani, p. 163.

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di Max, il quale rivede Lucia da bambina. La donna, a sua volta, in un ricordo rivede Max vestito da SS che imbraccia la macchina da presa. Si tratta di due flashback realizzati in soggettiva, che ci permettono di ricostruire il passato, completandosi a vicenda.233 I ricordi, prima brevi come dei lampi, durante il film divengono sempre più numerosi e sempre più lunghi, tanto che il presente e il passato si confondono tra loro. Liliana Cavani, attraverso i ricordi dei due protagonisti, scompone la linea temporale della storia, ricostruendola, poi, attraverso il cinema stesso (questo è suggerito dalla presenza della macchina da presa Leica di Max, attraverso il cui obiettivo Cavani mostra il primo incontro con Lucia).234 Brignoli descrive la scena in questo modo:

Una visione sommamente voyeuristica dal momento che lo spettatore assiste prima alla ripresa che Max fa di Lucia, quindi a Lucia che, attraverso gli occhi di Max, diviene doppiamente oggetto di visione. È il cinema lo strumento feticcio attraverso il quale è possibile vedere e testimoniare la tragedia dell'Europa nazifascista […] e insieme le tragedie private da essa generate, come quella di Max e Lucia. Vedere è vivere, rivivere […] Il portiere di notte è un film sul tempo dove l'ordinaria scansione temporale si disintegra in mille rivoli, ricordi privati che entrano all'interno del magma di una tragica storia nascosta […] I due amanti, scandalosamente, patologicamente, fanno rivivere il “mai più” trasformandolo in “qui e ora”, per sempre.235

Max, interpretato da Dirk Bogarde, vive le sue giornate con una rigida routine, sembra quasi un automa, tanto che la contessa Ericka Stein, la sua personale confidente, dirà di lui: «non ha alcuna immaginazione». Il mestiere che 233 Ivi, p. 165.

234 Ivi, p. 166 235 Ibid.

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Max decide di svolgere, il portiere di notte, indica che l'uomo ha una questione irrisolta con la propria coscienza; infatti, ad un certo punto del film egli afferma: «se ho vissuto come una talpa, Bert, preferendo lavorare di notte, c'è una ragione... La luce... Avevo vergogna di me soprattutto alla luce». Max è quindi la sentinella della notte, ma anche condannato alla notte per suo stesso volere. 236 Come fa notare Buscemi, anche nel passato del racconto il protagonista di Il portiere di notte era legato al gioco ombra-luce: «fotografava e filmava le sue vittime, dava loro luce e consistenza per poi sottrarla a suo piacimento». 237 Max sceglie di vivere nel buio e quando poi, finalmente, ritrova la luce grazie a Lucia è troppo tardi, poiché i suoi ex compagni decidono di eliminarlo.

Lucia, interpretata da Charlotte Rampling, è la prima stella della sera, Brignoli la definisce così: «l'astro lucente il cui sguardo si fa ghiaccio quando è davanti al portiere della notte» 238. Nel giro di poco tempo, Lucia passa dalla rigidità nevrotica dei movimenti, allo sguardo emozionato di una bambina (la bambina di Max), fino ad arrivare alla disperata animalità, con cui accoglie il ritorno dell'amato.239 I due amanti provano a resistere al forte desiderio di ritrovasti insieme, ma non ci riescono. Brignoli commenta:

Il trascendere l'uno dall'altro di Max e Lucia culmina nell'ultimo, vorace e disperato amplesso silenzioso, che si consuma, come la prima volta, sul pavimento, con la camera che insiste, come scivolandovi sopra, sui corpi, sui visi e sulle mani di una bellezza malata, seguendo i movimenti, staccando

236 BUSCEMI,Invito al cinema, p. 75.

237 Ibid.

238 BRIGNOLI,Liliana Cavani, p. 164.

239 Ivi, p. 172.

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infine sul totale dei due dall'alto, schiacciati a terra l'una sull'altro.240

