Museum, City and Public Space | Il ruolo dello spazio pubblico nel rapporto tra museo e città contem

A me, ai miei genitori che mi hanno supportato e sopportato nel corso di questi anni, a Toto sperando che i nostri sogni si realizzino presto, ai miei preziosi relatori ed infine a Daniela Lepore e al “mio sfizio per le pietre�.

ABSTRACT Questa tesi nasce con l’obiettivo di esplorare il rapporto tra due importantissimi attori della città contemporanea quali il museo e lo spazio pubblico. A partire dalla metà del XX secolo i contenitori museali cominciarono a rivestire un ruolo sempre più centrale nella pianificazione territoriale delle città, venendo adoperati come un formidabile dispositivo di costruzione dello stato-nazione moderno post-rivoluzionario.

Oggi il museo occupa simbolicamente e fisicamente i centri delle principali città contemporanee in tutto il mondo, definendo il paesaggio, diventando al tempo stesso anch’esso parte di questi. I processi di trasformazione del territorio che puntano sulla cultura come promotore, sempre più spesso attivano processi di recupero e conversione di intere parti di città industriali dismesse durante la fine del Novecento.

Questi processi talvolta iniziano spontaneamente con forme di autogestione di spazi pubblici promosse da attori locali, per poi progressivamente essere integrati all’interno di un disegno più ampio fatto di relazioni spaziali che producono risultati non soltanto sullo spazio pubblico ma anche sull’economia, sulle infrastrutture e sul carattere sociale dell’area dove determinati processi hanno luogo. Lo spazio pubblico in queste aree occupa un posto privilegiato, diventando il simbolo della società virtuosa che mediante il catalizzatore culturale, riesce ad innescare meccanismi capaci di giovare all’intero sistema. Per comprendere come un museo o una rete di musei sia capace di generare un processo di rigenerazione urbana, in grado di determinare le condizioni giuste affinché si realizzi un’offerta di spazio pubblico di qualità, ho sviluppato la tesi in tre macroparti che analizzano la natura di questo connubio. Nella prima parte “il museo”, risalendo alle sue origini, si è svolto un percorso nella storia che parte dall’etimologia della parola “museo”, per poi proseguire raccontando la nascita del museo

pubblico e la trasformazione concettuale di questo, non più inteso come un luogo elitario, ma uno spazio dedicato a tutta la collettività. Il percorso si conclude con una fotografia della situazione attuale che vede in Europa e in America l’affermarsi del museo come strumento di rigenerazione e valorizzazione culturale oltre che promotore di attività economiche, mentre parallelamente nei paesi dell’Asia Occidentale, questo assume un valore ancora più alto, visti i notevoli fondi investiti per sviluppare interi distretti culturali ex-novo. Nella seconda parte, “La città, Barcellona” viene preso in esame il caso studio della città di Barcellona, protagonista di una trasformazione senza eguali, dopo un lunghissimo periodo di repressione che perdurava fin dalla fine del Settecento e che vide il punto di massima sofferenza per i catalani tra il 1939 e il 1975, periodo della dittatura franchista. Con l’avvento della democrazia, dalla fine degli anni Settanta, la città intraprese un lungimirante percorso di trasformazione sia politica che culturale che portò alla nascita del controverso modello Barcellona. Tra gli anni Novanta ed oggi, anni che videro la città ospitare i giochi Olimpici nel 1992 prima e il Forum Universale delle Culture nel 2004 poi, intere parti di città furono completamente ripensate, come nel caso del distretto della Ciutat Vella e del Poblenou, protagonisti di importanti trasformazioni. Proprio in questi due distretti hanno sede i quattro musei presi in esame nel dettaglio per analizzare non solo i processi che ne hanno determinato la nascita, ma anche la qualità progettuale e la relazione fra questi e lo spazio pubblico. Nella terza ed ultima parte della tesi “Lo spazio pubblico, Napoli”, partendo dalla concettualizzazione di alcune scelte progettuali individuate nei quattro musei barcellonesi, ho proposto una soluzione per la riconfigurazione sia della permeabilità interna che l’accessibilità degli ambienti adiacenti al MANN di Napoli, con l’obiettivo di dimostrare la tesi secondo la quale esista uno schema progettualmente replicabile che contribuisce alla virtuosa relazione tra museo e città contemporanea.

INDICE

INTRODUZIONE

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1939 – 1975 | il Franchismo

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1975 – 1983 | Dal Post-Franchismo alla maggioranza Del PSOE

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1983 – 1992 | Maragall verso le Olimpiadi

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1993 – 2004 | dai giochi Olimpici al Forum delle Culture

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2005 – 2020| Dalla fine del PSC alla questione Catalana

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PRIMA PARTE - IL MUSEO

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IL MUSEO NELLA STORIA

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LA TRASFORMAZIONE DEL MUSEO

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ESEMPI DI MUSEI VIRTUOSI A BARCELLONA

IL MUSEO OGGI

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MACBA | Museu D’art Contemporani De Barcelona

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BORN CCM | El Born Centre Cultural Memòria

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Disseny Hub

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ESEMPI DI MUSEI VIRTUOSI NEL MONDO MAC | Museum of Modern Art Niterói

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Can Framis Museum

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Guggenheim Museum Bilbao

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CONCLUSIONI

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Tate Modern Gallery Of London

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Museum of Modern Art New York City

67

TERZA PARTE - LO SPAZIO PUBBLICO, NAPOLI

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Louisiana Museum of Modern Art Copenaghen.

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INTRODUZIONE CASO NAPOLI

233

IPOTESI

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SECONDA PARTE - LA CITTÀ, BARCELLONA

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RIFERIMENTI PROGETTUALI

241

INTRODUZIONE CASO BARCELLONA

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STRATEGIE

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1859 – 1939 | dal Pla Cerdà alla dittatura franchista

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VISION

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INTRODUZIONE La funzione del Museo oggi è quella di generare un processo di rigenerazione urbana, ma quali sono le condizioni affinché si realizzi un’offerta di spazio pubblico di qualità?

Attraverso questa tesi cercherò di dimostrare come esista la capacità e la versatilità di determinate scelte progettuali di riuscire ad essere adattabili in diversi contesti ottenendo una risposta dal punto di vista percettivo, rispetto a chi si ritrova a vivere quello spazio, sostanzialmente paragonabile: uno spazio culturalmente potente, dove la relazione tra spazio pubblico e ambiente culturale risulti essere un elemento caratterizzante di tutta l’area coinvolta. L’obiettivo della ricerca è quello di restituire un lavoro intellegibile, strutturato e interpretato rispetto ai singoli casi studio presi in esame, inevitabilmente legati al contesto in cui questi si materializzano. L’indagine, nello specifico, è volta ad analizzare il rapporto tra il museo e la città contemporanea come un’operazione di rigenerazione urbana che tiene in considerazione l’evoluzione del museo fino ad oggi, non più inteso come un luogo di mera esposizione, ma piuttosto come un contenitore multifunzionale capace di attrarre e stimolare più utenti, costruendo nuove relazioni con il contesto, dal museo verso la città, indipendentemente dalla sua principale funzione espositiva, contribuendo così a rafforzare ulteriormente la sua centralità all’interno di un sistema potenziale di relazioni urbane a profondità variabile; uno spazio dove la semplice funzione dello stare, si trasforma, diventando un luogo ad uso pubblico continuo, attraversabile e multifunzionale: uno spazio di qualità, dalle molteplici caratteristiche. Attraverso il racconto di casi emblematici di trasformazione della città della fine del XX secolo, quando i movimenti attivi in quegli anni lottavano per rivendicare diritti minimi in una città dove, tra le tante problematicità, vi era anche l’insufficienza e l’inadeguatezza dei servizi urbani, delle

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attrezzature e delle zone verde di pertinenza agli edifici, ho analizzato come il museo sia entrato a far parte delle politiche di rigenerazione urbana. Casi come Bilbao raccontata nella parte dedicata al Guggenheim, o di Barcellona a cui è dedicata interamente la seconda parte della tesi e che rappresenta un innegabile successo, se si pensa al consistente numero di progetti di spazi pubblici realizzati e distribuiti all’interno del tessuto urbano della città catalana, sono emblematici e particolarmente chiarificatori rispetto ai risultati che determinate pratiche possano generare. Ad oggi, molti di questi musei, ed altri sorti negli ultimi anni, cercano di creare un rapporto simbiotico con il contesto in cui sorgono, sia da punto di vista architettonico che sociale, arrivando ad offrire uno spazio pubblico dinamico, fruibile in più fasi della giornata a seconda dell’uso a cui si presta, ma soprattutto uno spazio accessibile a tutti. L’obiettivo nelle prime due parti della tesi è quello di riuscire attraverso la ricucitura dei piani e delle azioni e l’analisi percettiva dei progetti urbani, a costruire un percorso lineare di pianificazione che produca questi risultati e la realizzazione di un abaco di best practices, ovvero delle soluzioni progettuali legate al disegno di suolo che permettono a questi contenitori museali di offrire uno spazio pubblico di qualità. Raggiunto quest’obiettivo, la tesi si conclude con un’applicazione di questo concetto, seppur limitato alla progettazione di suolo, nella città di Napoli ed in particolare sul caso studio del MANN, il Museo archeologico nazionale di Napoli, posto ai margini del centro storico della città, in prossimità di quelle che erano le mura storiche, area che oggi risulta essere uno dei principali snodi viari più trafficati dell’intero capoluogo, senza avere uno spazio pubblico degno di tale nome e con un’attività museale, fortemente limitata nel suo sviluppo proprio a causa di un soffocamento del contenitore, stretto nella morsa di un tessuto urbano altamente densificato.

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PRIMA PARTE

IL MUSEO

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IL MUSEO NELLA STORIA “Il museo è un paradigma della città postmoderna e un simbolo della cultura espositiva in cui viviamo. La sua concezione si basa su tre aspetti principali: museologico, architettonico e urbanistico, vale a dire la sua collezione, edificio e luogo.” 1

Per arrivare a comprendere a pieno il senso di questa definizione di museo data dall’architetto e urbanista Mila Nikolić, occorre ripercorrere alcuni punti salienti della storia del museo, estrapolandone alcuni concetti che, messi in relazione tra loro, riusciranno a far luce sulle motivazioni che, nel corso del XXI secolo hanno cambiato l’idea e la percezione del museo stesso, trasformando questo in un contenitore che svolge ben altre funzioni oltre a quella meramente espositiva. Il concetto e perciò la struttura reale di un museo furono concepiti fra il XVI e il XVIII secolo, anche se la denominazione moderna di “museo” trae origine in età ellenistica con il “Mouséion” eretto in Alessandria d’Egitto per iniziativa di Tolomeo I: un edificio dedicato alle Muse, ossia alle figlie di Zeus. Quest’edificio non era assolutamente un museo, né aveva oggetti esposti o conservati, ma funzionava come una biblioteca e un centro di studi e accoglienza culturale per letterati e intellettuali del mondo ellenistico. Successivamente, prima ancora del XVII secolo, la storia racconta di alcuni episodi che già facevano riferimento a quella volontà, insita nell’uomo di collezionare qualcosa che sia di valore per dare prestigio a chi ne avesse l’opportunità di poterlo esporre. Nel Medioevo il primo esempio che testimonia questa volontà è rappresentato dalla raccolta dell’abate Suger della chiesa di Saint-Denis. Le motivazioni che spinsero il monaco a collezionare e ad esporre queste bellezze materiali, Mila Nikolić, “Ciudad de museos. Clústeres de museos en la ciudad contemporánea” Tesi di dottorato. Barcelona: Universitat Politècnica de Catalunya Barcellona, 2009.

erano di natura opportunistica, in quanto i fedeli venivano così invogliati ad avvicinarsi alla sfera spirituale attraverso i beni esposti dall’abate. Possiamo invece iniziare a parlare di vere e proprie raccolte con la nascita delle “Wunderkammer”2, termine tedesco che affonda le sue radici nel XVI secolo, utilizzato per indicare la camera delle meraviglie di una residenza, destinata a raccogliere esemplari rari o bizzarri di storia naturale o artefatti.

Le collezioni erano una sorta di antenati dei musei, dove erano esposti oggetti particolari, quasi misteriosi, sconosciuti al popolo e che quindi costituivano principalmente materiale per la didattica e una forma di indagine scientifica universale.

Il fenomeno come detto sì originò nel Cinquecento per poi svilupparsi per tutto il Seicento, alimentandosi delle grandiosità barocche, protraendosi fino al Settecento, favorito dal tipico amore per le curiosità scientifiche proprio dell’Illuminismo. In un certo senso, la Wunderkammer si può considerare come il primo stadio di sviluppo del concetto di museo, poiché all’interesse per il “meraviglioso” unisce il bisogno di conoscenza sistematica, sebbene non abbia di quest’ultimo le caratteristiche della sistemazione e del metodo. Un esempio di Wunderkammer è quella realizzata da Ferrante Imperato, farmacista e naturalista che nella sua residenza privata a Napoli, in piazza Monteoliveto all’interno di palazzo Gravina, attuale sede del dipartimento di Architettura dell’Università Federico ll di Napoli, realizzò la sua personale stanza delle meraviglie. Da vero uomo di scienza amante del sapere, per esercitare al meglio la sua attività di speziale, allestì collezioni di animali, piante e minerali raccolti di persona, comprando o scambiando reperti con altri studiosi e ricercatori del mondo. I reperti erano esposti nella sua casa, aperta sia agli studiosi delle scienze naturali che ai visitatori più curiosi ed era altresì un luogo talmente conosciuto da

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treccani.it/enciclopedia/wunderkammer

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essere riportato nelle guide storico-artistiche di quel periodo3.

Nel Settecento l’Illuminismo segnò un cambio radicale del pensiero dell’uomo: diventò d’uso comune per i gentiluomini e le gentildonne compiere lunghi viaggi all’estero a scopo di conoscenza, i cosiddetti “Grand Tour”. In questo periodo, i giovani imparavano a conoscere la politica, la cultura, l’arte e le antichità dei paesi europei; passavano il loro tempo compiendo giri turistici, acquisti e studi. In queste occasioni in molti fanno visita alle collezioni più celebri. Cresce così la consapevolezza dell’importanza di queste raccolte per l’educazione e la conoscenza delle scienze e delle arti. Nascono in questo periodo i primi musei pubblici: il British Museum di Londra, inaugurato nel 1753, e la Galleria degli Uffizi, donata al popolo di Firenze da Anna Maria Luisa de’ Medici nel 1737. In Italia nel Settecento vengono inaugurati anche i Musei Capitolini e il Museo Pio Clementino a Roma. Il grande evento che segna l’inizio della dimensione politica dello spazio pubblico e la nascita del museo pubblico si ebbe con la Rivoluzione francese, con l’idea che tutti gli uomini, senza distinzione alcuna di censo o di classe, abbiano il diritto di ammirare i capolavori dell’arte. La dimensione della civiltà pubblica cambia completamente aspetto; la rivoluzione segnò un radicale e violento sconvolgimento sociale, politico e culturale, spartiacque fra l’età moderna e l’età contemporanea.

Evento estremamente complesso e articolato nelle sue varie fasi, le cui principali e più immediate conseguenze furono l’abolizione della monarchia assoluta, la proclamazione della repubblica con l’eliminazione delle basi economiche e sociali dell’Ancien Régime (ovvero del sistema politico e sociale precedente, ritenuto responsabile dello stato di disuguaglianza e povertà della popolazione subalterna) e l’emanazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, futuro

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Dell’historia naturale di Ferrante Imperato, Napolitano libri Xilografia della Wunderkammer di Ferrante Imperato Stamperia Stigliola, 1599

treccani.it/enciclopedia/ferrante-imperato_(Dizionario-Biografico)

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fondamento delle costituzioni moderne. È in questo momento che le tre dimensioni, vale a dire, spazio pubblico, museo pubblico e pubblico nel museo si muovono nella stessa direzione, collegandosi strettamente tra di loro. Françoise Choay, storica e teorica dell’architettura e della città francese, scrive nel 1992 “L’allégorie du patrimoine” dove racconta la nascita del patrimonio pubblico, di tutto ciò che oggi sta dentro i musei, partendo appunto dal grande trasferimento di proprietà avvenuto durante la rivoluzione: “uno dei primi atti giuridici della costituente, il 2 ottobre 1789, è stato il mettere i beni del clero a disposizione della nazione. Seguirono quelli degli aristocratici emigrati, quindi quelli della corona. Questo eccezionale trasferimento di proprietà e la perdita brutale di destinazione d’uso erano senza precedenti, avrebbero posto problemi altrettanto senza precedenti”.4

La Choay parla di questi beni utilizzando il termine Heritage.

L’eredità, beni, conservazione, inventario, catalogo cose mobili ed immobili sono tutti elementi appartenenti ad un unico patrimonio: quello del popolo. La grande opera dei rivoluzionari è stata quella del trasferimento dei beni dal clero e dalla corona e metterli a disposizione della nazione: il patrimonio della nazione diventò “res publica”, cioè cosa del popolo. Hubert Robert, pittore paesaggista del rococò francese, che annovera nel suo percorso anche visite in Italia, dove soggiornò a Venezia, Firenze, Roma, Napoli e Paestum, fu una figura di spicco nel periodo rivoluzionario. Durante la Rivoluzione francese fu in un primo momento imprigionato, per poi successivamente, far parte del comitato rivoluzionario, incaricato costituzione del Museo Nazionale nel 1793. L’artista realizza un primo progetto di trasformazione del Louvre, “La Grande Galerie du Louvre”,

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per la creazione del “Musée Royal”, fino a quel momento sede reale e governativa, in un museo pubblico. Realizza poi un secondo disegno, “Projet d’aménagement de la grande Galerie du Louvre”, dove taglia le volte per far venire giù la luce dall’alto, allo scopo di illuminare gli spazi dedicati all’arte, lui che da pittore era consapevole della tipologia di luce della quale le opere necessitavano. Infine, realizza un terzo disegno di progetto della galleria, “Vue imaginaire de la Grande Galerie du Louvre en ruines”, dove rappresenta il museo come se fosse una rovina di un edificio antico, un tempio senza tetto, dimostrando una certa sensibilità verso l’archeologia, appresa grazie al suo rapporto con l’Italia ed in particolare all’amicizia stretta con Giovan Battista Piranesi. Nella fase post-rivoluzionaria, la galleria del Louvre cambia pelle, muta, assumendo i tratti e le dinamiche di un Boulevard parigino, un luogo dove oltre che osservare il patrimonio esposto, ci si incontra. Durante la settimana, il museo era il luogo degli artisti, un luogo di studio, dove si realizzavano le copie delle grandi opere esposte, mentre nel fine settimana, il sabato e la domenica, questo diventava un luogo pubblico; uno spazio dove stare e visitare le mostre: una dimensione completamente nuova rispetto a quella che fino a quel momento si aveva del museo. Con la Rivoluzione francese e con l’affermarsi del museo pubblico, si segna la rottura, il ribaltamento, della dimensione proposta dalle Wunderkammer; non c’è più mistero. Si entra nel museo per istruirsi e per ottenere un progresso sociale.

Françoise Choay, L’allégorie du patrimoine, Seuil, Paris, 1992.

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George Bataille, scrittore avanguardista, antropologo e filosofo francese degli anni Trenta, fornisce un’ulteriore documentazione storica che racconta la dicotomia tra chi vede il museo come un semplice contenitore di opere e chi invece lo vede come un luogo vivo e dinamico. Nel 1929, lo scrittore fonda insieme a Carl Einstein e Georges Henri Rivière la rivista “Documents”.

Su questa rivista che egli stesso considerava “una macchina da guerra contro le idee già pronte”, Bataille pubblica un articolo intitolato “Musée”5 dove esplicita in maniera esaustiva la nuova dimensione del museo: “Bisogna tener conto che le sale e gli oggetti d’arte non sono che un contenitore, il cui contenuto è costituito dai visitatori: è il contenuto che distingue il museo dalla collezione privata. Il museo è come un polmone di una grande città; la folla fluisce ogni domenica nel museo come il sangue e ne esce purificata e fresca. I quadri non sono altro che superfici morte ed è nella folla che si producono i giochi, le esplosioni i riverberi di luce descritti tecnicamente dai critici autorizzati.”

Hubert Robert, La Grande Galerie après 1801, Parigi, Musée du Louvre

Bataille, sgombra completamente il campo da tutta una serie di ragionamenti contorti che tutt’oggi ritroviamo sul rapporto tra il contenuto e il contenitore. Per lo scrittore, il museo e le opere in esso esposte rappresentano un’unica cosa, ovvero oggetti, il vero contenuto invece, è rappresentato dal pubblico.

Il corollario che riguarda lo spazio di questa dimensione del museo pubblico è fine a comprendere se è possibile entrare e godere dello spazio del museo in modo gratuito oppure no. È uno spazio pubblico fin quando è possibile utilizzarlo gratuitamente senza alcuna limitazione. In Italia, pochi anni dopo la nascita della Repubblica, Ruggero Bonghi, accademico napoletano e grande filologo latino, durante la sua carica di ministro della pubblica amministrazione del governo Minghetti tra il 1874 e

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Georges Bataille, Musée, “Documents”, 5, 1930

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il 1876 istituì nel 1975 la “Tassa di entrata dei musei, gallerie, scavi di antichità e monumenti del Regno” con l’intenzione di garantire agli istituti un’autonomia economica, che allo stesso tempo però, privava la nazione da quelle intenzioni nobilmente umanitarie che avevano segnato la nascita dei musei nel Settecento. Lo scrittore e critico letterario statunitense Henry James, in un suo soggiorno in Italia derise questa scelta tutta italiana, come racconta nel suo testo del 1877 “Italian Hour”:6 “all’ingresso di questi palazzi vi sono dei piccoli tornichetti presso i quali siedono uomini dalle uniformi gallonate, a cui il visitatore deve pagare un biglietto d’ingresso di 10 pence. All’interno, negli ambienti coperti a volta e affrescati, l’arte italiana giace sepolta come in mille mausolei”.

Fino ai primi anni ‘90, l’ingresso nei musei costava un prezzo irrisorio di circa 500 lire, in seguito con l’arrivo dei socialisti, lo sfruttamento dei beni culturali a scopo di lucro, pur essendo un bene pubblico diventò un punto fisso del governo presieduto da Giuliano Amato. La legge del 14.01.93 n°4 “Ronchey” che porta il nome dell’allora ministro per i Beni Culturali e Ambientali Alberto Ronchey, permise l’ingresso dei privati nella gestione dei beni culturali. Questa legge da quel momento dà la possibilità a musei, gallerie, scavi archeologici, biblioteche e archivi di stato di appaltare a imprese private i cosiddetti “servizi aggiuntivi” come bar e book-shop. L’ultimo tassello posto fa riferimento alla Legge del 25.03.97 n°78 di Walter Veltroni, ministro della Cultura e dell’Ambiente tra il 1996 e il 1998 del governo Prodi, il quale soppresse la tassa di Bonghi, dando la possibilità ai privati di prendere in gestione la bigliettazione, che comportò un aumento del costo, che era di circa 20 centesimi, a quelli attuali che si aggirano tra gli 8 e i 20 euro. Dalla Destra storica

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di Minghetti al socialismo di Amato, fino ad arrivare al governo di centro sinistra di Prodi, la dimensione del museo pubblico in Italia sul finire del XX secolo assunse ben altra conformazione rispetto ai principi mossi duecento anni prima dai rivoluzionari francesi. Si iniziò a parlare di “museocentrismo”, dove il ruolo sempre più istituzionale del museo tendeva a caratterizzare le politiche culturali e l’atteggiamento dei media, producendo un duplice effetto negativo: da un lato una sorta di sovraesposizione dei musei, investiti da pressioni eccessive rispetto al loro ruolo e alle loro stesse possibilità e potenzialità; dall’altro una caduta di attenzione nei confronti del patrimonio culturale diffuso e “a cielo aperto”, finendo per incidere negativamente non solo sulla sua tutela e valorizzazione, ma anche sulla stessa relazione tra i musei e il patrimonio culturale nel suo complesso. Nel 2015, l’allora ministro del Mibact Dario Franceschini, promosse una riforma che cambiò radicalmente il modello organizzativo dei beni culturali italiani, mirando a rendere l’amministrazione dei beni culturali più snella, efficiente ed economica attraverso l’ammodernamento della struttura centrale e la semplificazione di quella periferica; l’integrazione definitiva tra cultura e turismo; la valorizzazione dei musei italiani, con 20 musei e siti archeologici di interesse nazionale dotati di piena autonomia gestionale e finanziaria con direttori altamente specializzati.

La riforma fu tesa alla valorizzazione (fatto assolutamente innovativo), all’arte, all’architettura e alla riqualificazione delle periferie contemporanee con l’arrivo di una direzione generale dedicata chiamata appunto Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie Urbane, che si occupa sia della promozione della qualità dei progetti, sia della loro ideazione e progettazione, oltre che ovviamente delle azioni di riqualificazione e recupero del patrimonio esistente.

Henry James, Italian Hours, 1877

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LA TRASFORMAZIONE DEL MUSEO Alexander Dòrnër, storico dell’arte, nel 1923 venne nominato direttore del Landes Museum di Hannover, diventando il più giovane tra i direttori dei musei d’arte della Germania, essendo nato a Königsberg nel 1893. Dòrnër pensava che la sua educazione estetica, influenzata dal pensiero di Alois Riegl, gli avrebbe permesso di riorganizzare il museo ed in particolare, di rinnovare il gusto dei suoi concittadini esponendo esempi di arte contemporanea. Le discussioni con Panofsky, Gropius (che in quegli anni si dedicava alla grande e rivoluzionaria impresa della Bauhaus), Kurt Schwitters, El Lissitzky, il clima generale di rinnovamento intellettuale e politico della Repubblica di Weimar, ma soprattutto grazie al suo coraggio infaticabile, lo condussero ben oltre i suoi stessi obiettivi. Nella nuova concezione di museo di Dòrnër, l’arte liberata dalle idee romantiche ancora operanti appare come partecipe della vita dell’uomo, parte integrante o modo di manifestazione per eccellenza della sua visione del mondo. Per realizzare la sua idea, Dòrnër, dopo aver proceduto ad un accurato inventario delle opere di proprietà del Landes Museum, le ordinò cronologicamente, creando per ciascuna grande epoca un’ambientazione particolare, così che il visitatore avesse l’impressione di vivere all’interno di quella visione della realtà che era propria delle civiltà greca, romana, rinascimentale, ecc. Il museo di Hannover fu la sua grande opera, teorica e pratica insieme: un’opera rivoluzionaria, il primo e forse unico tentativo di un’innovazione radicale nel rapporto fra il pubblico e l’opera d’arte dove, in luogo della contemplazione passiva, questa provocava un interesse attivo nello spettatore, divenuto partecipe degli svolgimenti storici dell’arte e dei suoi significati conoscitivi. Dòrnër incaricò l’artista El Littizky di realizzare delle sale all’interno del suo museo; nasce qui il famoso “gabinetto astratto”, in cui la mobilità dei pannelli e il variare della luce favoriscono l’illusione delle nuove

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dimensioni spazio-temporali di cui l’arte astratta, secondo il direttore, sarebbe a un tempo ricerca ed espressione. L’idea di “Lebenmusem” nasce dunque in Germania, dopodiché nel 1935 per le persecuzioni hitleriane, costretto a fuggire dalla Germania, Dòrnër si rifugiò in America, dove modi di pensiero sconosciuti alla cultura tedesca, lo portarono ad approfondire le sue ricerche trasformando il suo studio in “Living Museum”, integrando alla sua precedente visione, nuovi suggerimenti per la costruzione di una filosofia dell’arte che potesse allinearsi o partecipare al grande sviluppo delle scienze naturali proprio del nostro secolo. Nasce da queste riflessioni il suo saggio “Il superamento dell’arte”7. Questo testo non si propose come mera speculazione teorica, ma come racconto della storia, ridotta all’essenza, dei mutamenti della visione della realtà durante l’evoluzione umana, l’analisi del passaggio dal mondo “adimensionale” primitivo al mondo statico tridimensionale della civiltà occidentale, e da questo a una realtà futura vissuta come divenire e non più come essere, di cui già i primi accenni si possono riconoscere nelle formulazioni della fisica moderna, nelle ricerche dell’arte astratta e del design. Il pensiero di Dòrnër approda in Italia grazie a Giulio Carlo Argan sulla rivista “Comunità” di Adriano Olivetti, il quale riprende da questo il concetto di museo come luogo di vita, di forte utilità sociale, poiché l’esperienza dell’arte assume un valore educativo. Sulla stessa rivista, l’allora direttore dei Musei Civici di Verona Licisco Magagnato, esplicitò le principali funzioni del nuovo museo: “un moderno museo organizza mostre, spettacoli cinematografici; conferenze e gite didattiche; pubblica libri, documentari, diapositive, e fotografie; cura restauri e promuove l’attività artistica; ha una vasta rete di associati e di sostenitori privati, e svolge un’attiva

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Alexander Dòrnër, Il superamento dell’«arte», Adelphi, 1964

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propaganda con la mentalità di una vera e propria impresa economica e turistica”.8

terra, con un unico sguardo, il visitatore coglie immediatamente lo spazio urbano esterno, che a questo punto diventa un tutt’uno con la mostra espositiva ambientata all’interno del museo.

Nel dopoguerra, con la caduta del regime fascista, la nuova concezione di museo, supportata anche da dibattiti ispirati ad avvenimenti esterni all’Italia, ispirò la realizzazione di una serie di musei importantissimi ad opera di Franco Albini, Carlo Scarpa e dei BBPR, tra i quali ricordiamo gli interventi di Franco Albini a Palazzo Bianco a Genova, dei BBPR al Castello Sforzesco a Milano, Gardella con Michelucci e Scarpa alle Gallerie degli Uffizi e ancora Carlo Scarpa impegnato al Museo Correr a Venezia. Un’architettura fondamentale della seconda metà del Novecento è rappresentata dalla Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe inaugurata a Berlino nel 1968, un esempio importantissimo del mutamento dell’idea di museo, realizzato per donare ai cittadini della Berlino Ovest, un nuovo museo dedicato alle arti del XX secolo. L’opera fu il primo intervento urbanistico di ricostruzione dell’area in prossimità del grande parco di Tiergarten e di Potsdamer Strasse della città intrapreso nei primi anni Sessanta e che prenderà successivamente il nome di Kulturforum, letteralmente foro della cultura.

L’edificio realizzato interamente in acciaio e vetro consiste sostanzialmente in una piazza coperta di 50.40×50.40m, alta 8.40m. Uno spazio dove non ci sono differenze di quota tra l’ambiente circostante, la piazza intorno al museo e il museo stesso. L’architettura di Mies rappresenta una maniera e un’idea di avere un rapporto con lo spazio pubblico di tipo morfologico, rappresentato da un unico livello dove impercettibilmente ci si ritrova all’interno grazie alle vetrate che consentono alla luce di penetrare completamente all’interno dell’edificio. Dal piano P. Morello, La museografia. Opere e modelli storiografici, in Storia dell’architettura italiana. Il secondo Novecento (1945-1997), a cura di F. Dal Co, Electa, Milano 1997

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Neue Nationalgalerie, Mies van der Rohe, Berlino, 1968

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Quest’esempio da inizio a quel filone di architettura che vede il museo non più come un contenitore dove esporre le collezioni, ma che diventa anch’esso un’opera che dialoga con il contenuto, il visitatore e l’ambiente circostante. Da quel momento, negli ultimi trent’anni del XX secolo, vennero commissionati numerosi musei basati sul principio che il manufatto da realizzare dovesse presentare una coesione con il territorio e il pubblico. Sulla scorta della rivoluzione del 1968 e della Neue Nationalgalerie, a seguito del concorso bandito da Georges Pompidou nel 69, venne commissionato a Piano, Franchini e Rogers la realizzazione del “Centro nazionale d’arte e di cultura Georges Pompidou”, conosciuto anche come Beaubourg, dal nome della strada dove sarebbe stato edificato.

Il Centro avrebbe dovuto dare un’immagine democratica degli spazi della cultura in un’epoca in cui i postulati tradizionali dell’arte, o meglio della cultura, sono messe in discussione, come Pompidou stesso affermò nel 1972 sulla rivista Le Monde: “mi piacerebbe che Parigi avesse un centro culturale come già hanno cercato di proporre gli Stati Uniti con un successo finora discontinuo, che sia museo e centro di creazione, dove le arti visive si accompagnino alla musica, al cinema, ai libri, alla ricerca audiovisiva e così via. Il museo non può essere che di arte moderna, dal momento che abbiamo il Louvre. La biblioteca attirerà migliaia di lettori che a loro volta saranno messi in contatto con le arti”.

Il museo si presenta senza un ingresso principale ma una serie di entrate poste sulla facciata dinnanzi ad una grande piazza leggermente inclinata; la sua costruzione ha portato ad una serie di scelte innovative non solo sul piano della tecnologia dell’architettura, ma soprattutto per l’aspetto sociale dell’architettura stessa. La volontà di Pompidou non fu quella di creare un’infrastruttura o un monumento, ma un edificio per i cittadini. Il presidente, durante il suo mandato così come ogni suo predecessore, aveva l’obbligo morale di donare un’opera 19

alla città capitale, accrescendo la qualità di Parigi al di sopra delle altre città europee. Optò per il Beaubourg con l’obiettivo di donare alla città un centro in cui le arti plastiche e pittoriche potessero incontrare la città e i cittadini, dialogando con essi con nuovi scambi di input. Una decisione che rivoluzionò il modo di considerare la cultura pubblica. Il progetto di Piano e Rogers vinse, non solo grazie alla scelta di liberare lo spazio antistante del museo ma anche per l’integrazione di tecnica e originalità in un contesto storico e sedentario che altre proposte avevano messo in disparte. Il museo infatti è compreso in un’area situata tra la torre dell’antica chiesa medievale di Saint Jacques e i palazzi del Marais, costeggiando Rue Saint Martin, uno dei tracciati più antichi di Parigi, rimasto vuoto negli anni a causa della presenza di esalazioni solforose, di infrastrutture malsane, come anche di malviventi e associazioni criminali, tant’è che nel piano Haussmann fu dichiarato “l’isolato insalubre n°1 della città”. La piazza è pensata dagli architetti come centro di vita e di scambio, in cui passa, prolungandosi, l’attività del museo stesso, permettendo di stabilire una connessione tra questo e la città. La scelta di realizzare il Centro sollevato da terra e di collocare il sistema impiantistico all’esterno rafforza la volontà di liberazione dagli schemi; gli impianti, da sempre mantenuti nascosti in quanto considerati antiestetici, diventano i dati di lettura del sistema di facciata del museo. Pur avendo le mostre a pagamento, il Pompidou è da considerarsi una struttura pubblica, in quanto all’interno è possibile muoversi liberamente usufruendo gratuitamente di uno spazio confortevole che offre un notevole numero di servizi. In definitiva, il Pompidou fu definito dagli stessi progettisti come “l’anti-monumento in movimento”, in cui forma e funzione coincidono perfettamente mettendo un punto alla discussione che si è protratta per tutto il Novecento.

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Centre national d’art et de culture Georges-Pompidou, Parigi, 1977 Renzo Piano, Richard Rogers e Gianfranco Franchini Esterno

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Centre national d’art et de culture Georges-Pompidou, Parigi, 1977 Renzo Piano, Richard Rogers e Gianfranco Franchini Interno

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Negli stessi anni, anche Francoforte rappresentò un esempio importante in questo senso. Durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, il 70% degli edifici della città furono distrutti, tra questi quasi la totalità ricadeva nel centro della città. La ricostruzione comportò un cambio estetico in quanto la struttura medioevale della città, ancora intatta nel 1944, fu sostituita da edifici in stile moderno. Già in quegli anni, la città risultava essere sede delle più importanti banche europee, ma pur essendo un centro molto ricco, appariva depressa dal punto di vista culturale. L’amministrazione nei primi anni ’80 decise quindi di puntare ed investire tutto nello sviluppo culturale della città, realizzando contemporaneamente 15 nuovi musei, dando origine ad una vita urbana completamente nuova, basata su nuove dinamiche economiche, come quelle rappresentate dal turismo, portando la città in una nuova dimensione, dove le due sponde del fiume Meno, sono costellate da una serie di spazi culturali messi in relazione tra loro da una sistemazione urbana capace di creare questa maglia continua di spazi per la cultura che prende il nome di cluster museale. Il cluster è il risultato della relazione simbiotica tra l’ambiente e il museo stesso capace di generare dinamiche relazioni che alimentano lo sviluppo generale dell’area in cui il cluster ricade. Si potrebbe dire che questo concetto, riconducibile ad alcuni dei luoghi più visitati al mondo come l’Axe historique a Parigi o Via dei Fori Imperiali a Roma, non sia frutto della qualità dello spazio e delle attività pubbliche nate dal connubio città/Museo, ma che sia solo il prodotto della stratificazione storica del suo tessuto, della monumentalità delle sue opere, della vittoria della città come palinsesto9 rispetto a qualunque risultato ottenuto mediante la pianificazione della fruizione di spazi. È indiscutibile che il valore del contenuto del museo o dell’opera

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André Corboz, il Territorio come Palinsesto, Casabella, 1985

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a cielo aperto abbia un valore inestimabile ed irriproducibile, il punto della questione si articola intorno alla domanda se è possibile, in un territorio dove la stratificazione non ha lo stesso valore, dove i musei non posseggono collezioni di eccezionale valore, realizzare uno spazio di qualità, creare un’idea culturale di città laddove non c’è.

