L'Eco del Nulla

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EDITORE Diogene Multimedia

ANDREA CACIAGLI

RADICI PROPRIETARIO Associazione Culturale L’Eco del Nulla

Sui banchi di scuola ci hanno sempre insegnato la grandezza del cambiamento repentino, la potenza della rivoluzione. Ci hanno insegnato che se gli ideali sono puri distruggere è giusto, persino bello. Ma non ci hanno mai insegnato il dramma del distruggere senza saper ricostruire. Abbiamo abolito la figura, strappato la tela, rotto la cornice fino a perdere la cognizione stessa di quadro. Adesso non sappiamo più dove guardare, dove riconoscerci. E in questa perpetua rarefazione di concetti e di significati, che cosa resta? Abbiamo

avuto le avanguardie, le neoavanguardie, le transavanguardie, siamo talmente avanti da non sapere dove siamo. Abbiamo perso il contatto con ciò che eravamo e ci crogioliamo in questa eterea

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libertà. E te li senti dentro quei legami, i riti antichi e i miti del

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fantasmi del nostro passato prossimo abbiamo raso al suolo anche

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passato. E te li senti dentro come mani, ma non comprendi più il significato, cantava Guccini in Radici. Non li comprendiamo e forse rischiamo anche di non sentirli più, quei legami. Spaventati dai quello remoto, smarrendo anche gli ultimi resti della nostra identità. La volontà di distruggere qualunque costruzione ha tranciato di netto il rapporto con le nostre origini storiche, culturali, artistiche, trasformate in poco più che un vanto estemporaneo da esibire, in un locale calice di vino alla mano o nei 140 caratteri di un tweet. Ed è così, in questo citazionismo esasperato, che la cultura diventa orpello, vuoto ammiccamento per abbellire superfici senza sostanza. Ultima conferma di un abbattimento indiscriminato che ha eroso la carne culturale del nostro paese, lasciando testimone nient’altro che una pelle ben curata. Ma non c’è futuro senza carne, un popolo può vestirsi, certo, coprirsi nei periodi più freddi, ma non può cibarsi di sola pelle. Dobbiamo tornare a guardare indietro ad una storia che con la sua forza d’istruttrice ci ispiri nuovi canoni, ci aiuti a gettare le fondamenta per nuove costruzioni che un giorno qualcuno potrà abbattere ancora. Dobbiamo scendere sotto il lucente e vacuo manto d’erba, e come radici affondare nella nostra terra, permearla, abitarla. Affondare sempre di più per crescere sempre più in alto, perché l’acqua irrobustisca il tronco e si dirami fino all’ultima foglia sulla cima delle fronde. Abbiamo finito di distruggere, è il momento di ricostruire.


IL LAVORO CULTURALE

Del perché la cultura è la più grande risorsa dell’Italia, e del come evitare di sprecarla

Leonardo Zanobetti

VETRINA

«Si trovano a Roma vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo tali, che superano l’una e l’altro, la nostra immaginazione»

Anita Scianò, Gli Argonauti

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ra il 1816. Goethe contemplava estasiato le bellezze del nostro Paese. In Viaggio in Italia, il racconto del suo Grand Tour, scriveva di scorci inattesi, di rovine maestose, di arte sublime. Ma, lucidamente, coglieva anche l’essenza di un contrasto senza tempo, inesplicabile. Lo splendore eterno appariva mortificato da un’insensibilità atavica, tanto diffusa quanto radicata. Da una parte, i fasti del passato, un qualche monumentum aere perennius, meravigliosi dipinti, superbe rovine. Dall’altra, la trascuratezza, l’ignoranza, perfino la sporcizia. Solo che si trattava dei primi anni dell’Ottocento. L’Italia era ancora da fare, figuriamoci gli italiani. Poi sono trascorsi due secoli. L’esiziale contrasto tra bellezza e sciatteria continua imperturbato a esistere. Gli occhi di Goethe, oggi, sono disin-