Alla fine, Max e Lucia, consumati dalla prigionia nell'appartamento-lager, decidono di uscire dal buio e morire, con i loro vestiti addosso (la divisa da SS e il vestito rosa), che rivendicano con orgoglio e ostinazione la loro storia e la loro identità.241 Si allontanano in campo lungo su un ponte anonimo e camminano in modo disarticolato come marionette. Vengono uccisi con due colpi di arma da fuoco alla prima luce del mattino e, solo allora, Max e Lucia occupano, per la prima volta, la centralità del quadro (fig. 5). 242 Nella realizzazione de Il portiere di notte, Liliana Cavani sceglie uno stile di ripresa molto significativo. Per la fotografia la regista si affida spesso all'uso del grandangolo, dilatando i grandi spazi silenziosi e immobili; tutto risulta fotografato in obliquo e da punti di vista ribassati, rialzati, diagonali, creando fughe ed effetti visivi che acuiscono straniamento e solitudine. 243 La macchina da presa, raramente, è centrale e Francesca Brignoli commenta così questa qualità dell'immagine della Cavani nel film:

Il decentramento del punto di vista è il segno che la Cavani utilizza per avvertire che si tratta di una storia che nasce e si evolve su di un piano inclinato, che quindi non può che tragicamente scivolare sempre più in basso, fino alla morte e alla scomparsa dal quadro dei protagonisti.

L'equilibrio è precario; l'obliquità viene enfatizzata dalla mobilità della macchina da presa, che con l'uso della panoramica, nell'ambito di inquadrature lunghe (in più di un caso quasi piani sequenza), porta ad una 240 Ivi, p. 176.

241 Ibid.

242 Ibid.

243 Ivi, p. 162.

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fluida trasformazione dei piani, delle prospettive e dei rapporti tra le persone, a cominciare da Lucia e Max, cui viene negato un vero e proprio centro fino all'ultima inquadratura […]244

Alla sua uscita, Il portiere di notte ebbe un successo clamoroso. Secondo Buscemi questo film sembrava essere uscito nelle sale al momento giusto, poiché riuscì ad unire i gusti delle platee di tutto il mondo: le persone andavano a vederlo per ridiscutere il rapporto di coppia, per riesaminare il nazismo o semplicemente per emozionarsi alla storia di Max e Lucia. 245 Il portiere di notte suscitò, però, anche un vespaio di polemiche e contribuì a formare l'immagine della Cavani “regista scandalosa” per eccellenza. Il film, inizialmente, fu bloccato dalla commissione di censura, e successivamente fu sbloccato quando la regista rifiutò, una volta per tutte, gli inviti a compiere dei tagli sulle parti considerate più scabrose.246 L'intera comunità italiana scese in piazza per difendere il film, ma anche grandi autori come Luchino Visconti, Alberto Moravia, Renato Guttuso, Natalia Ginzburg e persino Eduardo De Filippo si mobilitarono con interventi e sottoscrizioni, sottolineando il valore artistico dell'opera e la sua utilità anche educativa e sociale. 247Il vero scandalo, come indica la stessa Cavani, è solo apparentemente nel rapporto amoroso tra Max e Lucia, di certo un legame controverso, e, probabilmente, ciò che dava più fastidio era l'aver inserito una storia d'amore all'interno del contesto di una storia particolarmente dolorosa e controversa, e cioè quella dei lager nazisti. Buscemi scrive:

244 Ibid.

245 BUSCEMI,Invito al cinema, p. 71.

246 Ibid.

247 Ibid.

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Certo Il portiere di notte fu, per molti, un film fastidioso, nel senso che propone alcuni temi già scomodi in una chiave nuova e temeraria: una visione della Storia che supera gli aspetti di facciata, sociali, per cercare spiegazione nella psicologia collettiva; il nazismo e la sua persistenza nella società; l'impossibilità di un superamento con i tradizionali strumenti della psichiatria; l'incapacità di accettarlo pacificamente da parte di chi lo aveva vissuto; il mettere sullo stesso piano vittime e carnefici di quella terribile pagina di storia […] Storia difficile da accettare, quella di Il portiere di notte, dicevamo. Sicuramente in quanto disorienta, fin dalle prime immagini, la nostra abitudine a riconoscere “buoni e cattivi”. Il film è un labirinto in cui ci troviamo a riconoscere le ragioni di un ex aguzzino nazista, addirittura a provare pietà per lui, qualche volta a prendere le sue parti.248

A Liliana Cavani non interessava il giudizio storico, che era sicuramente negativo, ma piuttosto raccontare in modo neutro la condizione psicologica del Nazismo, e cioè quella particolare e controversa relazione che lega Max e Lucia: la regista non dà giudizi sulla loro relazione, ma si limita a raccontare un rapporto vittima-carnefice, cominciato per cause storiche e continuato come prodotto dell'esperienza traumatica che i due protagonisti hanno vissuto. 249