L’Axe historique, Parigi

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Un esempio importantissimo in questo senso è rappresentato dalla trasformazione della città basca di Bilbao che dimostrò, tra la fine del XX e l’Inizio del XXI secolo, la potenza trainante della riconversione in chiave culturale. Bilbao, città industriale nel nord della Spagna, negli anni Novata vede dismesse la maggior parte dei suoi stabilimenti e fu per questo costretta a reinventarsi. Il Guggenheim Museum è solo il simbolo di numerosi interventi realizzati in città e che hanno donato grazie anche al coinvolgimento della Fondazione Solomon R. Guggenheim, una dimensione planetaria. Anche in Italia, a Roma, nello specifico nel quartiere Flaminio è stata attuata una strategia simile che vide aggiungersi al Foro Italico e al Villaggio Olimpico, l’Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano e il MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Zaha Hadid, allo scopo di aumentare le iniziative culturali formando così un cluster per creare nuove occasioni di spazio pubblico.

Emblematico in questo caso come il numero di persone che usufruiscono quotidianamente dello spazio pubblico offerto dal MAXXI si riuniscano in coda ancor prima che il museo apra al pubblico. L’area pubblica del museo progettato da Zaha Hadid ma probabilmente il contenitore stesso, può essere paragonato ad un altro risultato simile, ottenuto da Renzo Piano con il NEMO di Amsterdam: il più grande centro scientifico dei Paesi Bassi, realizzato in prossimità della stazione centrale e del tunnel che attraversa il fiume, in cui il risultato più apprezzabile prodotto da quest’architettura a forma di nave è la terrazza pubblica posta di esso, la quale offre servizi di ristoro ed intrattenimento.

Questi esempi della fine del XX secolo hanno aperto negli ultimi due decenni a nuovi scenari dove la progettazione e la gestione del Museo è tesa a ridefinire il concetto di sfera pubblica e illustra chiaramente il trasferimento dalle istituzioni pubbliche allo spazio pubblico.

Nemo Science Museum, Renzo Piano, Amsterdam, 1997

MAXXI Museum, Zaha Hadid, Roma, 2010

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IL MUSEO OGGI In questo cambiamento sociale, la dimensione urbanistica del museo acquisisce un’importanza primaria. L’aspetto del progetto museale appare come l’ingresso della città nel museo e allo stesso tempo dell’uscita del museo verso la città, in un unico progetto che coinvolge interamente lo spazio, capace di generare coesione, identità e forma ad intere parti di città. L’Architettura oggi fugge da quell’illusione moderna e postmoderna che la vedeva onnisciente e autoritaria, senza osservare quella sensibilità multidisciplinare necessaria per cogliere le diverse realtà del territorio. Con l’acquisizione di questa sensibilità, aumenta sempre di più la consapevolezza della temporalità delle cose e delle opere: ciò che si è progettato oggi, non è detto che funzioni tra un decennio. In tal senso, il MuseumsQuartier di Vienna rappresenta un esempio di come la pianificazione e l’architettura riescano a creare un nuovissimo e riuscitissimo “quartiere” pubblico interamente dedicato alla cultura. Attraverso relazioni e interazioni dinamiche tra i musei e la città, il MQ offre un’eterogeneità di utenti e di usi nel cluster museale la quale contribuisce all’integrazione di dinamiche culturali, sociali ed economiche all’interno dell’ambiente urbano.

Situato al confine del centro storico, in un sito che già ospitava il Kunsthistorisches Museum e il Naturhistorisches Museum, i musei gemelli posti sui due versanti di Maria Theresien Platz, il cuore del MuseumsQuartier si trova in quello che un tempo fu il palazzo delle scuderie dell’imperatore Carlo VI: un grande isolato trasformato all’inizio del nuovo millennio in una grande città dei musei che riunisce su una superficie di 60.000 metri quadrati cinque musei di cui due ex-novo: il Leopold Museum dove è esposta la collezione Rudolf Leopold e il MUMOK che ospita una collezione di 9000 opere di arte moderna e contemporanea. I due nuovi musei posti ai due lati della piazza, realizzati entrambi dello studio di architettura Ortner & Ortne,

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con la loro architettura contemporanea, rompono lo schema tradizionale della piazza, facendola diventare un luogo denso di significati dove, tra ristoranti, caffè e negozi ci si può sostare, conversare, leggere, passare del tempo di qualità. La piazza è una sorta di città nella città, dove la grande quantità di spazi è adoperabile per gli usi più variegati, dalle conferenze ai concerti.

MuseumsQuartier – MQ, Vienna, 2001

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Nel suo intenso sviluppo negli ultimi due decenni, il museo è diventato un simbolo di industrializzazione della cultura e di culturalizzazione della vita sociale, dell’economia e dell’urbanistica. Non solo ha preso il posto dell’industria nella città postmoderna, ma ne ha gradualmente adottato il suo comportamento spaziale e la logica del clustering e della rete con altri musei. Il museo sta cambiando; il significato e l’importanza dei suoi aspetti di base stanno cambiando come sottolinea anche l’ICOM, l’International Council of Museums, la principale organizzazione internazionale che rappresenta i Musei e i suoi professionisti in 138 paesi nel mondo, la quale in un documento del 2019 propose una nuova definizione di museo rispetto a quella precedente qui sotto riportata, stipulata il 24 agosto 2007 a Vienna. “un museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro al servizio della società e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che acquisisce, conserva, ricerca, comunica ed espone il patrimonio materiale e immateriale dell’umanità e del suo ambiente per gli scopi dell’educazione, dello studio e del diletto.“

Rispetto a quest’ultima, la nuova formulazione, da molti criticata perché troppo eurocentrica rispetto al numero di paesi nel mondo a cui ICOM da voce (anche se l’80% dei membri sono comitati europei), mette in luce criticità e ideologie nella comunità museale mondiale.

“I musei sono spazi democratizzanti, inclusivi e polifonici per il dialogo critico sul passato e sul futuro. Riconoscendo e affrontando i conflitti e le sfide del presente, custodiscono manufatti ed esemplari nella fiducia della società, salvaguardano ricordi diversi per le generazioni future e garantiscono pari diritti e pari accesso al patrimonio per tutte le persone […] i musei non sono a scopo di lucro. Sono partecipativi e trasparenti e lavorano in partnership attiva con e per diverse comunità per raccogliere, preservare, ricercare, interpretare, esibire

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e migliorare la comprensione del mondo, con l’obiettivo di contribuire alla dignità umana e alla giustizia sociale, all’uguaglianza globale e al benessere planetario.”

Questo manifesto pone sotto un’altra luce la mission del museo impegnata a preservare e conservare il patrimonio culturale museale, attraverso: la definizione di criteri universali per la progettazione; gestione e organizzazione dei musei; lo sviluppo di una comunità museale mondiale, grazie all’iscrizione di soci istituzionali o individuali; il contributo alla ricerca, allo studio e al dibattito sui principali temi di museologia; l’allineamento di tutte le convenzioni internazionali sul tema del patrimonio culturale attraverso il lavoro dei comitati nazionali ed internazionali. La nuova proposta di definizione di Museo di ICOM è stata discussa a Kyoto dalla comunità internazionale, nell’ambito della 25a Conferenza Generale ICOM. Questa vide un acceso ed animato dibattito che portò alla posticipazione di un anno dell’approvazione della nuova definizione ed anche alla creazione del MDPP (Committee on Museum Definition, Prospects and Potentials), una commissione con il mandato di “analizzare le radici storiche ed epistemologiche del concetto di Museo e di esplorare, ricercare e osservare le tendenze in atto nella società e le implicazioni di queste sui Musei”. La discussione sul futuro dei Musei e della loro definizione è strettamente connessa ad un contesto più ampio, di cui fanno parte le grandi preoccupazioni del nostro tempo: dal cambiamento climatico alla distruzione della natura, dal colonialismo alla globalizzazione, dalle disuguaglianze alle ingiustizie sociali, dal razzismo al sessismo, naturalmente considerando l’attuale potenziale di “democraticizzazione” e di emancipazione.

Nei Musei, come nella società in generale, le aspettative di pari diritti e pari accesso alla cultura, democrazia culturale e partecipazione culturale stanno crescendo costantemente e il rapporto tra i Musei e le comunità devono essere riformulati e reinterpretati, in un nuovo linguaggio relazionale che supporti

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le opportunità di collaborazione e di responsabilità condivise, in cooperazione e co-creazione.10 Quarant’anni dopo il Beaubourg e venti dopo Bilbao, la distanza e gli esempi sono sufficienti per apprezzare come il museo abbia cambiato la rotta del proprio percorso, soprattutto se si tiene in considerazione il carattere elitario che segnò la sua nascita.

Oggi il boom museale e il suo impatto, non sull’economia e sulle politiche della città, ma sulla sua struttura fisica, cultura urbana e flussi sociali rappresentano una realtà consolidata che si manifesta mediante la rivoluzione nel rapporto e nella concezione del museo e della città. In questo senso, il ruolo del pubblico assume un valore prioritario, in grado di innescare sinergie capaci di creare un ecosistema virtuoso, composto da tanti frammenti della nostra società. Potremmo definire quest’ecosistema un modello, qualcosa di replicabile, un’azione di agopuntura all’interno del tessuto urbano capace di rigenerare attraverso la cultura aree depresse della città. La progettazione di questi interventi, viene pianificata a partire non tanto dalla tipologia di museo, ma dalla scelta del luogo in cui il museo avrà il più ampio e forte impatto sulla città. Questo principio ha aperto negli ultimi anni a scenari fino a poco tempo fa inimmaginabili; è il caso del grande progetto di Abu Dhabi che sta vedendo sull’isola Saadiyat (fino a 15 anni fa completamente deserta), in concomitanza con altri 6 distretti, la realizzazione di un nuovissimo e avveniristico distretto culturale su una superfice di 2,43km2, pari al 10% del totale dell’isola. La realizzazione del Saadiyat Cultural District ha visto lo stanziamento di corposi finanziamenti (si parla di circa 27 miliardi di dollari per tutta l’isola) sia per la realizzazione dei nuovi complessi museali, sia per gli accordi internazionali con Fondazioni e altri musei. Al già realizzato Louvre Abu Dhabi di Jean Nouvel inaugurato nel

Barbara Landi, Responsabile comunicazione ICOM Italia, Il ruolo del Museo oggi, 2019

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20177, frutto di un accordo di partnership con il governo francese che ha visto per il solo impiego del nome il costo di 525 milioni di dollari a cui seguiranno altri 747 milioni nei prossimi 15 anni finalizzati a presti d’arte, mostre speciali e consigli di gestione, seguiranno il Zayed National Museum di Norman Foster, il Maritime Museum di Tadao Andō, il Performing Arts Centre di Zaha Hadid e un nuovo Guggenheim progettato da Frank Gehry. Solo il futuro ci dirà se questo progetto avrà rispettato le grandi aspettative riposte in lui dall’ente del turismo di Abu Dhabi. Non è in dubbio però che questo piano, con tutte le attenuanti legate alle dinamiche culturali ed economiche dell’Asia Occidentale, rafforzi ulteriormente l’importanza che la cultura sta rivestendo nelle politiche di trasformazione del territorio con risvolti in tutto l’assetto urbano. Prima di concludere la prima parte della tesi con l’analisi di alcuni esempi di musei virtuosi sparsi tra Europa e America, cito così come all’inizio del primo capitolo, Mila Nikolić, la quale nel 2009 come conclusione della sua tesi di dottorato sui cluster museali, dopo aver analizzato l’importante cambiamento della funzione e del ruolo del museo pose quest’interrogativo: “la vita urbana sarà migliore? Le nuove generazioni saranno più colte e creative? Quali cambiamenti causerà nei flussi, nelle strutture e nelle mentalità urbane?”11 Sarebbe presuntuoso provare a fare una previsione, ma quello che comunque posso dire è che il riassetto delle città in chiave culturale, più sostenibile, più slow, più aperta all’interazione sia a piccola che a grande scala è un ottimo presupposto per provare ad immaginare un futuro dove la cultura sia un veicolo per agevolare la partecipazione e dunque la crescita della società.

Mila Nikolić, “Ciudad de museos. Clústeres de museos en la ciudad contemporánea” Universitat Politècnica de Catalunya Barcellona, 2009

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MAC | MUSEU DE ARTE CONTEMPORANEA DE NITERÓI

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Il Museu de arte contemporanea de Niterói, notoriamente conosciuto con l’acronimo MAC, sorge sul promontorio Boa Viagem nell’omonimo quartiere della città di Niterói sita nella baia di Guanabara, la quale divide la città dalla megalopoli Rio de Janeiro di circa 11 km. Le due città sono collegate grazie all’imponente ponte “Presidente Costa e Silva”, edificato nel 1976 nei pressi dell’aeroporto nazionale Santos Dumont e noto a tutti come il Rio-Niterói Bridge. Niterói è la terza città più visitata nello Stato di Rio de Janeiro e la quinta più popolosa con i suoi 500.000 abitanti. Qui, la qualità della vita risulta essere una delle migliori tra le città brasiliane secondo gli standard delle Nazioni Unite. L’idea di realizzare un museo di arte contemporanea a Niterói nasce in un contesto informale, quando nel maggio del 1991, la figlia di Oscar Niemeyer col supporto del padre tentò, in un incontro con l’allora Segretario alla Cultura della città di Niterói Italo Campofiorito, di partecipare all’organizzazione di una mostra di João Sattamini, uno dei più grandi collezionisti d’arte in Brasile con una collezione che raccoglie oltre 1000 opere. Nell’occasione, l’allora sindaco Jorge Roberto Silveira, colse l’opportunità per chiedere a Niemeyer se fosse disponibile per la realizzazione di un museo che donasse lustro alla città. L’occasione di avvalorare la città e la propria posizione politica grazie all’opera di una delle figure più di rilievo del panorama nazionale ed internazionale spinse il Sindaco Silveira ad agire tempestivamente all’acquisto del suolo destinato all’edificazione del nuovo museo, andando però incontro ad uno scandalo. Infatti, l’allora vicesindaco della regione oceanica di Niterói, Zeca Mocarzel, comunicò al proprietario del terreno individuato per la costruzione del nuovo museo che i diritti di edificazione di questo risultavano essere bloccati dal Consiglio comunale, inducendolo dunque alla vendita per un costo irrisorio. Successivamente, presentato il progetto al Consiglio comunale per ottenere il diritto di edificazione, questo fu approvato in soli due giorni. Il 15 luglio del 1991, l’architetto e il Sindaco presentarono alla stampa il progetto architettonico

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preliminare. Dopo aver inaugurato personalmente il MAC nel 1996, Silveira aumentò considerevolmente il prezzo del terreno adiacente al museo. Lo scandalo si consumò nel periodo invernale e fu per questo definito il “regalo di Natale” dei politici per sé stessi. José Carlos Sussekind, l’ingegnere responsabile dei calcoli strutturali, nonché amico intimo di Niemeyer, raccontò così l’ideazione del MAC di Niterói:

andato a vedere il posto. Il mare, le montagne di Rio, un magnifico paesaggio che avrei dovuto preservare. E ho pensato all’edificio, adottando la forma circolare che, a mio parere, lo spazio richiedeva.

Lo studio era pronto, e una rampa che porta i visitatori al museo completò il mio progetto”.

“il MAC di Niterói è un monumento, con un’area costruita piccolissima.

Il sindaco spese due lire e oggi la città è conosciuta in tutto il mondo grazie a questo museo. Ricordo che il sindaco aveva mostrato a Niemeyer tre luoghi, ma vista la prima Oscar disse -ok, è questa-, su quel lembo di terra di fronte al mare. Dopodiché andammo a mangiare in una di quelle trattorie vicino al mercato del pesce e durante l’attesa dell’ordinazione, sul tovagliolo di carta, Oscar disegnò il museo”.12

La costruzione del museo, le cui strutture sono state progettate dall’ingegnere Bruno Contarini, il quale già aveva lavorato con Niemeyer in precedenza, durò cinque anni venendo inaugurato come già detto nel 1996. L’edificio, realizzato in cemento grezzo dipinto di bianco, alto sedici metri, sormontato da una cupola di cinquanta metri di diametro, con una forma che ricorda un fiore o un disco volante, si proietta sulla spiaggia di Boa Viagem e sul quartiere di Icaraì. Niemeyer, all’epoca quasi novantenne, concepì un progetto così poco convenzionale con l’obiettivo di realizzare un edificio che si integrasse totalmente con il paesaggio spuntando dal profilo roccioso del promontorio cosicché grazie alle enormi vetrate circolari, il paesaggio diventasse una presenza fissa ed irrinunciabile per sentirsi non solo spettatori, ma veri protagonisti dell’opera architettonica in sé. Progetto che nel 2006, lo stesso Niemeyer così ricordava: “com’è facile spiegare questo progetto! Mi ricordo quando sono

12 Barbara Landi, Responsabile comunicazione ICOM Italia, Il ruolo del Museo oggi, 2019

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Oscar Niemeyer, MAC Niterói, schizzo di progetto, 1991

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L’edificio di 2.500 m2 vede posto alla base una piscina a specchio di 817 m² di superficie e 60 cm di profondità, la quale circonda lo stelo dell’edificio riflettendo le sue forme, contribuendo ad accentuare la fluidità delle sue linee e conferendo leggerezza alla costruzione. All’interno del museo con i suoi quattro piani espositivi, si accede percorrendo una lunga e curvilinea rampa rossa di 98 metri che collega la strada costiera Avenida Almirante Benjamin Sodré sia con l’ingresso al primo piano del museo che alla sua uscita, posta al secondo piano; creando così un percorso continuo e ininterrotto tra interno del museo e lo spazio esterno. La rampa funziona soprattutto come dispositivo visivo. Percorrerla significa non solo accedere al museo, ma anche guardare il grande volume bianco crescere ad ogni passo, mentre il panorama storico di Guanabara sfila lentamente sullo sfondo, come un fantastico ciclorama.13 La rampa d’accesso conduce alla Hall of Expositions, un’ampio spazio dove si trova la sala accoglienza (dalla capacità di ospitare sessanta persone) e gli uffici di amministrazione. Due porte conducono alla galleria di osservazione, attraverso la quale si possono ammirare la già citata spiaggia di Guanabara, la città di Rio de Janeiro e Pão de Açúcar, una collina alta quasi 400 sopra il livello del mare. Al piano semi-interrato invece si trovano il ristorante, la caffetteria, un piccolo auditorium di 54 posti e il deposito; qui la vista verso la baia è possibile attraverso lunghe ma sottili aperture. Al secondo piano ci sono cinque sale espositive distribuite su 1000 m2 e una grande galleria centrale a doppia altezza. Infine, il terzo piano coperto da una grande cupola di 50 metri di diametro, ospita quasi 700m2 di spazi espositivi, divisi anche qui in cinque sale.

A

B

C 13

Ítalo Campofiorito, intervista, culturaniteroi.com.br, 2006

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MAC livelli A secondo livello; B primo livello; C piano semi-interrato 38

La forma del cerchio ricorre continuamente nel museo: la piscina, la rampa, le balconate, i corrimani, perfino le lampade a soffitto e il bancone del ristorante sono rotondi. La presenza di due percorsi panoramici ad anello accentua questo schema; per ognuno di questi c’è una grande finestra a nastro che offre viste spettacolari sulla baia e sulla città. Nel descrivere la sua creazione, Oscar Niemeyer affermava: “non è l’angolo retto che mi attrae, e nemmeno la linea retta, dura, inflessibile, creata dall’uomo. Ciò che mi attrae è la curva libera e sensuale. La curva che incontro nelle montagne e nei fiumi del mio paese, nelle nuvole del cielo, nelle onde del mare, nel corpo della donna preferita. Di curve è fatto tutto l’universo.”

Vista del MAC di Niterói dall’alto con vista sulla Baia di Guanabara

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La mission del museo fin dalla sua inaugurazione è mirata alla “produzione di arte contemporanea, esposta in un luogo pubblico aperto alle persone che non appartengono al mondo dell’arte” con l’obiettivo secondo l’amministrazione del museo, di incoraggiare l’avvicinamento al mondo dell’arte da parte di più gruppi sociali attraverso l’organizzazione di mostre temporanee, attività didattiche ed eventi speciali. Il nucleo principale della collezione del museo è composto da circa 1200 opere, sia dipinti che sculture, donate dall’imprenditore e collezionista João Sattamini e realizzate principalmente da artisti brasiliani tra gli anni Cinquanta e i primi anni Novanta come Lygia Clark, João Carlos Goldberg, Frans Krajcberg, Tomie Ohtake, Abraham Palatnik, Mira Schendel e Carlos Vergara.

Le opere ricordano un periodo molto cruciale della storia del Brasile, ovvero quello della dittatura che condizionò lo sviluppo del paese tra il 1964 e il 1985, quando si susseguirono diversi presidenti che ridussero in povertà l’intero paese e in cui si consumarono drammi indescrivibili.

La stessa architettura di Niemeyer è tesa a rafforzare questo concetto di partecipazione in quanto essa stessa esprime il potere del museo come un luogo che celebra l’incontro speciale tra libertà di creazione artistica e società come parti del mondo-paesaggio. Infatti, la piazza esterna del MAC di 2.400 m2 rappresenta fisicamente spazio di transizione tra il paesaggio e lo stesso museo e concettualmente il luogo dove la società può cogliere ed esprimere quel legame tra arte e il paesaggio.

La relazione simbiotica tra il museo e il suo contesto venne rafforzata ulteriormente nel 2016, quando in seguito ad un periodo di chiusura per lavori di rinnovamento, con investimenti pubblici da parte della Città di Niterói e del governo federale, il Mac festeggiò i suoi 20 anni di attività, proprio nell’anno dei giochi Olimpici di Rio, riaprendo il 16 giugno, lanciando contemporaneamente un nuovo concetto museale: il “MAC +20” con prospettive e impegni per il rinnovamento del futuro che iniziano con il senso del luogo di creazione, sintesi e unità

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tra arte, cultura e società nel l’integrazione ambientale.14 La re-invenzione e riapertura dei progetti MAC come +20 propone una nuova visione collaborativa che abbraccia la sua forma simbolica circolare come un museo aperto per il mondo-paesaggio e i suoi dintorni. Tutti gli spazi del museo, il suo cortile esterno come piazza; la rampa come percorso di scultura; il balcone come grande sentinella per il paesaggio e l’ambiente; la sala principale come spazio dell’agora; e il suo mezzanino come una cerchia di esperienze estetiche, sono stati progettati come un laboratorio di interfacce pubbliche per pratiche artistiche sperimentali. in questo senso, il MAC assume la sua piena vocazione come catalizzatore di interfacce attraverso programmi integrati di mostre, azioni artistiche, educative, ambientali e sociali, come un Laboratorio di Futures che si irradia da Boa Viagem alla città, al paese e al mondo.15

Successivamente, Louis Vuitton iniziò una collaborazione con il MAC realizzando il calendario artistico del museo per un anno con quattro mostre. In questo senso, il MAC ha assunto la sua piena vocazione di agente catalizzatore, attraverso programmi integrati di mostre, azioni artistiche, educative, ambientali e sociali. Un museo che grazie la sua forma e alla potenza attrattiva è diventato un landmark nel paesaggio della baia di Guanabara, affermandosi come un elemento di pregio non soltanto nell’ambito culturale grazie alle numerose attività promosse, ma anche alla composizione e l’uso del suo spazio pubblico perfettamente integrato nel paesaggio.

In quell’occasione, il Museo ospitò la terza sfilata della collezione Cruise di Louis Vuitton; evento significativo in quanto per la prima volta un museo ospitava una sfilata di moda. Fu un evento anche strategico per incentivare i prossimi flussi provenienti da tutto il mondo per Rio 2016 fare tappa anche a Niterói visitando il MAC. Nicolas Ghesquière, direttore artistico delle collezioni donna di Louis Vuitton in merito all’evento dichiarò: “questo luogo mi ha ispirato fin da subito. È come essere trasportati in una relazione in cui natura, geografia e architettura si fondono nella visione di un grande architetto. Con la presentazione della Cruise 2017, scopriremo la visione di Oscar Niemeyer.”

Evento Louis Vuitton, maggio 2016, MAC

culturaniteroi.com.br/macniteroi Luiz Guilherme Vergara (ex direttore e curatore dal MAC 2002/2008 – 2012/2016

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GUGGENHEIM MUSEUM BILBAO

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Bilbao, fondata nel 1300 sulle sponde del fiume Nervión, è la principale città dei Paesi Baschi a nord della Spagna. La comunità autonoma dei Paesi Baschi conta poco più di due milioni di abitanti e Bilbao rappresenta il centro maggiormente abitato con i suoi 350.000 abitanti. Storicamente, Bilbao era un piccolo polo di commercio marittimo fino a quando con la Seconda rivoluzione industriale e la conseguente espansione del centro abitato, si ebbe la trasformazione del capoluogo basco in città dedita all’industria navale e siderurgica. Sfruttando la navigabilità degli ultimi 15 chilometri del fiume, questo si sviluppò grazie ad attività commerciali ed industriali della città che lo portarono a diventare in poco tempo il porto più importante di tutta la costa del nord della Spagna. Negli anni Novanta così come molte altre realtà industriali in quell’epoca fu vittima della crisi industriale del 1975. Circa il 30% della popolazione attiva era disoccupata e gli impianti chiusi e abbandonati davano un’immagine di forte degrado non solo produttivo, ma anche urbanistico e ambientale al territorio, che sembrava impossibile risanare. Una situazione ulteriormente aggravata dall’inquinamento e dalla contaminazione subita negli anni dalle acque del fiume e dei suoi affluenti, a causa degli indiscriminati sversamenti di rifiuti industriali e la scarsa consapevolezza ambientale da parte delle autorità dell’epoca.

Infatti, dopo un secolo di intensa attività industriale il fiume, specialmente nell’ultimo tratto di circa 25 km su un totale di 75, risultava essere ecologicamente morto (il livello di ossigeno era il 20% in meno rispetto alla norma), ed era considerato tra i fiumi più contaminati al mondo. Quel periodo di forte crisi economica, a cui seguì l’alluvione che colpì la città nel 1983, risultò un’opportunità per il cambiamento e la riqualificazione urbanistica della città. Si decise di trasformare l’immagine di Bilbao dandole una nuova veste per agevolare il passaggio postindustriale. Il piano di riqualificazione urbana a lungo termine fu messo a punto nel 1989 dalle autorità spagnole in collaborazione con la comunità basca allo scopo di trainare Bilbao in una nuova

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epoca, partendo da una città soffocata dalle acciaierie e dai container del porto fluviale e industriale, si arrivò a progettare una città moderna e tecnologica, a misura d’uomo, con finalità turistiche e culturali, capace di affascinare visitatori provenienti da ogni parte del mondo. Un evento importantissimo che segnò la volontà di concretizzare quest’obiettivo fu la creazione dell’associazione Bilbao Metropoli 30. Questa, riuniva oltre alle istituzioni, un centinaio di soci riconducibili a centri produttivi, università, organizzazioni no-profit, enti pubblici locali, banche e fondazioni, camere di commercio, tutti impegnati per il rilancio della città basca. Quest’associazione aveva il compito

Industrias de la Ría de Bilbao, Bilbao, seconda metà del 900

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di gestire tutte le iniziative programmate nel piano strategico di rilancio e di curare il rapporto tra pubblico e privato. Oltre alla Bilbao Metropoli 30, fu istituita la società pubblica “Bilbao Ria 2000”, finanziata in parti uguale dal governo spagnolo e dalla comunità basca. Questa società aveva il compito di risolvere i problemi che si presentavano in merito alla realizzazione dei grandi progetti di riqualificazione urbana tra il governo centrale e poteri locali baschi. Il primo intervento materiale realizzato riguardò la bonifica del fiume Nervión, finanziata in larga parte da fondi pubblici. Il fiume fu valorizzato come una vera e propria infrastruttura, individuando per le sue sponde delle nuove attività, prevalentemente a carattere ludico, commerciale, culturale, e residenziale. Ad oggi, l’importanza commerciale del fiume Nervión è diminuita per il dislocamento subito dalla zona industriale di Bilbao, il quale prevedeva anche una riduzione del traffico e della tipologia di navi. Ciò nonostante vi fu un ampliamento del porto, chiamato dagli stessi bilbaini “Superporto”, attraverso lo spostamento dell’attività dal quartiere di Abandoibarra a Santurtzi, cosa che permise di configurare una nuova pianificazione urbanistica di Bilbao, recuperando terreni nel centro della metropoli e riqualificando Abandoibarra, divenuto il cuore e massima espressione della Bilbao moderna. Rientrò nella bonifica del fiume anche l’ambizioso progetto di trasformazione della penisola di Zorrozaurre, un’area industriale di 600.000 m2 che sorge a est della città, con un progetto a firma di Zaha Hadid che prevedeva la realizzazione di circa 5 mila nuove residenze, nonché uffici e laboratori per circa 6 mila persone, con un costo di quasi un miliardo e mezzo di euro. Oltre alle opere di bonifica del fiume, il piano si concentrò sulla realizzazione di grandi opere infrastrutturali che attirarono l’attenzione degli addetti ai lavori. Fu realizzata una nuova linea tramviaria, il cosiddetto Euskotren, un tram ecologico, pulito, efficace e moderno; vennero ristrutturate tutte le strade con materiali innovativi in grado di assorbire il diossido di carbonio; con il trasferimento

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delle attività portuali verso il mare furono realizzati numerosi ponti per l’attraversamento da una parte all’altra della città, su tutti merita una menzione il ponte Zubizuri inaugurato nel 1997 ad opera dell’architetto valenciano Santiago Calatrava, autore fra l’altro anche dell’aeroporto, aperto al traffico nel 2000. Un’importantissima operazione riguardò la realizzazione della nuova metropolitana, guidata dal gruppo Norman Foster, la quale oltre a collegare per intero la valle, risultò integrarsi perfettamente con il paesaggio urbano. Risultò essere l’opera più apprezzata dai cittadini di Bilbao e non solo, in quanto nel 1998 fu premiata con il Brunel, il premio internazionale più prestigioso dell’architettura ferroviaria, per la stazione di Sarriko. L’intera linea fu realizzata utilizzando materiali moderni e innovativi. Questa sfrutta solo energia verde per muoversi e le carrozze sono dotate di un sistema che recupera l’energia durante le frenate, il quale permette un risparmio di circa un terzo dell’energia necessaria. Circa dieci anni dopo, nel 2006 fu presentato il progetto del nuovo stadio San Mamés inaugurato nel 2013 a firma di César Azkarate, il quale sorge sul medesimo terreno in sostituzione del vecchio stadio omonimo.

La realizzazione del Guggenheim Museum rappresentò il primo caso a livello planetario dove fu evidente come il valore creato da un contenitore culturale possa incidere sul volto di un’intera città, infatti dalla sua inaugurazione, il 18 ottobre del 1997, che vide la presenza del re Juan Carlos al taglio del nastro, si cominciò a parlare di “effetto Bilbao”. L’effetto Bilbao è frutto di un piano strategico calcolato in ogni suo dettaglio ed è stato pensato e progettato in funzione a quella che era la realtà della città ed è per questo motivo che nonostante numerosi tentativi di replicarlo in altri contesti, alcuni promossi proprio dalla Fondazione Guggenheim non hanno prodotto gli stessi risultati. Prim’ancora di entrare nel merito del progetto e dell’impatto che questo ha avuto, se ci limitassimo a ragionare solo in termini economici, il Guggenheim rappresenterebbe senz’ombra di dubbio un successo totale in quanto dopo appena

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un anno risultava già essere pienamente rientrato dalla cifra investita nella sua realizzazione, arrivando ad incassare introiti nel primo triennio pari a circa 635 milioni di dollari grazie ai ben oltre 4 milioni di visitatori. Si stima che solo in quel periodo la città di Bilbao guadagnò oltre 100 milioni di tasse grazie ai soldi spesi dai visitatori del museo per vitto, alloggio e trasporti.

Nei suoi primi vent’anni di attività, ha ospitato oltre 20 milioni di visitatori provenienti da tutto il mondo, capovolgendo completamente il volto della città, avvalorando la tesi secondo la quale un’istituzione e un monumento possono cambiare l’economia di una città e rigenerare intere parti degradate.

Riqualificazione della città di Bilbao vista dall’alto

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All’interno del piano strategico di rilancio della città si ipotizzò di rivitalizzare il quartiere di Abandoibarra attraverso la ristrutturazione del museo preesistente, trasformandolo in un landmark riconoscibile ed ammirabile. Prima ancora del bando di concorso indetto dalle autorità spagnole, la scelta ricadde sull’architetto Frank Gehry. Per la cronaca al concorso parteciparono, oltre che allo stesso Gehry, anche lo studio Coop Himmelb(l)au e Arata Isozaki. Nel 1991 le autorità dei Paesi Baschi e del comune di Bilbao strinsero i primi accordi con la Fondazione Guggenheim per la realizzazione di un nuovo Museo, in quanto quest’ultima era interessata ad investire fondi allo scopo di dar vita a nuove mostre itineranti in giro per l’Europa (l’altra città scelta per il piano di espansione fu Berlino).

La fondazione Salomon R. Guggenheim rappresentò la grande istituzione privata che colse l’opportunità di riversare in una città in difficoltà una serie di risorse, anche finanziarie, capaci di trasformare grandi parti di spazi urbani in spazio pubblico, potendo allo stesso tempo concretizzare i propri interessi. Una volta realizzato il Museo, la Fondazione Guggenheim avrebbe apportato il proprio contributo curatoriale e programmatico, lasciando la proprietà e la gestione al governo basco. La Partnership si concretizzò e nei due anni successivi si scelse di realizzare il nuovo museo a nord del centro urbano, a lato de la ría de Bilbao, in una ex terreno industriale, strategicamente importante perché visibile da diversi punti panoramici della città. Gehry rifiutò l’idea di operare un recupero del vecchio museo e forte della scelta politica di realizzare un Landmark di forte impatto, posto sulle sponde del rivitalizzato fiume Nervión che collegasse il centro urbano alla nuova struttura, forzò la decisione per una costruzione ex-novo del nuovo museo. Gehry, conosciuto per la sua progettazione “non ortodossa” e per l’utilizzo di materiali atipici, presentò nel febbraio 1993 il primo disegno schematico del museo, mentre l’anno successivo, nel 1994 iniziarono i lavori di costruzione.

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Frank Gehry, Guggenheim museum, schizzo di progetto, 1991

Guggenheim museum, vista dal Puente de La Salve

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Tuttavia, prima ancora del clamoroso successo del museo, numerose furono le critiche, non solo all’architettura ma anche e soprattutto per i 73 milioni di dollari, ottenuti per la quasi totalità attingendo alle casse della cultura del governo basco.

L’edificio, in stile decostruttivista, si presenta come un’enorme scultura realizzata principalmente in titanio, grazie all’utilizzo di trentamila lastre provenienti dall’Australia e lavorate in giro per il mondo tra America ed Europa. Oltre al titanio, vennero adoperati anche materiali come pietra calcarea e lastre di cristallo, strutturate in doppio cristallo termico in modo tale da proteggere l’interno dal calore e dalle irradiazioni solari. ll Museo che occupa complessivamente 24.000 m², di cui 10.600 sono spazi espositivi, è composto da una serie di volumi complessi, sviluppati su tre diversi livelli più un quarto riservato ai sistemi di condizionamento, tutti connessi tra loro. All’interno si trovano un auditorium con una capienza di 300 posti, un ristorante e vari negozi accessibili sia dallo slargo dinnanzi al museo sia dall’interno del museo stesso. Questo doppio accesso permette agli spazi di funzionare indipendentemente dal museo e di assumere un ruolo principale nella vita urbana di Bilbao. L’edificio a seconda del punto di vista, assume diverse connotazioni: visto dal fiume esso appare come una nave, mentre in visione zenitale ha le sembianze di un fiore.