cantati. Sono quelli increduli dell’Independent. Non si capacitano di come sia possibile che l’Italia investa appena lo 0,2 per cento del proprio prodotto interno lordo per la cultura. Addirittura meno della disastrata Grecia, che «si prende cura in modo migliore delle sue antichità, nonostante la crisi economica». L’Italia, oggi, «ti spezza il cuore», si legge sulle pagine del New York Times, perché «qui c’è tanta bellezza e promesse, ma anche tanto spreco». E il londinese The Times sottolinea impietoso che «la mancanza di risorse», insieme ad una notoria «cattiva gestione e corruzione», insidia costantemente il nostro patrimonio artistico. Critiche del tutto legittime, puntuali. Sempre contraddistinte da un sottofondo di incredulità amara, che si illanguidisce in immagini nostalgiche e sognanti. È un’inestimabile bellezza, quella del no-

stro patrimonio artistico. Dai parchi ai musei, dai monumenti ai borghi, dalla musica alla pittura, e poi il cinema, il teatro, la letteratura. Un patrimonio che ha un valore universale incommensurabile. L’espressione più elevata della creatività di un popolo che si è tramandata nel tempo. Oggi, l’Italia rappresenta un unicum in tutto il mondo: è la prima nazione per numero di luoghi tutelati dall’Unesco. Ben cinquanta. A questi si aggiungono più di tremilaottocento tra musei, gallerie e collezioni. Oltre cinquecento monumenti e complessi monumentali. Duecentoquaranta aree archeologiche. Cento archivi storici. Un Paese che costituisce a tutti gli effetti un museo diffuso, proprio per il fatto che conta un museo ogni tredicimila abitanti. Una risorsa inestimabile, e di certo ineguagliabile. Per questo, anche la Costituzione suggel-

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LETTERE

La conquista del West Tommaso Barsotti

La resistenza di penna di Pavese e lo sbarco dell’America moderna in Italia «Quel che sto cercando ora è un sistema di studio, specialmente per la letteratura moderna. C’è negli Stati Uniti una quantità di poesia e narrativa ben degna di nota ma irreperibile da noi».

«What I am looking for now is some way of study, especially about your modern literature. There is a lot of contemporary poetry and fiction in the Union worthiest of note, but unattainable by us».

osì scrive Cesare Pavese, in una lettera datata 29 novembre 1929, ad Antonio Chiuminatto, giovane musicista italoamericano del Wisconsin conosciuto pochi anni prima a Torino. I due si erano incontrati più volte durante il soggiorno torinese di Chiuminatto, e Pavese, al tempo studente universitario, aveva ricevuto delle lezioni di slang americano, lezioni che si protrarranno incessantemente per tutta la corrispondenza. Nella stessa missiva, Pavese chiede all’amico di cercare e inviargli quei libri, unattainable in Italia, che gli permetteranno lo studio e la stesura dei primi saggi critici sulla letteratura nordamericana moderna. L’attività saggistica di Pavese in questo campo, infatti, coprirà gli anni immediatamente successivi l’inizio del carteggio e sarà la base della scoperta degli autori statunitensi nel nostro paese, dove ancora erano praticamente sconosciuti, inaugurando tra alcuni illustri critici del tempo – Emilio Cecchi ed Elio Vittorini in primis – una stagione di fecondo interesse per il nuovo continente. Tutti i saggi americani di Pavese sono stati raccolti nel volume La letteratura americana ed altri saggi, uscito nel 1951 ad un anno dalla sua morte con una brillante prefazione dell’allora ventottenne Italo Calvino.