248 Ivi, pp. 71-72.

249 Ivi, p. 77.

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Fig. 1

Fig. 2

Fig. 3

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Fig. 4

Fig. 5

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CONCLUSIONE

Nella società contemporanea, la donna non deve più lottare quotidianamente per far valere i propri diritti. Le donne, oggi, non sono più costrette a scegliere tra casa e lavoro, poiché riescono a svolgere lavori importanti e allo stesso tempo dedicarsi anche alla famiglia. Anche gli uomini, ormai da molti anni, hanno imparato a rispettare gli spazi e le ambizioni delle donne, e hanno iniziato a guardale con occhi diversi: non più come semplici oggetti del desiderio, ma come individui loro pari. Per molto tempo non fu così, sappiamo, infatti, che alla donna venne negato lo status di “soggetto”, tanto che si dovette piegare a limitazioni e confini stabiliti sia socialmente sia culturalmente.

Teresa De Lauretis, nel saggio Sui generis: scritti di teoria femminista (1996), sosteneva che fosse proprio il linguaggio a stabilire le differenze di genere: le donne sono definite dal discorso patriarcale, ma solo in esso possono costituirsi come “soggetto”. De Lauretis affermava che, non essendo possibile evitare tale paradosso, era necessario parlare al tempo stesso il linguaggio degli uomini e il silenzio delle donne, o meglio, perseguire le strategie del discorso che riescono a dare voce al silenzio delle donne dentro, attraverso e contro il linguaggio degli uomini.250 Esiste indubbiamente un legame molto forte tra desiderio e narrazione, che si può individuare già nella mitologia classica. De Lauretis, infatti, nota che i mostri antichi avevano un sesso, proprio come gli déi. Il Minotauro, ad esempio, frutto dell'unione innaturale di Pasifae con un toro, viene descritto come metà toro 250 DE LAURETIS,Sui Generis, p. 25.

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e metà uomo. Medusa e Sfinge, al contrario, sono più umane che animali e certamente di sesso femminile: quest'ultima ha il corpo di un leone alato ma la testa di donna; Medusa è donna e bella, pur essendo anch'essa associata alla bestialità. Il potere di Medusa, il suo sguardo malvagio, è più esplicito di quello della Sfinge, ma l'effetto di entrambe è analogo: esse non solo uccidono o divorano, ma accecano. Le leggende di Perseo e di Edipo, in cui sono inscritte, dicono con chiarezza che esse minacciano la vista dell'uomo, e De Lauretis aggiunge che il potere di questi “mostri al femminile” sta nel loro enigma e nella loro capacità di farsi guardare, nell'adescare lo sguardo maschile nel “continente oscuro”, come lo chiama Freud, nell'enigma della femminilità. 251 Sono ostacoli, questi, che l'uomo può incontrare nel corso della sua vita e devono essere uccise o sconfitte affinché egli possa avanzare e portare a compimento il proprio destino e la propria storia. In questo meccanismo mitico-testuale, continua De Lauretis, l'eroe dev'essere maschio, perché l'ostacolo, qualunque sia la sua personificazione, è morfologicamente femminile. 252 L'eroe si costituisce come essere umano e come maschio: egli è il principio attivo della cultura, colui che stabilisce distinzioni, il creatore delle differenze.253 Il femminile, scrive De Lauretis, è ciò che non è soggetto a trasformazione: è un semplice elemento dello spazio-intreccio. 254 Sconfiggendo la Sfinge, Edipo ha affermato il suo status di eroe. Teresa De Lauretis sostiene, quindi, che dire che la narratività è la produzione di Edipo, equivale a dire che ogni lettore (maschio o femmina) è costretto e definito