Il risultato, intenzionalmente voluto dall’architetto inserendo molteplici significati e sfaccettature alla sua creatura, conserva un rapporto piacevole con i più tradizionali edifici che gli sorgono intorno, in quanto il suo aspetto dal livello superiore della strada appare molto più modesto rispetto al rapporto con il fiume. Una rampa collega la passeggiata sul Nervión con una torre dalla forma irregolare, la quale permette sia di raggiungere il Ponte de La Salve attraverso una scala interna che di entrare nel Museo. Nel complesso, rampa, torre e ponte, così come il Museo, risultano perfettamente integrati all’interno di un unico organismo architettonico. Il fulcro compositivo dell’intero edificio è composto da un atrio di 650 m² per 50 sviluppati in

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altezza, che permettono l’illuminazione non solo di questo ma anche dei tre piani che vi si affacciano. Questo spazio è illuminato sia lateralmente dalle grandi vetrate le quali offrono un suggestivo scorcio sul fiume impreziosito dal gioco di riflessi creato dalle lastre di cristallo, sia perpendicolarmente dalla vetrata della copertura, punto più alto dell’edificio. Le 19 gallerie espositive sono divise in due gruppi di cui il primo, composto da nove ambienti, è caratterizzato da spazi in pietra dalla forma regolare, mentre l’altro dalla forma irregolare, realizzato in titanio, ospita gli altri dieci. Le gallerie si raccordano intorno al grande atrio grazie ad un sistema di passerelle curvilinee sospese, di ascensori a vetro e di torri di scale, destinate ad ospitare a rotazione le collezioni della fondazione Guggenheim, le opere della collezione permanente, ma anche alcuni percorsi espositivi dedicati ad artisti baschi e spagnoli contemporanei.

Dall’atrio inoltre, si accede alla terrazza, coperta da una gigantesca tettoia sorretta da un unico pilastro in pietra, la quale affaccia sul laghetto artificiale. Questo, realizzato ai suoi piedi ad un livello leggermente più alto di quello del fiume, circonda parzialmente il museo e fa parte dello spazio espositivo realizzato all’esterno ospitando l’opera originale di Yves Klein “Fontana di fuoco e Nebbia”. Altre opere esposte all’esterno del Museo sono: “El gran árbol y el ojo” di Anish Kapoor, fatto di acciaio inossidabile e acciaio al carbonio; “Tulipanes” di Jeff Koons realizzati in acciaio inossidabile cromato con lacca colorata traslucida; “Puppy” sempre di Jeff Koons, un cane gigante anche lui di acciaio inossidabile, ma rivestito di piante e fiori stagionali; “Mamá” di Louise Bourgeois, una mamma ragno di bronzo, marmo e acciaio, con i piccoli nella pancia, simbolo di vita e protezione. Queste opere trasformano il Guggenheim da contenitore di opere d’arte a opera d’arte essa stessa insieme a tutte le altre appena elencate.

L’area in cui questa realtà culturale prende luogo è arricchita da un progetto di paesaggio che vede la realizzazione del Parque República de Abando, all’interno di un ben più ampio progetto

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fine a collegare la stazione di Abando al muelle Campa de los Ingleses ovvero il molo sito nei pressi del museo Marittimo Ría de Bilbao, del palazzo Euskalduna centro congressi e di spettacoli e del nuovo stadio dell’Athletic Club Bilbao; opere anch’esse realizzate nell’ambito del piano di rilancio della città. Il museo, direttamente raggiungibile dai centro storico e dall’area commerciale della città, rappresenta il punto centrale di un triangolo della cultura composto dal Museo delle Belle Arti, dall’università e dal vecchio municipio.

Guggenheim museum, vista dal Parque República de Abando

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Il Parque República de Abando situato in corrispondenza dell’ingresso del Guggenheim incanala numerosi flussi tra Museo delle Belle Arti, la città vecchia il lungofiume. Il progetto di riqualificazione urbana di Bilbao ha prodotto, nel corso degli anni, un netto miglioramento della qualità della vita; l’aumento esponenziale dei posti di lavoro; nuove attività economiche e culturali, in grado di attirare turisti da tutto il mondo; ha rafforzato l’identità regionale; ha portato ai suoi abitanti benessere e un ambiente più sano in cui vivere. L’operazione attuata su Bilbao racchiuse una serie di interventi che misero in relazione tra loro la dimensione culturale, infrastrutturale ed ambientale.

Guggenheim museum, interno

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TATE MODERN GALLERY OF LONDON

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La Tate Modern Gallery, inaugurata il 12 maggio del 2000 alla presenza della regina Elisabetta II, è uno dei quattro musei appartenenti al complesso della TATE (gli altri musei sono la Tate Britain sempre a Londra, la Tate St Ives in Cornovaglia e la Tate Liverpool a Liverpool). La galleria sorge sulla riva meridionale del Tamigi, nel distretto di Southwark, precisamente nell’area di Bankside, all’interno di quella che fu, fino alla metà degli anni Cinquanta la centrale termoelettrica di Bankside. La centrale, disegnata da Sir Giles Scott, fu realizzata tra il 1947 e il 1973 per poi cadere in disuso negli anni Ottanta a causa dell’aumento del costo del petrolio che portò alla definitiva chiusura della centrale nel 1983. L’area rimase così dismessa fino agli anni Novanta, fin quando, nel 1992, il consiglio di fondazione della TATE cominciò a parlare della volontà di dividere la collezione della Tate Britain in due gallerie, lasciando la collezione d’arte moderna alla Britain e spostando la collezione contemporanea in un nuovo edificio. Nel 1994 si decise dunque di investire sull’ex Bankside Power Station, trasformando l’area da sito industriale a polo culturale. L’anno seguente, il progetto di conversione dell’edificio fu affidato allo studio degli architetti svizzeri Herzog & De Meuron. Mentre nel 1995 in concomitanza con la presentazione del progetto, l’area fu acquistata per una somma di 12 milioni di sterline dall’English Partnerships Regeneration Agency, un partenariato inglese attivo fino al 2008, sostituito poi dall’Homes England. L’agenzia era responsabile dell’acquisizione di terreni rientranti in grandi progetti di sviluppo, da sola o in partnership congiunta con gli sviluppatori del settore privato. Questo, finanziato dal Dipartimento per le comunità e il governo locale, era divisa in due corpi: la Commission for New Towns, responsabile delle imprese di sviluppo dal New Towns Act 1959 e la Urban Agency Regeneration istituita dalla riforma Leasehold, Housing and development act 1993. La centrale, composta da una ciminiera alta 99 metri, da una grande sala turbine alta 35 metri e lunga 152, da grandi cisterne e dai locali delle caldaie fu quindi

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oggetto della ristrutturazione di Herzog & De Meuron. Questa, preservò a pieno l’originale carattere industriale dell’edificio, conservando l’involucro in muratura esterno, inserendo solo alcuni dettagli, come ad esempio le aperture per le vetrate, allo scopo di alleggerire il peso visivo della struttura. Le aperture oltre ad offrire un affascinante vista sull’area del West-End, donano luce naturale alle gallerie del nuovo museo.

Turbine Hall, Bankside power station, Londra, 1995

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L’operazione è considerata uno dei migliori interventi di conversione di contenitori industriali in un moderno edificio di arte e cultura: l’altissima ciminiera è diventata il simbolo della nuova Tate, riconoscibile anche in lontananza, mentre all’interno l’imponente Turbine Hall ora è il cuore centrale del museo; uno spazio complessivo di 3.400 m2 con un’altezza pari a quella di un edificio di sette piani, dove si alternano periodicamente grandi opere e istallazioni.

Guggenheim museum, interno

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Le gallerie espositive sono divise in cinque livelli, dove si alternano dal primo all’ultimo sia le esposizioni permanenti che quelle temporanee: Astrattismo, Espressionismo, Surrealismo, Cubismo, Futurismo e tutte le opere di importantissimi artisti sono distribuite per tutti i piani della struttura, contribuendo all’enorme successo della Tate, divenuta in poco tempo da fabbrica abbandonata ad uno dei musei più visitati al mondo, toccando nella sua breve esistenza anche picchi di 5 milioni di visitatori l’anno, proprio come in occasione del suo anno di inaugurazione quando risultò essere museo più visitato del mondo, con ben 5.250.000 visitatori. Il successo negli anni della Tate è attribuibile sicuramente anche alla scelta tutta britannica di rendere dal 2001, su iniziativa del partito laburista, gratuito l’accesso dei musei (escludendo gli eventi speciali) più prestigiosi del paese. I musei, da quel momento vengono sovvenzionati da un cospicuo contributo statale pari a circa 83 milioni di euro l’anno; fondi che incidono notevolmente sul PIL del paese e che per questo periodicamente ritornano ad essere tema di discussione tra chi vorrebbe l’abolizione di questo benefit e chi invece rimarca non solo gli introiti paralleli scaturiti da questa scelta, come quelli provenienti dal turismo (il denaro risparmiato visitando un museo viene speso in altro modo), cresciuto in maniera costante da quel momento, ma anche il valore culturale della scelta che pone il museo pubblico come un diritto dei cittadini. Secondo i dati raccolti dal Department for Culture, Media and Sport, dal 2001 in tutta l’Inghilterra gli ingressi ai musei sono aumentati del 51%. I visitatori che beneficiano maggiormente dell’ingresso gratuito ai musei nazionali sono i turisti stranieri in visita a Londra. Ogni anno circa 18 milioni di stranieri visitano i musei nazionali, quasi il doppio rispetto al passato. Ciononostante, il sistema inglese ha escogitato un modus operandi filantropico ben organizzato e funzionate attraverso il quale i cittadini sono divenuti parte attiva del funzionamento e del successo del museo tramite una affiliazione che permette a questi di diventare soci

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attivi attraverso un’iscrizione annuale che dà diritto a molte agevolazioni e alla partecipazione ad alcune manifestazioni dedicate. La possibilità di poter accedere gratuitamente ai musei a reso possibile una nuova percezione delle sale museali, non più concepite come un luogo di semplice osservazione, ma un luogo vivo, di dialogo, una grande piazza pubblica, permeabile durante l’apertura del museo, dove la cultura diventa un tutt’uno con il museo divenuto parte del tessuto urbano: non esistono più barriere. Il nuovo format culturale, concepito poco dopo l’inaugurazione della Tate Modern, aprì a scenari inaspettati fino a quel momento: concepito per ospitare circa 1,8 milioni di visitatori l’anno, si ritrovò ad accoglierne quasi il doppio negli anni a venire.

Tate Modern, folla esterna al museo

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Il grande successo della Tate Modern fu accompagnato dalla realizzazione del Globe Theatre, una ricostruzione moderna del teatro che fu di William Shakespeare e del Millennium Bridge che attraversa il Tamigi collegando le due sponde della città, la Tate Modern con la Cattedrale di Saint Paul. Successivamente nel 2003, l’intero quartiere fu oggetto di una rigenerazione urbana commissionata dal distretto di Southwark e pianificata dall’Urban Green Space Task Force.16 Il piano strategico coinvolse oltre il 40% dell’intero distretto; questo mise lo spazio pubblico, il legame tra il disegno del verde e dei servizi al centro del progetto di rigenerazione, commissionando a consulenti esterni la redazione di una nuova Open Space Strategy. Inoltre, nel piano furono previste agevolazioni fiscali che portarono alla realizzazione di oltre 250.000 m2 di uffici, delle torri residenziali di Rogers Strik Harbour, dello Shard di Renzo Piano e dell’ampliamento della Tate Modern. Nel 2005, fu affidato l’ampliamento della Tate ancora una volta allo studio Herzog & De Meuron, autore già della conversione della centrale elettrica. I lavori che dovevano esser completati in tempo per le Olimpiadi del 2012, iniziarono solo nel 2010 per essere completati nel 2016. Il costo inizialmente stimato di 215 milioni, raggiunse nel 2016 la cifra di 260 milioni di sterline, raggiunta grazie alle numerose donazioni private e ad una efficace campagna di fundraising diretta ai singoli donatori. Il progetto di ampliamento fu presentato nel 2008, il nuovo volume, la Switch House, una torre piramidale alta 65 metri, rivestita di mattoni (dello stesso tipo della parte vecchia ribattezzata Boiler House), traforati che permettono alla luce di entrare di giorno e di uscire di notte illuminando l’intero edificio. La Switch House, alta dieci piani, è collegata alla galleria nel primo

16 Lucia Nucci, Verde di prossimità e disegno urbano: Le open space strategies ed I local development frameworks dei 32+1 Boroughs di Londra, Gangemi Editore spa, 2016

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e nel terzo piano mentre quinto livello, attraverso un passaggio esterno. La nuova ala aumenta la capienza della Tate di circa il 60% introducendo 22.492 m2 adibiti a spazi espositivi, sale di formazione, laboratori, uffici, ristoranti, spazi commerciali, terrazze panoramiche con vista a 360° sulla città, un parcheggio e una nuova configurazione di spazio pubblico all’esterno. Nella sua configurazione attuale la Tate offre quattro aree visitabili: la Turbine Hall, la grande sala che ha cambiato la percezione pubblica dell’arte contemporanea nel XXI secolo; le Task, le cisterne dedicate permanentemente ad esibizioni dal vivo, performance, installazioni e film; la terrazza panoramica sullo Skyline londinese; la Tate Exchange uno spazio dedicato a chiunque desideri collaborare, condividere idee e scoprire nuove prospettive di vita attraverso l’arte.

Tate Modern. Inaugurazione Switch House, 2016

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Tate Modern. Inaugurazione Switch House, 2016

Oltre a queste quattro aree principali, la Tate offre numerosissimi servizi di ristoro diffusi per ogni livello della struttura e cinque negozi che offrono un’ampia gamma di libri d’arte e prodotti selezionati, come stampe, gioielli e creazioni realizzate da artisti per la galleria. L’addizione ha portato anche ad una ridefinizione delle gallerie espositive che ora offrono ai visitatori un panorama esaustivo dell’arte moderna e una gamma sempre più ampia e diversificata di eventi, mostre e installazioni; un percorso formato da opere di oltre 250 artisti provenienti da paesi di tutto il mondo, da quelli storicamente più affermati a quelli emergenti. Le conseguenze del successo della Tate Modern sono ben raccontate da Donald Hyslop, responsabile della gestione strategica, aziendale e della comunità della Tate con un budget di 5,5 milioni di sterline a sua disposizione, nonché membro del suo senior management team, che include anche un anno come direttore ad interim. In un’intervista del 2014, mentre erano in corso i lavori per l’ampliamento del museo, Hyslop raccontò in un’intervista i meriti del successo dei primi anni della Tate e quali principi avevano mosso la progettazione della Switch House: “fin dall’inizio del Tate Modern Project, abbiamo intuito e sperato di poter dare nuova vita a un’importante area storica del centro di Londra. Per far funzionare tutto questo, abbiamo iniziato a costruire relazioni per ampliare il nostro impatto oltre l’edificio stesso. Mantenere conversazioni con le comunità locali, le imprese e le autorità politiche è stata una parte cruciale dell’enorme trasformazione dell’area intorno alla Tate Modern negli ultimi 15 anni. In quel momento, mentre milioni di visitatori provenienti da tutto il mondo si sono radunati qui, abbiamo visto raddoppiare il numero di persone che vivono nell’area e migliaia di nuovi lavoratori arrivano mentre grandi e piccole imprese si spostano nell’area. Nuovi hotel, caffè, negozi e ristoranti sono sorti anche per soddisfare queste nuove comunità”.

Tate Modern, Switch House, nuovi spazi pubblici esterni

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Come sottolinea Hyslop, per la rigenerazione urbana è stato

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fondamentale instaurare dei rapporti con le comunità e le imprese locali, che nonostante incidenti di percorso, sono sempre state guidate da un obiettivo comune. Inoltre, lo stesso Hyslop ci offre un importante contributo su come in questo momento storico, l’attività culturale e creativa sia utile nel migliorare i luoghi in cui viviamo e lavoriamo: “Dalle pitture rupestri e dalla Land Art, la maggior parte delle civiltà e delle società ha utilizzato la creatività e l’architettura per cercare progressi e cambiamenti. Più recentemente nell’Europa del XX secolo, abbiamo visto nuovi approcci come gli investimenti nei musei Guggenheim e marittimi di Bilbao e la pianificazione urbana legata alla cultura, al patrimonio e ai giochi olimpici di Barcellona. Spesso le persone considerano utili le organizzazioni culturali che lavorano al di fuori della loro forma d’arte o degli edifici immediati, ma forse non lo vedono come una forza importante per il cambiamento e lo sviluppo nel più ampio schema delle cose. Tuttavia, quando ci pensi, facciamo tutti parte delle comunità locali e molti di noi in questi giorni sono collegati attraverso la famiglia, il lavoro e le amicizie con diverse comunità in tutto il mondo. Tutti affrontiamo le stesse sfide nella nostra vita di tutti i giorni, che si tratti di un buon alloggio, spazi aperti, trasporti, relazioni, gioco, salute o lavoro. La cultura può svolgere un ruolo essenziale in tutte queste cose e la sua influenza può andare ben oltre le mura delle nostre varie istituzioni”.17

attività e servizi gratuiti aperti a tutti, dai cittadini ai turisti che ne ampliano la funzione, andando ben oltre quella culturale, incidendo anche sugli aspetti sociali ed economici dell’area lungo il Tamigi e non solo.

Tate Modern, ristorante con vista sulla Cattedrale di Saint Paul

In definitiva il caso della Tate Modern è annoverabile tra i grandi successi del rilancio in chiave culturale della Greater London, affermandosi come l’epicentro culturale di un disegno strategico che ha visto la riqualificazione di tanti spazi pubblici e la nascita di tante piccole e grandi economie che ruotano intorno a questo grande contenitore museale, che grazie alla sua peculiarità di offrire oltre ad un’importante esposizione di arte contemporanea, regala anche un cospicuo numero di 17 britishcouncil.org/voices-magazine/museums-can-play-role-urban regeneration

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MOMA | MUSEUM OF MODERN ART OF NEW YORK

Negli anni Venti, tre facoltose donne decisero che New York avesse bisogno di un museo d’arte moderna. Nasce così il MoMa, il museum of Modern Art sito sull’isola di Manhattan a Midtown, sulla 53ª strada, tra la Quinta e la Sesta Avenue. La lungimiranza di Miss Lillie P. Bliss, Mrs. Cornelius J. Sullivan e Mrs. Abby Aldrich Rockefeller, moglie di John D. Rockefeller Jr, riunite in un gruppo che divenne noto con vari soprannomi, tra cui “the Ladies”, “the darling ladies” o “the adamantine ladies”, aprirono le porte del MoMa alla sperimentazione artistica più contemporanea, affermandosi fin dalla sua inaugurazione come uno dei principali musei di arte moderna del mondo. La composizione societaria vedeva Abby Aldrich Rockefeller ricoprire il ruolo di tesoriere, mentre quello di presidente fu assegnato ad Anson Conger Goodyear, filantropo uomo d’affari, il quale coinvolse nell’operazione MoMa il co-direttore del Fogg Art Museum Paul Sachs e il direttore della rivista Vanity Fair Frank Crowninshield. A Sachs, Goodyear affidò l’incarico di reperire curatori e suggerire tra questi una figura che potesse ricoprire il ruolo di direttore: entrò così in scena Alfred Hamilton Barr Jr, docente di arte moderna presso il Wellesley College, che a soli 27 anni divenne il primo direttore del MoMa. Barr, che sarà una delle forze più influenti nello sviluppo di atteggiamenti popolari nei confronti dell’arte moderna, voleva che il MoMa fosse un museo concepito per aiutare le persone a comprendere e ad apprezzare le arti visive del tempo; grazie a lui, la collezione del museo crebbe velocemente cosicché nel 1929, la galleria che vedeva la prima sede collocata al dodicesimo piano del Manhattan’s Heckscher Building, tra la 5th Avenue e la 57ª avenue, aprì i propri battenti con la prima mostra in cui furono esposte opere di Van Gogh, Gauguin, Cézanne, e Seurat.18 Negli anni Trenta, la galleria si dimostrò subito come un punto di 18 John Ensor Harr and Peter J. Johnson, The Rockefeller Century: Three Generations of America’s Greatest Family, New York: Charles Scribner’s Sons, 1988.

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ritrovo per tutti gli artisti americani, registrando numeri di presenze altissimi per quella che a tutti gli effetti era una novità nel panorama newyorkese. I numeri spinsero l’amministrazione a ricercare sedi più ospitali, rispetto alle sei stanze tra gallerie e uffici dell’Heckscher Building. Così, dal 1932 al 1937, il MoMa fu ospitato in tre diverse sedi. Durante questo periodo nel 1935, al Moma si tenne un’importante esposizione dedicata a Van Gogh, con 66 dipinti, 50 disegni e molte lettere originali scritte dall’artista al fratello Theo, provenienti direttamente dall’Olanda. L’incredibile successo della mostra, che non aveva alcun precedente simile a New York, pose il MoMa sul binario che nei successivi anni segnerà il suo grande successo. John D. Rockefeller Jr, era un oppositore non tanto del museo quanto dell’arte moderna stessa, era contrario a concedere finanziamenti per il sostentamento della galleria (anche per questo il museo cambiò spesso sede), fino a quando dopo il successo della mostra di Van Gogh donò al MoMa il terreno su cui venne edificata l’attuale sede. In seguito, lo stesso Rockefeller Jr si dimostrò attraverso sporadiche donazioni uno dei maggiori benefattori del museo. Insieme ai coniugi, anche i figli contribuirono al successo del MoMa, ancora oggi David Rockefeller Jr e sua moglie Sharon Percy Rockefeller sono membri del consiglio d’amministrazione del museo. Dunque, nel 1937 il MoMa si trasferì nell’attuale sede, sulla 53a strada, all’interno del Rockefeller Center, in quelle che erano le gallerie del Time & Life Building. La struttura fu rinnovata dagli architetti modernisti Philip L. Goodwin e Edward Durell Stone ed aperta il 10 maggio del 1939, a distanza di quasi dieci anni dalla prima inaugurazione, alla presenza di seimila invitati e sancita via radio dall’allora presidente della Casa Bianca Franklin Roosevelt. Il cambiamento della sede portò anche delle modifiche nel consiglio d’amministrazione che vide sempre nel 1939, Nelson Rockefeller subentrare ad Anson Goodyear come presidente del consiglio di rappresentanza. Negli anni a seguire, grazie agli ampliamenti della galleria promossi da Rockefeller,

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MoMa, prima sede, 12° piano del Manhattan’s Heckscher Building

MoMa, mostra Vincent Van Gogh, 1935

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ma soprattutto a mostre come “Modern ArchitectureInternational Exhibition” curata da Philips Johnson nel ‘32, Cubismo e arte astratta nel ‘36, Bauhaus nel ‘38 e “Picasso: Forty Years of His Art nel biennio 1939-4019, tutte supervisionate dal direttore Barr, il MoMa iniziò ad attrarre visitatori non solo dalla città o dallo stato di New York, ma dall’intero continente,

MoMa, anni ‘40

19 Making Modernism: Picasso and the Creation of the Market for Twentieth- Century Art. New York: Farrar, Straus and Giroux, 1995

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diventando un’importante ponte di connessione tra gli artisti americani e l’arte europea. All’esterno della galleria, poco prima dell’inaugurazione, il curatore di Architettura John McAndrew, insieme allo stesso Barr, progettarono un giardino, recintato da uno steccato di legno con i vialetti di ghiaia. I divisori tra una scultura e l’altra creavano spazi intimi per la visione delle sculture che questo ospitava. Durante il periodo del secondo conflitto mondiale, Alfred Barr e sua moglie, la storica dell’arte Margaret Scholari Barr, guidarono per conto del museo, una missione di salvataggio in Europa affinché fossero garantiti ad un gruppo di artisti i documenti e i fondi necessari per immigrare negli Stati Uniti, cercando di salvaguardare anche le opere d’arte. Tra le figure più di spicco che rientrarono in questa missione ricordiamo André Breton, Marc Chagall, Max Ernst e Piet Mondrian. In quel periodo dal 1939 al 1946, il ruolo di presidente del consiglio, lasciato vacante da Nelson Rockefeller in quanto nominato “Coordinatore degli Affari Interamericani” dal Presidente Franklin Delano Roosevelt, fu affidato a Stephen Carlton Clark il quale segnò la sua breve presidenza con la revoca da ruolo di direttore nel 1943 di Alfred Barr. a cui però fu concesso di rimanere nel consiglio consultivo lavorando con il suo successore Rene d’Harnoncourt. Nel dopoguerra, il ritorno della famiglia Rockefeller fu propizio sia in termini di presenza che in termini finanziari; infatti all’introduzione di David al consiglio d’amministrazione, seguì la nascita del fondo Rockefeller Brothers che portò nel 1952 alla composizione della collezione permanente, la quale includeva alcune delle più grandi opere di pittura d’avanguardia, scultura, cinema e arte multimediale del mondo. Nelson Rockefeller, 5 anni prima dell’elezione come Governatore dello stato di New York e 5 anni dopo la morte della madre, nel 1954, incaricò Philip Johnson, nel frattempo diventato direttore del dipartimento di Architettura e Design del MoMA, di realizzare non solo l’ammodernamento del giardino, che prenderà il nome di Abby Aldrich Rockefeller Garden, dedicato appunto alla memoria

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della madre, ma anche l’espansione del museo ad ovest, reso possibile dall’acquisto dell’immobile contiguo al museo. Questa prese il nome di “Grace Rainey Rogers” e consisteva in una torre a sette piani che venne utilizzata per ospitare nuove sale espositive, uffici ed aule per la didattica. Infatti, durante gli anni Cinquanta, il MoMa grazie all’espansione e alla collezione permanente, rafforzò ulteriormente la posizione di vertice nello scenario culturale newyorkese sviluppando una forte predisposizione al design, protagonista in quel decennio. Nel 1958, quando David Rockfeller successe al fratello Nelson alla presidenza del consiglio d’amministrazione, al MoMa scoppiò un grave incendio, mentre alcuni operai erano alle prese con l’istallazione del sistema di condizionamento. L’evento tragico portò alla morte di uno di questi, all’intossicazione da fumo di diversi vigili del fuoco e al danneggiamento di varie opere, tra queste entrambe le Ninfee di Monet, capolavori dell’artista francese che avevano contribuito al successo del MoMa. In seguito a questo tragico evento venne istituito il Dipartimento di Conservazione, che aveva il compito di studiare i diversi materiali delle opere presenti in collezione, e provvedere al loro restauro. Nel 1963 alla precedente espansione ad ovest, seguì quella ad est con le identiche modalità, ovvero l’acquisto dell’edificio adiacente. Questa, realizzata sempre da Johnson, contava sei piani, di cui tre furono destinati ad accogliere la crescente collezione del museo. In questo scenario, già negli anni Sessanta, il corpo centrale, quello originario del 1939, stretto tra le nuove ali, cominciò ad assumere un ruolo secondario, di transito verso le sculture del giardino posto sul retro. 20

ALA OVEST

ALA EST

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Achille Oliva, I fuochi dello sguardo, Gangemi, 2005

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MoMa, interventi del 1953 (ala Ovest) e 1963 (ala Est)

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Nel 1970 Richard E. Oldenburg divenne il nuovo direttore del museo, ricoprendo questa carica fino al 1995; durante la sua direzione, Oldenburg contribuì all’ organizzazione di diverse mostre di successo come: “Pablo Picasso: A Retrospective” nel 1980; “Primitivismo nell’arte del XX secolo” nel 1984; “Vienna 1900: arte, architettura e design” nel 1986; “Picasso e Braque: cubismo pionieristico” nel 1989; retrospettiva di Matisse: A Retrospective 1992. Sotto la sua direzione, la partecipazione al museo crebbe da 853.996 nel 1972 a 1,28 milioni di visitatori nel 1992. Nel 1984 Oldenburg supervisionò il progetto di Cesar Pelli per l’ampliamento dell’ala est. Nel ricercare i fondi necessari per finanziare il progetto, si speculò sull’ala Ovest progettata da Johnson, realizzando al posto di questa, una torre residenziale, completamente sproporzionata rispetto all’isolato, provocando un’infinita di polemiche. L’intervento pur creando un condominio residenziale, aumentò la capienza del museo, portandola a 8000 m2, generando così nuovi spazi per gli uffici, nuovi laboratori, aree più ampie per il ristorante, per la biblioteca, per le riunioni, l’ampliamento dell’auditorium che aumentò la propria capacità di 250 unità e nuovi punti vendita. L’intervento saturò completamente lo spazio a disposizione, andando a stravolgere la natura di molte aree e spazi, come nel caso dell’eliminazione dello scalone marmoreo al primo piano e ad una perdita di definizione ed importanza del giardino le cui dimensioni furono notevolmente ridotte a causa dell’inserimento di un involucro trasparente che ospitava il sistema delle scale mobili. Pelli sapeva che il compito era arduo: un programma impegnativo che prevedeva la complessità dell’inserimento di un nuovo edificio. Non esistevano modelli di riferimento, ciononostante anche se in seguito sarebbero state apportate modifiche, la torre residenziale si dimostrò essere un’architettura elegante e ben progettata, tanto che Philip Johnson ha vissuto in uno dei suoi appartamenti fino alla sua morte nel 2005.

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MoMa, ampliamento di Cesar Pelli, Garden e Tower, 1984

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Dopo poco più di 10 anni, nel 1996, i dirigenti del MoMa, che nel frattempo elessero il nuovo direttore Glenn Lowry, presero coscienza dell’insufficienza della ristrutturazione di Pelli e dell’impossibilità di progettare un ulteriore ampliamento della struttura, bandirono un concorso riservato solo a 10 tra gli studi di architettura più importanti al mondo, impegnati nel realizzare una proposta progettuale capace di ripensare completamente il MoMa. Nel 1997, alla fase finale del concorso accedettero Bernard Tshumi, Herzog e de Meuron e Yoshio Tanigiuchi. Quest’ultimo risultò vincitore con una proposta che riallacciandosi al funzionalismo degli anni Venti e Trenta, reinventa completamente il museo, raddoppiando quasi lo spazio per le mostre e i programmi del MoMA. I lavori iniziarono nel 2000, per concludersi nel 2004; in questo periodo la collezione del museo fu spostata nel Queens, nella zona di Long Island, in un edificio recuperato e ribattezzato MoMa QNS, frutto di una collaborazione con il MoMA PS1, una grande istituzione d’arte negli Stati Uniti dedicata esclusivamente all’arte contemporanea, fondata nel 1971 da Alanna Heiss inizialmente come Institute for Art and Urban Resources Inc., con la missione di trasformare edifici abbandonati e sottoutilizzati a New York City in studi di artisti e spazi espositivi. La collaborazione vede come obiettivo principale la promozione del piacere, dell’apprezzamento, dello studio e della comprensione dell’arte contemporanea in riferimento ad un pubblico sempre più ampio e in crescita. Programmi collaborativi di mostre, attività educative e progetti speciali consentono ad entrambe le istituzioni di attingere ai rispettivi punti di forza e risorse continuando a rafforzare un discorso culturale. Nel 2004, dopo anni di lavori, il MoMa è stato riaperto nella sede restaurata, nel settantacinquesimo anniversario dalla sua fondazione, arricchito di nuove attrezzature e gallerie per un totale di quasi 3.700 m² che portarono l’intera struttura ad un totale di circa 58.000 m² di nuovi spazi impostati su moderni criteri museografici.

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Taniguchi optò per una certa essenzialità, convinto che la fruizione del museo in quanto edificio non debba sovrapporsi all’esposizione delle opere: la nuova architettura dell’edificio è fatta di equilibri e contrasti ricomposti attraverso l’uso di linee essenziali e materiali quali granito, marmo, legno di quercia, alluminio e vetro e un uso intenso della luce naturale.21 Taniguchi, laureato in Ingegneria meccanica alla Keio University in Giappone e poi specializzato in Architettura ad Harward (dove è tornato anche da docente), prima dell’intervento al MoMA aveva lavorato esclusivamente nel suo paese d’origine, percorso che dunque l’ha portato su una strada diametralmente opposta rispetto a quanto per esempio aveva realizzato in quegli anni Frank Gehry. Taniguchi creò una serie di percorsi e passaggi di transizione che, attraverso il passaggio di ambienti, quote e luminosità diverse, infondono un senso di attesa e di stupore nei visitatori. Nel restaurato MoMa, si viene colpiti dalla visione inaspettata di un dipinto o di una scultura, sistemati spesso in collocazioni insolite decise dai curatori in base alle caratteristiche degli spazi, ma non imposte dal progetto dell’architetto giapponese. Il centro del progetto è indubbiamente il nuovo atrio, illuminato dall’alto con luce naturale, ripristinando la trasparenza e la continuità tra spazi interni ed esterni, facendo così ritornare il giardino, attraverso anche un ampliamento, nuovamente il punto focale del museo, così come fu progettato da Johnson. Sul giardino affacciano il ristorante “the Modern” e diverse gallerie e aree destinate alla sosta dei visitatori. In tutto l’edificio le cortine vetrate offrono una vista verso il giardino e verso gli spazi urbani che circondano il museo. Per la realizzazione del progetto furono spesi 425 milioni di dollari, una somma importante, anche se inferiore a quella inizialmente preventivata di 858 milioni, che avrebbero dovuto essere raccolti tramite donazioni per finanziare

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sapere.it/enciclopedia/MoMA

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l’acquisto del terreno, la costruzione dell’edificio e la gestione della sede di Queens. Gli avvenimenti dell’11 settembre incisero sull’entusiasmo dei sostenitori, raffreddando il flusso di denaro, frenato al punto da indurre il consiglio di amministrazione del MoMA a valutare l’ipotesi di abbandonare il progetto. Alla fine, le risorse necessarie furono recuperate anche grazie a un notevole aumento del biglietto d’ingresso, che passò dai 12 ai 25 dollari, facendo del MoMa il museo più caro della città, generando diverse polemiche. Queste si risolsero grazie alla sponsorizzazione della catena di supermercati Target, che concesse l’opportunità, tutti i venerdì dopo le 16, dell’ingresso gratuito per tutti. Il numero dei visitatori del MoMa salì fino ai 3 milioni all’anno, rispetto al milione e mezzo che entravano nelle sue sale prima del rinnovamento. Con l’aumento dei visitatori e degli introiti, verso la fine del primo decennio degli anni duemila, si iniziò ad ipotizzare un ulteriore ampliamento del MoMa, motivato con una nuova visione di museo che oltre a collezionare grandi opere, sia anche un luogo in cui, in una singola visita, l’apprendimento e la riflessione si fondano in un insieme liberatorio di esperienze, collegando la contemplazione e la conversazione, la tranquillità e l’eccitazione. Nacque qui la grande polemica legata alle sorti che ha avuto il piccolo American Folk Art museum, un piccolo museo adiacente al MoMa realizzato da Todd Williams e Billie Tsien ed inaugurato nel 2001, due mesi dopo l’11 settembre. Forse anche per questo, la popolazione si schierò in favore del piccolo Folk Art, forse perché lo vedevano come un primo segnale di ripresa della città dopo il tragico evento che stravolse la vita di tutti i newyorkesi e non solo. L’edificio, alto 26 metri e rivestito con 63 grandi pannelli ruvidi di Tombasil, un’elegante lega di bronzo bianco, che fece conquistare all’edificio il World Architecture Award e numerosi altri premi, nel 2011 a seguito di una profonda crisi fu costretto a cedere la propria struttura al MoMa per trasferirsi nell’attuale sede a Lincoln Plaza.

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MoMa, facciate esterni ed ambienti interni dopo il 2004

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La polemica continuò ad alimentarsi, fin quando nel 2013 fu confermata la decisione di demolire il museo, la ragione secondo il direttore del MoMa Glenn Lowry era legato al design dell’edificio non conforme alla nuova visione del MoMa, poiché l’estetica della facciata opaca non corrispondeva a quella in vetro del MoMa. La conseguenza di tale dichiarazione non fece altro che aumentare ancor di più le polemiche che spinsero lo stesso Lowry ad annunciare una revisione, della durata di sei mesi, dei piani di espansione del museo, affidati a Liz Diller e Ricardo Scofidio. Sei mesi dopo, gli stessi architetti comunicarono l’impraticabilità dei lavori di espansione con la salvaguardia dell’integrità del vecchio museo, mettendo fine ad una storia che tutt’oggi lascia l’amaro in bocca ancora a molti.

L’anno seguente partì la realizzazione del progetto disegnato dallo studio Diller & Scofidio + Renfro il quale du suddiviso in

Folk Art Museum, 2010

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due periodi: il primo dal 2014 al 2017 di espansione delle gallerie esistenti verso ovest, attraverso 53W53, il nuovo grattacielo residenziale disegnato da Jean Nouvel e incorporando gli spazi ricavati dalla demolizione dell’American Folk Art museum, per un totale di oltre 4.000 m2 di nuovi spazi. A finanziare i lavori, oltre alla donazione da 100 milioni di dollari dell’impresario musicale David Geffen, ci furono anche i 200 milioni di dollari provenienti dalla fondazione David Rockefeller, morto nel 2017. La seconda fase invece, realizzata nell’estate del 2019 ha riguardato l’ala est, dove l’intervento più evidente riguarda le gallerie al piano terra, ora ad ingresso libero, le quali si affacciano sulla strada attraverso grandi vetrine, creando un’importante relazione tra spazio interno del museo, l’esterno e la città, testimoniando la volontà del MoMA di instaurare un rapporto diretto fra museo, città e pubblico.