L’Italia dei primi anni ‘30 è stretta è priva di opere di primissimo pianella morsa del fascismo. Il regime no – basti pensare alla raccolta poha incanalato tutti i flussi vitali e pro- etica Sentimento del tempo (1933) duttivi del paese nel gorgo centripe- di Giuseppe Ungaretti – e Pavese, to dell’autarchia, erigendo ai confini collaboratore di varie riviste e parnazionali delle barriere impenetrabi- tecipatore attivo della vita culturale, li e gettando il paese in uno stato sicuramente la conosce e apprezza. di torpore immobile. In uno scritto D’altra parte, è indubbia la chiusuinedito datato ottobre 1945 dal ti- ra nel tradizionale lirismo individuatolo Il fascismo e la cultura, Pavese lizzante, che tronca i rapporti dei nostri letterati guarda indietro con la storia e con amarezza, «Il fascismo introdusse la li rende sordi osservando che paura dell’indomani. Non di alle voci prove«il fascismo inquell’indomani materiale, nienti dall’estertrodusse la pauma del possibile catastrofico no. «Il castello ra dell’indomani. domani in cui sarebbe della chiusa ciNon di quell’inscoppiata la guerra, la domani mateviltà letteraria sconfitta o la vittoria, italiana», come riale […] ma del lo chiamerà in possibile catail cataclisma» un’intervista rastrofico domani in cui sarebbe scoppiata la guerra, diofonica del 1950, soffoca il giovala sconfitta o la vittoria, il cataclisma ne studioso e lo spinge presto verso […] In questi frangenti, la cultura nuovi orizzonti. italiana visse dell’illusione, perenne- Libertà. È questo il bisogno intimo mente rinnovata, che fosse possibile del Pavese saggiatore e critico, inapscavarsi una nicchia e accucciarvisi pagato dalla situazione. E di libertà attendendo ai fatti propri». La criti- ne trova una quantità inesauribile ca, dunque, non è rivolta esclusiva- nelle pagine dei nuovi americani. mente ai fasci, ai pensatori più vicini Legge, legge molto e con entusiaal regime, ma a tutto l’ambiente cul- smo, passando dai maestri del XIX turale italiano e alla sua incapacità secolo – Whitman, Emerson, Hawmanifesta di reagire agli eventi, di thorne, Poe, Melville – fino alla gesvegliarsi dal dolce sonno della pro- nerazione che nel primo quarto del sa d’arte e dell’ermetismo. La pro- XX aveva saputo raccogliere i frutti duzione letteraria di quegli anni non delle prove precedenti per costruire

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FILOSOFIA

Il dolore del Si

L’incontro di Heidegger e Sciascia nel regno dell’autentico

Martina Lo Mauro | DISEGNI KATARZYNA PACHOLIK «“La nostra simpatia ci dà l’idea di un dolore che in realtà non è mai stato sentito. Quasi tutti i martiri sono più o meno in uno stato di estasi”. Tocca così un punto, Stendhal, che mi pare essenziale in un discorso sul dolore. Per dirla approssimativamente il rapporto tra il fanatismo e il dolore. E se ne può estremamente dedurre che, nella sfera del fanatismo che lo infligge e del fanatismo che lo soffre, il dolore non esiste, che il dolore è un’invenzione della ragione, un’invenzione laica, un’invenzione primariamente suscitata dall’idea della libertà e ad essa legata: e quindi anche all’idea della giustizia che ne discende». Questo è solo l’epilogo d’un discorso che Leonardo Sciascia tenne a Palermo nel 1986, introduzione al VII Congresso Internazionale di studi antropologici, dal titolo Il dolore. Pratiche e segni. Un epilogo che, pur nella sua brevità, lascia al pensiero la possibilità di librarsi quanto più in alto possibile e, dall’alto, guardare alla minuta, prevedibile, piccola vita degli ‘animali sociali’, gli uomini, rinchiusi nei loro sistemi etici, le loro graduatorie morali; esseri costretti all’azione da quei principi di bene e male comunemente riconosciuti, etichettati ed infine condivisi dalle comunità. Perché Sciascia decide, infatti, d’elaborare il dolore nella sue