251 Ivi, p. 44.

252 Ibid.

253 Ivi, p. 54 254 Ibid.

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all'interno delle due posizioni di una differenza sessuale che è così concepita: maschio-eroe-umano, dalla parte del soggetto; donna-ostacolo-confine-spazio, dalla parte dell'oggetto.255 Verso la fine degli anni '60, la questione del genere diventa l'istanza letteraria principale della critica femminista. A partire da Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, sempre più donne iniziano a scrivere sulle donne e per le donne. La teoria femminista, quindi, comincia nel momento in cui la donna diventa consapevole di sé e delle proprie formazioni sociali, e il suo oggetto di studio è quello che viene definito “soggetto eccentrico”: un soggetto cioè che è eccentrico rispetto al campo sociale, ai dispositivi istituzionali, al simbolico, allo stesso linguaggio; un soggetto che contemporaneamente risponde e resiste ai discorsi che lo interpellano e, al medesimo tempo, soggiace e sfugge alle proprie determinazioni sociali. 256 La Feminist Film Theory si sviluppa proprio a partire dagli studi sul genere portati avanti dalla critica femminista. Laura Mulvey, una delle rappresentanti più influenti della critica cinematografica femminista, nel saggio Piacere visivo e cinema narrativo, si è occupata proprio dell'interpretazione psicoanalitica del dispositivo cinematografico, del testo filmico e dei processi coinvolti nella visione. Per la studiosa inglese, non è possibile pensare che la fruizione cinematografica possa dipendere soltanto dal dispositivo, ma, al contrario, è la convergenza tra dispositivo, linguaggio e immaginario del film che determina tale esperienza. Nel suo volume sulla Mulvey, Veronica Pravadelli afferma: «lo 255 Ivi, p. 56.

256 DE LAURETIS,Soggetti eccentrici, p. 8.

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sguardo è il vettore del funzionamento dell'apparato, delle dinamiche diegetiche del testo filmico e del rapporto tra schermo e spettatore». 257 Laura Mulvey parla, più precisamente, di “relazione tra tre sguardi”: lo sguardo dell'apparato (macchina da presa, proiettore), lo sguardo diegetico tra i personaggi e lo sguardo dello spettatore.258 Il cinema classico fonde questi tre sguardi in uno solo, “suturando” lo spettatore allo schermo. 259 È in questo frangente che la questione sessuale entra in gioco: Mulvey, infatti, afferma che la differenza di gender è iscritta non solo nella rappresentazione filmica, ma anche nell'esperienza cinematografica. Il cinema classico è costruito per il piacere dello spettatore maschile e alla donna è preclusa la possibilità di provare piacere, se non attraverso la sua sottomissione.260 Per Mulvey, dunque, il cinema hollywoodiano è “ontologicamente patriarcale”, sia nelle forme della rappresentazione sia nella ricezione.

Il cinema, del resto, ha da sempre trasformato la donna in immagine, oggetto del piacere e del desiderio dell'uomo. Nella società contemporanea questo fenomeno si è accentuato ancora di più: il cinema, le riviste patinate e la televisione continuano a rappresentare, costruire e modellare le donne secondo quella che è l'immagine del desiderio maschile. La presenza femminile in televisione è, sempre, più una presenza di quantità che di qualità. Il corpo della donna è diventato un prodotto da offrire e da vendere ad un pubblico sempre più superficiale e apatico. La donna che, da sempre, si è vista guardare da uomini, ha

257 PRAVADELLI, “Le teorie di Laura Mulvey”, p. 14.

258 MULVEY, “Piacere visivo”, p. 41.

259 PRAVADELLI, “Le teorie di Laura Mulvey”, p. 15.

260 MULVEY, “Piacere visivo”, pp. 36-37.

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iniziato a guardare se stessa con gli occhi degli uomini e nel tentativo di raggiungere l'ideale della bellezza perfetta ha trasformato il proprio corpo in un semplice oggetto del desiderio. Questa trasformazione è evidente soprattutto se si osservano i volti delle dive e delle moderne showgirl della televisione: volti trasformati in maschere dalla chirurgia plastica che hanno perso totalmente la loro unicità. Lorella Zanardo nel suo documentario Il corpo delle donne (2009) afferma:

Pier Paolo Pasolini aveva capito in anticipo che la televisione stava per distruggere la poetica potenzialmente espressa dal volto umano. Pasolini aveva un senso acuto della realtà del volto umano come luogo di incontro di energie ineffabili che esplodono nell'espressione, cioè in qualcosa di asimmetrico, individuale, impuro, composito, insomma il contrario del tipico […] Le donne hanno introiettato il modello maschile così a lungo, da non riconoscere più se stesse e da non sapere più cosa le rende davvero felici; i loro volti non mostrano più la loro vulnerabilità.