MoMa, vista delle nuove aree interne viste dalla strada, 2019

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LOUISIANA MUSEUM OF MODERN ART

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La Louisiana Museum nasce nel 1958 su iniziativa da Knud W. Jensen, uomo d’affari e collezionista danese, sulla costa dell’Øresund nel piccolo centro di Humlebæk, una frazione di Fredensborg, una cittadina da 40.000 abitanti, sita a poco più di 35 chilometri a nord dalla capitale Copenaghen, raggiungibile in circa 20 minuti di treno. Il nome Louisiana è riconducibile alla vita personale di Alexander Brun, un ufficiale, maestro di corte, diventato un pioniere nell’apicoltura e nella coltivazione di alberi da frutto. L’attuale museo, in passato fu la residenza dove Brun visse con le sue tre mogli, tutte chiamate Louise, da qui il nome del museo. Originariamente la Louisiana doveva ospitare raccolte d’arte moderna danese, con l’intenzione da parte di Jensen di avvicinare i danesi all’arte moderna, che fino ad allora non rivestiva un ruolo speciale nei musei danesi.

Successivamente questa prerogativa mutò trasformando la Louisiana in un museo internazionale, ospitando al suo interno opere di fama mondiale. Oltre a questo, la grande ambizione della Louisiana era quella di diventare una sede culturale di riferimento, un luogo di dibattito capace di attirare non soltanto l’élite culturale del paese, ma anche gruppi non abituali all’ambiente culturale, offrendo loro nuove esperienze e visioni del mondo. Andando con ordine, prima ancora del successo della Louisiana, c’è stata la trasformazione e l’ampliamento da residenza di Brun a museo. L’idea di fondo del progetto architettonico fu quella di adattare l’architettura, cioè un sobrio complesso edilizio orizzontale, con grazia e intimità al paesaggio naturale. La conversione da abitazione a museo porta la firma degli architetti danesi Jørgen Bo e Wilhlem Wohlert i quali, convinsero Jensen a modificare la sua visione che prevedeva la costruzione del nuovo museo sulla vecchia villa e di un padiglione espositivo separato posto sul bordo della scogliera di fronte. Gli architetti invece, immaginarono un solo elemento in cui gli edifici sarebbero stati collegati in modo tale che i visitatori si sentissero in uno spazio percepito come una “passeggiata coperta” attraverso il parco. La costruzione

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iniziò alla metà del 1956 e durò fino al 1958, anno della sua inaugurazione. Il museo presentò un linguaggio innovativo: lunghe pareti imbiancate a calce, strutture a vista, soffitti in legno laminato, pavimenti piastrellati di un rosso intenso e dei grandi pannelli di vetro che si aprono all’ambiente circostante contribuendo a creare una leggerezza architettonica unica. Il progetto, basato su due grandi temi quali coerenza e dolcezza, trae ispirazione dalle due sponde del pacifico, ovvero dalla tradizione giapponese e dalle architetture della California del nord. La sua composizione originale nel 1958 era costituita dalla sola North Wing: una sezione che vedeva la presenza di diversi corridoi di vetro e tre padiglioni espositivi i quali collegavano la vecchia villa alla caffetteria con vista sulla Svezia. Successivamente, corso nel degli anni Bo e Wohlert si resero protagonisti di sette opere di rinnovamento che portarono l’aggiunta di una nuova serie di padiglioni moderni.

Già nel 1966 e nel 1971, il museo fu ampliato con i due livelli appartenenti alla nuova ala ovest, superando il precedente schema quadrato. Furono dunque realizzate la West Wing e la Concert Hall, quest’ultima sezione è sempre stata il luogo in cui la Louisiana ha invitato il pubblico a dibattiti, conferenze e altri eventi. Nel 1982 fu realizzata South Wing, integrata nel terreno per conservare il profilo basso della Louisiana.

Questa sala espositiva presenta un soffitto più alto ed un’area complessivamente più ampia rispetto ai volumi già esistenti, con l’obiettivo di mettere in risalto le qualità delle opere d’arte, donando a queste un maggiore spazio circostante e un’ottima luce diurna. Nel 1991, con la realizzazione della East Wing, cambiò la percezione del museo, in quanto con la composizione di una forma quasi circolare si creò la possibilità di camminare su un percorso in cui ci si concentra sia sull’opera d’arte che sulla vista del parco. L’ala est, anch’essa sotterranea, viene anche definita ala grafica perché offre l’opportunità di esporre disegni e grafiche che non necessitano di un’esposizione alla luce. Per lo stesso motivo, l’ala viene spesso utilizzata per mostrare opere

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fotografiche e video. Tra il 1994 e 1998 furono infine realizzati al bookshop, il ristorante, che offre l’opportunità di gustare la cucina danese, ed infine uno spazio di 500 m2 sviluppato su tre piani destinato alle attività dei più giovani, dove questi hanno la possibilità di creare delle piccole sculture, con materiali di recupero, che possono lasciare al museo o portarsi a casa.

Louisiana Museum of Modern Art, mappa degli ambienti interni

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La Louisiana è un museo privato riconosciuto dallo stato e per questo sottoposto alla legge dei musei danesi, la quale concede uno stanziamento di fondi pubblici da parte dello stato pari al 15% del suo sostentamento operativo. Il costo d’ingresso è di 18 euro ed è valido per un anno, mentre è gratuito per studenti, minori di 18 anni e soci. Tuttavia, la maggior parte degli introiti sono garantiti da partner, sponsorizzazioni e dall’importante sostegno da parte delle fondazioni, che giocano un ruolo attivissimo in tutte le attività portate avanti dal museo. Ad esempio, tra il 2003 e il 2006, il museo fu oggetto di opere di ammodernamento indispensabili per porre rimedio alle enormi esigenze in termini di sicurezza e controllo delle enormi vetrate che dividono l’interno del museo dallo spazio esterno. La completa modernizzazione del museo fu finanziata in piccola parte dalla sovvenzione straordinaria da parte del Ministero della Cultura, mentre la fondazione Realdania, si fece carico dei costi necessari a fornire alla Louisiana la tecnologia necessaria, assicurando prosperità e continuità al museo come luogo di incontro tra persone e arte. Oltre alla già citata Realdania, altre fondazioni come l’A.P. Møller e moglie, Chastine Mc-Kinney Møllers Fund for General Purpose, Augustinus Foundation, CL David’s Fund and Collection e Nuova Fondazione Carlsberg, consentono al museo di conservare lo status speciale acquisito nel corso degli anni, sia in termini di collezione museale che di qualità dei reperti. Inoltre, la Louisiana offre ai visitatori la possibilità di diventare “micro-sponsor” attraverso un contributo variabile, detraibile dalle tasse, che viene utilizzato per arricchire la collezione “friends of the Louisiana”. Grazie al supporto delle fondazioni e ad iniziative come quelle dei micro- sponsor, oggi il museo è in grado di mostrare circa 3.500 opere di artisti Americani ed Europei, realizzate tra il 1945 ed oggi, inclusi capolavori di artisti come Pablo Picasso, Alberto Giacometti, Yves Klein, Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Roy Lichenstein, Henry Moore, Lucio Fontana, Jean Tinguely, Antoni Tàpies, Francis Bacon, Claes Oldenburg, Anselm Kiefer,

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Yayoi Kusama, Donald Judd, Per Kirkeby e Pipilotti Rist. Fin dalla sua inaugurazione, la Louisiana ha sempre seguito la tradizione espositiva del MoMA di New York, diventato famoso nella prima metà del Novecento per aver ampliato la gamma di arte moderna includendo architettura, design, fotografia, film e altri generi; la Louisiana a queste ha integrato mostre culturali ed etnografiche donando versatilità al proprio programma mettendo in evidenza l’interazione tra i vari campi artistici.

L’idea della Louisiana è sempre stata veicolata dall’ambizione originaria di Jensen di creare un museo con anima, in cui il pubblico potesse incontrare opere d’arte, non come qualcosa di pretenzioso, ma piuttosto come qualcosa che riuscisse a comunicare direttamente allo spettatore, sottolineando la necessità di proporre dei contenuti supplementari che portassero un contributo per rendere il museo un ambiente impegnato nella vita contemporanea, lavorando soprattutto sull’integrazione tra i vari campi artistici.

Ingresso del Louisiana e “passeggiata coperta” dei corridoi

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Louisiana Museum, corridoi della “passeggiata coperta”

Louisiana Museum, sala espositiva

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Nel corso dei decenni, il museo ha avuto un ruolo estremamente importante nella vita culturale danese, forte sin dall’inizio della sua prerogativa nell’essere un luogo sede di incontri e dibattiti culturali. Nel 2008, in occasione del suo cinquantesimo anniversario, il museo introdusse l’apertura serale, fine proprio a rafforzare e sviluppare ulteriormente questa tradizione e questo modo di vivere lo spazio museale. Le comode e accoglienti sale espositive, l’ampiezza del Parco, l’opportunità di intrattenersi nelle aree Café e Shop, così come i numerosi eventi tra concerti, conferenze e dibattiti, contribuiscono a rendere la Louisiana un centro culturale nel senso più ampio. A differenza dei musei tradizionali la cui unica funzione era l’esposizione di opere d’arte o i musei più recenti che mostrano un’indifferenza verso la funzione principale del museo, presentando questo al pari di uno spazio comune nella società, come nel caso della Neue Nationalgalerie di Mies van der Rohe a Berlino, la Louisiana è un tipo di museo che si pone al centro di queste due correnti dove, l’architettura determinando il ritmo delle mostre, si relaziona con queste che di risposta esaltano le qualità spaziali e scenografiche dello stesso museo. La Louisiana offre un uno scenario nuovo ad ogni alba, un quadro per ogni giornata che vede protagonista il paesaggio circostante, e le mostre diventano parte di questo, ogni giorno, suscitando percezioni sempre nuove, una sensazione sublime che vede il trionfo del paesaggio indossare le vesti di un riuscitissimo contenitore culturale. In questo senso l’area esterna ai padiglioni espositivi, che comunque offrono una connessione continua tra l’esterno e l’interno attraverso le vetrate poste su entrami i lati dei lunghi e stretti corridoi, gioca un ruolo fondamentale nell’esperienza della Louisiana. Il parco è dominato da imponenti alberi secolari e ampie vedute del mare, con alcuni punti panoramici che lasciano intravedere in lontananza le coste della vicina Svezia.

Camminando nell’accogliente giardino, ci si immerge in un ambiente che sembra essere fuori dal tempo. Uno spazio vissuto in maniera trasversale, dove si ha la possibilità di ammirare

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le 45 sculture d’arte contemporanea, sparpagliate in tutta l’area, alcune mastodontiche, altre invece quasi mimetizzate con l’ambiente. “La Louisiana dovrebbe assolutamente farsi conoscere come luogo di scultura”, così scrisse Jensen nel suo libro giunto in Italia nel 1996 edito da Clueb con il nome “Louisiana Storia di un uomo e di un museo”. Il parco progettato dagli architetti paesaggisti Ole e Edith Norgaard è modellato intorno alle espansioni del museo in modo tale da esaltare sia l’interazione con la natura, con la vista e il clima, sia la natura labirintica di questo, alimentando quella sensazione di curiosità del visitatore nel ricercare angoli e sculture nascoste. Alle spalle del museo è presente il Lake Garden, anch’esso una parte

fondamentale della relazione tra architettura e natura e arte: il giardino non presenta alcuna scultura ma solo il lago artificiale (da qui il nome al giardino), scavato all’inizio dell’Ottocento dove sono presenti percorsi per bambini e ampie aree picnic per le famiglie e non solo.

Louisiana Museum area esterna del Cafè

Louisiana Museum, area esterna nascosta

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La qualità dello spazio esterno regala la possibilità di potersi intrattenere al cafè e ammirare contemporaneamente le sculture come quelle di Max Ernst o Joan Mirò ed il moto irrequieto delle onde dell’Øresund, lo stretto che separa la Danimarca dalla Svezia. Tutti i proventi del ristorante sono destinati ad attività supplementari nelle quali rientrano un cospicuo numero di laboratori ospitati nell’ala riservata ai bambini. Questi, sono sia gratuiti che a pagamento, mentre il materiale didattico è messo a disposizione dalla struttura, la quale a sua volta usufruisce di forniture da parte degli sponsor. La disposizione naturale delle camere favorisce il movimento, la curiosità e l’esplorazione attiva con materiali e tecniche artistiche. Lo stretto contatto e la collaborazione della Louisiana con l’ambiente artistico e culturale internazionale è uno dei maggiori punti di forza del museo. Grazie a questa, è stato possibile per la Louisiana presentare un programma espositivo che tanto successo ha riscosso nel pubblico nel corso degli anni, come testimoniano i numeri, che pongono il Louisiana come il museo più visitato della Danimarca (nel 2015 le presenze registrate furono quasi 750 mila). La Louisiana si è così affermata come una delle sedi espositive più rispettate al mondo capace di attrarre mostre e artisti a un livello che pochi altri musei, sia in Danimarca che all’estero, possono eguagliare. Nel 2005, l’archistar francese Jean Nouvel e il Louisiana si unirono per collaborare alla mostra “Jean Nouvel - Louisiana Manifest”, collaborazione riproposta a distanza di dieci anni, nel 2015, con una seconda mostra dove l’architetto espresse il suo amore nei confronti del museo:

A

B

“al Louisiana ogni cosa è immediata, direttamente sentita, e tutto è a casa: i fiori sono a casa, il mare è a casa, il cielo è a casa, i grandi artisti sono a casa e i visitatori sono come a casa. Quando passeggi intorno al museo, il paesaggio si trasforma in museo ed il museo in paesaggio. Questa sensazione è unica ed immediata”.

C Aree interne A main hall; B bookshop; C cafè

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SECONDA PARTE

LA CITTÀ, BARCELLONA

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INTRODUZIONE Barcellona rappresenta senz’ombra di dubbio un esempio fondamentale della costruzione dello stato-nazione moderno post- rivoluzionario. A partire dalla Guerra di successione spagnola di inizio XVIII secolo, Barcellona vide il proprio sviluppo urbano, economico, sociale e culturale represso per oltre due secoli, prima dall’oppressione borbonica, poi dalla dittatura franchista. Già a partire dalla metà dell’Ottocento con il Pla Cerdà e successivamente con la fine del regime franchista e la conseguente ascesa della democrazia sul finire degli anni Settanta del Novecento, Barcellona è stata palcoscenico di una crescita politica, urbana e sociale senza precedenti e che ha generato delle trasformazioni che hanno radicalmente trasformato l’aspetto fisico e non solo dell’intera città catalana. L’importanza di queste trasformazioni non sono tanto riconducibili alla realizzazione di nuovi edifici quanto, alla conformazione di uno spazio pubblico inedito, vera testimonianza della crescita della città. La questione urbana a Barcellona ha assunto un ruolo sempre più centrale a partire dalla metà degli anni ’70 quando il nuovo piano, Pla General Metropolità del 1976, pose due fondamentali obiettivi: il decongestionamento della Ciutad Vella (il centro storico della città) e l’implementazione di spazi pubblici e attrezzature per la cittadinanza. Questo obiettivo fu promosso dal PSC (Partit dels Socialistes de Catalunya), prima amministrazione democraticamente eletta, capeggiata dall’allora sindaco Pasqual Maragall. Questa raggiunse il proprio apice negli anni a cornice delle Olimpiadi svolte nel 1992, per poi prolungarsi fino ad esaurirsi all’inizio del XXI secolo con il Form delle Culture organizzato da Joan Clos, successore nel ruolo di alcalde di Maragall. Lo sviluppo e l’espansione della città nel corso di quegli anni, produsse innumerevoli risultati, molti dei quali non riscossero il pieno appoggio delle associazioni (molto

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attive in quegli anni), a causa dell’indiscriminata perdita di patrimonialità del tessuto storico. Gli interventi associati al periodo olimpico, il progressivo recupero del waterfront, la bonifica e la rivitalizzazione dei tessuti degradati, lo sviluppo edilizio delle periferie, la nuova dotazione infrastrutturale e la politica di rivitalizzazione degli spazi pubblici sono solo alcuni dei temi toccati nel processo di trasformazione perseguito dalle istituzioni pubbliche nel corso dell’ultimo ventennio del XX secolo. Il miglioramento in termini generali delle condizioni di vita quotidiana e la creazione di un vero policentrismo urbano sono stati ottenuti grazie a un complesso e articolato investimento nel capitale sociale urbano (dallo spazio pubblico alle attrezzature collettive, dai servizi per i cittadini alle infrastrutture per la mobilità). In particolare, a partire dall’esperienza del Piano Bohigas fino ai giorni nostri, le sperimentazioni sul ripensamento e sul ruolo dello spazio pubblico nelle pratiche di rigenerazione urbana hanno acquisito un’incredibile centralità, sia sul piano teorico che su quello realizzativo. Infatti, da quel periodo che vide Barcellona trasformarsi in un enorme cantiere di sperimentazioni per la progettazione architettonica, urbana ed urbanistica, nacque quel modello di riferimento a cui guardare e confrontarsi, passato alla storia come “Modelo Barcelona”. Le elaborazioni teoriche e le ricerche di studiosi, specificatamente quelli della scuola di analisi urbana, sono state recepite, discusse, rielaborate e messe in pratica dall’élite accademico-professionale. In questo scenario, il ruolo che il museo ha rivestito in questo periodo è stato quello di operare come dispositivo capace di creare sinergie e relazioni non soltanto con gli enti locali e nazionali, ma anche e soprattutto con le piccole e grandi realtà che vivono il quartiere, con l’obiettivo di diventare un elemento di qualità, simbolo di aree della città che hanno visto mutare in questi decenni la propria natura.

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1859 - 1939 DAL PLA CERDÀ ALLA DITTATURA FRANCHISTA Nel 1835, in seguito alla rivolta della Crema dels Convents, in cui furono incendiati ben sei complessi conventuali uscirono con prepotenza alla ribalta le problematiche legate alla forzata convivenza all’interno delle mura della città, innalzate da Filippo V nel 1719 a conclusione della Guerra di successione, tra la classe borghese e quella operaia a causa delle pessime condizioni di vita in cui versava quest’ultima. Nel 1843 in successione a Ferdinando VII, ultimo vero sovrano assoluto per diritto divino, salì al trono sua figlia, Isabella II di Spagna. Durante il suo regno la monarchia iniziò a perdere potere rispetto al Parlamento. Sull’onda del movimento democratico europeo e il diffondersi del pensiero socialista i moderati acquisirono una notevole influenza, tanto che nel 1945 questi, saliti al potere attuarono le prime riforme agrarie ed incentivarono la nascente industria in tutto il paese, mentre Barcellona, schiacciata dal governo spagnolo, dove ogni tentativo di autonomia veniva severamente punito, rimase limitata nella crescita economica e ferita nell’orgoglio. All’inizio dell’800, i barcellonesi vivevano in condizioni di prigionia rigidissime, in un contesto totalmente saturo, dove in pochi chilometri quadrati vivevano circa 190.000 abitanti oppressi non solo dai soldati ma anche dalle obsolete mura di contenimento. Il Castel de Montjuïc divenne una prigione nella quale furono rinchiusi le vittime della repressione politica e gli esponenti della lotta operaia. Il timore che la nuova borghesia catalana e le sue forti volontà autonomistiche, affiancate dalla rivoltosa classe operaia potessero trasformarsi in una vera e propria violenza rivoluzionaria, ma soprattutto all’indomani del propagarsi di una violenta epidemia di colera, dovuta agli inevitabili problemi igienici, sociali e di sviluppo urbano sorti per l’altissima densità abitativa della città, spinsero il Capitán General nel 1854 a sollevare lo status di “piazzaforte militare” alla città catalana, affidando all’architetto Antonio Rovira y Trias la demolizione delle mura, 99

concedendo contestualmente ai barcellonesi l’appropriazione di nuovi terreni al di fuori delle muralles, simbolo per oltre un secolo dell’oppressione borbonica. Le già citate rappresaglie interne e l’epidemia di colera, accentuarono il desiderio della classe borghese di prendere le distanze dai plebei, spostandosi all’esterno delle mura in un contesto salubre, fino a quel momento quasi del tutto disabitato, dove gli unici elementi che caratterizzavano il paesaggio erano i borghi di Sants, les Corts, Sant Gervasi de Cassoles, Gràcia, Sant Andreu de Polomar e Sant Mari de Provençals oltre ai fiumi Besos e Rio Llobregat, il mare le colline di Collserola. Fino a quel momento per secoli l’attività edilizia è stata limitata a causa della decadenza economica e politica della città, ma ciononostante Barcellona poteva annoverare nel proprio patrimonio culturale ed architettonico alcune eccellenze rifacenti al periodo medioevale come la chiesa di Sant Pau del Camp, la chiesa di Santa Caterina, la cattedrale di Santa Eulalia, la quale ospita all’interno opere di Lluís Borrassá e Bernardo Martorell, artisti che hanno segnato il periodo gotico e non solo della Catalogna. Oltre alle opere religiose, il Trecento e il Quattrocento gotico a Barcellona sono caratterizzati dalla realizzazione di numerosi edifici tra i quali le Atarazanas, lo storico arsenale sede dal 1941 del MMB - il Museo Marittimo, uno spazio dedicato alla cantieristica navale tra il XIII e il XVIII secolo. Nel 1859, cogliendo l’opportunità di edificazione all’esterno delle mura concessa dal governo centrale, nonostante le risultanze del concorso bandito ufficialmente dalla città di Barcellona, il Ministero dei Lavori Pubblici assegnò l’incarico, tramite uno speciale decreto ad Ildefons Cerdà il quale presentò il progetto di reforma y ensanche de Barcelona, ovvero il progetto dell’Eixample, l’espansione.

Il modello di Cerdà si ispirò alle grandi aperture proposte da Haussmann per Parigi, seguendo principi igienisti basati sulla vita della classe operaia barcellonese. La città deve essere il più possibile omogenea, per assicurare l’equivalenza di tutte le situazioni spaziali. Deve assicurare la massima igiene pubblica,

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permettere e facilitare le relazioni sociali grazie ad un sistema efficace di comunicazioni. Questi sono i principi che giustificano l’immensa scacchiera proposta per la nuova Barcellona.

Lo spazio della strada, lo spazio pubblico per eccellenza, assunse quindi un ruolo strategico nel disegno dell’Eixample.

Il progetto prevedeva l’attraversamento di tre grandi nuove arterie, chiamate Gran Vias A, B, C, all’interno della città storica seguendo una disposizione a forma di “H” che avrebbe dovuto allinearsi ed integrarsi al progetto dell’Eixample. Nel 1860 seppur con molte ombre, il Plan Cerdà si tramutò in disposizione urbanistica, grazie anche al contributo in prima persona nelle operazioni finanziarie dello stesso Cerdà. Negli anni successivi, mentre avanzava l’edificazione dell’Eixample, con l’apertura delle prime Ramblas, la riforma della città vecchia fu soggetta a numerosi ripensamenti e cambi d’idee che protrassero l’inizio dei cantieri per anni. Nel progetto, Cerdà non nutrì alcuna cura nei confronti della Ciutat Vella; il suo studio per il centro storico, non era infatti fine al miglioramento delle condizioni di vita dei meno abbienti, quanto piuttosto a ricercare soluzioni per l’inserimento di nuove strade allo scopo di creare nuovi collegamenti all’interno del suo piano di espansione. Nel piano, l’area extra moenia venne occupata da un impianto omogeneo a scacchiera, virtualmente estendibile all’infinito. Gli isolati progettati da Cerdà, chiamati anche manzanas, prevedevano la smussatura a 45° di tutti e 4 gli angoli in modo da consentire non solo opportunità di parcheggio e manovre agevolate ma anche un’opportunità progettuale per i quattro prospetti degli spigoli posti sugli incroci stradali. Cerdà inoltre, stabilì che soltanto il 50% degli isolati fosse edificabile, mentre la restante area all’interno delle stesse manzanas fosse lasciata libera per la realizzazione di spazi collettivi. La tipologia di blocco residenziale a corte, suddivisa per unità di cento edifici fu dotata di attrezzature, riprendendo categorie utilizzate dall’urbanistica moderna in merito alla dotazione di standard e servizi. La Scacchiera fu tagliata da grandi assi di ampiezza

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variabile dai 60 agli 80 metri: l’Avinguda del Paral·lel, la Gran Via de les Corts Catalanes, l’Avinguda Meridiana e l’Avinguda Diagonal, quest’ultimi tre grandi assi si incrociano nell’area orientale dell’Eixample, lontano sia dal mare che dalla città storica, in un punto che nel progetto di Cerdà doveva rappresentare la “nuova Barcellona” con l’edificazione della piazza più grande della città: Plaça de les Glòries Catalanes.

Ildefons Cerdà, Proyecto de Reforma y Ensanche de Barcelona, 1859

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Cerdà nella sua intenzione di trasformare Barcellona da città mercantile a grande metropoli europea, può essere considerato un pioniere di quella che successivamente verrà definita la città funzionale, in quanto il suo modello pose la questione della pianificazione del governo del territorio non più come un insieme di pezzi di città isolati, ma come un organismo che andava progettato nella sua complessità. La visione di Cerdà si rivelò però essere utopistica; la sua ambizione di creare una città egualitaria dove tutti i cittadini avessero l’opportunità di vivere in alloggi più che dignitosi fallì e si ritrovò in una realtà che vedeva contrapposte due identità di Barcellona ben distinte: da una parte i residenti della Ciutat Vella che a causa dei prezzi alti delle nuove residenze, vedevano precluse le possibilità di poter accedere all’Eixample, continuando a vivere in condizioni poco dignitose, dall’altra la classe borghese che prendeva sempre più le distanze dal centro antico, visto come un fatiscente ricettacolo di colera, rifugiandosi nella parte alta della città.

Negli anni Sessanta dell’Ottocento, nonostante l’impegno, i moderati non furono in grado di risolvere i problemi del paese e complice l’impopolarità sempre più diffusa di Isabella ll, nel 1868 contestualmente alla detronizzazione di quest’ultima scoppiò la Rivoluzione spagnola o La Gloriosa, conosciuta anche come La Settembrina, la quale vide Barcellona protagonista in prima linea per il successo della rivoluzione. A partire da questo momento e per sei anni fino al 1874 si cercò di creare in Spagna un sistema di governo rivoluzionario, conosciuto come il “Sessennio democratico”. La novità più importante fu l’apparizione nella vita parlamentare del repubblicanesimo.

Nel 1869, venne approvata la Costituzione a base monarchicodemocratica presieduta dal re eletto Amedeo di Savoia, un re italiano salito al trono grazie al diritto ottenuto da Vittorio Emanuele ll, a fronte della perdita della Sicilia per la Sardegna, a succedere al trono di Spagna, in caso di estinzione della locale Casa di Borbone. Amedeo abdicò l’11 febbraio 1873, lo stesso giorno in cui l’Assemblea Nazionale proclamava la

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Prima Repubblica spagnola, eleggendo come primo Presidente Estanislao Figueras. Alle dimissioni di Figueras dell’11 giugno 1873, Pi y Margall fu eletto secondo presidente della Repubblica.

Margall nel 1970, massimo esponente del Partito Repubblicano Democratico Federale, nato in seguito alla scissione del partito democratico non riuscì a far progredire la sua politica federalista e finì anche lui, il 18 luglio 1873 con l’abdicare. Gli successe come terzo presidente della Repubblica Nicolás Salmerón, il quale non resse alle forti spinte separatiste e federaliste dei suoi oppositori ed in seguito ad un rifiuto di firmare due condanne a morte che andavano oltre i suoi ideali di non violenza, dopo pochi mesi diede anch’egli le dimissioni. Il successore Emilio Castelar, si ritrovò a gestire un paese sull’orlo dell’anarchia fino a quando il 3 gennaio 1874 in concomitanza con le sue dimissioni vi fu un colpo di Stato militare del generale Manuel Pavía, il quale affidò il ruolo di presidente della Repubblica al generale Serrano. Nel corso del suo mandato sciolse il Parlamento instaurando di fatto una dittatura repubblicana conservatrice con vaghe aspirazioni liberali che l’avrebbe voluto mantenere come dittatore. Nel 1874 in seguito alla dichiarazione del generale Arsenio Martínez Campos venne sancita la fine della Prima Repubblica spagnola, ristabilendo, dopo la rinuncia al titolo del figlio di Isabella ll e la conseguente proclamazione di re Alfonso XII, la dinastia borbonica. Questo periodo è caratterizzato da una certa stabilità istituzionale, grazie alla modifica dello Stato in senso liberale e all’incorporazione dei movimenti sociali e politici, nonché alla nascita delle prime industrie. Nel 1888, Barcellona con circa 530.000 abitanti era la seconda città della Spagna, ma il primo centro industriale del paese. La città sii ritrovò, sotto consiglio dell’imprenditore galiziano Eugenio Serrano de Casanova, ad ospitare l’Esposizione Universale, allo scopo di rafforzare le buone relazioni che intercorrevano tra la borghesia industriale catalana e la restaurata monarchia borbonica, che nel frattempo alla prematura morte di Alfonso Xll nel 1885, passò nelle mani della consorte Maria Cristina d’Asburgo-

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Teschen. Nonostante le insurrezioni di quegli anni, l’EXPO contribuì al miglioramento complessivo della città. Per l’evento furono realizzate importanti opere di urbanizzazione; vennero creati diversi parchi urbani: il Parco del Montjuïc, sull’omonima collina che traccia il limite dell’area di Poble-Sec, segnandone anche il consolidamento della colonizzazione dell’area; il Parco della Cittadella posto alle spalle dell’Arc de Triomf, costruito per l’evento come porta d’accesso all’esposizione.

Manifesto Exposición Universal de Barcelona, 1888

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Adiacente al Parco della Cittadella vi fu anche la realizzazione del nuovo quartiere del Born con l’omonimo mercato ortofrutticolo (oggi sede del Born Cultural Centre) sulle ceneri del vecchio quartiere di Ribera, distrutto nel 1714 durante la guerra di Successione spagnola. Sempre per l’EXPO vennero costruiti edifici di rilievo come: il Palau de Belles Arts, opera di August Font i Carreras, il Palazzo di Giustizia, opera di Enric Sagnier i Villavecchia e Josep Domènech i Estapà. In aggiunta, ci furono opere di consolidamento e valorizzazione delle trasformazioni già avvenute in città, tra queste vi fu la realizzazione del monumento a Cristoforo Colombo nella Plaza Portal de la Pau, punto di congiunzione del Passeig de Colom e della futura Ramblas. La spinta espansionistica avvenuta nella seconda metà dell’Ottocento alimentò non solo il fervore delle classi meni abbienti, ma anche il risveglio culturale che segnò l’inizio della straordinaria stagione del modernismo catalano, grazie ad una delle figure più rappresentative della storia architettonica della città: Antonio Gaudí massima e più originale espressione del movimento catalano. Il Modernismo catalano si affermò precocemente e con caratteri originali rispetto ad altre aree europee grazie a quel desiderio di creare un nuovo stile, autonomo, nazionale che trova le proprie motivazioni nella compattezza economica e culturale della regione. Anche se sul finire dell’Ottocento sono presenti alcuni edifici di rilievo per il movimento, come il caffè-ristorante di Doménech del 1888 o come il palazzo Güell dello stesso Gaudí commissionato nel 1899 dal ricco industriale Eusebi Güell, uomo di grande cultura oltre che grande amico di Gaudí, al quale incaricò negli anni successivi, la realizzazione del Parc Güell, delle cantine Güell, dei padiglioni Güell e persino della cripta. Il periodo di maggior sviluppo dell’architettura modernista catalana, si estese fino all’inizio del primo conflitto mondiale riscontrando però una notevole continuità fino alla fine degli anni Venti. Il Modernismo catalano si proponeva come un adattamento intelligente ed estroso dell’Art Nouveau, grazie alla libera e

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originale interpretazione di elementi di tradizione locale come il mattone a vista, le mattonelle maiolicate di gusto mudéjar, il ferro battuto, la terracotta. L’altro grande esponente del movimento insieme a Gaudí fu Lluís Doménech i Montaner, i due sono autori di molti monumenti diventati negli anni simboli della città. Gaudí, oltre alle opere già citate, è autore di altri numerosissimi lavori distribuiti in tutta la città, tra i quali non possono mancare di menzione le due abitazioni lungo il Passeig de Gràcia, Casa Batlló (1905-1907) e Casa Milá (1905-10) e la monumentale Sagrada Familia, la cattedrale dall’inimitabile profilo verticale, il cui cantiere, inaugurato nel 1883, è tuttora aperto. Montaner d’altro canto non è da meno realizzando nel 1908 una delle più belle sale da concerto europee con il Palau de la Música Catalana. All’inizio del Novecento i progetti di riforma della Ciutat Vella continuavano a riproporre dopo quasi mezzo secolo il modello di Cerdà, supportati dall’emanazione del Piano Baixeras del 1899, il quale integrava al suo interno la legge sull’esproprio forzoso con l’obiettivo di facilitare la realizzazione del Plan Cerdà favorendo la sostituzione totale della città vecchia. Nel primo decennio del nuovo secolo, venne realizzato un violento sventramento della città storica, senza tener conto del patrimonio architettonico, andando a compromettere l’aspetto morfologico dell’area in favore del completamento della via Laietana, ovvero la Gran Via A, con nuove residenze destinate alla classe borghese. La perdita di patrimonialità portò nel 1909 alla Setmana Trágica, una violenta protesta dei cittadini scaturita in un assalto alle proprietà ecclesiastiche. Il modello di Cerdà fu dunque affiancato da una visione manipolatrice che vedeva il centro storico come materiale urbano malleabile secondo precisi disegni ideologici.

Nel frattempo, in tutta la Spagna iniziarono a diffondersi le nuove ideologie, come il nazionalismo, il socialismo e l’anarchia, ma nonostante le grandi tensioni interne, questa restò neutrale durante la Grande Guerra, per poi tornare ad essere teatro di numerose rivolte operaie, costantemente represse. Sulla scia

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degli ottimi risultati ottenuti nel 1888, fu riproposta la possibilità per Barcellona di ospitare nuovamente l’Esposizione Universale con l’obiettivo di promuovere l’immagine della Catalogna all’estero. L’idea prese forma nel 1905, anche se ci sarebbero voluti 24 anni prima che la manifestazione ebbe luogo, periodo durante il quale, si prospettò l’opportunità di ospitare i Giochi della IX Olimpiade, poi assegnata ad Amsterdam. Nel corso di questi anni si discusse molto in merito al luogo dove collocare l’esposizione; inizialmente si pensò al quartiere periferico di Besós, poi nel 1913 in seguito alla costituzione del comitato misto per l’organizzazione della manifestazione, si decise di optare per l’area del Montjuic. Grazie alla legge sull’esproprio, il comitato riuscì ad ottenere i 110 ettari necessari a fronte dei soli 26 in possesso dell’Ajuntament. I lavori di urbanizzazione del Montjuic iniziarono nel 1917, ma con il colpo di Stato nel settembre del 1923 del capitano generale della Catalogna Primo de Rivera, l’inaugurazione della manifestazione si ebbe solo nel 1929. Nonostante il crollo della Borsa di New York che ridusse il numero di partecipanti, l’EXPO si rivelò un grande successo sia a livello sociale, sia per le realizzazioni urbanistiche di cui si arricchì la città, soprattutto a livello architettonico. Il complesso fieristico cominciava sulla nuova Plaça d’Espanya, dove furono costruiti quattro grandi alberghi per i visitatori, e proseguiva lungo l’Avenida de América (oggi conosciuta come Avinguda de la Reina Maria Cristina), dove vennero realizzati i grandi padiglioni dell’Esposizione, fino a giungere ai piedi del Montjuic, da dove partiva una scalinata che conduceva al Palau Nacional, l’opera più monumentale dell’ intera mostra, oggi sede del MNAC - Museu nacional d’art de Catalunya. Alle Spalle del Nacional invece, fu realizzato lo Stadio Olimpico.

L’EXPO rappresentò, oltre ad un enorme sviluppo urbano, il consolidamento del “Noucentisme catalano”, movimento in contrapposizione e che sostituì il modernismo, predominante in Catalogna fino a quel momento. Il Noucentisme contribuì anche all’introduzione delle correnti d’avanguardia internazionali,

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come il razionalismo rappresentato dal Padiglione tedesco di Ludwig Mies van der Rohe, realizzato anch’esso nel quartiere del Montjuic a pochi passi dalla fabbrica tessile costruita pochi anni prima da Josep Puig i Cadafalch, uno degli esponenti più rappresentativi del modernismo catalano, caduta prima in disuso, poi adibita a caserma ed infine nel 2002 con l’acquisto da parte della Caixa, terza maggiore banca spagnola, è stata trasformata in un centro culturale polifunzionale, molto apprezzato dai suoi soci e visitatissimo dai turisti grazie al suo stile tipico dell’architettura industriale modernista, con le tipiche volte catalane, unite alle decorazioni in ceramica e in pietra artificiale.