CINEMATOGRAFO

les auteurs Antonio Costa

I significati dello sguardo

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l pallone rotola sul terreno mal- lar sereno, nonostante l’ordine di rimesso del campo del riforma- cominciare a giocare dato ai ragazzi. torio. Un ammasso irrequieto Instancabile la macchina da presa di giovani divise nere lo inse- segue con armonia e leggerezza la gue con foga e libertà, e nes- folle corsa stanca di Doinel, come sun pensiero lucido pare intervenire un’onda assopita che tace. Tra gli a guidarne coscientemente il frene- alberi, i monti, senza fine. Finché tico inseguimento: «Doinel, dai, dai, il passo rallenta, il fiato è sospeso; tira in porta! Forza, corri Doinel!», immensa è la distesa di sabbia, le gridano alcuni. orme delle scarpe su di essa e quel Una rimessa laterale, e un lancio mare mai visto e sognato appena. I nella mischia al piedi ne carezLa complessità e la richiamo insistizano increduli discutibilità della bellezza to dei compagni: la spuma, il ru«Forza Doinel, sembrano rinviare per natura more dell’acqua a un groviglio di sfumature forza! Passa a fredda e grigia, me!». che rende vano ogni tentativo poi uno sguardo E poi subito via. impaurito rivolto di afferrarne il significato Veloce. In fuga allo spettatore dai margini del terreno di gioco, dal- stregato: grido stridente che implora le pareti opprimenti e sudice del ri- soccorso, desiderio di fuga dal quaformatorio, da quelle voci fastidiose; dro che lo imprigiona, in un fermo giù per la terra sporca, sotto la rete immagine che ha il sapore dell’eterappena sollevata, e ancora più velo- no. ce. Un fischietto minaccioso risuona, La complessità della bellezza nonché pronto al disperato inseguimento, la sua discutibilità sembrano rinviare quando lì, sul terriccio fumoso del per natura a un groviglio di sfumatucampo, l’ennesimo richiamo era sta- re che rendono vano ogni tentativo to: «È scappato Doinel, è scappato di afferrarne con assoluta chiarezza Doinel!». Il pallone esita ora a roto- il significato e, con ciò, di delimi-

tarne confini ben precisi. Un alone d’indeterminatezza ne ha da sempre caratterizzato i contenuti, intrinsecamente invischiati nell’altrettanto irresoluta sfera percettiva, rendendone così nei secoli ogni argomentazione a riguardo non dimostrabile né, pertanto, tacciabile d’errore. Il tortuoso sentiero che ci conduce alla querelle sul bello trova in parte le sue origini in seno alle diramazioni di senso provenienti dal concetto greco di tèchne, che i latini traducevano ars, “arte”. Tanto la radice greca quanto quella latina restituivano però dei significati inerenti a un “saper fare” assai lontano dal concetto moderno. Il termine antico “arte”, infatti, s’inseriva nella dimensione della poiesis, vale a dire della “produzione” conforme a tecniche e a regole. Una competenza, un’abilità dunque, ben rese dalle radici tek (“tessere”) e ar (“ben aggiustato”), nella commistione di quel sapere teorico che strettamente si legava alla prassi e che perciò, nella sua generalità, convogliava a sé attitudini e mestieri assai eterogenei tra loro. Cosicché, la riflessione interna al va-

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Storia

incroci Nel settembre del 1827 Alessandro Manzoni ha appena pubblicato la prima edizione de I promessi sposi e si trova a Firenze per calare i celebri panni in Arno e risciacquarli da «un composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine», come scrive egli stesso con umile autocritica. Giampietro Vieusseux, direttore del celebre gabinetto culturale fiorentino, non si lascia sfuggire l’occasione di patrocinare l’incontro tra la Milano del Manzoni e la Recanati del Sig. Conte Leopardi (come si legge nell’invito alle riunioni di Palazzo Buondelmonti), reduce dalla pubblicazione delle Operette morali e già ospite del gabinetto all’inizio del suo soggiorno fiorentino per una serata in suo onore. Giacomo, ventinove anni e la fama di saccentuzzo, non nutre particolare stima per I promessi sposi. Pur ammettendo di averne soltanto sentite alcune parti, vi ravvede numerose imperfezioni e