Essere autentici ed essere se stessi è uno dei diritti fondamentali dell'essere umano e, per fortuna, esistono artisti che lo hanno capito. Cecilia Mangini, ad esempio, a partire dai primissimi anni '50 si fece largo tra una nuova generazione di cineasti,261 i cosiddetti “demartiniani”. La regista pugliese fu la prima documentarista italiana del dopoguerra e grazie alle sue opere possiamo conoscere quella parte del Paese che poi sarebbe stata completamente trasformata dallo sviluppo industriale. Gianluca Sciannameo la descrive come una donna ostinatamente libera, che ha sempre lottato contro il conformismo e gli stereotipi 261 Lino Del Fra, Luigi Di Gianni, Giuseppe Ferrara, Gianfranco Mingozzi, Ermanno Olmi, Francesco Rosi, Vittorio De Seta

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imposti dalla società.262 Nei suoi film, la Mangini ha saputo rappresentare la realtà nella sua totalità e completezza, riuscendo ad esplorare i suoi aspetti più nascosti.

La regista pugliese ha usato il documentario per risvegliare le coscienze degli italiani, spingendoli ad una maggiore partecipazione attiva nelle vicende del nostro Paese.

Guardando e studiando le opere di Cecilia Mangini, si coglie una vicinanza quasi fisica nei confronti delle donne che compaiono sullo schermo: le lamentatrici di Stendalì, le operaie della catena di montaggio, le braccianti del Sud. Mangini racconta che fu per lei «quasi un miraggio» 263 poter parlare in un documentario delle donne che lavorano, delle ragazze e delle bambine che sacrificarono i propri sogni per sopravvivere allo stile di vita che imponeva loro la società patriarcale. Nei suoi film troviamo donne che usano il rito per sopravvivere alla morte di un figlio e come cura per superare un dolore altrimenti insopportabile; operaie che lavorano senza sosta alla catena di montaggio e poi, una volta tornate a casa, continuano con i lavori domestici; le braccianti del Sud, che sognano di trovare un lavoro in fabbrica; donne costrette a lasciare il lavoro perché non hanno nessuno che possa badare ai propri figli; e, infine, ci sono le mogli che lottano al fianco dei mariti per difendere il loro posto di lavoro.

Nei suoi documentari, però, Cecilia Mangini non limita la sua critica solo di donne. In Brindisi '65 e Tommaso affronta il tema dello sviluppo industriale e dei suoi effetti sul Paese e sugli italiani. Ancora oggi, purtroppo, molti lavoratori si trovano a dover scegliere tra lavoro e salute: dalla Taranto dell'Italsider, di cui ci 262 SCIANNAMEO,Con ostinata passione, p. 12.

263 Commento di Cecilia Mangini nel documentarioNon c'era nessuna signora a quel tavolo. Il cinema di Cecilia Mangini di Davide Barletti e Lorenzo Conte.

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ha raccontato Mangini, a quella dell'Ilva dei fratelli Riva.

Molto è cambiato, oggi, rispetto alla condizione delle donne di cui ci ha raccontato Cecilia Mangini nei suoi documentari e, alcuni di questi cambiamenti possiamo notarli, ad esempio, nei film di Liliana Cavani. Definita da molti la “regista dello scandalo”, con il suo cinema la Cavani è sempre andata contro ogni tipo di stereotipo che si potrebbe attribuire ad una donna. La regista romagnola, fin dall'infanzia, seguendo l'esempio della nonna, della madre e della zia, ha sempre cercato di essere indipendente e ha lottato per raggiungere i propri obiettivi, riuscendo a farsi strada all'interno di un settore, quello della regia, considerato di dominio maschile.

Nei film di Liliana Cavani le donne non sono semplicemente degli oggetti del desiderio maschile, bensì sono personaggi che svolgono un ruolo fondamentale nella storia di cui fanno parte: le donne possono cambiare il destino del protagonista maschile (si pensi all'influenza di Chiara su Francesco) e non sono solo vittime, ma possono diventare anche carnefici (Lucia confonde a tal punto Max, il quale decide di morire piuttosto che denunciarla ai suoi excompagni SS). Un altro aspetto insolito è che nei film della Cavani il corpo non è un semplice oggetto sessuale, ma è il mezzo che permette all'uomo di esperire il mondo circostante. Attraverso il corpo, l'interiorità di una persona riesce a relazionarsi con l'esterno e viceversa. L'uomo, nel corso della sua vita prova tutta una serie di emozioni e sentimenti diversi ed è in grado di comunicarli agli altri attraverso il corpo e la gestualità.