Exposición Universal de Barcelona, 1929

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Gli architetti municipali Darder e Vilaseca tra il 1918 e 1932, nel periodo fra le due guerre, periodo che vide anche la nascita del COAC (una società di diritto pubblico, con una propria personalità giuridica, che cerca di difendere il valore sociale dell’architettura e dell’urbanistica per conto degli architetti), riproposero le grandi vie di Cerdà, ammorbidite nel disegno ed arricchite da aperture scenografiche, attente alle principali preesistenze del centro storico. Nacque in questo contesto l’idea del Barri Gòtic, la cui costruzione si sarebbe protratta per tutta la prima metà del Novecento. Nel 1922 Francesc Macià, poco prima del colpo di stato di Primo de Rivera, si rese promotore dell’organizzazione del movimento Estat Català, che radunava tutti i catalani radicali e che, per questo si vide costretto a fuggire dalla dittatura, prima in Francia dove strinse rapporti clandestini con i gruppi anarchici e comunisti catalani, poi in Belgio, ed infine in America dove soggiornò prima in Argentina e successivamente a Cuba. Alla caduta della dittatura, Macià fece ritorno in patria dove nel 1931 fu uno dei fondatori del partito Sinistra Repubblicana di Catalogna. Nello stesso anno dopo la vittoria alle elezioni municipali, proclamò la Repubblica Catalana, contestualmente all’esilio di Re Alfonso Xlll e alla proclamazione della Seconda Repubblica. L’autoproclamazione preoccupò il governo provvisorio della Seconda Repubblica, la quale volle scendere a compromessi con Macià che si ritrovò a rinunciare alla Repubblica Catalana in favore di una nuova forma di ampia autonomia, la Generalitat de Catalunya, antica istituzione d’autogoverno che riconosceva alla Catalogna uno statuto regionale autonomo. Nel 1935 avvenne la presentazione del Pla Macià, anche se questo morì due anni prima. Il piano fu redatto dal gruppo di architetti del GATCPAC (Grup d’Artistes i Tècnics Catalans per al Progrés de l’Arquitectura Contemporània) un’organizzazione dell’avanguardia architettonica nata nel 1929, principalmente da J.L. Sert e J. Torres Clavé, i quali supportati dalla collaborazione di Le Corbusier presentarono,

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dopo un’attenta analisi tecnico-statistica, un progetto inedito che concepiva la città come un sistema di meccanismi abitativi dotati di peculiarità funzionali e morfologiche da preservare. In questo progetto Le Corbusier si mosse oltre le proprie idee inclini allo zoning, concentrando il suo contributo su diradamenti più puntuali. Il Pla Macià si pose dunque come in alternativa rispetto al piano di Vilaseca, nel progetto del GATCPAC si integrava la fiducia riposta nelle forme di architettura e una critica alla pianificazione legata alle dinamiche speculative del mercato immobiliare. L’anno successivo, nel 1936, una rivolta in Marocco segnò l’inizio della guerra civile spagnola. Le truppe nazionaliste di Francisco Franco avanzarono velocemente dal nord Africa a tutta la Spagna tranne che a Barcellona, dove vi fu una dura resistenza che durò per oltre due anni in cui la città fu governata in un primo momento da anarchici e milizie socialiste, sconfitti nel 1937 dai comunisti di Stalin provenienti da Mosca con un bilancio di 1500 morti. La città dunque, per un breve periodo divenne capitale dei repubblicani, fino a quando, stremati dalla guerra e da continue spaccature interne, nel gennaio del 1938, questi si ritirarono da Barcellona a Girona, anche se le sue truppe continuarono a mantenere la difesa della città, fino a quando, nei giorni 16, 17 e 18 del mese di marzo i bombardamenti compiuti dell’Aviazione Legionaria italiana con il supporto della Legione Condor tedesca provocarono un numero di vittime tra gli 880 e i 1300 e di 1500 e i 2000 di feriti nella sola popolazione civile. Il bombardamento fu ordinato personalmente da Benito Mussolini all’insaputa di Franco, con l’obiettivo di destabilizzare i repubblicani che si accingevano ad affrontare la Battaglia di Aragona. Nel 1939 la Guerra Civile terminò con un bilancio pesantissimo per i barcellonesi, che oltre ai caduti si ritrovò a far fronte alla distruzione di 48 edifici e in danneggiamento di altri 78, compromettendo ogni discorso in merito alla trasformazione della città soprattutto dopo i bombardamenti italiani in coincidenza con i sedimi delle

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previste Gran Vie “B” e “C”.

Bombardamenti aerei dell’Aviazione Legionaria italiana con il supporto della Legione Condor tedesca su Barcellona nel marzo 1938

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1939 – 1975 IL FRANCHISMO Nacque dunque nel 1939 la dittatura militare della Spagna franchista, che ripropose le disposizioni punitive su Barcellona, la quale oltre a vietare l’uso del catalano negli atti ufficiali, accantonò il Pla Macià per ritornare al Pla Vilaseca e con esso all’impostazioni di Cerdà. Nei mesi successivi alla guerra civile ebbero luogo le indagini sui crimini di guerra commessi durante il governo repubblicano, e in un processo chiamato Causa General: per questi crimini vennero giustiziati, imprigionati o condannati ai lavori forzati migliaia di repubblicani. La guerra civile spagnola fu un esempio di guerra totale: venne sperimentato il bombardamento terroristico e Barcellona fu la prima città europea bombardata massivamente, diventando al tempo stesso “laboratorio generale” poi chiamato “bombardamento d’osservazione”. Negli anni Quaranta, mentre tutta l’Europa era palcoscenico della Seconda guerra mondiale, in Spagna il regime franchista si andava sempre più consolidando, affermandosi anche contro gli ultimi rivoltosi, aggiungendo al numero delle vittime, altri 35.000 caduti per un totale di quasi 300.000 vittime. Nell’agosto del 1940, Lluis Companys, leader della formazione politica Esquerra Republicana de Catalunya e presidente della Generalitat de Catalunya durante la guerra, venne individuato e catturato dalla Gestapo, su ordine delle autorità spagnole e con la collaborazione dell’ambasciata spagnola in Francia. Estradato a Madrid, fu quindi trasferito al carcere di Montjuïc a Barcellona, dove fu processato e fucilato dai militari franchisti,” Assassineu un home honorat. Per Catalunya!” furono le sue parole in punto di morte.

Le esecuzioni si protrassero per tutti gli anni ’50, parallelamente all’opera di “castiglianizzazione” della Catalogna, dove furono cambiati tutti i nomi a strade e piazze. I barcellonesi rassegnati e sottomessi, tentavano di sopravvivere in condizioni di estrema povertà, mentre pochi imprenditori, speculatori industriali legati a Franco si arricchivano. In quegli anni, Barcellona si trovava ad 113

ospitare circa un milione di abitanti, grazie alla rapida crescita industriale che spinse spagnoli provenienti dalla Spagna rurale a cercare fortuna in terra catalana. L’immigrazione successiva al secondo conflitto mondiale produsse una grande espansione incontrollata della città, la quale provocò la nascita di nuovi slums urbani. Si conta che negli anni 50, il 10% della popolazione che ammontava, si ritrovò a vivere nelle baraccopoli.

Baraccopoli zona Paral·lel, anni ‘50

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I luoghi dove si concentravano queste baraccopoli erano districati su tutto il territorio cittadino, dalla collina del Montjuïc, alla Barceloneta, nella zona alta della Diagonal e nella zona del Carmel, dove risiedevano le batterie antiaeree della guerra civile. Nella maggior parte dei casi si trattava di famiglie umili che emigravano dal sud della penisola e che difronte alla carenza di alloggi a prezzi accessibili, optarono per una soluzione temporanea che finì per diventare cronica.

Gli abitanti di queste baraccopoli si organizzarono per condurre una vita più normale possibile: gli adulti andavano e tornavano a piedi ogni giorno dal lavoro. Di solito, questi trovavano lavoro

Abitanti delle baraccopoli a lavoro nel Raval, anni ‘50

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nelle fabbriche, nel settore edilizio o servizi domestici. I bambini venivano iscritti nelle scuole della zona, soprattutto in istituti religiosi, i quali organizzavano attività ricreative per rendere il tempo libero più piacevole. Nel corso degli anni, grazie ad una costante mobilitazione di questi “nuovi quartieri”, con frequenti proteste, si riuscì a rifornire le case di beni di prima necessità.

Tra gli anni ’50 e ’60, lo sviluppo industriale fu affiancato da quello economico, sociale e culturale, in un periodo che passò alla storia come il Desarrollo, il miracolo spagnolo.

La Spagna con la cosiddetta “stagione delle Aperturas” del regime franchista, grazie all’apporto di tecnocrati, implementò le politiche di sviluppo neoliberali del Fondo Monetario Internazionale, arrivando a godere del secondo più alto tasso di crescita del mondo, subito dopo il Giappone, diventando la nona potenza economica del mondo. Si verificò di conseguenza lo sviluppo di una borghesia dominante, base e strumento per la creazione e l’assestamento della democrazia che pochi anni dopo avrebbe avuto il meglio sulla dittatura. Si calcola che durante questo periodo, circa un milione e mezzo di immigrati provenienti dalle zone rurali si trasferirono in Catalogna in cerca di fortuna, di cui la metà nella sola città di Barcellona.

Nel 1953 con il Pla Comarcal, pur conservando le disposizioni di Cerdà con le modifiche di Darder e Vilaseca, si cominciò ad ipotizzare l’apertura di aree verdi grazie a Adolfo Florensa, autore di uno dei trentanove piani particolareggiati all’interno del piano. Questo, si limitava a due soli ambiti: il Barri Gòtic e Ribera. Il Piano pur proponendo una visione organica del territorio, considerandone tutti i suoi aspetti, fu accantonato in quanto la costante ed irrefrenabile crescita industriale lo aveva reso rapidamente obsoleto, anche se alcuni passaggi del piano come quelli di Florensa, saranno successivamente riproposti.

Lo sviluppo culturale aveva già prodotto risultati di rilievo nel periodo immediatamente successivo alla fine della guerra civile, quando nel 1943 si concretizzò l’idea, nata ad inizio secolo, di realizzare un museo destinato alla storia della città; nasce

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dunque il MUHBA, Museu d’Història de Barcelona. Un museo che raccoglie una parte importante dell’antica città romana di Barcino, l’antica Barcellona, oltre al Palau Reial Major. Negli anni, il Museo ha ampliato la sua collezione, diventando a tutti gli effetti un museo diffuso, distribuito nei luoghi più significativi della città, come ad esempio nell’area delle batterie antiaeree della guerra civile. Durante il Desarrollo invece, vi fu nel 1963 l’inaugurazione del Picasso Museu, sorto nel quartiere di Ribera, nel Palau Berenguer d’Aguilar su iniziativa di Jaime Sabartés, amico e segretario di Picasso. Il Museo, che verrà poi composto da una serie di 5 edifici di stile gotico, per anni a causa di dissidi intercorsi tra l’artista ed il regime, prese il nome di Collezione Sabartés. Lo sviluppo sociale comportò la nascita delle “Lay de Asociaciones”, ovvero associazioni politiche, una sorta di partiti mascherati che ovviavano all’impossibilità di superare il sistema monopartitico del movimento nazionale, con l’obiettivo di poter, in qualche modo operare contro l’oppressione e le condizioni di vita indecorose in cui i residenti della Ciutat Vella si ritrovarono a convivere, soprattutto dopo la chiusura dei bordelli che riversarono le prostitute per le strade del centro antico. La nascita di queste associazioni fu di vitale importanza per le classi sottomesse, arrivando ad ottenere degli ottimi riscontri in tutti i quartieri. Successi che spinsero queste ad unirsi nel 1972 in una sola grande associazione chiamata FAVB, alla quale si unirono anche intellettuali ed architetti. Negli anni, questa propose numerosi progetti di riqualificazione e rigenerazione di intere parti di Barcellona, progetti che però rimasero su carta fino alla fine della dittatura. Nel 1962 venne inaugurata a Plaça Nova la nuova sede del collegio degli architetti catalani a firma dell’architetto Xavier Busquets Sindreu. L’architettura, in cemento composta da un basso corpo trapezoidale e una torre di metallo a otto piani, è in netto contrasto con l’ambiente antico e medievale ed è. Sulla facciata Pablo Picasso realizzò un fregio con delle incisioni raffiguranti la cultura barcellonese.

Nel 1957 José María de Porcioles divenne sindaco in luogo di

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Antonio María Simarro, in carica dal 1951. Spinto dal desiderio di promuovere attività e migliorare il tenore di vita dei cittadini, Porcioles strutturò il Consiglio Comunale secondo una formula di potere personale, con delegati di servizio e vicesindaci nominati eletti su fiducia. Il suo mandato fu caratterizzato da un uso disinvolto del territorio urbano, tanto che fu coniato il termine “porciolismo”, sinonimo della speculazione aggressiva a cui fu soggetta la città. Da un lato grazie alla capacità di assorbire la valanga di nuova popolazione proveniente dal resto della Spagna, la città crebbe in maniera costante grazie alla costruzione di nuovi edifici e complessi residenziali nell’anello periferico, allo scopo di evitare la formazione di nuove grandi baraccopoli e dare un tetto alla nuova popolazione.

Furono rinnovate molte infrastrutture obsolete di base come fognature, illuminazione, acqua, gas; aperte nuove strade, estesa la rete metropolitana, create nuove linee di autobus e realizzate nuove strutture commerciali e scolastiche. Dall’altro lato però, nella gestione di Porcioles molti quartieri furono inesorabilmente sfigurati, con una pianificazione scellerata, poco attenta al patrimonio architettonico, la quale contribuì a devastare il paesaggio urbano. Negli anni Porcioles si fece promotore di numerose iniziative di sviluppo della città, come il piano Barcellona 2000 realizzato per portare nuovamente nel 1982, l’Esposizione Universale a Barcellona. Durante tutto il corso del suo mandato, Porcioles non intervenne in alcun modo per migliorare le condizioni della Ciutat Vella, che alla fine degli anni Settanta continuava ininterrottamente dalla metà dell’Ottocento, ad essere un luogo di degrado. Il centro storico, così come molti quartieri periferici o paesi satelliti sorti nel corso della sua gestione ospitavano le classi meno abbienti, caratterizzate soprattutto dagli immigrati provenienti da tutta la Spagna e che, tranne per alcune frange che si sforzavano di integrarsi imparando il catalano, finivano con l’emarginarsi creando slums urbani a carattere più nazionalista che catalano.

Nel 1973 accusato pesantemente dalle associazioni di agevolare

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l’aggressiva speculazione urbana nei quartieri del Carmel e di Torre Baró, Porcioles rassegnò le proprie dimissioni. L’interesse mediatico sullo sviluppo della città, come detto ebbe dei risvolti anche sul piano culturale oltre che sociale. Alle già citate associazioni, seguì la diffusione di vari salotti letterali, dove si manifestò un crescente interesse nei confronti della Ciutat Vella, vista come un patrimonio da divulgare.

Edificazione del quartiere periferico di Trinitat Nova, fine anni ‘50

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Vi furono in seguito numerose rappresentazioni cinematografiche della città storica, insieme alla pubblicazione nel 1971 della prima edizione di “Barcelona, Pam a Pam” dell’architetto e scrittore Alexandre Cirici, sempre fine alla divulgazione del patrimonio della Ciutat Vella. Nello stesso anno venne pubblicata la prima edizione spagnola di “Architettura e Città” di Aldo Loris Rossi, la cui influenza, grazie anche a Salvador Tarragò, portò alla fondazione della rivista “2C Costrucción de la Ciutad” prima e di “CAU Costrucción y Urbanismo”, le quali assunsero un particolare atteggiamento nei confronti del patrimonio storico tale da veicolare contenuti politici. Furono anni di grande fermento culturale che accompagnarono la diffusione nel paese di altri importanti studi come quelli a firma di Henri Lefevbre, Horacio Capel e Manuel Castells che vide nel 1974 pubblicata la prima edizione spagnola del suo saggio “La Cuestión Urbana”. In questo periodo, per molti architetti fu l’occasione per ricollegarsi al contesto europeo e conoscere l’evoluzione del dibattito internazionale su modernità, international style e realismo, anche se ufficialmente era proibito dal regime, ma le attività erano maggiormente tollerate rispetto a quelle promosse da attivisti politici, scrittori e cineasti. L’architettura dunque, vivendo in uno stato di “semilibertà” durante tutto il periodo della dittatura, ma in particolare negli ultimi anni del franchismo, agevolata dall’approssimarsi di un processo democratizzazione e ammodernamento del paese, venne più volte utilizzata soprattutto dalle associazioni, che instaurarono un rapporto di collaborazione con molti architetti, come strumento di critica politica e veicolo di ideologie facilmente intercettabili in altri campi. In questa scena intellettuale particolarmente vivace, a Barcellona tra le tante figure, svettava quella di Oriol Bohigas, in quale nel corso della sua attività professionale non aveva mai nascosto le proprie posizioni intellettuali, arrivando a rinunciare nel 1970 al ruolo di professore ordinario alla ETSAB per non aver prestato giuramento ai principi del movimento. Negli anni, Bohigas riprendendo il concetto diffuso nel dopoguerra in

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Italia dalla rivista Casabella, ha sempre sostenuto la necessità di un’architettura coerente, capace di adeguarsi alle nuove realtà tecnologiche e sociali del paese per essere destinata così ad un determinato gruppo di uomini, senza proclamare grandi verità trascendentali. Negli anni Sessanta, fermamente convinto dell’esigenza di dettare regole per una nuova architettura per la “nuova città”, fondò nel 1962 un movimento culturale specifico che prese il nome di “Scuola di Barcellona”, focalizzato alla rinascita di una coscienza catalana, conservando la memoria del movimento modernista ma allo stesso tempo avvicinandosi al contesto europeo. Gli esempi più significativi di quest’esperienza, alla quale parteciparono, oltre al suo gruppo MBM, gli studi di Correa e Milá, PER, Bofill, Doménech, Puig e Sabater, Coderch, sono concentrati tutti intorno alla metà degli anni ’60. Come già detto nel 1971 vi fu la prima pubblicazione in Spagna di “Architettura e città” di A.L. Rossi, questa pose nuovi interrogativi nel rapporto fra l’architettura e la città, spingendo lo stesso Bohigas nel periodo del tramonto di Franco a porre al centro del proprio interesse, la ricerca di una forma urbana immediata e chiaramente definita, segnata dall’architettura.

Negli ultimi anni l’oppressione franchista si era affievolita soprattutto per i cambi di generazione, mentre al tempo stesso andavano alimentandosi speranze di cambiamento sociale indirizzate verso la democrazia. Tuttavia, queste speranze si tramutarono nell’attentato del 1973, riconducibile all’organizzazione indipendentista basca dell’ETA, ai danni dell’ex ammiraglio Luis Carrero Blanco, a quella epoca primo ministro spagnolo della dittatura franchista, considerato il naturale erede di Franco a capo del regime. Successivamente all’attentato Franco nominò Carlos Arias Navarro il quale cercò di introdurre alcune riforme all’interno del decadente regime. Il 20 novembre del 1975 Francisco Franco morì all’età di 82 anni, dopo 35 anni di regime, venendo sostituito temporaneamente dal Consiglio di Reggenza nelle funzioni di Capo dello Stato, fino al 22 novembre 1975, giorno in cui Juan Carlos I di Borbone,

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erede alla corona per volere di Franco, fino a quel momento rimasto in disparte pur avendo prestato giuramento nel 1969 al Movimiento Nacional, venne proclamato re davanti alle Cortes e al Consiglio del Regno. Juan Carlos confermò Navarro per il suo primo governo di Don Juan Carlos nel quale entrarono a far parte ministri chiaramente riformisti. La timida riforma politica promossa fu limitata alle leggi di Riunione, di manifestazioni e di Associazioni politiche che spinsero il re, il primo luglio del 1976 a forzare le dimissioni di Navarro a causa della sua incapacità di affrontare sia i gravi problemi di ordine pubblico che lo smantellamento definitivo del regime franchista.

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1975 – 1983 DAL FRANCHISMO ALLA MAGGIORANZA DEL PSOE Re Juan Carlos rivestì un ruolo fondamentale nelle delicate fasi seguite alla morte del dittatore, per portare la Spagna verso la democrazia. Il re affidò la formazione del governo per la transizione democratica e il conseguente smantellamento delle strutture franchiste a Adolfo Suárez che il 6 luglio 1976, presentò in televisione un programma politico molto chiaro basato su due punti: elaborazione della legge sulla riforma politica e la convocazione di elezioni democratiche entro il 30 giugno 1977. Suárez fu capace di riunire un gruppo di politici rappresentanti di diverse espressioni politiche portando a termine la dissoluzione del regime franchista, spingendo la nazione alle libere elezioni democratiche, grazie anche alla legalizzazione dei sindacati di classe, del partito comunista e alla contemporanea soppressione del Movimento nazionale.

L’epoca di passaggio da Franco allo stato delle Autonomie fu un periodo di grandi cambiamenti all’interno di tutto il paese e Barcellona in questo senso fu attivissima, attivando una trasformazione amministrativa, culturale ed infrastrutturale.

Dopo trentacinque anni di dittatura franchista, le elezioni generali in Spagna videro la vittoria dell’Unione del Centro Democratico del Presidente del Governo uscente Adolfo Suárez González. Dopo le elezioni, il governo concesse la creazione di istituzioni pre-autonome, segnando il primo passo nella formazione della struttura territoriale della nazione spagnola, già prevista nella nuova Costituzione. La prima pre-autonomia concessa fu quella della Catalogna: il 29 settembre 1977 venne ristabilita la Generalitat della Catalogna e Josep Tarradellas, storico politico nazionalista fino a quel momento in esilio, ne diventò il nuovo Presidente il 23 ottobre 1977.

A Barcellona in seguito alle dimissioni di Porcioles nel 1973, il governo centrale indebolito dall’ormai vicina fine della dittatura, dopo mesi di proteste, nominò alcalde della città Enric Masò, figura comoda in quel periodo in quanto sostanzialmente neutra 123

al regime. Durante il suo mandato, durato circa due anni prima delle dimissioni, travolto anch’egli da polemiche in seguito all’assegnazione di lavori pubblici alla propria ditta, Masò fu artefice del processo di studio, approvazione e adozione del Pla General Metropolità, nato per arrestare il porciolismo. Il piano noto come PGM-76 fu approvato ufficialmente dalla Commissione provinciale per l’urbanistica di Barcellona il 14 luglio 1976, il cui oggetto è la pianificazione urbana del territorio includendo un totale di 27 comuni.

Pla General Metropolità, 1976

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Il piano, ispirato ad esempi europei ed in particolare quelli italiani di Detti per Firenze e di Samonà per Roma, seguiva due importanti imperativi: decongestionare e reindirizzare i maggiori flussi di traffico e aumentare le aree e le infrastrutture verdi attraverso un recupero di suoli ex industriali e manifatturieri. Il compito fu agevolato dal contesto sociale e politico post franchismo e dalle associazioni che ne riconobbero uno spirito progressista capace di arrestare il processo di degenerazione urbana della città, andando a regolare la densità e stabilendo criteri di uso del suolo mirati alla grande dotazione di spazi e servizi pubblici. Alla redazione del PGM lavorarono giovani professionisti i quali, fuori da quelle che erano le dinamiche di palazzo, vennero considerati come dei “tecnici infiltrati”. Questi si dotarono della collaborazione di associazioni e architetti esterni all’amministrazione, suscitando il nervosismo di Samaranch presidente della Diputació, ovvero il consiglio provinciale della città, il quale lo definì un “piano socialista”. Dopo Masò, ci fu la breve esperienza di Joaquin Viola, avvenuta in concomitanza con la morte di Franco, caratterizzata dalla forte opposizione delle associazioni di quartiere in quanto, pur dopo la morte del dittatore, rivedevano in lui una figura appartenente al vecchio regime. Costretto a rassegnare le proprie dimissioni sull’onda delle manifestazioni per l’autonomia della Catalogna, due anni dopo restò vittima di un attentato mortale compiuto da Carlos Sastre Benlliure, un estremista riconducibile al gruppo terroristico catalano Exèrcit Popular Català. Re Juan Carlos nel 1976 nominò sindaco José María Socías, figura lontana dal franchismo che in seguito al suo mandato venne considerato “l’architetto della transizione a Barcellona” come merito per la sua gestione. Realizzò una versione aggiornata del catalogo del patrimonio, riposizionando per tutta la città i monumenti catalanisti rimasti per tutta la durata del regime sepolti nei magazzini; riabilitò il carnevale e le feste di strade, realizzando operazioni di alto valore sociale, guadagnandosi l’affetto

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dei barcellonesi, nonostante la sua elezione non avvenne democraticamente.

Diada nacional de Catalunya, 1977

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Nel 1977, successivamente all’approvazione del PMG, Socías pose potentemente al centro del dibattito il ritardo rispetto al resto dell’Europa, delle politiche di conservazione e rivalorizzazione della città storica, evidenziando come non fosse mai esistito un approccio alla Ciutat Vella inteso come fatto urbano indipendentemente dalla sua monumentalità, focalizzando la propria attenzione sulle dotazioni e sul coordinamento delle risorse finanziarie e professionali. Alla fine degli anni Settanta a Barcellona era ancora fortemente marcata la grande frammentazione sociale ed architettonica fra la Ciutat Vella ed il resto della città. Bohigas parlava di “deficit della forma” evidenziando una città maltrattata e priva dell’adeguata rappresentatività civica. Analizzando i numeri di quegli anni ci si poteva rendere conto dell’arretratezza della città catalana: circa il 4% delle residenze non aveva un allaccio alla rete elettrica; l’85% non aveva acqua corrente e il 45% era sprovvisto di fornitura del gas. La densità abitativa era altissima, nel Raval dove vivevano più di 50.000 abitanti si stabilì una media di 2,9 ab/stanza dove oltre il 60% degli appartamenti non raggiungeva i 60 m². Quasi il 70% delle abitazioni non era dotata di propri servizi igienici, usufruendo di spazi comuni, mentre un 5% non poteva usufruire neanche di quest’ultimi, in particolare il problema maggiore si verificò anche in questo caso nell’area del Raval dove la percentuale arrivo a sfiorare il 30%. In città era più facile ritrovarsi in luoghi malsani dediti alla prostituzione e allo spaccio, piuttosto che imbattersi in un parco pubblico con bambini. Mancavano zone d’interesse e centri commerciali, non c’era illuminazione sufficiente, il sistema fognario era obsoleto provocando spesso il rigetto di liquami per le strade, le periferie così come riscontrabile anche in campo europeo erano quartieri dormitorio privi di carattere e identità, al quale si aggiungevano le numerose baraccopoli sparse ai margini della capitale catalana. Il problema su come risolvere la questione legata alla Ciutat Vella si tramutò in un dibattito che fece emergere da un lato l’interesse antropologico legato alle

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questioni sociali dell’area, dall’altro un generale disprezzo da parte della Barcellona moderna. Nel 1978 il referendum nazionale porto alla ratifica della nuova Costituzione spagnola la quale finalmente concedeva la possibilità di celebrare libere elezioni per tutti i livelli della Pubblica Amministrazione. Al Governo dopo le lezioni del primo marzo 1979 fu data continuità all’UDC di Adolfo Suárez. In Catalogna ad un mese di distanza si affermò il PSC (Partit dels Socialistes Catalans), associati ai socialisti nazionali del PSOE. A Barcellona Socías, prima delle elezioni rassegnò le proprie dimissioni convinto che il suo operato fosse meritevole di considerazione da parte di qualche partito per presentarlo come candidato. Nonostante la sua amministrazione fu apprezzata, nessuno dei partiti volle candidarlo per non creare una scomoda continuità con il precedente regime. Alle elezioni vinse con margine il PSC e venne nominato sindaco Narcís Serra, uno dei fondatori del partito. La giunta Serra si distinse per la presenza di sette membri provenienti dalle associazioni che ne segnarono l’inizio di una progressiva perdita di combattività, una volta responsabilizzate con ruoli amministrativi. La vittoria alle elezioni della coalizione socialista fu il punto di partenza per Barcellona della costante ricerca di indipendenza politica, culturale ed economica dalla Spagna. L’amministrazione Serra fu caratterizzata nel suo primo periodo dal Pla de Emergència dei primi centottanta giorni, nell’impresa di ripianare le casse del comune e riorganizzarne la struttura, che portava ancora i segni della sanguinosa gestione Porcioles. Così come Socías, anche Serra s’impegno in iniziative simboliche come il programma di nomenclatura democratica delle strade e sull’annosa questione urbana che a fronte delle tante parole spese nel corso dei decenni non era mai stata affrontata in maniera operativa. Serra trovo in questa sua impresa il supporto di Bohigas che negli anni precedenti aveva teorizzato idee condivise dall’attuale sindaco. Bohigas fino a quel momento impegnato oltre che nel suo MBM studio anche come direttore

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della Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Barcellona, accettò nell’1980 il ruolo di Soprintendente dei Servizi di Urbanistica con l’ambizione di trasformare radicalmente l’aspetto della città, rendendola la metropoli mediterranea di riferimento auspicata dal partito che intendeva “restituire la città ai cittadini”. Bohigas accettò anche con la speranza di un’ipotetica candidatura e conseguente vittoria della città ai giochi olimpici del 1992, proposta al sindaco Serra pochi mesi prima dell’incarico da Samaranch, che nel frattempo aveva lasciato il consiglio provinciale. La candidatura divenne nel 1981 ufficialmente presentata al CIO grazie al coinvolgimento diretto del re Juan Carlos. Il compito di fornire di una soluzione al degrado e alla scarsa dotazione di servizi in una città che aveva raggiunto i 100 km² di estensione fu reso ancora più difficile dalle insufficienti risorse economiche del comune e dai mancati investimenti provenienti dal settore privato. La soluzione percorsa fu quella di intervenire e riprogettare quelle aree lasciate libere dalla speculazione degli anni precedenti come strade e piazze intese come sede di molteplici attività, con interventi puntuali, all’interno di piani di rigenerazione urbana ben più ampi. Bohigas abbandonò i metodi di pianificazione tradizionali assumendo un atteggiamento multiscalare: da un lato l’attenzione al dettaglio, alla microscala, dall’altro la leggibilità dell’agglomerato urbano, consapevole che in quel momento era più importante creare forma urbana che dettare funzioni: “è l’indispensabile intervenire nell’ambito fisico per lo sviluppo moderno di una coerente comunità”. Il primo periodo di lavoro all’Ajuntament di Bohigas fu dedicato alla riorganizzazione degli uffici comunali, i quali videro sia l’inserimento di giovani architetti, sia l’apertura dell’Oficina Municipal de Projectes Urban, gestita da Josep Acebillo, figura vicina a Bohigas che rivestirà un ruolo importante nella progettazione e direzione di interventi infrastrutturali, monumentali e urbani anche nell’occasione dei giochi Olimpici e del Forum Universale delle Culture del 2004. Operativamente,

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vista la necessità di raggiungere degli obiettivi nel breve termine per non minare la nascente amministrazione, piuttosto che elaborare una lunga revisione del PGM, si definirono rapidamente mediante i PERI, una serie di progetti che rappresentassero delle soluzioni per le esigenze contemporanee.

I Peri, “piani speciali di recupero interno”, riguardavano la realizzazione di interventi isolati o integrati sul suolo urbano, finalizzati alla ristrutturazione dei quartieri degradati, attraverso opere come la realizzazione di attrezzature, servizi comuni e miglioramenti a livello estetico ed ambientale. In concomitanza con le elezioni del 1979, venne presentato un piano in alternativa al PMG ad opera dell’Associació de Veïns del Casc Antic AVCA denominato Pla Popular che rifiutava l’idea ancora presente nel PMG dello sventramento della Ciutat Vella, ma allo stesso tempo anche la totale conservazione del distretto, come volevano i patrimonialisti, a causa della situazione socio edilizia ormai degenerata. Il piano prevedeva nei suoi punti salienti, una dotazione di servizi, la rigenerazione dei suoli, la pedonalizzazione di strade e piazze e il recupero del Mercato del Born chiuso nel 1971. Il piano portava in sé molte contraddizioni che lo avvicinavano molto alle pratiche attuate durante il porciolismo, tuttavia l’amministrazione ne discusse e decise di adottarlo e sottoporlo alla consultazione pubblica, fino a quando nel 1983 divenne ufficialmente il PERI del Casc Antic guidato da Ricard Fayós e supportato dal contributo dell’associazione. Ci furono invece, tante difficoltà nella redazione del PERI del Raval; il progetto risultò essere un prodotto frutto di uno studio approfondito non solo sulla questione morfologica ma anche demografica e di conseguenza sociale del Raval. Al PERI venne integrato il piano dal Liceu al Seminari di Lluís Clotet e Óscar Tusquets, un progetto di piccoli interventi che permettevano di sfruttare le aree non costruite, o di abbattere quelle insalubri, per creare, nel rispetto della trama e della scala urbana, nuovi spazi pubblici donando così, nuova vita al quartiere del Raval. Nel tentativo di alleggerire la

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mole di incarichi destinati agli uffici comunali, parallelamente alla redazione del PERI per l’aria orientale, venne incaricato Manuel de Solà Morales di redigere il piano per il recupero della Barceloneta, altro quartiere della città che giaceva in pessime condizioni, nell’area a ridosso della costa venne anche inaugurata la spiaggia della Marbella. Nei primi anni Ottanta, con l’avvicinarsi dei mondiali di calcio del 1982 furono costruite o riconfigurate circa 140 aree fra strade, piazze e giardini grazie anche al decreto della Generalitat che incentivò gli investimenti sul tessuto storico. Alla fine del 1981 venne aperta piazza de La Mercè, il nuovo viale marittimo del Moll de la Fusta configurando una nuova tipologia di rapporto con il mare alla città, fu valorizzato il museo Picasso il quale assunse l’attuale denominazione vedendo anche un progetto di valorizzazione in chiave culturale degli edifici adibiti per l’esposizione. Un intervento importante fu quello di Plaza Reial edificata sulle macerie dell’ex convento dei cappuccini dopo la rivolta del 1935. L’area divenuta nel tempo luogo di spaccio e prostituzione si trasformò in una piazza monumentale, ispirata a quelle del quartiere Gracia dando origine al concetto urbanistico di “piazza dura”, ovvero piazze costruite con materiale duro, come il cemento, e che prevedevano pochi arredi urbani, funzionali al riposo o alle relazioni sociali. Purtroppo per Serra, la piazza verrà inaugurata solo nel 1983, quando il ruolo di alcalde sarebbe stato ricoperto da Pasqual Maragall. Il 1982 vide infatti, oltre ai mondiali di calcio, l’affermazione a livello nazionale del PSOE con il 48% di voti e l’elezione a presidente del governo di Felipe Gonzalez che, impressionato dal biennio di Serra come Alcalde di Barcellona, lo nominò ministro della difesa. Maragall vicesindaco ereditò la guida della giunta fino alla fine del mandato. Già membro della Convergenza socialista della Catalogna e successivamente del Partito dei socialisti della Catalogna, alla sua elezione come sindaco, la visione rigeneratrice di Serra divenne più ambiziosa, proponendo una prospettiva internazionale della città, più alta rispetto alle

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aspettative del cittadino medio barcellonese e soprattutto ben oltre le ideologie politiche, affermando a difesa del proprio programma di interventi urbani: “tutto ciò forse ha poco a che vedere con l’ideologia, con la destra o la sinistra, però certamente ha a che vedere con la volontà di migliorare la città “.

Plaza Reial, fine anni ‘70

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1983 – 1992 MARAGALL VERSO LE OLIMPIADI Nella grande visione di Maragall, Barcellona non si limitava a risanare i deficit infrastrutturali ma, sfruttando l’occasione delle Olimpiadi ambiva a diventare, più che la capitale e centro logistico di una rete di sistemi della Catalogna come auspicato dal presidente della Generalitat Jordi Pujol, una grande metropoli mediterranea sede di rapporti e scambi con l’Europa meridionale il Medio Oriente e il Nord America. In questo scenario, l’architettura nel suo lungo periodo di gestione, ricoprirà un ruolo fondamentale. La riaffermazione del PSC a Barcellona nell’1983 fu supportata anche dalla mostra “Qui és Barcelona?” tenuta nell’ex mercato del Born, dove vennero esposti progetti e plastici di intere parti della città. La mostra segnò il crescente interesse da parte di un numero altissimo di persone verso iniziative culturali e comunicative, incentrate prevalentemente sulla trasformazione della città tanto che, l’Ajuntament pubblicò un catalogo chiamato “Plans i Projectes per a Barcelona 1981-82” che non solo contribuì in maniera positiva alle imminenti elezioni, ma diede origine ad una serie di pubblicazioni che portarono alla ribalta l’amministrazione pubblica anche nel campo dell’editoria internazionale. Nel 1984 ci fu una svolta fondamentale nella gestione dei barri della città grazie alla suddivisione amministrativa in dieci Distretti, costituendo così un decentramento burocratico che vide assegnare la gestione di ognuno di questi a persone di riferimento al fine di perseguire facilitare il processo di omogeneizzazione di dotazioni e servizi. Maragall per lo spinoso distretto della Ciutat Vella con un gesto altamente simbolico ma non solo, nominò Regidor President de Districte il vicesindaco Cernuda.