Leopardi

Manzoni

nelle lettere fiorentine afferma con una punta di sarcasmo che «qui le persone di gusto lo trovano molto inferiore all’espettazione. Gli altri generalmente lo lodano». Il 3 settembre dello stesso anno, alla presenza del cugino Terenzio Mamiami, del drammaturgo Giovanni Battista Niccolini, dei letterati Pietro Giordani e Mario Pieri e di un ristretto pubblico di intellettuali, Giacomo Leopardi incontra per la prima volta Alessandro Manzoni. Timido e in disparte come in molte delle altre riunioni a casa Vieusseux, raccantucciato e solo mentre il fiore dei letterati e degli studiosi si affollano intorno a Manzoni, Leopardi prova per lui una simpatia sincera. Avrà modo di trattenersi seco a lungo, arrivando a dire che Manzoni «è un bellissimo animo, e un caro uomo», tanto a lungo da convincerlo a rivedere persino il giudizio su I promessi sposi, finalmente letti: «Ho veduto il romanzo del Manzoni», scriverà nel febbraio del

1828, «il quale, nonostante molti difetti, mi piace assai, ed è certamente opera di un grande ingegno: e tale ho conosciuto il Manzoni in parecchi colloqui che ho avuto a Firenze. È un uomo veramente amabile e rispettabile». Leopardi scrive molto di Manzoni, mentre non si hanno che testimonianze indirette dei giudizi del riservato letterato milanese sul poeta di Recanati: «inchinandosi al genio di Leopardi», riporta il giornalista e storico Alessandro Luzio, «avrebbe solo con signoril temperanza osservato che questi ragionava un po’ troppo come poeta lirico: e come filosofo pessimista non sempre ragionava plausibilmente». Una critica elegante e delicata, a differenza dei netti giudizi iniziali del Conte, che soltanto quattro giorni prima del loro incontro all’editore Brighenti scriveva caustico: «Qui si aspetta Manzoni a momenti. Hai veduto il suo romanzo, che fa tanto rumore, e val tanto poco?».

Vittime della storia Francis Bacon, il pensatore e filosofo noto col nome di Francesco Bacone, era stato uno strenuo difensore della rivoluzione scientifica e un grande sostenitore dell’induzione empirica. Fu questo uno dei moventi che lo portò agli inizi del XVII secolo a cercare con metodi sperimentali una svolta nello studio per la conservazione dei cibi, onde evitare l’uso continuativo del sale. Acquistò una partita di pollame e tentò, durante una nevicata, di verificare gli effetti del congelamento sulla carne animale. Inevitabilmente subì anche lui gli stessi effetti, e morì in poco tempo di polmonite. Si spera almeno che quelle povere galline imbottite di neve fossero già morte e spennate.

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andrea caciagli

CHI HA UCCISO LAURA PALMER?

attina presto, cielo grigio. In un luogo isolato, di fianco al tronco di un albero, viene ritrovato il cadavere di una ragazza. È completamente nuda, il corpo livido. Il suo nome è Laura Palmer. Era l’8 aprile del 1990 quando sulla statunitense ABC andava in onda il pilota di Twin Peaks, firmato da David Lynch. La prima serie televisiva diretta da un regista di cinema, la prima a dare forma cinematografica al piccolo schermo, la prima ad imporre la visione di due autori – Lynch e Mark Frost – e a spingere oltre i confini della televisione. Un quarto di secolo dopo, sulla HBO di Boardwalk Empire, viene trasmesso il primo episodio di True Detective: stesso scenario, nome diverso. La vittima è Dora Lange e stavolta, come dimostra la scena del crimine costellata di simboli e “reti del diavolo”, demoni e rituali soprannaturali sono fin da subito espliciti. Gli scenari di apertura, speculari, sono memorabili marchi di fabbrica, sequenze indelebili che hanno contribuito all’enorme impatto culturale di entrambe le serie, assieme alle figure dell’agente Dale Cooper e dei detective Rust Cohle e Marty Hart, all’impronta delle musiche sospese di Angelo Badalamenti e del folk suggestivo del premio Oscar T Bone Burnett, alle ambientazioni evocative e fuori dal tempo. Per non parlare dell’iconica sigla creata dallo studio Antibody di Patrick Clair, dove i volti e i corpi dei protagonisti si mescolano con i paesaggi rurali e urbani della Louisiana, destinata a fissarsi nell’immaginario collettivo tanto quanto le cascate e il cartello di benvenuto con l’immagine delle vette gemelle. Se Boardwalk Empire aveva riaperto la strada del cinema nella televisione, sia nell’approccio cinematografico alla regia che nel lancio della serie affidato alla mano di Martin Scorsese e al volto di Steve Buscemi, House of Cards ha alzato la posta con la coppia Kevin Spacey-Robin Wright e con un assetto produttivo che impiegava, per i primi sei episodi della stagione, tre registi cinematografici: David Fincher (Seven, Fight Club), James Foley (Americani) e Joel Schumacher (Un giorno di ordinaria follia). True Detective porta quest’idea ad un livello superiore. Un solo autore, Nic Pizzolatto, un solo regista, Cary Fukunaga. Un film lungo otto episodi. Non è un caso che la serie si curi soltanto dell’evoluzione orizzontale della storia, senza sviluppare strutture narrative verticali, di puntata in puntata, come