Liliana Cavani non deve, però, essere considerata come una regista di

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gender: il suo non è né un cinema al femminile né al maschile, ma è semplicemente ‘cinema’. Le peculiarità del suo cinema, infatti, sono espressione della storia del cinema italiano, che è da sempre molto diverso rispetto allo stile classico hollywoodiano. Negli Stati Uniti d'America, infatti, a partire dal cinema delle origini e fino al 1945, si era consolidato lo stile classico basato sul primato della narrazione: i film dovevano essere autosufficienti sul piano narrativo e il linguaggio doveva essere il più possibile lineare e trasparente. L'aspetto importante di questo tipo di cinema era occultare qualsiasi tipo di finzione scenica e permettere allo spettatore di immedesimarsi con quanto veniva raccontato sullo schermo. Gli studi della Feminist Film Theory nascono in riferimento a questo tipo di cinema, in cui la funzione della donna era semplicemente quella di incarnare l'ideale di bellezza perfetta e irraggiungibile (si pensi alle grandi dive dello star system hollywoodiano).

Il cinema italiano, invece, è sempre stato molto diverso e più che la finzione ha sempre privilegiato un certo impulso realista, culminato, poi, nel Neorealismo. Nel dopoguerra, molti autori e registi sentirono il bisogno di tornare a raccontare la realtà e le storie della gente comune, così si sviluppò questo nuovo modo di fare cinema che rivalutava il ruolo e il punto di vista dell'autore. I registi del Neorealismo rifiutarono il concetto stesso di star system, preferendo attori non professionisti ed amatoriali, o per meglio dire, come lo definì André Bazin nel suo volume Che cos'è il cinema? (1973), un “amalgama” dei due, per restituire sullo schermo una maggiore adesione al reale.

Cecilia Mangini e Liliana Cavani sono due importanti registe italiane, che

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attraverso i loro film sono riuscite ad esprimere le peculiarità del cinema italiano e della sua storia. Le due registe hanno saputo portare la loro femminilità sullo schermo, affrontando con attenzione temi molto delicati come il lavoro, la religiosità, il rito, la morte, la famiglia e il desiderio sessuale. Entrambe hanno affrontato il tema della violenza sulle donne, che oggi è diventato una vera e propria emergenza nazionale, tanto che è stato coniato il termine “femminicidio” per indicare un problema che, purtroppo, è sempre esistito. Il cinema di Cecilia Mangini e di Liliana Cavani, dunque, più che un cinema al femminile, può essere definito un'espressione della tradizione del cinema italiano, da sempre molto attento alla realtà e alle problematiche della società.

Può esistere, in conclusione, una diversa sensibilità da parte delle donne nel raccontare una storia, se si parla di consapevolezza estetica e della vicinanza verso alcuni temi particolari. La teoria del cinema dovrebbe, quindi, essere più sensibile alla questione della differenza di gender. Nel cinema, infatti, uomini e donne usano gli stessi strumenti e le stesse tecniche per rappresentare la loro personale visione del mondo, proprio come avviene nella vita di tutti i giorni.

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FILMOGRAFIA

DAVIDE BARLETTI e LORENZO CONTE

Non c'era nessuna signora a quel tavolo. Il cinema di Cecilia Mangini (2013) Regia: Davide Barletti, Lorenzo Conte; soggetto: Davide Barletti, Lorenzo Conte; sceneggiatura: Davide Barletti, Lorenzo Conte; fotografia: Gabriele Gianni e Michele Nassuato; montaggio: Gabriele Gianni; musica: Antongiulio Galeandro; produzione: Fluid Produzioni, Teca del Mediterraneo 2010; origine: Italia, 2013; durata: 90'.

LILIANA CAVANI

Troppo amore (2011) Regia: Liliana Cavani; soggetto: Angelo Pasquini, Roberto Tiraboschi; sceneggiatura: Liliana Cavani, Angelo Pasquini, Roberto Tiraboschi; fotografia: Enrico Lucidi; scenografia: Massimiliano Nocente; montaggio: Massimo Quaglia; musica: Mauro Pagani, la canzone (sigla della serie) Mai per amore, testo di Gianna Nannini e Isabella Santacroce, musica di Gianna Nannini, è interpretata da Gianna Nannini; interpretiprincipali: Antonia Liskova (Livia), Massimo Poggio (Umberto), Chiara Mastalli (Marta), Anna Melato (Rina), Francesca Beggio (Giuliana); produzione: Rai Fiction-Ciao Ragazzi!; origine: Italia, 2011; durata: 98'.