Pochi mesi dopo, Bohigas lasciò la carica di delegato assumendo quella di Assessore all’urbanistica del sindaco, continuando così, anche se privo di competenze decisionali, a dettare i fondamenti della visione urbanistica che stava ormai già maturando i primi 133

risultati. Come figura amministrativa, Bohigas fu rimpiazzato da Joan Busquets, nominato Director de Serveis d’Urbanisme.

Sempre nello stesso anno, iniziarono le discussioni in merito all’istituzione e gestione delle Área de Rehabilitación Integral ARI, ovvero aree soggette alla riqualificazione di abitazioni, spazio pubblico e miglioramento complessivo delle condizioni sociali tramite operazioni correlate a queste. Le ARI nacquero per ovviare alle difficoltà economiche legate ai finanziamenti dei progetti. Queste erano amministrate da una Commissió Gestora di cui facevano parte Comune, Generalitat, Camera di Commercio e Associazioni di vicinato, dove ognuna delle parti svolgeva un ruolo specifico grazie alla ripartizione delle competenze tra piano, progetto e gestione. L’ARI si poneva come un dispositivo in grado di coinvolgere interventi dei privati sia in forma di piccoli singoli individui che grandi soggetti finanziari, in una logica di grande flessibilità che permetteva accordi e coordinamento di programmi e operazioni. Dopo meno di un anno la Generalitat guidata da Pujol, nel tentativo di fermare l’ascesa incontrastata di Maragall, abolì la Corporació Metropolitana de Barcelona approvando la nuova legge sulla pianificazione territoriale, assumendo il controllo dell’Entitat Metropolitana del Transport, dell’Entitat Metropolitana del Medi Ambient e della comunità dei Municipis de l’Àrea Metropolitana. Maragall nonostante questo tentativo di cesura, poteva contare su una sempre più crescente forza politica che, con l’ingresso nella Comunità Economica Europea del PSOE vedeva l’inizio della decade Socialista. Nel 1986, dopo due anni di definizione, la Ciutat Vella divenne, il primo distretto dichiarato ufficialmente Área de Rehabilitación Integral, supportato da un’importante operazione di comunicazione fine a diffondere la politica urbanistica municipale. Venne infatti pubblicato nel 1985 la rivista municipale “BMM Barcelona Metropòlis Mediterranea”. Nell’ARI della Ciutad Vella ricaddero i PERI del Raval, Barceloneta e Casc Antic. Vennero identificate cinque aree di attuazione preferenziale: Caritat, Sant Pau, Plaza

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Reial, Casc Antic e Barceloneta, mentre per il Bari Gotic non fu realizzato uno specifico PERI, e dunque per questo, gli interventi preventivati si sarebbero riferiti alle indicazioni del PMG. Venne istituita l’Oficina de Rehabilitació de la Ciutat Vella, la quale finanziava i privati con fondi pubblici destinati agli interventi di riqualificazione degli edifici ricadenti nell’area ARI. Questa, diretta emanazione di un dispositivo legale dello stato, sembrava essere l’unico mezzo capace di garantire un’efficace gestione del controverso tema della Ciutat Vella. Poche settimane dopo la dichiarazione di ARI, La Vanguardia pubblicava un fascicolo speciale “Nueva vida para la Ciutat Vella”, i cui articoli elencava uno ad uno tutti i principi che l’ARI avrebbe applicato per concretizzare i vari PERI. In questi lavori furono raccolti una serie di progetti già precedentemente formulati e rientranti nel PMG i quali, pur prevedendo una predisposizione morfologica e funzionale, lasciavano la possibilità di essere integrati. I progetti urbani rappresentavano una soluzione efficace dei problemi legati ai fondi per finanziare le trasformazioni; posti a metà strada tra un piano e un progetto, e quindi capaci di avere un impatto maggiore rispetto ad un intervento puntuale, andavano ad incidere sui grandi vuoti urbani e sulle ex aree industriali. In questi, il tema dello spazio pubblico risultò avere un ruolo privilegiato grazie alla sua capacità di “fare città”: piazze, strade, giardini, parchi, definirono quella che Bohigas chiamava la “nueva Urbanidad”, ovvero la capacità di un luogo di essere rappresentativo, di avere personalità, dove “la città è essenzialmente il suo spazio pubblico a condizione che sia uno spazio leggibile”. Bohigas applicò la teoria delle “metastasi”, ricavando spazio pubblico con interventi specifici in zone altamente densificate, riempiendo spazi lasciati vuoti dall’Eixample o abbattendo edifici degradati qual ora ce ne fosse l’opportunità. Il rapporto tra spazio libero e spazio edificato era fine ad incidere sulla qualità dei luoghi all’interno della città, per restituire un significato specifico ad ognuno di questi. Vennero individuati più di 160 punti da riprogettare: la considerevole

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mole venne smaltita assegnando, tramite concorsi, i progetti direttamente ad architetti esterni all’amministrazione. In questo periodo segnato da grandi trasformazioni, il ruolo svolto dell’architettura fu motivo di grande dibattito fra chi vedeva Barcellona privata della propria “innocenza urbana” e da chi invece cavalcava l’onda per appropriarsi di quello sviluppo negato nei secoli addietro. Di rilievo fu il dibattito maturato su due importanti testi, da un lato “Reconstrucció de Barcelona” di Bohigas che sosteneva la tesi che la ricostruzione della città fosse indispensabile per favorire la vita, l’iniziativa dei cittadini e il senso di appartenenza dove, l’architettura in questo processo rivestiva un ruolo formale, linguistico, capace di affermare fisicamente e ideologicamente l’identità di Barcellona; dall’altro Pere López Sánchez attribuiva alle trasformazioni di Maragall una continuità con il Porciolismo. Il 1986 si contraddistinse soprattutto per l’assegnazione nel mese di ottobre dei giochi Olimpici del 1992. L’assegnazione fu accompagnata dalla nascita dell’” Institut Municipal per a la Promoció Urbanìstica i els Jocs Olìmpics”, concepito per la gestione dei cantieri e controllato direttamente da Acebillo, ma anche dalla creazione di diverse società per azioni, di cui la più conosciuta fu la Vila Olìmpica S.A. a capitale interamente pubblico, ed altre società di capitale misto ma sempre a maggioranza pubblico. In questo scenario si originò la locuzione “Modello Barcellona”, inteso come schema di gestione finanziaria capace di portare a termine i progetti in tempi prestabiliti e rientrare dagli investimenti in un arco di tempo sostenibile. Innegabile fu la relazione intercorsa tra l’Ajuntament e i privati, fondamentale secondo Maragall per la realizzazione delle opere olimpiche. Il ruolo svolto dai privati come già detto avvicinò molto la figura dell’Alcalde a quella di Porcioles, ed in molti erano curiosi di capire questo coinvolgimento di privati quali speculazioni avrebbe generato. L’ambizione di Maragall superò anche quella di Samaranch che non mancò di esprimere tutti i suoi dubbi riguardo determinate operazioni che andavano oltre quelle

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prospettate dal CIO, sfociando in iniziative extra sportive. Con l’assegnazione dei giochi e l’arrivo in città delle archistar si realizzò la visione maragallista che vedeva l’architettura come fenomenologia esterna del governo municipale. Tanti architetti di rilievo internazionale si ritrovarono a progettare architetture per i giochi olimpici, affiancati da altri talenti spagnoli.

Maragall verso la fine degli anni ‘80 con la mascotte dei giochi Kobi

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Il grande impegno architettonico, contraddistinto da tante firme importanti fu il periodo di maggior numero di cantieri in città, e che diede origine a quella che Bohigas definì “nuova architettura catalana”, risultato di anni di impegno civico ed intellettuale. All’accezione finanziaria del Modello Barcellona si sovrappose quella di buona prassi urbana. Maragall negli anni a seguire, fino all’inaugurazione dei giochi non mancherà occasione di citare il Modello per sintetizzare la poliedrica natura del suo programma politico, sfruttando la potenzialità comunicativa insita nell’ambiguità dell’espressione stessa di “Modelo Barcelona”. Barcellona dunque, divenne una tappa ambita dai più importanti progettisti spagnoli e non solo, che vedevano la città come un palcoscenico ideale per essere sia attori che spettatori di un eccezionale spettacolo che prendeva forma. Richard Meier vincitore due anni prima del Premio Pritzker avrebbe realizzato un museo ex-novo di arte contemporanea, il MACBA. La scelta progettuale dell’americano Meier, diametralmente opposta rispetto alle pratiche svolte dagli architetti locali, sancì l’ingresso nella scena barcellonese della prima archistar, accompagnato da un numero cospicuo di deroghe che allontanarono la figura dell’architetto dalla dimensione politica che aveva ricoperto nel primo decennio post regime. Nello stesso anno, il Padiglione Mies van der Rohe, primo e splendido esempio di architettura razionalista costruito per rappresentare la Germania all’Esposizione Universale del 1929 e demolito alla fine della manifestazione, venne fedelmente ricostruito quasi nello stesso luogo, nel quartiere Montjuic.

Se il 1986 si era contraddistinto da tanti annunci importanti e dall’inizio di numerosi cantieri, il 1987 pur nascendo sotto buoni auspici per l’amministrazione che si preparava ad affrontare le elezioni del mese di giugno, fu segnato dallo spinoso caso del distretto della Ciutat Vella, che a differenza di tutto il resto della città, faticava a cambiare marcia ed inserirsi nel percorso intrapreso dagli altri distretti. Nel mese di gennaio fu inaugurato il passeggio marittimo di Moll de la Fusta, mentre il progetto di

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Meier cominciava a prendere forma, così come procedevano i cantieri iniziati l’anno precedente per la realizzazione del porto e del villaggio olimpico ne distretto di Poble Nou. In primavera Joan Busquets, nel frattempo passato da Director de Serveis d’Urbanisme a capo dell’Àrea d’Urbanisme i Obres Públiques, curò la mostra “Urbanisme a Barcelona, Plans Cap ‘92”, allestita nella sede del COAC e naturale seguito di quella tenutasi 4 anni prima nel mercato del Born. In quell’occasione, Maragall in vista delle prossime elezioni non mancò di proclamare nuovamente i suoi obiettivi e diffondere la sua visione di Barcellona capitale mediterranea, riponendo tutta la sua fiducia nella politica urbanistica, strumento capace di realizzare l’ambizioso programma: “Barcellona si è posta come obiettivo l’anno 1992, da raggiungere in condizioni degne della sua importanza, della sua volontà di capitale mediterranea, della sua realtà di capitale della Catalogna, del suo carattere di cerniera tra la Spagna e l’Europa. Uno dei principali mezzi di cui il Governo della Città dispone per raggiungere tale obiettivo risiede nella politica urbanistica”.

La propaganda per il programma Olimpico e per le elezioni venne però duramente repressa da diverse inchieste giornalistiche che tra febbraio e marzo, evidenziavano la fame e la criminalità del Raval, due aspetti che dopo decenni di proclami continuavano a non essere estirpati dalla Ciutat Vella, ritornando così potentemente alla ribalta, in netta contraddizione con il cammino olimpionico. L’Ajuntament nel maggio seguente costituì la Commissió Gestora dell’ARI allo scopo di coordinare gli agenti coinvolti in materia urbanistica e assicurare la partecipazione della comunità riguardo gli obiettivi sociali. Il compito più arduo della commissione fu quello di intervenire su 4200 appartamenti e demolire circa 400 immobili, coinvolgendo circa 3000 nuclei familiari al fine di dare una svolta alla bassa rendita dell’area, identificata come il generatore di tutti i mali.

Nel mese di giugno si tennero le elezioni, precedute da una serie

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di comizi dove la trasformazione della Ciutat Vella risultò essere un punto centrale sia per Maragall sia per il candidato del CiU Josep Maria Cullell. Le elezioni videro la riaffermazione del PSC con il 43% dei voti, con una percentuale nel distretto della Ciutat Vella pari al 65% degli aventi diritto; risultato mai raggiunto nelle precedenti elezioni. Per l’amministrazione del distretto storico della città venne nominato Regidor de Districte Joan Clos, già responsabile dell’area di Salut Pública dell’Ajuntament. Sulla scia delle elezioni appena vinte e dell’irreversibile trasformazione in chiave contemporanea della città, venne allestita la mostra Barcelona “Espais i Escultures”, con in copertina l’Alba di Georg Kolbe, scultura realizzata per il padiglione di Mies, riposizionato pochi mesi prima. Contemporaneamente, iniziarono le demolizioni per “l’allestimento” del villaggio olimpico nelle vecchie zone industriale del Poble Nou. Si cominciò ad operare anche sulle periferie con la realizzazione del Ponte Bac de Roda, inaugurato il 27 settembre del 1987 dallo stesso Maragall insieme all’architetto progettista Santiago Calatrava. Il ponte collegava i quartieri di Sant Andreu e Sant Martí, risolvendo così l’emergenza della baraccopoli la Perona, sviluppatasi negli anni lungo i binari della ferrovia. Nel 1988 invece, venne portato a termine sulla collina del Montjuic il progetto della Fundació Miró, iniziato nel 1972 su disegno di Josep Lluís Sert, una delle architetture realizzata per ospitare la collezione di opere lasciata dall’artista catalano Juan Miró, scomparso nel 1983. Appena eletto Regidor della Ciutat Vella, Clos optò per una nuova politica comunicativa, dichiarando apertamente lo stato di degrado del distretto, imputando la colpa allo scarso riconoscimento che i cittadini nutrivano nei confronti del proprio centro storico, impedendone la valorizzazione e la crescita economica: “per migliorare la sicurezza non è sufficiente la presenza della polizia, ma occorre realizzare azioni positive sulla popolazione, come accelerare la riforma urbanistica, migliorare la dotazione di servizi e, soprattutto, riuscire a fare in modo che i barcellonesi non 140

abbandonino Ciutat Vella, che vengano qua a fare compere e a passeggiare”.

Venne approvato il Pla Quadrienal 1987-1991 dove, in ogni rapporto e studio venivano ricordati i momenti salienti della storia urbana della città, analizzando con schemi e statistiche le cause del degrado e le finalità di recupero integrale. Il piano prevedeva 25 interventi prioritari e 238 localizzazioni specifiche distribuite sulle cinque aree principali. Le guerriglie tra le gang per il controllo di droga e prostituzione che animavano il distretto, disegnavano uno scenario sociale drammatico e di conseguenza una situazione economica altrettanto tragica.

L’impresa che si profilava essere titanica a cui si aggiungevano le diatribe con la Generalitat in merito ai finanziamenti, spinse Maragall e Clos a ricercare un’alternativa che trovarono seguendo il modello delle aziende olimpiche. Nacque nell’estate del 1988 la Promoció Ciutat Vella S.A., la PROCIVESA, una società che avrebbe reso i processi decisionali più agili grazie alla possibilità di operare liberamente sul mercato nella compravendita di suoli e edifici. Questa doveva alleggerire l’ARI dalle competenze di gestione urbanistica come espropri, esecuzione degli sfratti di persone e attività, riallocazione nei nuovi edifici, demolizioni e preparazione dei terreni sgomberati.

Il comune deteneva il 53% della quota costitutiva, mentre la restante parte era divisa tra banche ed altre società private. La PROCIVESA era strutturata inizialmente in tre aree funzionali: Gestió Urbanística, dipartimento di Obra Pública e l’area di Promoció i Comunicaciò a cui si aggiunsero successivamente il dipartimento di Habitage e l’area di Actuacions Immobiliàries.

L’anno seguente, nel 1989 in accordo con la Commissió Gestora si costituì la Oficina de Rehabilitació de Ciutat Vella ORCV, dedicata allo sviluppo di promozione, gestione e controllo della riabilitazione privata, dotata di autonomie finanziarie proprie.

La nascita della PROCIVESA segnò un cambio di filosofia urbana, divenuta da quel momento meno incline a riconoscere una supremazia allo spazio pubblico e all’intervento rigeneratore e 141

più propensa a adottare soluzioni di sistema ad ampio raggio.

Quel periodo vide l’uscita di scena di Joan Busquets, sostituito da Rafael de Cáceres ed in contemporaneo completamento delle demolizioni al Poble Nou per la costruzione del villaggio Olimpico e della passeggiata sul lungomare. La realizzazione del villaggio e del porto Olimpico andarono a sostituire la vecchia ferrovia, creando un nuovo rapporto con il waterfront, mai direttamente entrato nelle politiche di trasformazione della città fin dal Pla Cerdà. Il villaggio fu realizzato per ospitare gli atleti della manifestazione, mentre il porto Olimpico, con la sua Platja de la Mar Bella, posta tra le spiagge della Barceloneta e della Nova Icària, un quartiere residenziale per ceti abbienti, a due passi dal mare brutalmente raso al suolo per far spazio al luogo destinato allo svago e alla ristorazione, considerato vero fiore all’occhiello per la “nuova Barcelona”. Per l’occasione fu realizzato insieme alle due torri del porto: la Torre Mapfre e l’Hotel Arts, il Pesce Dorato di Frank Gehry, un’istallazione di 56 metri di lunghezza e 35 di altezza, diventata icona dell’intera area. Storicamente il quartiere Poble Nou, abitato dalla classe proletaria, in seguito alla trasformazione del quartiere fine ad ospitare gli atleti stranieri in occasione dei giochi, avrebbe integrato una nuova classe media che avrebbe contribuito alla riconversione economica del quartiere con l’apertura di attività e negozi in loco. Il nuovo complesso residenziale della “nova Icaria” non doveva essere soggetto a una rigida zonizzazione, ma integrare un sistema funzionale, misto, completo di spazi pubblici e di vie adibite allo shopping nonché gli uffici. Alcuni suoli dovettero essere ceduti ai privati in cambio di ulteriori finanziamenti come nel caso della realizzazione delle due torri. Purtroppo, l’ambizione del progetto ad opera dello studio MBM di rendere il Poble Nou una zona polifunzionale ed economicamente dinamica per i suoi abitanti non si concretizzò a causa dell’alto prezzo delle abitazioni stabilito dopo i giochi, i quali allontanarono i barcellonesi dall’acquisto, lasciando queste in mano a società straniere. Non essendovi state realizzate zone

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di musei o luoghi di interesse per un turismo diverso da quello balneare con il casinò e discoteche, dopo le olimpiadi e fino al progetto del @22 degli anni duemila, il quartiere fu di carattere esclusivamente residenziale.

Le Torri olimpiche e il golden fish del porto Olimpico

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Il tema della tutela del patrimonio in questo periodo fu arricchito da un corposo volume del Catàleg dei patrimoni arquitectònic històric i artístic de Barcelona, presentato dal vicesindaco Jordi Parpel e da Josep Emil Hernàndez-Cros capo del Servei de Protecció del Patrimoni Monumental. La realizzazione del catalogo fu sollecitata negli anni da Bohigas allo scopo di trasmettere la trasparenza entro la quale il comune agiva. In questo scenario, la PROCIVESA si avviava ad iniziare il processo di trasformazione della Ciutat Vella: “non si discuteranno più i PERI. Si eseguiranno”. Così il Regidor Clos diede inizio a quel processo che promosse, non in termini di riabilitazione ma di trasformazione della città vecchia, futura immagine di tutta la città di Barcellona, responsabilizzando così i residenti.

PROCIVESA qui iniziò un percorso lungo tutti i suoi quindici anni di attività, promuovendo in ogni maniera possibile l’immagine del distretto: dalle pubblicazioni alle tavole rotonde, passando per spot promozionali e mostre tutte fini a stimolare la coscienza degli abitanti del distretto. Nel 1988 furono inaugurati molti luoghi destinati all’uso collettivo e non solo, come la nuova sede dell’Università Pompeu Fabra, l’istallazione sportiva de Frontò Colon, il centro d’arte Santa Mònica, L’Avinguda e la piazza del Portal de l’Àngel, la piazzetta de La Palla, i giardini di Sant Pau del Camp e la rimodellazione del Port Vell con la Rambla del Mar, il Mol d’Espanya, la Diagonal del Mar ed il centro commerciale Maremagnum. Questi lavori videro l’impegno di tanti architetti, come quello coordinato tra lo studio MBM, Puigdomenech e J. R. de Clascà, e quello di Piñón e Viaplana. Gli interventi furono caratterizzati da interessantissime soluzioni di progettazione del verde e di arredo urbano, apprezzabili soprattutto per l’originale disegno dell’illuminazione notturna, punteggiate da edifici polifunzionali soprattutto nel caso del Maremagnum, e dell’Aquarium completati nel 1995. I lavori per i giochi portarono alla modellazione di nuovi Landmark e alla creazione o ristrutturazione di infrastrutture sportive. Alle già citate torri del Poble Nou, si aggiunsero le torri delle telecomunicazioni di

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Collsera di Norman Foster e quella del Montjuic di Calatrava, nel parco olimpico dove venne ristrutturato anche lo stadio dallo studio Gregotti Associati e dal gruppo di architetti formato da Correa, Milà, Margarit e Buixadè, i quali riuscirono con un progetto ben studiato a rispettare l’impronta degli anni ‘20 originaria dell’impianto, pur apportando modifiche importanti. Arata Isozaki e Mamoru Kawaguchi, realizzarono il Palau Sant Jordi; un’architettura moderna capace di ospitare fino a 20.000 persone. Sulla collina del Montjuic, nell’edificio del Palau Nacional nacque il MNAC Museu Nacional d’art de Catalunya, dall’unione delle collezioni del Museu d’Art Modern e del Museu d’Art de Catalunya, già presenti dal 1934. Nel 1989, Clos chiese al consiglio Comunale l’elaborazione di un Pla D’Usos che regolasse numero, localizzazione e natura delle attività della Ciutad Vella. Con l’approvazione di questo furono chiuse numerose attività nella zona meridionale del Raval, che tuttavia non limitarono il commercio di droghe e prostituzione, spingendo così l’amministrazione a ricercare nuove soluzioni per estirpare questo lato malsano del quartiere.

Nel 1991 vi furono le elezioni municipali che videro, a poco più di un anno dai giochi la riconferma del PSC con il 42% dei voti. Clos diventò il vice di Maragall e responsabile economico municipale, mentre il ruolo di Regidor della Ciutat Vella passo a Xavier Casas. Il distretto storico durante la campagna elettorale non ebbe una centralità come nelle precedenti elezioni, grazie soprattutto all’ottimo operato di Clos. Lo stesso anno però vide massicci interventi di demolizione e sventramento in porzioni molto ampie in tutto il distretto della Ciutat Vella.

L’azione, da sempre vista come un male per la città, rinnegò anni e anni di proclami di una “riabilitazione rispettosa”. Furono abbattute decine di edifici (tra cui alcuni ralenti persino al XIV secolo), in netto contrasto con quanto stabilito dal PERI del 1985. Le demolizioni non ebbero un risultato visibile in poche settimane al contrario delle numerose operazioni puntuali protagoniste della trasformazione della città viste fino a quel

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momento. Il danno di immagine della PROCIVESA era dietro l’angolo, ma quando il gestore della società, Francesc Compta risultò indagato dalla magistratura per la compravendita di un immobile, questo divenne effettivo. Anche se la società fu scagionata dalle accuse, i residenti si sentirono truffati, raggirati da tante parole e iniziative fino a quel momento comunque di rilievo, finendo per credere che il piano olimpico fosse un modo per l’amministrazione democratica di speculare sulla pelle del centro storico. L’Ajuntament dal post-porciolismo in poi aveva dimostrato ampia capacità progettuale, cavalcando l’onda della candidatura alle Olimpiadi e guadagnando consensi per le innumerevoli operazioni compiute nei precedenti 15 anni, ma in quel frangente, poco prima dei giochi Olimpici uscirono a galla dei malcontenti che mai un governo democraticamente eletto avrebbe immaginato di affrontare al momento della caduta del franchismo. Tra il 25 luglio e il 9 agosto del 1992 ebbero luogo le Olimpiadi che consacrarono la vittoria di un lungo percorso di trasformazione della città, che aveva saputo sfruttare l’occasione per cambiare radicalmente il proprio aspetto, affermandosi come una grande metropoli, dove l’architettura fu protagonista quanto le stesse Olimpiadi.

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1993 – 2004 DAI GIOCHI OLIMPICI AL FORUM Poco dopo, l’amministrazione cominciò ad essere accusata dalle associazioni, che tanto avevano portato alla causa democratica negli anni, di essere relegate a semplici spettatori senza alcuna possibilità di intervenire nel corso dell’elaborazione dei progetti. Parallelamente ogni movimento di PROCIVESA veniva guardato con diffidenza tanto dai cittadini quanto dai mezzi di informazione che evidenziarono delle pratiche paragonabili per modalità a quelle risalenti all’epoca del Franchismo, dove ci si raggirava senza scrupoli la popolazione meno colta e meno ricca, offrendo indennizzi nettamente inferiori al valore dell’immobile.

Questo portò alla formazione di gruppi di residenti sempre più eterogenei a reclamare accordi più equi. Ciononostante, sulla scia del successo delle Olimpiadi, il progetto di trasformazione di Barcellona seguì il disegno che vedeva l’evento del 1992 solo come uno step del percorso stabilito con l’avvento della democrazia. Subito dopo i giochi, Maragall presentò il nuovo Pla Quadrienal 1992-1995, il quale rientrava nel più ampio Pla Estratègic Barcelona 2000, predisposto alla gestione a scala metropolitana dello sviluppo urbano. La questione legata al patrimonio storico continuava ad alimentare dibattiti tra chi era favorevole ad una ricostruzione prudente e chi invece optava per una ristrutturazione totale, discussioni che videro coinvolte figure di spicco come Antonì Gonzáles, il quale attaccò l’insensibilità culturale e l’ignoranza scientifica dei tecnici e dei politici nella tutela del patrimonio. Nel 1993 con la revisione del Catálog, in seguito alle disposizioni dell’appena varata legge di protezione del patrimonio culturale della Catalogna, che nonostante tutti gli impegno profuso, la tutela non prevaleva rispetto agli obiettivi che l’amministrazione si poneva. Bohigas sulle pagine di Barcelona Metròpoli Mediterránia in merito al crescente dibattito, che vide la nascita delle prime associazioni di vicinato espressamente dedicate alla difesa del patrimonio come VDBV Associació de Veïns en Defensa de la Barcelona 147

Vella, ricordava come le esigenze urbane venissero prima del patrimonio. Quest’affermazione di Bohigas segnò l’inversione della relazione tra azione progettuale e governo. Non era più l’architettura a fornire alla politica strategie di intervento sulla realtà, ma era la politica a fornire all’architettura opportunità per esprimersi creativamente. Queste discussioni nonostante l’attenzione non si tramutarono in restrizioni: il sentiero era tracciato e Barcellona intendeva seguirlo. Il 12 maggio dello stesso anno, ci fu il “Jueves Negro” che segnò l’inizio della recessione spagnola, provocando un aumento della disoccupazione dal 16 al 24% con un debito pubblico vicino al 68% del PIL e un disavanzo per tutte le amministrazioni pubbliche di oltre il 7% dello stesso prodotto interno lordo.

Le conseguenze a Barcellona furono un ridimensionamento dell’ufficio di Projectes Urban che portarono alle dimissioni del responsabile Rafael de Cáceres, lasciando Acebillo come l’unico e ultimo architetto di valore all’interno dell’Ajuntament. Il Budget di PROCIVESA fu dimezzato, portando ad un prolungamento delle stime previste per l’ultimazione dei cantieri ed a una richiesta di Fondi Strutturali Europei, che sarebbero stati erogati verso la fine del 1994 dopo l’adattamento dei progetti ai criteri d’indirizzo stipulati dalla Commissione Europea.

Nonostante il triennio caratterizzato da una profonda crisi, alle elezioni del 1993 il PSOE si confermò ancora una volta il partito di maggioranza in Spagna, anche se con un leggero margine sul Partito Popolare (PP). Nel 1995 la Spagna mostrò una ripresa portando la disoccupazione dal 24 al 20% ed una crescita del PIL al 2%. A Barcellona lo stesso anno si tennero le elezioni che videro il PSC dover formare una coalizione con ERC e ICV per confermare il margine sul CiU. Alla Generalitat invece, si confermò il CiU presieduto da Pujol, grazie anche all’astensione di PSC, PP e ERC. Le elezioni a tutti i livelli gerarchici della Spagna appurarono il pensiero di Maragall il quale da tempo sosteneva la precarietà dei partiti e delle ideologie politiche, che inevitabilmente in breve tempo avrebbe provocato delle

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fratture all’interno dello stesso sistema politico. Maragall con l’obiettivo di tenere sotto controllo l’evolversi della situazione e zittire tutte le voci che lo vedevano immischiato troppo in affari con i privati, con chiaro riferimento alle vicende della Ciutat Vella, ricorse alla strategia dei grandi eventi come espediente per catalizzare le energie di tutte le parti in causa e sedare i malumori e polemiche. L’obiettivo in questo caso non era tanto il grande evento come l’esperienza delle Olimpiadi o, tornando a ritroso nel tempo quelle dell’EXPO del 1888 e del 1929, ma l’opportunità di far crescere ulteriormente l’immagine della città e celebrare l’idea politica che aveva reso grande Barcellona.

In questo discorso l’Alcalde poteva usufruire dell’ausilio di un grande strumento come l’architettura, protagonista fino a quel momento dei successi della città e che, anche dopo i giochi continuava a riscuotere consensi dalla critica, la quale celebrava la nuova generazione di progettisti catalani guidati da Bohigas. Nel 1994 venne inaugurato un nuovo polo culturale nell’area nord del Raval, il Centre de Cultura Contemporània de Barcelona CCCB a firma di Helio Piñón e Albert Vilaplana, diventato in poco tempo il più attivo centro disciplinare con un susseguirsi di esposizioni incentrate su città e architettura.

L’anno successivo, nel 1995 tocco all’adiacente MACBA; il museo di Meier che non riuscì ad essere completato per le Olimpiadi, venendo così inaugurato il 28 aprile alla presenza del re di Spagna. Maragall in merito alla portata dell’opera di Meier dichiarò che il contributo dell’opera dell’architetto americano pur senza la collezione al proprio interno, portava con sé una dimensione sociale fondamentale per il Raval: l’impatto rigenerativo del nuovo sul vecchio, della creatività intellettuale sulla spontaneità “canalla”; dell’icona culturale capace di irradiarsi vittoriosa sull’emarginazione sociale. L’architettura ormai veniva vissuta come catalizzatrice di energie urbane.

Barcellona era diventata un grande laboratorio per le grandi firme dell’architettura mondiale. Il giornalista Llatzer Moix pubblicò un libro dal titolo “La Ciudad de los Arquitectos” in

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cui raccontò il percorso dall’avventura olimpica, attraverso rigenerazioni di parti intere di città e progettazione di nuove architetture, fino ad arrivare alla dimensione post Olimpiade, dove la capacità attrattiva di grandi firme aveva ribaltato il ruolo dell’architettura inteso come il valore urbano dell’edificio arrecato al territorio con il nome dell’autore dell’opera stessa.

Nel luglio 1996 si tenne la conferenza dell’Union International des Architectes, UIA Barcelona 96, che vide la partecipazione di oltre 10mila persona; affluenza che si tramutò in una grande lezione all’esterno del MACBA tenuta tra gli altri da Norman Foster, Peter Eisenman e Pierre Herzog alla presenza di Maragall.

MACBA, UIA Barcelona 96, 1996

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Maragall era convinto che il sedersi sugli allori dei tanti consensi ottenuti, avrebbe generato in poco tempo la fine della grande epoca. Dopo vari tentativi fini al ricercare un grande evento per alimentare nuovi stimoli, in seguito ad una conversazione con Federico Mayor Saragoza, direttore generale dell’UNESCO, si prospettò l’opportunità di ospitare una grande kermesse sul tema della cultura e dello sviluppo. Il Fòrum Universal de les Cultres 2004 diventò la grande occasione per completare l’ultima porzione di città ancora incompiuta, quella dell’area orientale nei pressi della foce del fiume Besòs, fino a quel momento sede delle centrali elettriche, dell’inceneritore e del depuratore. L’architettura, in questo evento sarebbe stata un perfetto elemento di cerniera tra cultura, tecnologia e società.

Il 23 novembre dello stesso anno, Maragall rassegnò le proprie dimissioni lasciando la carica al vicesindaco Joan Clos. Maragall con l’obiettivo di concorrere alla carica di presidente della Generalitat nel 1999, lasciò delle basi ideali nelle mani di Clos, non solo per la programmazione del Fòrum, ma anche per l’affermarsi dell’ex Regidor della Ciutat Vella come futuro candidato per il ruolo di Alcalde. Sul finire degli anni ’90, nonostante i tanti proclami e l’inesauribile motivazione di Maragall, i tempi erano mutati; Barcellona non poteva più appoggiarsi su quella spinta ideologica socialista che rese possibile il “modelo Barcelona”. Con il Fòrum e con Clos l’obiettivo doveva inevitabilmente mutare e virare su un altro scopo: quello di una città desiderabile, una città appetibile al mercato. Il programma di Clos prevedeva la preparazione di un nuovo strumento integrato di gestione metropolitana; l’ampliamento dell’aeroporto del Prat; il miglioramento della rete di trasporto pubblico con l’individuazione del tracciato dell’AVE nel suo transito per la città; la definizione di contenuti e quadro organizzativo del Fòrum del 2004. Una settimana dopo la nomina come Alcalde, Clos ricevette il sostegno politico per il Fòrum da parte della Generalitat, la quale però sottolineava, nei panni del presidente Pujol, la non

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partecipazione in termini finanziari. L’ambizioso programma di Clos come detto partiva su buoni propositi, agevolato dal sensazionale successo della città, confermato anche dall’apprezzamento dei cittadini che videro realizzate buona parte delle richieste avanzate nelle gestioni precedenti, oltre alla già citata risonanza mediatica che la qualità del modello era riuscita a generare, facendo guadagnare all’amministrazione l’approvazione internazionale. Nel disegno di Clos, l’iniziativa privata così come nella gestione Maragall avrebbe rivestito un ruolo fondamentale, ma a differenza del suo predecessore che fu paragonato a Porcioles, la credibilità urbanistica costituita in anni di pratiche per lo più coerenti, riconosciute e certificate da risultati e premi internazionali, arginarono possibili malumori delle associazioni. Nel 1999 si tennero le elezioni municipali che videro il PSC riproporre un’alleanza con ERC e ICV e vincere con il 45,19% con una crescita del 7% rispetto alle precedenti elezioni. Da Sindaco eletto la prima azione di Clos fu quella di costituire una nuova giunta che vide ancora una volta la presenza di Acebillo, accompagnato però dalla presenza di tre architetti vincitori del premio Mies Van Der Rohe: Oriol Bohigas, Dominique Perrault e Richard Rohers. Joaquim Español divenne il nuovo responsabile del Servei de Projectes Urban, mentre a Fuster, nel ruolo di Regidor della Ciutat Vella subentrò Katy Carreras, già parte dell’amministrazione Maragall nel periodo di preparazione alle olimpiadi ed ex responsabile delle relazioni pubbliche dello studio di Ricardo Bofill. Nel distretto della Ciutat Vella, Carreras dovette fronteggiare il grande fenomeno dell’immigrazione che nel corso del decennio passò dal 3,8% del 1991 al 21% del 2001 e che arriverà a toccare il 45,5% nel 2004. Un fenomeno nato dalla scarsa previsione dei fatti maturati in seguito alla dissoluzione dell’URSS e delle guerre nei Balcani. Così Ciutat Vella, nell’ultima parte del decennio si trasformò in un distretto dalle mille facce, evidenziando una forte differenza sociale all’interno dei propri quartieri: il Barrì Gòtic era divenuto il luogo dedito al turismo; il Born e la parte

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nord del Raval la casa di studenti ed artisti; il Raval Sud e Santa Caterina invece vedevano, in concomitanza con l’aumento delle comunità pachistane, magrebine e domenicane, il ritorno della microcriminalità, soprattutto ai danni dei turisti, localizzata prevalentemente nella zona della Rambla. Clos, sottovalutò il problema della criminalità, nonostante le ripetute avvisaglie della Regidora Carreras, illuso dai numeri positivi che vedevano calare il numero di attività illecite. La testardaggine di Clos secondo molti era tesa a nascondere l’incapacità di proporre un preciso disegno politico. L’ideologia socialista per molti era stata declassata per far spazio nuovamente a speculazioni edilizie che avrebbero riportato indietro la Ciutat Vella nel degrado di vent’anni prima. Nel Raval molte associazioni iniziarono a chiedere una revisione del PERI, accusato di non rispondere alle mutate esigenze dei residenti. Dall’altro lato,

Rissa nei vicoli del Raval con coinvolgimento di comunità straniere

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l’amministrazione rifiutava qualsiasi discussione con le associazioni, sostenendo che il PERI essendo stato pensato, discusso e approvato insieme ai residenti non poteva ritornare ad essere tema di discussione quando le priorità erano altre.