si fa di consueto per mantenere vigile l’attenzione dello spettatore. Persino le modernissime miniserie BBC Sherlock, diretta in gran parte dal Paul McGuigan di Slevin - Patto Criminale, e Luther, la cui seconda stagione gioca allo stesso modo sul binomio regista-autore, avevano ceduto alla tentazione dei verticali. True Detective segna in questo una definitiva inversione di rotta nel rapporto tra cinema e televisione, nel coraggio di Fukunaga di leggere il testo «come un film di otto ore, piuttosto che soltanto come una serie televisiva a episodi». 101 giorni di riprese, 12 giorni e mezzo ad episodio, dal gennaio al giugno del 2013, senza la possibilità di cominciare la post-produzione fino all’ultimo ciak. Un progetto potenzialmente folle – «It took for-fucking-ever» dichiara lo stesso Fukunaga – ma che ha ripagato con un successo globale e con l’Emmy per la miglior regia per il quarto episodio, consegnato alla storia della televisione per il piano sequenza finale di sei minuti. E seppure i tempi produttivi non permetteranno alla seconda serie di mantenere il binomio regista-autore intatto, il coraggio di osare, di guardare in maniera radicalmente nuova al prodotto televisivo, ha impresso una svolta netta nel concetto di serie. A testimoniare il ruolo di apripista c’è la messa in onda sul gemello della HBO, Cinemax, di The Knick, con Clive Owen protagonista: 10 episodi interamente diretti da niente di meno che Steven Soderbergh, regista della trilogia di Ocean e premio Oscar per Traffic. Nell’avvicinarsi a questa nuova modalità produttiva, Fukunaga confessa, «Mi sono sempre chiesto, come ha fatto David Lynch a fare Twin Peaks?». Con la forza di un unico sguardo è la risposta. La capacità di guardare avanti, di vedere oltre come nei sogni dell’agente Dale Cooper e nelle visioni mistiche del detective Rust Cohle, fa la vera innovazione. E a volte, per innovare veramente, bisogna partire da dove tutto è iniziato. «Una volta qualcuno mi disse: “il tempo è un cerchio piatto”. Ogni cosa che abbiamo fatto o che faremo, la faremo ancora e ancora e ancora». “Sta accadendo di nuovo”, scrive Lynch in un tweet. Un quarto di secolo dopo, è ora del ritorno di Twin Peaks.

CHI HA UCCISO DORA LANGE?