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Francesco (1989) Regia: Liliana Cavani; soggetto: Liliana Cavani; sceneggiatura: Liliana Cavani, Roberta Mazzoni; fotografia: Giuseppe Lanci; montaggio: Gabriella Cristiani; musica: Vangelis; interpretiprincipali: Mickey Rourke (Francesco), Helena Bonham Carter (Chiara), AndrĂŠa Ferreol (Pica), Nikolaus Dutsch (cardinale Colonna), Hanns Zischler (Papa Innocenzo III); produzione: Karol Film, in collaborazione con Rai Radiotelevisione Italiana Rai Uno, Istituto Luce Italnoleggio Cinematografico, Royal Film (Monaco); distribuzione: Istituto Luce Italnoleggio Cinematografico, SACIS; origine: Italia, 1989; durata: 155'.

Il portiere di notte (1974) Regia: Liliana Cavani; soggetto: Liliana Cavani, Barbara Alberti, Amedeo Pagani; sceneggiatura: Liliana Cavani, Italo Moscati; montaggio: Franco Arcalli; fotografia: Alfio Contini; musica: Daniele Paris; interpretiprincipali: Dirk Bogarde (Max), Charlotte Rampling (Lucia), Philipe Leroy (Klaus), Giuseppe Addobbati (Stumm), Amedeo Amodio (Bert), Ugo Cardea (Mario), Isa Miranda (contessa Stein); produzione: Robert Gordon Edwards per Lotar Film; distribuzione: Italnoleggio Cinematografico; origine: Italia, 1974; durata: 113'.

Francesco di Assisi (1966) Regia: Liliana Cavani; sceneggiatura: Tullio Pinelli, Liliana Cavani; montaggio: Luciano Gigante; fotografia: Giuseppe Ruzzolini; suono: Nino Renda; musica: Peppino De Luca; interpreti principali: Lou Castel (Francesco), Giancarlo Sbragia (Pietro Bernardone), Grazia Marescalchi (Pica), Riccardo Cucciola (Leone), 111

Ludmilla Lvova (Chiara), Ken Belton (Innocenzo III), Marco Bellocchio (Pietro di Stacia); produzione e distribuzione: Rai Radiotelevisione Italiana; origine: Italia, 1966; durata: 132'.

La donna nella Resistenza (1965) Regia: Liliana Cavani; commento: Paolo Glorioso; collaborazione: Rina Macrelli; fotografia: Mario Dolci; suono: Enzo D'Alfonzo; montaggio: Jenner Menghi; musica: A n t o n i o Te a l d o ; voce: Riccardo Cucciolla; produzione: R a i Radiotelevisione Italiana; origine: Italia, 1965; durata: 48'. Messa in onda: Rai 2, rubrica «Prima pagina».

MICHAEL CIMINO

Year of the Dragon (L'anno del dragone, 1985) Regia: Michael Cimino; soggetto:Robert Daley; sceneggiatura: Michael Cimino, Oliver Stone; fotografia: Alex Thomson; montaggio: Noëlle Boisson, Françoise Bonnot; musica: David Mansfield; interpretiprincipali: Mickey Rourke (Stanley White), John Lone (Joey Tai), Ariane Koizumi (Tracy Tzu), Leonard Termo (Angelo Rizzo); produzione: Dino De Laurentiis; origine: Stati Uniti d'America, 1985; durata: 134'.

BRIAN DE PALMA

Blow Out (1981) 112

Regia: Brian De Palma; soggetto: Brian De Palma; sceneggiatura: Brian De Palma; fotografia: Vilmos Zsigmond; montaggio: Paul Hirsch; musica: Pino Donaggio; scenografia: Paul Sylbert; interpretiprincipali: John Travolta, Nancy Allen, John Lithgow, Dennis Franz; produzione: George Litto; origine: Stati Uniti d'America, 1981; durata: 107'.

BERRY GORDY

Mahogany (1975) Regia: Berry Gordy; soggetto: Toni Amber; sceneggiatura: John Byrum; fotografia: David Watkin; montaggio: Peter Zinner; musica: Michael Masser; scenografia: Aurelio Crugnola, Leon Erickse, Kevin Biles, Franco Fumagalli, James Ryan; interpretiprincipali: Diana Ross, Billy Dee Williams, Jean-Pierre Aumont, Anthony Perkins; produzione: Jobete; origine: Stati Uniti d'America, 1975; durata: 109'.