Successivamente vennero effettuati alcuni rilievi, i quali appurarono le pessime condizioni in cui riversavano molti edifici realizzati tra il 1988 e 1996, si cominciò quindi ad insinuare che l’amministrazione avrebbe volontariamente programmato l’obsolescenza di questi edifici, nel tentativo di espellere la popolazione originaria per innescare un sistema che avrebbe portato alla realizzazione di edifici di pregio appetibili da nuovi e più facoltosi gruppi. La stessa Ajuntament riconobbe la scarsa qualità di determinate architetture realizzate in particolare da INCASOL (società subordinata a PROCIVESA), e dove poteva intervenire nel fornire varianti al PERI non esitò dall’agire, sfruttando occasioni come l’intesa già stipulata nel 1992 con l’Universitat de Barcelona per realizzare la nuova sede di scienze umanistiche. Con la revisione del PERI venne introdotto il progetto per l’apertura della Rambla del Raval, ovvero uno sventramento di 5 isolati appartenenti alla parte più degradata del barrì con la conseguente rimozione di quasi 1500 appartamenti e negozi, provocando le forti proteste degli sfollati. Parallelamente, nel Casc Antic, Enric Miralles criticando apertamente le previsioni della rigenerazione in corso nel quartiere, parlando di gruyerització, alludendo alla frammentazione del patrimonio storico propiziata da architetture di bassa qualità completamente decontestualizzate rispetto al distretto, vinse nel 1997 insieme alla moglie Benedetta Tagliabue, come studio EMBT, il concorso per il nuovo mercato di Santa Caterina, al quale non mancarono osservazioni in merito all’inadeguatezza del PERI, rimasto bloccato dal 1985. Queste rialimentarono discussioni rimaste sopite per anni in riferimento al dibattito incentrato sull’Avinguda Cambó. Le osservazioni di Miralles si tramutarono in una variante al PERI che l’Ajuntament affidò allo stesso

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architetto, tra l’altro residente storico del quartiere. La variante fu sovvenzionata per l’80% da fondi europei grazie all’integrazione con i principi di rigenerazione ambientale, che ridussero l’operazione dell’Avinguda Cambó, in un semplice percorso di quartiere semipedonale. Nel frattempo, al di fuori del centro storico dove Clos era impegnato nelle grandi trasformazioni infrastrutturali, dal Fòrum 2004 alla redazione della Carta Municipal de Barcelona, la città vedeva la nascita di nuovi landmark architettonici promossi da campagne pubblicitarie istituzionali sostenute anche dai media come nel caso del @22, piano che prevedeva la trasformazione di 200 ettari di terreno industriale del quartiere Poblenou in un innovativo distretto produttivo. Tra il 1999 e l’inizio del nuovo millennio si svolsero prima le elezioni per la Generalitat che videro il riaffermarsi del CiU, nonostante Maragall fosse risultato il candidato più votato, mentre alle nazionali il PP ottenne la maggioranza assoluta, permettendo così a José María Aznar di svincolarsi dall’alleanza con il CiU. La nuova geografia politica del paese che limitava una certa libertà d’azione all’Alcalde, nonché le tensioni riguardanti i PERI e lo stato sociale della Ciutat Vella, non frenarono Clos dal voler promuovere ancora una volta la proiezione internazionale della città, la quale venne esposta in seduta plenaria il 6 giugno del 2001 a New York all’assemblea dell’ONU. In questa Clos condannò la distruzione sconsiderata dei tessuti antichi, contraddicendo il suo stesso slogan secondo cui “per mantenere il centro bisogna trasformarlo”. Le opere di demolizione infatti aumentarono sempre di più, alcuni cronisti parlavano di queste come il nuovo grande spettacolo offerto dal comune: “il catalogo delle demolizioni”. Tra il 1999 e il 2002 tutta la Ciutat Vella divenne un enorme cantiere; ad ogni angolo del centro era possibile imbattersi in cumuli di macerie; Miralles che purtroppo morì nell’estate del 2000, lasciò il progetto privo di una guida carismatica capace di giustifica l’intera operazione dell’apertura di porta Cambó. Il massiccio numero di demolizioni, più simile

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ai bombardamenti della guerra civile, fecero esplodere definitivamente le tensioni sociali che nel corso di tutto il decennio successivo alle Olimpiadi si erano man mano accumulate, generando un serissimo quanto inaspettato problema all’Ajuntament, che tra trionfalismi e minimizzazioni di problemi legati alle architetture e alla microdelinquenza incorse verso una catastrofe che poteva essere evitata se gestita tempestivamente. Infatti, alcune considerazioni sullo sbagliato approccio alla tutela del patrimonio furono avviate già nel 1994 con la revisione del Catálog supervisionata da Jordi Roget, completata nel 2000 ma approvata dalla Generalitat sono nel 2003 e che quindi non ha potuto sul finire degli anni ’90 mettere in pratica i dieci piani speciali di protezione del patrimonio, uno per distretto, con quattro livelli di tutela che erano stati previsti.

Demolizioni per il prolungamento di Avinguda Cambó, anni 2000

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Lo scontento dei residenti manifestato attraverso le associazioni, tra le quali VDBV che autoprodusse il “Catàleg de la destrucció del patrimoni arquitectònic del centre históric de Barcelona”, in un primo momento non fu supportato da figure autorevoli, fin quando nel 2001 Stefanie Von Heeren, una studentessa tedesca che ebbe modo di visitare la città in occasione di Barcelona UIA 96, scelse di dedicare la sua tesi di dottorato alle trasformazioni del nuovo millennio dal titolo “Un anàlisis crìtico del Modelo Barcelona”, dando origine così al dibattito internazionale che mise in discussione il successo del modello olimpico della città.

A difesa del modello si pose l’integralismo anticonservazionista di Bohigas, il quale annichiliva qualsiasi possibilità di approccio progressista sulla questione patrimoniale: “valorizzare operativamente l’architettura storica e i centri storici è una cosa moderna, la gente ha vissuto felicemente distruggendo tutto ciò che era vecchio e costruendo cose più moderne, più utili, più rappresentative del progresso. lo studio storico è benvenuto però non è fondamentale. Quello che interessa è uno studio morfologico “.

Dunque, come si può facilmente intuire il contesto era denso di polemiche, le discussioni erano prive di serenità e rigore disciplinare, il tutto si limitava ad anteporre due ideologie diverse rispetto alla tutela del patrimonio, mettendo in secondo piano la tutela stessa di questo. Nello stesso anno con la scoperta di reperti archeologici al di sotto del mercato del Born cominciarono ad aprirsi considerazioni più riflessive, segnando forse una svolta nella questione della città storica.

Il dibattito continuò ad evolversi e nel 2003, Joan Busquets fu autore dello studio” La Ciutat Vella de Barcelona, un passat amb futur” a cui partecipò lo stesso Bohigas oltre a Español e de Sola Morales. Il testo era uno studio completo sulla trasformazione urbana della vecchia città murata dalla metà del XIX secolo.

Il testo presentava uno studio dettagliato dei nuovi valori ambientali e spaziali, ponendo attenzione su altre qualità del patrimonio, suggerendo alcune proposte per azioni a medio

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termine. Busquets introdusse il tema del “microurbanismo” cioè la capacità attraverso un’egemonia urbana, di progettare un uso dello spazio dove il cittadino sia protagonista e coartefice. Bohigas in questo non mancò di sottolineare che “il metodo della trasformazione e della demolizione è l’unico strumento che permette di mantenere l’identità di questi quartieri”. Ritornando alla questione politica, l’anno prima della pubblicazione del testo, il 26 settembre del 2002 ebbe luogo la cerimonia che sancì la chiusura di PROCIVESA, dopo ben 14 anni di attività. Clos all’evento elogiò con trionfalismi l’operato della società, affermando che senza l’intervento fisico non si sarebbe potuto arrestare il processo di ghettizzazione verso cui l’area sembrava irrimediabilmente destinata e non sarebbe stata realizzata la più importante trasformazione urbana di Barcellona dai tempi di Cerdà. I numeri effettivamente erano dalla parte di PROCIVESA, la quale aveva “liberato” 76000 m² di suolo, ridistribuendoli per il 63% a spazio pubblico, per il 12% ad infrastrutture, mentre il restante 24% fu destinato alla costruzione di nuove residenze. Furono risistemate 47 strade, 25 piazze e il parco urbano dietro la chiesa di Sant Pau del Camp, riabilitati 48 fabbricati con 715 appartamenti e realizzati 19 nuovi edifici. 3.597 procedimenti di esproprio che coinvolsero circa 4.000 famiglie delle quali solo con il 10% di queste si aprirono contenziosi legati alle pratiche di esproprio.

I conti erano in ordine, nonostante la notevole mole di denaro gestito, non ci furono scandali rilevanti e tutte le accuse di speculazione ripetute nel corso degli anni, non riscontrarono prove. Parallelamente all’inizio del processo di liquidazione di PROCIVESA nel 1999, ci fu la nascita della Societat Privada Municipal FOMENT de Ciutat Vella S.A., una società anch’essa di capitale misto, 60% pubblico e 40% di azionariato privato composto da varie banche. Il compito di questa nuova società che andava a sostituire PROCIVESA era quello di ricercare ed attrarre investimenti più selettivi per il miglioramento della situazione residenziale, commerciale ed economica generale

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della Ciutat Vella; miglioramento che avrebbe di conseguenza giovato all’aspetto sociale del distretto stesso. Le azioni che FOMENT avrebbe intrapreso erano di due tipi: di servizio pubblico, con lo sviluppo di piani particolareggiati e politiche di suolo finalizzate alla creazione di spazio pubblico e residenze protette con dotazione di servizi per incentivare l’attività economica e commerciale; di coordinamento con i privati per l’acquisto di immobili, evitando così rispetto a PROCIVESA la concorrenza sul mercato. L’altro grande impegno era quello di moltiplicare gli interventi pubblici e per questo l’Oficina de Rehabilitació fu incorporata in FOMENT e affiancata a una nuova Oficina d’Habitatge, destinata a gestire gli appartamenti in fitto di proprietà comunale. Nonostante FOMENT fosse nata per superare i vizi strutturali di PROCIVESA, pur avendo meno peso decisionale nel proseguo della riforma del distretto, la grande mole di interventi ancora in atto spinsero in poco tempo a ribattezzare la nuova società “FOCIVESA”, proprio perché riconoscevano in questa nuova società, una continuità con la precedente che a sua volta aveva per molti dei forti richiami con il porciolismo. Il processo di trasformazione della Ciutat Vella si muoveva contemporaneamente alla crescita dell’opinione che le associazioni dopo anni di “battaglie” erano riuscite a maturare, supportate da un crescente senso d’identità anche da parte dei nuovi residenti che, in poco più di un decennio erano riusciti a adattarsi nel quartiere. Questo fomento si riversò sulla questione del Carrer d’en Carabassa nel Barri Gòtic fra il 2001 e il 2003 che vide l’annullamento del progetto di demolizione di un edificio risalente al XVIII secolo. Le proteste dei residenti furono supportate perfino da Bohigas oltre che da Tagliabue e tanti altri personaggi noti nel mondo della cultura residenti nello stesso quartiere gotico. Poco conta che il progetto fu annullato per un errore nel procedimento, la vittoria dei cittadini sull’Ajuntament e su FOMENT venne celebrata come una vittoria del popolo il quale rivendicava un “diritto alla memoria” a lungo dimenticato. La data di inizio del Forum delle

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Culture si avvicinava e le sfide urbanistiche dell’Ajuntament continuavano. Con il PERI Diagonal-Poblenou approvato nel 1993 era iniziata l’operazione di ricucitura della maglia di Cerdà da piazza Les Glòries al fiume Besòs e di ridefinizione dell’ultimo tratto della Diagonal. Quest’area, Diagonal Mar fu coinvolta da un piano di iniziativa privata, che venne vissuto dai barcellonesi come una svendita della città. Questo piano vide la partecipazione di Hines, una multinazionale americana, tra le maggiori società immobiliari al mondo, edificare 12 torri alte 100 metri in un ampio parco urbano progettato da Miralles e Tagliabue, grande circa quattro isolati. All’interno di questo sito furono previsti un grande centro commerciale con 250 negozi, ampi parcheggi, uffici e 24 appartamenti di lusso.

Il tema in quest’area era il recupero delle periferie attraverso una terapia d’urto di massicci interventi per creare nuova economia e nuovo spazio pubblico con la convinzione che questo bastasse a rendere quella parte di città attrattiva per il business internazionale, prolungando l’operazione degli anni ’90 sul fronte mare, verso la parte orientale della città. La scelta fu motivata dall’intenzione di evitare la ghettizzazione del vicino quartiere popolare Mina, abitato dai meno abbienti e da gitani. Il concorso per il Fòrum vide vincitore il progetto di José Antonio Martínez Lapeña e Elías Torres. Questo prevedeva la realizzazione di un grande spazio di 17 ettari affacciato sul mare che avrebbe ospitato gli edifici congressuali; al centro di questo spazio, gli architetti realizzarono un’importante landmark, una pergola fotovoltaica, divenuta successivamente il simbolo del progetto. L’edificio di spicco invece risultò il Centro Congressi di Herzog e Meuron, un’iconica costruzione blu a base triangolare.

L’edificio dal 2011 sede del Museu de les Ciències Naturals, suscitò il disappunto delle opposizioni sia dell’Ajuntament che della Generalitat a causa del suo esoso costo di produzione.

Nuovamente, con alle porte un importante evento per la città, si svolsero a distanza di pochi mesi le une dalle altre, le elezioni a tutti i livelli amministrativi. Sul finire del 2002 alle nazionali ci

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fu la vittoria con il 42% di PSOE guidato dal nuovo segretario José Luis Rodríguez Zapatero; Maragall a differenza del 1999 riuscì ad assumere la carica di President de la Generalitat; alle comunali, Clos ripropose ancora una volta l’alleanza con ERC e ICV per avere la meglio su CiU e PP. Per la prima volta in Spagna si creò una filiera socialista inedita che alludeva a buoni presupposti.

Area del Fòrum delle Culture con prospettiva sulla Diagonal

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Il Fòrum Universal de les Cultures si celebrò tra il 9 maggio e il 26 settembre del 2004. L’evento che doveva essere l’apoteosi del socialismo barcellonese, si rivelò essere in realtà un grande flop. I motivi sono facilmente intuibili, partendo da quello direttamente connesso alla kermesse che non riuscì a differenza delle Olimpiadi, ad essere altrettanto attraente per i barcellonesi che lo videro come un evento distante, poco interessante soprattutto perché il coinvolgimento, paragonato a quello delle olimpiadi, aveva tutt’altro carattere. La realizzazione di un nuovo parco, di una nuova passeggiata lungo il mare, una nuova piazza, pur apprezzati in quanto riqualificarono una parte di città fino a quel momento marginale, destinandola per la prima volta ai cittadini, passò in secondo piano quando le ombre che accompagnarono la realizzazione delle torri di Hines fecero sì che il pensiero di tutti si focalizzasse sull’idea che il grande evento serviva solo come pretesto per continuare la speculazione di suolo: come venticinque anni prima, c’era l’impressione che i politici fossero tornati a “giocare” con i terreni. Il ruolo dell’architetto, in questo scenario alimentato da forti polemiche era mutato: il pensiero figlio della prima Barcellona democratica che vedeva un progetto capace di influenzare i processi urbani al punto di dare direzioni alle politiche di governo era, in qualche modo regredito a semplice incarico affidato ad un buon architetto che avrebbe emendato operazioni discutibili. Agli architetti, la cui capacità di incidere nelle strategie urbane era divenuta pressoché nulla, non restava che accettare che anche nella “Ciudad de los Arquitectos” erano la politica e il denaro a prendere le decisioni che contavano. Pure in materia urbana, il loro compito era semplicemente quello di realizzare un bel progetto. In questo scenario Barcellona più che un modello, dopo il flop del Fòrum, si avvicinava sempre più a diventare un caso e necessitava per questo di rivedere i propri strumenti procedurali, gestionali, e normativi di intervento sul territorio urbano.

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2005 – 2020 LA FINE DEL PSC E LA QUESTIONE CATALANA Maragall insediatosi come President della Generalitat estese il Pla Estratègic all’ambito metropolitano, proponendo a livello regionale gli stessi patti stipulati da Clos con gli altri sindaci dell’area, con l’ambizione di creare un ente sovra municipale che unisse le competenze in materia urbanistica, ambientale, e infrastrutturale di tutti i comuni della provincia. Il piano aveva una priorità alle reti infrastrutturali, alla sostenibilità ambientale e alla partecipazione civica oltre ad armonizzare i vari PAM (i Plà d’Actuació Municipal) dei Comuni. A questo scopo fu introdotto il PAD (Pla d’Actuació de Districte) un nuovo strumento normativo pensato per regolare le prescrizioni del PAM alle esigenze del distretto. Il PAD 2004-2007 della Ciutat Vella, che vedeva dopo le elezioni la designazione di Carles Martí come Regidor al posto di Katy Carreras la quale andò a coprire la stessa carica nel distretto di Sarrià, si pose come mediatore fra cittadini e distretto, riducendo il ruolo delle associazioni e ponendo come esigenze prioritarie una serie di temi come: sicurezza, cultura, mobilità, sostenibilità, partecipazione, educazione civica, rifiuti e dinamizzazione commerciale con criteri di equilibrio ambientale. Nello stesso anno nacque anche il Pla d’Habitatge, uno strumento giuridico che offriva per la prima volta una visione completa del problema residenziale, motivato dal rapido aumento registrato nel mercato degli affitti nel distretto. Durante il Fòrum fu approvata la legge n.2/2004 che assicurava un finanziamento da parte della Generalitat fino al 50% del costo preventivato dai singoli Comuni che si fossero dotati di piani di recupero, riabilitazione e rivitalizzazione dei propri quartieri: i Pla de Barri, questi grazie anche ai fondi FEDER dell’UE che fomentava la trasformazione urbanistica, con la novità però di racchiudere l’operazione all’interno di un barrio, incoraggiando ed incentivando la partecipazione con il Pla de Partecipació del Projecte d’Intervenció Integral. Nonostante quest’iniziativa produsse 163

dei risultati, portando a termine numerosi progetti già precedentemente in cantiere i malumori sussistevano, poiché alla reiterata presenza di macerie, si aggiunse la limitata possibilità di partecipazione da parte delle associazioni nel piano Sempre nel 2004, l’Ajuntament uscì nominalmente da FOMENT, trasferendo la sua quota partecipativa alla BISMA, una nuova società privata municipale creata allo scopo di allentare i vincoli formali con l’amministrazione e rendere più spedite molte delle procedure della stessa FOMENT, la quale in seguito ai nuovi risultati raggiunti con il Pla de Barri, aveva cambiato strategia, passando da quella finalizzata a ripulire l’immagine della società dall’accostamento con PROCIVESA ad una più orientata a diffondere informazioni e promuovere le operazioni realizzate in uno scenario di grande trasparenza.

Malgrado le ultime operazioni, la Ciutat Vella continuava a raccontare di episodi di microcriminalità, spaccio e droga, nonostante il Pla d’Usos disposto per stemperare queste pratiche illecite, fu grazie alla collaborazione attiva tra Guàrdia Urbana e Mossos d’Escuarda che la situazione non degenerò del tutto. Fin dalla sua elezione a President della Generalitat, Maragall conscio della mutazione del quadro politico ed economico d’Europa, progettò la riforma dell’Estatut d’Autonomia de Catalunya, ovvero la legge fondamentale dell’autonomia regionale del 1979 puntando ad ottenere una specificità giuridica già garantita dalla Costituzione spagnola ai Paesi Baschi. Il percorso alla Generalitat di Maragall fu segnato da due spiacevoli episodi: il primo vide la dimissione nel febbraio 2004 del primo ministro regionale Josep-Lluís Carod-Rovira (ERC) dopo una riunione avvenuta con i rappresentanti dell’organizzazione armata terroristica basco-nazionalista ETA, la seconda invece nel gennaio del 2005, sfiorò il dramma con la caduta di un edificio nella zona nord dei Barcellona, nel quartiere del Carmel, in seguito ad una voragine creatasi in corrispondenza degli scavi per la realizzazione di uno dei tunnel di manovra per la costruzione della nuova linea L5 della

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metropolitana. La crisi del Carmel fu gestita in modo impeccabile; la tempestiva evacuazione degli alloggi alle prime avvisaglie evitarono vittime, ma ciononostante, l’evento in un quartiere semiperiferico, nato come baraccopoli e successivamente negli anni Novanta oggetto di uno dei piani di recupero, divenne il simbolo della decadenza della cultura politica socialista. Il referendum popolare sul nuovo Estatut fu celebrato il 18 giungo del 2006 ottenendo il 73,9% di voti favorevoli grazie anche al supporto di ERC e ICV. Con il referendum, vedendo concluso il suo percorso, Maragall annunciò la rinuncia alla candidatura delle future elezioni. Il

Crollo edificio per la costruzione della linea 5, El Carmel, 2005

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referendum e il nuovo Statuto non riscossero il consenso di Zapatero, soprattutto per la partecipazione di ERC che due anni prima fu coinvolta nello scandalo con ETA. Successivamente nel 2010, il Tribunale Costituzionale impose all’Estatut emendamenti severissimi che scatenarono un malcontento politico sfociato in un’inedita deriva indipendentista in luogo dell’autonomia, obiettivo dell’ex Alcalde di Barcellona come presidente della Generalitat. Con l’uscita di scena di Maragall, alle elezioni della Generalitat, il presidente dell’esecutivo centrale Zapatero, supportò la candidatura del nuovo leader del CiU Artur Mas, mentre per il PSC il candidato fu José Montilla, già Ministro dell’industria e del commercio, sostituito in quel ruolo proprio da Joan Clos che lasciava la carica ad un uomo di partito, Jordi Hereu, fino a quel momento sconosciuto.

Le successive elezioni videro Artur Mas il candidato più votato con il 31,52% di consensi, non sufficienti però per ottenere la maggioranza dei seggi; ne approfitto Montilla che con un’alleanza tripartitica ancora una volta con ERC e ICV riuscì a farsi eleggere Presidente. La sconfitta bruciò tanto al CiU che da lì in poi cominciò a nutrire un profondo rancore verso PSC. A Barcellona invece con l’uscita di scena di Clos, si chiuse il lungo percorso iniziato con Maragall e che vide per quasi 25 anni un determinato tipo di politica in città. Clos lasciò in eredità una città- vetrina, buona per tutti ma pensata per nessuno; una città tematica, attraente per il turismo, per gli affari e gli investimenti immobiliari, però cara e problematica per i suoi abitanti. Nella parte restante di mandato ereditato, Hereu continuò la politica delle linee tracciate da Clos: crescita economica, turismo, Pla de Barri e riqualificazione civica e dello spazio pubblico. Nel 2007 si svolsero le elezioni comunali che segnarono il dato record di astensionismo; un 46% figlio del flop del Fòrum e di una campagna elettorale molto controversa, dove le ideologie politiche dei candidati più volte finivano col sovrapporsi, creando disorientamento tra gli elettori. Le elezioni videro la vittoria del PSC con Hereu, con un margine

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ristrettissimo del 29,93%, (sopportato questa volta solo da ICV dopo il ritiro di ERC), contro il 25,41% del CiU con presentava il candidato Xavier Trias. Nel consiglio comunale si ebbero sei diversi schieramenti politici, tra cui la neonata Ciutadans C’s, approssimativamente socialdemocratica ma soprattutto antinazionalista. Hereu nominò vicesindaco Carles Martí, il quale lasciò la carica di Regidor della Ciutat Vella nelle mani di Itziar González, il primo architetto a rivestire questa carica e residente del distretto fin dal 1986. La nuova Regidora, non affiliata ad alcun partito, non rinnegava però l’appartenenza ad un gruppo di professionisti come gli architetti che vivevano un periodo di forte regressione civica e di popolarità. González non prometteva cose impossibili, ma sostenne il concetto di “microurbanismo preventivo”, ovvero la capacità, dove conciliabile con la realtà della strada, dell’architetto di decifrare i punti nevralgici dell’ambiente urbano per limitare i comportamenti antisociali e prevenire la conquista illegittima di spazio pubblico da parte di forze economiche di matrice illegittima. La sua agenda si concentrava su tre macro-temi: prostituzione e droga; turismo massivo; identità e riconoscimento dell’autorità dell’Ajuntament.

Insieme all’architetto Regidora, Barcellona presentò una nuova generazione di architetti, queste nuove leve locali portarono una ventata di novità e uno stimolo per la rinascita urbana; perfino i progetti di FOMENT grazie all’ausilio di questi nuovi professionisti, si dimostrarono più sensibili al patrimonio rispetto a quelli realizzati dalla generazione che diede vita al “Modelo”. La popolazione in quegli anni superata la grande fase di trasformazione aveva maturato una certa sensibilità, rivendicando comfort presenti anche all’esterno della Ciutat Vella, come parcheggi, impiantistica, sedute, aree gioco per i più piccoli, tutto a basso impatto e basso costo. Il distretto storico ma in generale tutta la città, nel nuovo millennio si trovò catapultata in una dimensione mai vissuta fino a quel momento.

Grazie alle Olimpiadi e alla successiva realizzazione di numerosi

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landmark, ultimi in ordine di tempo la Torre Agbar di Jean Nouvel, un progetto che rientra nel più ampio piano di rinnovamento e riqualificazione dell’area circostante a Plaça de les Glòries Catalanes, realizzata nel 2005, nel medesimo anno del completamento della Torre Gas Natural di EMBT. Barcellona divenne una metà turistica ambitissima: si passo dal mezzo milione degli anni Settanta ai quasi due milioni di turisti durante il periodo olimpionico fino ad arrivare alle 7 milioni di presenze nel 2007; nel 2003 si calcolò che questo rappresentava il 13% del prodotto interno lordo dell’intera città. Tuttavia, questo esorbitante numero di visitatori non era attratto solo dalle bellezze culturali della Ciutat Comtal, ma anche dall’irrefrenabile quanto incontrollata movida che animava i vicoli del centro storico, sfociando in una nuova tipologia di degrado, del tutto diversa rispetto a quella con la quale i residenti dei barri avevano per decenni convissuto e che rincominciarono a far perdere la stima di questi nei confronti del proprio distretto. Il disordine, il vivere la strada in modo violento, la festosità volgare che sfociò anche in una festa clandestina organizzata nell’abbandonato Plau Alòs, passata poi alla storia come il “Forat de la Vergonya” o altri eventi di guerriglia urbana, portano in molti a parlare di “crisi del modelo Barcelona”, dove il passato che aveva reso grande la città, veniva messo in secondo piano rispetto ad un’immagine incivile di una Barcellona incapace di rispondere a chi la identificava come un parco di divertimenti del capitalismo globale e delle mafie internazionali. Fin dagli anni Novanta l’amministrazione promuoveva una trasformazione tesa a far fiorire l’economia turistica, come riscontrabile nelle parole di Clos nel 1994 all’apertura del Consorci Turisme de Barcelona: “continueremo a rinnovare Ciutat Vella per trasformarla nel miglior centro storico che si possa visitare in Europa”; obiettivo che effettivamente si concretizzò, solo che insieme agli introiti prodotti da quest’economica, arrivarono problemi che misero a dura prova il rapporto tra il tessuto storico, la memoria storica della città e la sua reale identità. Non era facile imbattersi in

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comportamenti rozzi, incivili, volgari ed ignoranti rispetto al patrimonio culturale del sito. Il successo di Barcellona tradotto in numeri lo si doveva a quella parte di città che per trent’anni le amministrazioni rinnegavano come una piaga, mentre tutte le trasformazioni in chiave urbanistica venivano banalmente ignorante. L’incapacità di reagire a questi fenomeni di inciviltà raggiunse l’apice nella primavera del 2008, quando le telecamere di vigilanza del mercato della Boquería ripresero delle prostitute esercitare i propri servizi nel cuore della notte sotto i porticati chiusi nei pressi della Rambla. Ci si rese conto che una delle piaghe più profonde della Ciutat Vella non era mai stata curata e che grazie al turismo vedeva ampliarsi il proprio mercato.

L’ipotesi di Hereu di aprire un quartiere a luci rosse o della Regidora González di riproporre i meublé, appartamenti sorti negli anni ’30 del secolo scorso e spinti da un vero boom tra i ’60 e i ’70 che, con un nuovo nome e una nuova veste ritornarono sotto il logo di ‘Love Hotels’. Era una sorta di resa dell’ideologia socialdemocratica iniziata con Maragall e conclusa in quegli anni con le ultime eredità di Clos che andavano a svanire.

L’amministrazione, Il PSC era entrato in un momento di stallo dove vi era l’incapacità di leggere e quindi governare sia i “vecchi nemici” che i nuovi scenari globali. Per l’Ajuntament, la gestione della città continuò a complicarsi per la concatenazione di vari eventi tra loro scollegati che aumentarono vertiginosamente il traffico non solo dei turisti, ma anche di residenti saltuari provenienti da tutto il mondo; le principali motivazioni sono riscontrabili innanzitutto nella possibilità concessa ai meno facoltosi di poter viaggiare con più facilità grazie alle compagnie low-cost, le quali scelsero di conseguenza il rinnovato aeroporto del Prat come una delle mete più frequentate; altre importanti motivazioni furono la rinnovata popolarità internazionale del modernismo catalano e la crescita di popolarità della squadra di calcio l’FC Barcelona che, nel nuovo millennio ritornerà ad essere una delle squadre più blasonate del mondo grazie a vittorie sul piano sportivo e

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pubblicitario. Nel settembre del 2008 il fallimento della Lehman Brothers Bank provocò una forte crisi che spinse ad agevolare incentivi e deroghe per incrementare il parco di proprietà riabilitate per fini turistici e strutture alberghiere. Barcellona riuscì a superare questa crisi aggrappandosi proprio a quel fenomeno che si stava tentando di governare, senza però riuscirci. Questo nuovo fenomeno scaturì in una controversa questione legata al mercato immobiliare che incrinò il lunghissimo connubio fra capitale privato e la gestione pubblica sfociando in casi di mobbing, corruzione, intimidazioni, estorsioni e ricatti allo scopo di accaparrarsi proprietà da rifunzionalizzare in chiave turistica. Si conta che nella sola Ciutat Vella in quegli anni si stabilirono più del 70% degli alberghi totali della città, si parlava della concessione di una

Scena tipica di turisti a Plaça de Catalunya alle prese con i piccioni

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licenza al mese solo nel distretto storico. In quegli anni sorse nel distretto della Barceloneta, il famoso “W Barcelona” di Ricardo Bofill, conosciuto anche come Hotel Vela. La costruzione dell’edificio sul terreno appartenente all’Autorità Portuale di Barcellona, fu accompagnato da fagocitanti polemiche. L’Hotel, appartenente alla catena americana Starwood e posto a 20 metri dal mare, secondo i barcellonesi costituisce un’ingombrante barriera visiva tra la città e il mare. La pesante ricaduta speculativa cominciò a prendere una brutta piega quando nell’aprile del 2009, si produssero fermi e arresti nell’Ajuntament come nel caso del responsabile delle licenze commerciali di Ciutat Vella Heliodoro Lozano, che dopo anni di illazioni per la prima volta collegarono il malaffare alla gestione comunale. A questo scandalo seguì quello per la realizzazione dell’hotel Palau de la Música fortemente voluto da Tusquets, già autore di un ampliamento anni prima, che produsse forti contestazioni da parte delle associazioni in quanto questo prevedeva la demolizione di un edificio modernista sottoposto a tutela. La de catalogazione dell’immobile tuttavia non portò alla demolizione dell’edificio in quanto, poco dopo il direttore del Palau Millet, fu accusato di peculato, malversazione ed appropriazioni indebita. Ciononostante, le proteste in quel lasso di tempo si tramutarono in minacce di morte alla Regidora González che dopo tre anni di intenso lavoro e grandi pressioni rassegnò le proprie dimissioni venendo sostituita dal ritorno del vicesindaco Carles Martí anche nel ruolo di Regidor. Investitura che a pari di quella di vicesindaco durò poco in quanto, poco dopo venne identificato come capro espiatorio del flop del referendum municipale del 16 maggio 2010. Questo, sottoposto alla cittadinanza per la riforma della Diagonal, prevedeva un progetto che nei piani di Hereu doveva allo stesso tempo promuovere la partecipazione e rilanciare la stagione dei progetti. Al referendum partecipò solo il 12,17% della popolazione, la quale per il 79,84% si schierò contro qualsiasi opzione di trasformazione dell’asse principale che divide in due

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la città. Per la cronaca le alternative erano la risistemazione della Diagonal in stile Rambla o in stile Boulevard. A Martí subentrò la nuova Regidora Assumpta Escarp, la quale cercò di continuare le politiche lanciate da González. Dopo trent’anni di riforma la Ciutat Vella, nonostante i miglioramenti tecnici, infrastrutturali, estetici, funzionali e culturali viveva in una condizione dove i problemi storici continuavano a sussistere, solo che rispetto alle motivazioni precedenti, questi erano provocati dalla speculazione legata all’indiscriminato sfruttamento del turismo e alla crescita del business delle mafie internazionali, che non giovava al benessere dei cittadini. Il 20 novembre del 2010 si tennero le elezioni regionali che videro il ritorno alla Generalitat del CiU grazie al 38,44% dei voti conquistati da Artur Mas rispetto ai 18,38% del PSC. Nel discorso di insediamento del 20 dicembre, il presidente della Generalitat, rivendicò un nuovo modello di finanziamenti per la Catalogna come la grande sfida per i prossimi anni e proclamò la “transizione nazionale” della Catalogna basata sul diritto a decidere. Facendo leva sulla crescente crisi economica, il governo Mas cominciò a gettare le basi per l’indipendenza della Catalogna e per la sua autodeterminazione. Alle nazionali, rispetto al 2008 quando il PSOE si riaffermò con il 43,86% di voti dando continuità a Zapatero, nel 2011 a seguito della pesante crisi economica e della speculazione che travolse il Paese, Zapatero che aveva già comunicato di non voler riproporre la propria candidatura, annunciò l’anticipazione delle elezioni che si svolsero esattamente un anno dopo le regionali della Catalogna, il 20 novembre del 2011. L’erede politico di Zapatero, l’ex ministro dell’Interno Alfredo Pérez Rubalcaba venne sconfitto dal leader del Partito Popolare Mariano Rajoy con il 44,55% contro il 28,66% del PSOE. Nel lasso di tempo tra l’annuncio dell’anticipazione e le elezioni stesse, a Barcellona si verificò qualcosa che secondo le previsioni di molti era inevitabile; il doppio passo falso Palau-Diagonal sancì la sconfitta di Hereu, alle municipali del 22 maggio, Xavier

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Trias, rappresentante del CiU divenne al terzo tentativo il nuovo Alcalde, dopo trentadue anni segnati dalla continuità del Partit dels Socialistes de Catalunya. L’ultima delle opere direttamente riconducibile alla lunghissima stagione di riforma del PSC fu la nuova configurazione di piazza della Gardunya, alle spalle del popolare e turistico mercato della Boqueria. Con Barcellona gestita da un partito di destra, la privatizzazione del centro, che già aveva prodotto dei risultati con il PSC, con il CiU non necessitava più di essere “giustificata”. Ciutat Vella venne esplicitamente considerata un business di coloro che potevano permettersi di trarne benefici. La giunta Trias si preoccupava unicamente di rendere la città splendente agli occhi dei turisti, “curando” le zone effervescenti del porto Olimpico destinato a

Cantiere di Plaça de les Glòries Catalanes

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diventare un attracco per yacht di lusso e della Diagonal che, nel 2013 fu oggetto di un bando di concorso per la riprogettazione e riqualificazione di Plaça de les Glòries, la grande piazza, nodo principale dei grandi assi della città risalenti l Pla Cerdà, oltre che di un importante nodo intermodale. Il concorso vinto dal progetto “Canòpia Urbana” di UTE Agence Ter e Ana Coello de Llobet, coinvolge undici ettari e tredici isolati, in un cantiere che prenderà il via solo alla fine del 2015. Il mandato di Trias tra il 2011 e il 2015 fu segnato non solo da una cittadinanza stufa del liberalismo selvaggio ma anche da tensioni e disaccordi tra i leader di partito di UDC e CDC formanti la federazione CiU, rispetto la tabella di marcia verso il processo indipendentista della Catalogna. Infatti, nel 2012 Mas fu costretto a convocare elezioni anticipate (due anni prima del previsto), riconoscendo il fallimento delle sue negoziazioni sul patto fiscale per la Catalogna con il presidente del Governo spagnolo Mariano Rajoy. Alle elezioni, Mas fu rieletto perdendo però 12 seggi in Parlamento e ciò venne interpretato come un fallimento riguardo alla scommessa di CiU di essere la guida del processo indipendentista. Il 27 settembre del 2014 firma per indire il 9 novembre il processo di consultazione dei cittadini catalani, come alternativa legale a un referendum sullo status della Catalogna. Nonostante la delibera negativa del parlamento spagnolo, che per voce di Rajoy fu giudicato come illegale, le elezioni si tennero ugualmente e videro un’affluenza al voto del 35,9% degli aventi diritto, di cui l’80,72% di questi si espresse per la piena indipendenza. Tuttavia, la consultazione ebbe solo un valore simbolico, essendo stato il referendum ridotto ad una votazione meramente consultiva. Negli stessi anni emerse la figura di Ada Colau, originaria del distretto di Sarrià-Sant Gervasi, laureata in Filosofia e con trascorsi negli anni Novanta da attivista e reporter, salì all’attenzione per essere il principale rappresentante e portavoce dell’IPA, una piattaforma che riuniva diversi movimenti operanti contro il debito ipotecario e gli sgomberi. Nel 2014, dopo aver lasciato IPA, con diverse

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persone legate ai movimenti sociali, Colau presentò “Guanyem Barcelona”, una piattaforma civica creata con l’obiettivo di costruire un’offerta alternativa in vista delle elezioni comunali del 2015 nel capoluogo catalano. Dopo diversi mesi di lavoro, nel febbraio 2015 la coalizione elettorale si presentò come Barcelona en Comú – BeC, lista afferente all’allora neonata Podemos (partito di sinistra radicale nato nel solco del movimento degli “indignados” contro le politiche di austerità) insieme alla confluenza di Iniziativa per la Catalogna Verdi, Sinistra Unita, Equo e Proces costituente. Il 15 marzo 2015, Ada Colau fu proclamata capolista, dopo un processo di primarie aperte in cui risultò l’unica candidata. Supportata da una marea sociale di indignazione e disgusto, nato nelle piazze e appesantito per anni dall’impoverimento popolare, tagli allo stato sociale, crescente disuguaglianza e corruzione dilagante, il 13 giugno del 2015, Ada Colau vinse le elezioni contro Trias e un CiU ai titoli di coda a causa delle divergenze legate all’indipendentismo. “La gente comune ha avuto un’opportunità storica e ha saputo approfittarne”, furono queste le prime parole della prima alcaldesa della storia di Barcellona. Il PSC, con quattro consiglieri, ottenne il peggior risultato storico in città, passando dal secondo al quinto posto. La battuta d’arresto che i socialisti ricevettero nella città che governarono dal 1979 al 2011 fu monumentale. Caddero dal 22% al 9%, una perdita superiore a quella subita in tutta la Catalogna (dal 25% al 17%) e infinitamente maggiore rispetto all’area metropolitana di Barcellona, dove i sindaci socialisti mantennero la maggioranza.