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True Detective


IN REDAZIONE Francesco Balgo Tommaso Barsotti Alessandro Compagno Antonio Costa Simone Donati Luca Galasso Gioele Lacerenza Martina Lo Mauro Vanni Veronesi COLLABORATORI Carlo Loforti Filippo Luti ILLUSTRAZIONI Andrea Barattin rotarioscafe.wordpress.com Lorenzo Fabriani lorenzofabriani.blogspot.it lorenzof91.deviantart.com Francesca Maetzke Katarzyna Pacholik katarzynapacholik.blogspot.com Silvia Rizzo noodle-maps.blogspot.it FOTOGRAFIE Anita Scianò anitasciano.wix.com/anitasciano Anna Sanesi CORREZIONE BOZZE Andrea Caciagli Lorenzo Masetti Martina Lo Mauro IN COPERTINA Lorenzo Fabriani, Peter Greenaway Si ringrazia per questo numero Nicola Borrelli, Lorenzo Simonini

LORENZO MASETTI

COMITATO DI REDAZIONE Lorenzo Masetti Emanuele Giusti Niccolò Sbolci Leonardo Zanobetti

EDITORIALE

DIRETTORE RESPONSABILE Andrea Caciagli

«Nuovi inizi» è il fil rouge che lega le pagine di questo primo numero; ovvero le esigenze, le pretese e le tensioni, sempre necessariamente rinnovate, di chi in qualche luogo, in qualche tempo ha percepito una fine e concepito un inizio. Questo il vero motore della storia: il farsi e il disfarsi di una necessità, la sua soddisfazione nel segno di un progresso. Ma l’esaurimento di ogni tensione diventa la premessa inevitabile di altre rivoluzioni, di altre forze che nell’atto di scaricarsi spodestano, negandoli (con più o meno violenza), i risultati sempre insufficienti di quelle precedenti. Come scrive Niccolò Sbolci nel suo articolo Ragione e rivoluzione, applicando la dialettica hegeliana agli eventi della Rivoluzione Francese, «così come lo scoppio della rivoluzione, nel suo avvenire, aveva permesso il superamento della vecchia monarchia nella nuova dimensione ‘rivoluzionata’, così essa era inevitabilmente deperita da sintesi dei momenti precedenti a momento nuovamente negabile». Ogni buona rivoluzione (ossia, ogni rivoluzione i cui fautori riescano a morire di vecchiaia), come ogni novità che aspiri ad essere altro da vuota stramberia, non può prescindere dal proprio passato, poiché è questo stesso, in un incosciente atto suicida, a fornire gli strumenti, a porre le condizioni, a suggerire le parole per farsi comprendere e superare. Già nel mondo latino, così osserva Gioele Lacerenza in Poeta Novus, ‘novità’ non significava un sasso lanciato brutalmente oltre il presente (gesto atroce che rivela l’esistenza di uomini disposti a dimenticare perché convinti di avere in tasca capacità adamitiche di riformulazione), bensì un colto «rifarsi a ciò che accomunava col passato, e dare nuove sfumature a colori ormai sbiaditi». In questo senso l’innovazione, parola facile, deve intendersi come un consapevole ritorno sui propri passi, un viaggio (per usare le parole di Proust) intento non a ricercare «nuovi paesaggi», ma ad avere «occhi nuovi» – i veri luoghi inesplorati – con cui osservarli; gli occhi giusti per capire, imparare e rielaborare affidandosi all’intelligenza della propria soggettività. Lì può calcarsi – su quelle pupille coscienti e non fuori, dove stanno stupide cose che non sanno di essere viste – l’impronta autentica e originale di una vera novità. Questa la riflessione emersa spontaneamente in molti degli articoli presenti sul primo numero di questo giornale (il quale, a tal punto stregato dal fascino dei nuovi inizi, avrà la particolarità di tenerne sempre due: uno sul fronte e uno sul retro, a seconda di come si leggerà). Passato e presente convivono qui nello stesso entusiasmo per la scoperta speleologica; nel segno quindi di una novità, sì, ma con pareti di roccia e profondità ancestrali. La storia è un immenso giacimento che merita di essere mescolato con qualunque ingrediente ed esplorato con qualunque mezzo. «Non cesseremo l’esplorazione. E alla fine di tutto il nostro andare arriveremo nel luogo da cui siamo partiti, e lo conosceremo per la prima volta». T.S. Eliot, Quattro quartetti



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