ALFRED HITCHCOCK

Marnie (1964) Regia: Alfred Hitchcock; soggetto: Winston Graham; sceneggiatura: Jay Presson Allen; fotografia: Robert Burks; montaggio: George Tomasini; musica: Bernard Herrmann; scenografia: Georgie Milo; interpretiprincipali: Tippi Hedren (Marnie), Sean Connery (Mark), Diane Baker (Lil), Martin Gabel (Sidney), Louise Latham (Bernice); produzione: Universal Release; distribuzione: 113

Universal; origine: Stati Uniti d'America, 1964; durata: 130'.

Psycho (Psyco, 1960) Regia: Alfred Hitchcock; soggetto: Robert Bloch; sceneggiatura: Joseph Stefano; fotografia: John L. Russell; montaggio: George Tomasini; musica: Bernard Herrmann; scenografia: Robert Clatworthy, Joseph Hurley, George Milo; interpretiprincipali: Janet Leigh (Marion), Anthony Perkins (Norman), Vera Miles (Lila), John Gavin (Sam), Martin Balsam ( Milton Arbogast); produzione: Shamley Production; distribuzione: Paramount; origine: Stati Uniti d'America, 1960; durata: 109'.

Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) Regia: Alfred Hitchcock; soggetto:

Pierre Boileau,

Thomas Narcejac;

sceneggiatura: Alec Coppel, Samuel A. Taylor; fotografia: Robert Burks; montaggio: George Tomasini; musica: Bernard Herrmann; scenografia: Henry Bumstead, Hal Pereira; interpretiprincipali: Kim Novak (Madeleine Elster/Judy Barton), James Stewart (John “Scottie” Ferguson), Barbara Bel Geddes ( Marjorie “Midge” Wood, Tom Helmore (Gavin); produzione: Alfred Hitchcock; distribuzione: Paramount; origine: Stati Uniti d'America, 1958; durata: 128'.

Rear Window (La finestra sul cortile, 1953) Regia: Alfred Hitchcock; soggetto: Cornell Woolrich; sceneggiatura: John Michael Hayes; fotografia: Robert Burks; montaggio: George Tomasini; musica:

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Franz Waxman;

scenografia:

Hal Pereira,

Joseph McMillan Johnson;

interpretiprincipali: James Stewart (Jeff), Grace Kelly (Lisa), Wendell Corey (det.

Thomas J. Doyle), Thelma Ritter (Stella); produzione: Paramount Pictures e Patron Inc.; distribuzione: Paramount; origine: Stati Uniti d'America, 1953; durata: 112'.

CECILIA MANGINI

In viaggio con Cecilia (2013) Regia: Mariangela Barbanente, Cecilia Mangini; produzione: GA&A Productions; in collaborazione con Elenfant Film, Rai Cinema; origine: Italia, 2013; durata: 74'.

Brindisi '65 (1965) Regia: Cecilia Mangini; fotografia: Giuseppe Pinori; musica: Egisto Macchi; montaggio: Silvano Agosti; origine: Italia, 1965; durata: 35'.

Essere Donne (1965) Regia: Cecilia Mangini; sceneggiatura: Cecilia Mangini; fotografia: Luciano Graffigna; musica: Egisto Macchi; montaggio: Silvano Agosti; produzione: Unitelefilm; testo: Felice Chilanti; origine: Italia, 1965; durata: 35'.

Tommaso (1965)

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Regia: Cecilia Mangini; fotografia: Giuseppe Pinori; musica: Egisto Macchi; montaggio: Silvano Agosti; origine: Italia, 1965; durata: 11'.

Stendalì (suonano ancora)(1960) Regia e sceneggiatura: Cecilia Mangini; fotografia: Giuseppe De Mitri; musica: Egisto Macchi; montaggio: Renato May; produzione: Vette Film Italia; testo: Pier Paolo Pasolini; vocerecitante: Lilla Brignone; origine: Italia, 1960; durata: 11'.

LORELLA ZANARDO

Il corpo delle donne (2009) Regia: Lorella Zanardo, Marco Malfi Chindemi, Cesare Cantù; soggetto: Lorella Zanardo, Marco Malfi Chindemi; testi: Lorella Zanardo; montaggio: Cesare C a n t ù ; voce: L o r e l l a Z a n a r d o ; riprese: N i c o l a B u f f o n i ; musica: RoyaltyFreeMusic.com; origine: Italia, 2009; durata: 24'.

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