La seconda sconfitta consecutiva del PSC non fece però passare in secondo piano il rovesciamento dei nazionalisti a Barcellona e il loro declino nell’area metropolitana (attenuato solo qui dal modesto aumento del CER) lasciando segnali non incoraggianti per le elezioni annunciate per settembre alla Generalitat. Trias rivolgendo proprio a Mas commentò così la sconfitta: “mi dispiace per lei Presidente, perché era molto importante che Barcellona avesse un forte voto nazionalista”. Prima di entrare

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nel merito delle questioni legate all’amministrazione Colau, è quantomeno opportuno citare i principali eventi che a partire dalla consultazione del 2014 si sono sviluppati negli ultimi anni e che hanno costantemente alimentato la questione legata all’indipendentismo catalano. Poco dopo l’elezione di Ada Colau, il 18 giugno 2015 alla Generalitat i portavoce del CDC dichiararono “finita” la federazione CiU, in seguito ad un ultimatum inviato dal presidente Mas all’UDC, a causa delle posizioni divergenti sul processo di indipendenza catalana.

Mas sciolse il parlamento della Generalitat, anticipando le elezioni nella quale organizzò una lista dichiaratamente indipendentista, in cui raccolse una serie di partiti in una coalizione chiamata Junts pel Sí, ovvero “Insieme per il Sì”, invitando gli elettori a votare come se fosse un referendum sull’indipendenza. Le elezioni dell’27 settembre 2015, videro la vittoria di Junts pel Sí, con il 39,6%. Dopo un iniziale tentativo di rieleggere il proprio leader Artur Mas a Presidente della Generalitat, non avendo questo ottenuto la maggioranza assoluta, all’interno della coalizione si intavolarono trattative con l’altro partito indipendentista, la CUP (Candidatura Unità Popolare), che portò alla nomina nel ruolo di presidente della Generalitat Carles Puigdemont, fondatore del partito Convergenza Democratica di Catalogna (PDeCAT) nato dalle ceneri di CDC, già sindaco di Girona, dando il via al processo indipendentista che ha portato al controverso referendum unilaterale sull’indipendenza della Catalogna che poneva valore vincolante in forma di Repubblica al di là del raggiungimento del Quorum. Le elezioni videro Catalunya en Comú-Podem non assumere una posizione chiara sull’indipendenza, ricevendo il 7,5% dei voti e 8 seggi. Ada Colau piuttosto restia a prendere posizione sul tema dell’indipendenza si defilò dalla campagna.

Il 17 ottobre 2017 il Tribunale costituzionale, deliberando all’unanimità, dichiarò la nullità della legge regionale istitutiva del referendum, in quanto lesiva della supremazia della Costituzione, della sovranità e dell’indissolubile unità della

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nazione spagnola. Il 1º ottobre 2017, il giorno delle elezioni ci fu la mobilitazione delle forze di polizia per impedire un voto considerato illegale e l’impegno di ogni mezzo del governo regionale catalano per consentire la consultazione. L’intera giornata fu caratterizzata da scontri tra popolazione e polizia, la quale aveva l’ordine diretto da Madrid di impedire ogni forma di votazione, sequestrando urne e rendendo inagibili diversi seggi. Lo spoglio confermò la partecipazione di 2.286.217 votanti, pari al 43% degli aventi diritto, (numero che sarebbe stato più ampio se non fossero state sequestrate dalla Policia Nacional e dalla Guardia Civil circa 770.000 schede). Il risultato del referendum vide gli elettori esprimersi per il 92,1% favorevoli e per il 7,99% contrari. Il 27 ottobre successivo, Carles Puigdemont dichiarò l’indipendenza della Catalogna dalla Spagna, determinando l’immediata applicazione, da parte del Primo ministro spagnolo Mariano Rajoy, dell’articolo 155 della Costituzione, in base al quale la Catalogna venne commissariata e Puigdemont destituito con tutto il suo governo, denunciato per ribellione, sedizione e appropriazione indebita di denaro, che lo spinse insieme ad altri quattro ex consiglieri a rifugiarsi in Belgio per sottrarsi dall’arresto. Il giorno successivo, Rajoy assegnò le funzioni di Presidente della Generalitat alla vicepresidente del governo Soraya Sáenz de Santamaría, in qualità di Commissario straordinario, ed annunciò le elezioni regionali per il 21 dicembre per formare un nuovo parlamento.

In queste, nonostante il partito unionista anti- indipendenza Ciudadanos risultò essere il più votato, i risultati combinati di Uniti per la Catalogna (JuntsxCat), di ERC e della CUP, le parti a sostegno dell’indipendenza mantennero la maggioranza, con la concreta possibilità di formare nuovamente un governo di coalizione indipendentista al potere. In seguito alla nomina di presidente del parlamento della Catalogna di Roger Torrent (ERC), si susseguirono vari tentativi per riportare Puigdemont in Spagna per consentirgli di assumere il ruolo di President de la Generalitat, fino a quando il 25 marzo del 2018, venne fermato

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ed arrestato in Germania, due giorni dopo che Rajoy aveva emanato nuovamente un mandato di arresto europeo.

Nonostante il rilascio su cauzione, l’arresto portò a manifestazioni di protesta e scontri di piazza in tutta la regione.

Nel mese di maggio il leader del PSOE, Pedro Sánchez, presentò una mozione di sfiducia al governo Rajoy dopo uno scandalo di corruzione interno al PP, succedendo quindi a quest’ultimo il 2 giugno, lo stesso giorno in cui scadde il commissariamento di Soraya Sáenz de Santamaría come presidente della Generalitat.

Gli successe Quim Torra, eletto dal Parlamento catalano il 14

Marcia di protesta sull’autostrada per la sentenza del 14/10/2019

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maggio precedente, ed attuale presidente della Generalitat.

Quello che è accaduto in seguito è storia recente ed in continua evoluzione, un conflitto istituzionale di vaste proporzioni tra il governo catalano e quello nazionale che vede ad oggi il suo apice nella sentenza storica del 14 ottobre 2019, giorno in cui la Corte suprema di Madrid ha condannato con pene severissime i leader indipendentisti catalani , rei di aver tentato di rovesciare l’ordine pubblico della Spagna con il referendum organizzato nell’ottobre del 2017 e con la conseguente proclamazione della Repubblica indipendente di Catalogna nell’Assemblea regionale, causando manifestazioni di protesta in tutta la regione e giorni di intensa guerriglia urbana. In questo scenario di altissima tensione in tutta la Catalogna, Ada Colau consapevole sia della deriva indipendentista della Generalitat che del proprio percorso basato sulla partecipazione democratica che l’ha portata ad occupare uno spazio politico vuoto che il sistema partitico tradizionale non era riuscito a colmare, s’impegnò per dare forma e sostanza a strategie di crescita sostenibile, di ridistribuzione delle risorse e di ripensamento dei valori urbani in senso sociale, facendo un più che esplicito richiamo al primo spirito del maragallismo. Il programma era molto ambizioso: lottare contro la precarietà, la povertà e la disuguaglianza, promuovere un reddito minimo garantito, creare posti di lavoro con condizioni dignitose, evitare gli sfratti per motivi economici, costruire case popolari, assicurare acqua, luce e gas a prezzi accessibili alla cittadinanza, combattere i privilegi in politica, sostenere la trasparenza e favorire processi partecipativi, appoggiare la piccola e media impresa, il lavoro autonomo, il commercio a km zero e l’economia cooperativa, investire nel trasporto pubblico a prezzi sociali, rafforzare la sanità e l’educazione pubblica, rimunicipalizzare i servizi che sono stati privatizzati, garantire i diritti sociali, lottare contro il razzismo, la violenza di genere e il sessismo, trasformare Barcellona in una città rispettosa della diversità.

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“Bisogna dare spazio alle migliaia di persone che stanno inventando, creando, proponendo e che sono speranza. In quanto sindaca, io mi chiedo, sempre, ogni giorno, non solo come gestire al meglio le risorse pubbliche, ma anche come dare potere a questa cittadinanza che ha tante buone idee e voglia di fare. Il mondo in cui viviamo è complesso, in questo periodo storico ci stiamo confrontando con l’ascesa dell’estrema destra e il ritorno del fascismo, però non ci possiamo deprimere, questo è vietato.”

La giunta Colau, dopo quattro anni di alti e bassi, caratterizzati dalla questione indipendentista e dalla crisi interna dell’alleato Podemos, si concluse con l’alcaldesa pronta a ricandidarsi per un secondo mandato. La campagna elettorale fu caratterizzata soprattutto dal tema legato all’indipendentismo, sulla quale Colau questa volta si espresse in questo modo: “sono repubblicana convinta: ma non ingannerò i cittadini. La Catalogna non è una Repubblica. Dunque, Barcellona non può essere la capitale di una repubblica che non esiste”.

Alle elezioni del 26 maggio 2019, Ada Colau è stata sconfitta, sia pure per soli 5 mila voti, da Ernest Maragall, fratello di Pasqual Maragall, con trascorsi sia nel consiglio dell’Ajuntament che nella Generalitat come ministro per Montilla prima e come consigliere per Torra in seguito e presente alle elezioni come candidato del partito separatista catalano ERC. BeC ottenne il 20,7% dei voti, mentre ERC il 21,4%; al terzo posto il PSC 18,4%; mentre al quarto, nonostante la forte candidatura di Manuel Valls, ex Primo Ministro francese, Ciutadans (Cs) ottenne solo il 13,2%, guadagnando sei seggi. Seguono infine Junts, la formazione che fa riferimento all’ex Presidente della Generalitat catalana Carlos Puigdemont, col 10,5% dei consensi ed il PP che ha superato lo sbarramento per il rotto della cuffia (5,01%) guadagnandosi rispettivamente 5 e 2 seggi. I risultati tuttavia non manifestarono una maggioranza assoluta, il 15 giugno successivo, in seguito ad un accordo governativo con il Partito socialista della Catalogna (PSC) e all’inaspettato

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appoggio di Manuel Valls, Ada Colau fu rieletta alcaldesa, vedendo così per la prima volta Barcellona amministrata da un rappresentante di una lista che non risultò essere la più votata. Nelle tre settimane che si intervallarono tra le elezioni e la rinomina di Colau, si discusse su una possibile alleanza a tripartitica tra BeC, ERC e PSC, la nomina a sindaco di Ernest Maragall o la riconferma di Ada Colau. Il primo scenario era impossibile a causa dello scontro ideologico: indipendentisti e PSC, che appoggiò l’applicazione dell’articolo 155 in Catalogna dopo il referendum del 1° ottobre 2017. Dunque, la scelta di BeC era creare un’alleanza con il PSC e proporre Colau come alcaldesa, oppure stipulare un’intesa con ERC ma con Maragall alcalde. Prevalse la prima opzione che come già detto venne accompagnata dal fondamentale contributo di 3 voti dei 6

seggi del Cs che Valls impiegò per non ritrovarsi un alcalde indipendentista. La decisione di accettare i voti di Valls ha comportato serie critiche da parte del mondo indipendentista, a partire dal presidente della Generalitat Quim Torra che ha parlato di “un’operazione di Stato” fine a danneggiare gli indipendentisti. Da poco iniziato, il secondo mandato di Colau inizia in uno scenario ben diverso rispetto alla sua prima festosa elezione: tensione, rancore e tanta preoccupazione danno il via al nuovo consiglio comunale, accolto fuori dall’edificio da alcune centinaia di sostenitori di BEC divisi dalle transenne da circa duemila militanti indipendentisti e attivisti della sinistra che contestano la scelta della sindaca di farsi eleggere con i voti di quei partiti che hanno sostenuto la repressione contro gli elettori del 1 ottobre, il commissariamento delle istituzioni catalane e il processo contro i leader indipendentisti.

L’alcaldesa, costretta ad entrare in consiglio dalla porta sul retro dell’edificio dell’Ajuntament per evitare contestazioni si troverà ben presto a dover contrattare con la destra per evitare un ulteriore ridimensionamento del già timido programma di riforme che la sindaca ha attuato o promesso di attuare negli anni scorsi.

Ada Colau con Ernest Maragall tra i manifestanti in piazza Jaume I

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MACBA | MUSEU D’ART CONTEMPORANI DE BARCELONA

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L’analisi dei contenitori museali parte dalla Ciutat Vella e dal Raval, il quartiere che ha rivestito particolare importanze nella precedente parte del testo, in quanto principale laboratorio delle operazioni realizzate in seguito alla riforma urbana attutata dai socialisti del PSC. L’area nord del Raval, dopo quasi trent’anni di demolizioni, cantieri, espropri, proteste, oggi rappresenta un importantissimo cluster museale, che propone una vasta offerta di attività e spazi multifunzionali flessibili, distribuiti intorno ai due musei aperti al pubblico negli anni Novanta, rispettivamente il Centro di Cultura Contemporanea Di Barcellona CCCB nel 1994 e il Museu D’art Contemporani De Barcelona MACBA inizialmente previsto per i giochi Olimpici ma inaugurato solo nel 1995. L’impatto di questo insieme di infrastrutture culturali può essere apprezzato concretamente nella maggiore diversità di iniziative artistico- culturali e nel cambiamento sociale del quadrante rionale in cui si trovano.

L’economica è mossa grazie soprattutto ai numerosissimi turisti che affollano ogni giorno i vicoli di un quartiere che fino a poco meno di quarant’anni fa erano considerato la vergogna dell’intera città. L’urbanizzazione dell’area che oggi ospita i due musei che si articolano intoro a Plaça de Joan Coromines ha inizio nel 1800, quando Carlo IV autorizzò la creazione di un istituto di beneficenza, la Casa de Caritat, una casa di riposo per fornire rifugio ai membri più svantaggiati della società.

Realizzata due anni dopo, nel 1802, nel corso del tempo la Casa de Caritat riuscì, grazie all’insegnamento di mestieri specializzati proprio all’interno dell’ospizio ad autofinanziarsi ottenendo introiti da più parti. Questo organizzava estrazioni a premi, balli in maschera e corride. Produceva elementi essenziali di base come biscotti, aghi, tessuti, tagliatelle, sandali in corda, cotone ed abbigliamento. Le sue attività più redditizie includevano in particolare la concessione municipale del servizio funebre nel 1838 e, in particolare, la creazione di una delle più importanti macchine da stampa della città. Nel 1868, in seguito alla Legge sulla Carità pubblica del 1853,

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vi fu il trasferimento della responsabilità dell’istituzione al Consiglio provinciale di Barcellona (Diputació), contrariamente a quanto avvenuto durante il breve periodo della Generalitat repubblicana (1932-1936), quando la Casa de Caritat era di esclusiva responsabilità del governo catalano; in quel periodo furono apportati significativi miglioramenti, specialmente nel trattamento degli ospiti e nella scolarizzazione del personale docente. La Casa de Caritat cessò di funzionare nel 1957 con il trasferimento e l’inaugurazione nei nuovi locali nel distretto di Vall d’Hebron. Con la fine del franchismo, in città si cominciò a discutere della possibilità di realizzare un museo di arte contemporanea. Nel 1985, ispirato allo studio “dal Liceu al Seminari” realizzato dagli architetti Tusquets e Clotet nel 1980, fu realizzato il PERI per l’area del Raval, il quale prevedeva per la zona nord del quartiere la rifunzionalizzazione in chiave

Casa de Caritat, ‘800

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culturale e ricreativa di un gran numero di edifici pubblici inutilizzati ed in pessimo stato di conservazione, tra questi la Casa de la Caritat. Lo stesso anno, l’allora consigliere per la cultura della Generalitat Joan Rigol, insieme ad alcuni rappresentanti del dipartimento della cultura dell’Ajuntament, stipularono un accordo che portò alla creazione del consorzio “Casa de la Caritat”, composto dal governo della Catalogna e dal Consiglio comunale di Barcellona, decidendo di ospitare il nuovo museo nell’ex Casa de la Caritat. La scena cambiò quando l’ambizione olimpica dell’alcalde Maragall produsse il 15 aprile del 1986 un accordo formale con l’architetto americano Richard Meier, in seguito ad un dibattito al Forum sull’economia mondiale di Davos dove, il sindaco domandò all’architetto quale tipo di edificio gli sarebbe piaciuto progettare per la Barcellona Olimpica, ricevendo come risposta un museo.

L’edificio de la Casa della Caritat risultava interamente tutelato dalle descrizioni del Càtaleg, il quale lo vincolava con un livello “B”, ovvero bene di interesse storico, artistico, archeologico tipico o tradizionale. Maragall intervenne e sottopose alla decatalogazione l’ala dell’edificio ricadente su Carrer Ferlandina a causa del pessimo stato, concedendo quindi il diritto di abbatterla e costruire al suo posto un edificio ex-novo. L’anno seguente, fu istituita la Fondazione Museu d’Art Contemporani di Barcellona, presieduta dall’imprenditore Leopoldo Rodés che aprì la strada all’iniziativa privata nel progetto. Lo stesso anno fu ratificato e firmato l’accordo con Meier. Il 26 giugno del 1988, con la collaborazione di Fernando Ramos, Meier presentò pubblicamente il plastico del MACBA, poco dopo la creazione del Consorzio del Museu d’Art Contemporani di Barcellona, composto dal governo della Catalogna, dal Comune di Barcellona e dalla Fondazione Museu d’Art Contemporani di Barcellona. Parallelamente all’apertura del cantiere del MACBA, nel 1989 sull’onda della grande trasformazione del Raval, nacque un ennesimo consorzio formato questa volta non dal governo catalano, ma dalla Diputació e dall’Ajuntament

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di Barcellona, il quale portò alla realizzazione del CCCB nella restante parte dell’ex Casa de la Caritat. La direzione del Centro commissionò all’inizio del 1991 agli architetti Helio Piñón e Albert Viaplana, con la collaborazione di Eduard Mercader, il progetto di ristrutturazione e di riqualificazione della struttura.

Insieme al MACBA, il quale però si poneva ben oltre quelle che erano le politiche partecipative della riforma, entrambi progetti suscitarono il dissenso dei cittadini e delle associazioni di vicinato del distretto le quali, tentarono inutilmente in quegli anni di fermare i progetti in favore della realizzazione di un centro di accoglienza per anziani. Il CCCB fu il primo progetto ad essere ultimato venendo inaugurato il 25 febbraio 1994, mentre la presentazione al pubblico del MACBA, originariamente programmata prima delle Olimpiadi, venne posticipata a causa dei ritardi per l’ultimazione dei lavori, venendo aperto solo il 28 novembre 1995. Nel 2011, il CCCB incorporò un nuovo edificio, il Teatre CCCB, l’ex teatro Casa de la Caritat, rinnovato dagli architetti Elías Torres e Martínez Lapeña. Partendo dal CCCB, il primo intervento completato in ordine cronologico, questo vede posti i due ingressi principali in corrispondenza di Plaça de Joan Coromines e Carrer de Montalegre, due dei quattro lati che circondano il Pati de les Dones, il grande cortile, punto focale degli utenti, che occupa l’area centrale del CCCB. È un grande spazio aperto, ideale per festival, concerti e grandi presentazioni, in cui gli edifici storici dialogano con la moderna facciata in vetro che chiude il cortile lungo il lato nord. Infatti, l’edificio attuale si basa su una volumetria molto definita su tre delle sue quattro facciate interne, mentre l’ultima, che costituiva l’ex l’ala nord-est dell’edificio e che ha visto al suo posto realizzata una nuova facciata in lamina di cristallo sviluppata in altezza fino a raggiungere il livello delle ali adiacenti, per poi curvare ad angolo ottuso fino a raggiungere i 30 metri di altezza, così da riflettere sul suo prospetto le decorazioni di ceramica e graffiti risalenti alla fine degli anni ‘20 del secolo scorso, altrimenti non percepibili all’interno del patio. Così

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facendo, la facciata moderna delimita e sfonda virtualmente lo spazio interno, risultando perfettamente contestualizzata con i corpi preesistenti.

Patio de les Dones, CCCB

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Funzionalmente questa nuova facciata ospita verticalmente gli spazi di comunicazione, scale mobili, ascensori e sale conferenze. Alle sale espositive si accede da sotto il livello del piano di calpestio del Patio, attraverso una rampa che corre parallela rispetto al nuovo edificio posto sulla l’opposta. A marcare l’ingresso e a schermare la rampa è posta una grossa lastra di marmo sulla quale si appoggia un piano seduta anch’esso di marmo, dove chi sosta può ammirare il cortile e la nuova architettura. L’interno tra sale di esposizioni, conferenze, aule, librerie e auditorium raggiunge i 15.000 m², a cui vanno sommati i 3.164 m² guadagnati grazie all’apertura del Teatro che ha dato al Centro migliori condizioni funzionali per implementare la sua programmazione. Questa nuova sede include la Sala Teatro, una sala polifunzionale di 500 persone e la Sala Raval, con una capacità di 170 persone. Il CCCB nasce con l’obiettivo di diffondere la cultura urbana e unire tre mondi: creativo, accademico e pubblico e fin dalla sua apertura promuove un multiforme programma di attività che spazia dalle mostre temporanee di respiro internazionale, premi di architettura, convegni, letture, performance dal vivo e concerti fino ad altre incentrate sulla valorizzazione della cultura catalana. Inoltre, questo dispone in corrispondenza dell’ingresso da Plaça de Joan Coromines di un proprio bar, un ristorante e una libreria, tutti posti dove godersi una pausa tra un evento e l’altro, mentre sull’ingresso da Carrer de Montalegre è presente il Bookshop. Plaça Joan Coromines oltre ad essere in diretta connessione con il patio de Les Dones, è collegata sul versante occidentale, attraverso un vicolo stretto tra il nuovo Teatro e la chiesa di Santa Maria de Montalegre restaurata insieme al patio Manning nel 1986, alla Plaça Terenci Moix, caratterizzata da spazi dedicati allo sport arricchiti da un nuovo edificio sede della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Ramon Llull.

Plaça Terenci Moix

Plaça de Joan Coromines

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Plaça Joan Coromines è tempo stesso anche uno spazio di transizione che conduce a con Plaça dels Àngels (piazza che ospita l’ingresso principale del MACBA), formando così un unico sistema di spazi aperti fra il CCCB e il MACBA. Il museo progettato da Meier è dedicato fondamentalmente all’esposizione di opere realizzate della seconda metà del XX secolo, ma fin dalla sua apertura è stato un’istituzione fondamentale nel processo di costruzione di una collezione d’arte pubblica in Catalogna, svolgendo tutt’ora un ruolo decisivo nella riflessione, nella ricerca e nella diffusione dell’arte contemporanea. Il museo sorge su una quota elevata rispetto a Plaça dels Àngels e consiste in una combinazione di elementi rettilinei e curvi, su una base di

120 x 35 per un’altezza di 23 metri che occupa complessivamente 14.300 m2 di superficie totale. Al centro del museo è posto un volume cilindrico che attraversa tutti i piani: dal seminterrato al tetto, organizzando tutte le aree espositive lungo un asse longitudinale su tre piani. Accanto a questo volume, è presente il collegamento tra Plaça dels Àngels e Plaça Joan Coromines grazie ad un sistema di connessione capace di produrre una nuova tipologia di relazione spaziale. Infatti, il passaggio tra i due spazi è accompagnato da una superficie continua che fa da fronte all’edificio sulla quale si addossano volumi e superfici. Tra questi: l’ampia vetrata dalla quale si intravede la rampa interna che dà accesso alle sale espositive poste nei piani superiori, il

Vista zenitale della relazione tra gli spazi pubblici

Connessione tra le piazze tramite un’apertura del MACBA

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grande ingresso espositivo, l’enorme volume curvilineo che ospita all’ingresso il bookshop con un affaccio anche su Plaça Joan Coromines. Questo passaggio divide l’edificio in due corpi di fabbrica, uno più grande che fa da quinta a Plaça dels Àngels e l’altro che offre un percorso alternativo per giungere a Plaça Joan Coromines e rispettivamente adibiti all’ area espositiva il primo e alla sezione amministrazione e bar il secondo. L’area dell’edificio dedicata alle mostre si compone da una grande Hall a tutta altezza, arredata da tanti puffi, tondi e quadrati, bianchi o neri, dove è possibile stendersi comodamente e godere sia della vista sulla piazza grazie all’imponente vetrata esterna ritagliata in più punti dalla quale fuoriescono un balcone ed un corpo scale cilindrico, sia degli ambienti espositivi a cui si accede tramite la già citata rampa, la quale corre parallela alla vetrata. L’effetto complessivo per chi osserva l’edificio da Plaça Dels Angeles è quello di un enorme contenitore parallelepipedo colorato di un bianco brillante ammorbidito dalla luce esterna

Esterno del MACBA, dettaglio area uffici e bar

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che penetra all’interno dell’edificio attraverso gallerie aperte e grandi lucernari. Altri interventi realizzati a completamento del progetto furono l’apertura del nuovo dipartimento di storia e geografia dell’Universitat de Barcelona su Carrer de Montalegre, che insieme alla Ramon Llull, costituisce un piccolo distretto universitario; il recupero de Convent del Àngels posto difronte al MACBA convertito in spazio espositivo e teatro per ospitare eventi culturali organizzati dallo stesso museo; la costruzione del MACBA Study Centre sul lato sud di Plaça dels Àngels, aperto nel dicembre 2007 per ampliare la sfera di attività del MACBA come centro per la conservazione delle collezioni di documenti e per la ricerca, il dibattito e la diffusione. Questa missione si svolge attraverso l’Archivio e la Biblioteca accessibile al pubblico. Per quanto riguarda la gestione del MACBA, l’ultimo assestamento risale al 14 aprile 2008 quando il Consiglio del Consorcio del Museu d’Art Contemporani de Barcelona approvò un nuovo statuto definendo una nuova struttura, la quale

Esterno del MACBA, prospettiva sulla facciata principale

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prevede che le tre amministrazioni pubbliche che compongono il Consorzio contribuiscano al finanziamento necessario per la gestione quotidiana del Museo, mentre la Fondazione MACBA è responsabile della generazione del capitale necessario per costruire la collezione permanente. Insieme, il CCCB e il MACBA, il primo frutto di un intervento di rigenerazione e l’altro di un progetto ex-novo, costituiscono non solo un importante nodo culturale, ma rappresentano forse l’intervento più riuscito della riforma attuata per la riqualificazione del quartiere del Raval, anche se con dei risultati diversi rispetto alle aspettative.

Infatti, lo spazio pubblico adiacente ai contenitori è diventato un ambiente vissuto ben oltre gli orari museali, con una enorme capacità attrattiva che non si è fermata solo a turisti e residenti più o meno limitrofi al cluster museale, ma che si è spinta fino al punto da diventare uno dei principali luoghi di ritrovo dei giovani dell’intera città, in particolare della categoria degli skaters, la quale è diventata una vera e propria peculiarità, un’attrazione di Plaça Dels Angeles quasi quanto l’architettura di Meier, invadendola e facendo delle sue sedute delle piste per lo skateboarding. A questo fenomeno sociale, è seguito un importante sviluppo commerciale ed economico dell’isolato con l’apertura di numerosi bar e ristoranti i quali, pur non risolvendo il problema della microcriminalità e della prostituzione presente nel quartiere del Raval, riescono se non altro a trasmettere una certa sensazione di sicurezza almeno fin all’orario di chiusura delle attività. Il cluster si è dimostrato essere un fondamentale dispositivo sia fisico che socioculturale, capace di rivitalizzare un’area da sempre depressa creando non solo un polo turistico e quindi una spinta all’economia, ma realizzando una nuova e variegata offerta di spazio pubblico. A questo successo ha sicuramente contribuito la qualità delle nuove architetture e la loro capacità di inserirsi in contesto consolidato.

Rapporto tra la piazza, il MACBA e il convento

Dettaglio skaters all’esterno del MACBA

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L’opera di Meier si inserisce in un articolato tessuto storico, che come detto negli anni immediatamente precedenti all’inizio del cantiere, non trovo l’entusiasmo dei cittadini ed in particolare degli abitanti del Raval. Oltre a dubitare sull’edificio, troppo moderno per un quartiere così vecchio, non comprendevano l’utilità di una piazza così vuota e grigia. Ma in seguito, come abbiamo detto, ci hanno pensato gli skaters a darle un senso.

Esempio di come l’architettura pubblica assuma il suo reale significato solo nel momento in cui viene contaminata dagli usi dei suoi abitanti. Di certo, Meier quando progettò questo spazio non aveva certamente pensato a questa finalità, anche se, durante la sua realizzazione, nel periodo di massimo splendore del modello Barcelona, propagava il pensiero che la forza intellettuale del contenitore avesse più valore del contenuto stesso, possedendo la capacità di irradiare valori culturali, urbani e civici capaci di generare prosperose e variabili dinamiche commerciali e catalizzarvi flussi di persone ed investimenti da tutto il mondo. Mai come nel caso del MACBA, questo pensiero si è concretizzato e l’area nord del Raval si è ravvivata con l’arrivo di università, negozi, gallerie e gente, tanta gente attirata da un cluster culturale che deve la sua fortuna all’idea cui merito principale resta quello per cui fu pensato da Maragall: un totem al tempo stesso estraneo e affine al tessuto storico in cui venne inserito. Lo stesso CCCB, anche se con obiettivi inizialmente meno evidenti è finito col diventare un punto di riferimento per tutta la città come luogo di mostre e dibattiti, esperienze artistiche provocatorie o innovative ed anche come spazio contenitore per attività pubbliche più svariate.

Plaça dels Àngels

Patio de les Dones

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EL BORN CENTRE CULTURAL MEMÒRIA | CCM

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Restando nella Ciutat Vella, un secondo esempio di progettazione che rientra nella sfera di quelle operazioni che hanno conseguito un importante cambiamento fisico e sociale al distretto è quello dell’ex mercato ortofrutticolo del Born, oggi sede del Centre De Cultura i Memòria de Barcelona. La storia di quest’edificio parte da molto lontano, quand’ancora il suolo sul quale oggi è posato era urbanizzato dal vecchio quartiere della Ribera, distrutto dalla guerra di successione del 1714. Successivamente, negli anni Venti con l’erezione delle mura che circondavano l’intera città, l’area divenne lo slargo posto dinnanzi alla nuova cittadella militare che, negli anni Cinquanta ospitava un grande mercato all’aperto. Questo fino a quando con l’abolizione dello status di piazzaforte nel 1854 e con la conseguente espansione e crescita economica della città, nel 1876, in previsione dell’esposizione universale del 1888 (che vide la contemporanea realizzazione del Parc de la Ciutadella), il mastro municipale Josep Fontserè i Mestre completò, su progetto dell’ingegnere Rovira i Trias, la prima struttura in ferro e vetro di Barcellona destinata ad ospitare il mercato rionale.

Questo, con una superficie totale di 8.000 m² caratterizzata dalla presenza di vie interne rettilinee, presentava un ciborio centrale cupolato completamente vetrato che permetteva di incrementare la luminosità interna. Dalla sua apertura, il mercato non rispettò le aspettative, in quanto la percentuale di commercianti che vi lavoravano fu nettamente inferiore rispetto a quella degli altri mercati del distretto come quello di Santa Caterina e della Boquería. Per questa ragione, negli anni ‘20 del Novecento, l’Ajuntament pubblicò un’ordinanza in cui individuò il Born come il nuovo mercato cittadino all’ingrosso di frutta e verdura. La scelta fu dettata dalle monumentali dimensioni dell’edificio e dalla sua prossimità alle stazioni Francia e del Nord. Con il passare del tempo, Il mercato divenne inadeguato alle esigenze dell’ingrosso alimentare barcellonese, venendo chiuso nel 1971, anno in cui la municipalità inaugurò il Mercabarna, società di gestione del poligono alimentare tra la

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città e la provincia di Barcellona. Alla chiusura seguirono discussioni in merito al futuro dell’edificio, la cui demolizione (prevista dal piano urbanistico) fu bloccata grazie all’ordine degli architetti e delle associazioni dei residenti, le quali nel 1979 presentarono in alternativa al PMG, il Pla Popular che prevedeva appunto la tutela e la riqualificazione del mercato.

Durante gli anni ‘80 e dopo un piccolo restauro, lo spazio fu abilitato alla realizzazione di mostre, come quella “Qui és Barcelona?” promossa dal PSC per promuovere le riforme urbanistiche della Ciutat Vella, tuttavia per quasi l’intero decennio successivo, rimase chiuso, in attesa di una decisione sulla sua futura destinazione; molte furono le proposte tra cui: sede del museo di arte contemporanea; trasformazione in piazza con parcheggio sotterraneo; padiglione polisportivo; museo del trasporto e megastore della catena FNAC. Durante gli anni Ottanta e Novanta, il mercato che ospitava le associazioni, venne ristrutturato in più occasioni. Gli interventi,

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effettuati nel 1979, 1888, 1992 e 1996, prevedevano la pulitura e la sostituzione degli elementi strutturali e decorativi, la rimozione delle superfetazioni novecentesche, la ritinteggiatura della facciata e la collocazione di tegole color ocra e rosso sulla copertura. Negli anni Novanta dopo un primo periodo dove si prospettava l’ipotesi che il mercato diventasse sede dell’università Pompeu Fabra, nel 1996 si decise, dopo un accordo che coinvolse il ministero della cultura (PP) la Generalitat (CiU) e l’Ajuntament (PSC), che questo avrebbe ospitato la biblioteca provinciale di Barcellona. Sia per la modalità che coinvolse troppe parti politiche, sia per la scarsa attinenza della struttura a adattarsi come biblioteca, la soluzione sollevò parecchi dubbi, soprattutto nei residenti che rivendicavano l’edificio per il vicinato. Ciononostante, il comune bandì un concorso che, nel 1998 fu vinto da Enric Sòria e Rafael de Cáceres. Nel 2001, con l’esecutivo già in corso, durante le escavazioni del sottosuolo, riemersero i resti delle antiche case del quartiere de La Ribera risalenti alla guerra di successione.

Quando il quotidiano El País rivelò pubblicamente l’eccezionale stato di conservazione dei resti, equivalenti al 3% dell’insieme demolito (composto da 11 isolati, 9 tronchi stradali, 53 abitazioni e una porzione del fiume Comtal), il dibattito inevitabilmente si concentrò sul futuro di quell’inestimabile reperto archeologico.

Associazioni di quartiere ed istituzioni si mobilitarono per la conservazione dei reperti e la loro integrazione nel progetto bibliotecario. Lo stesso MUHBA organizzò numerose visite guidate al quale parteciparono vari raggruppamenti politici municipali, i quali restarono impressionati dal rapporto percettivo instaurato tra l’architettura ferrea di Fontserè e l’antica città riemersa dal sottosuolo. Le opzioni vagliate furono tre: rilievo e rimozione dei reperti, coabitazione dei reperti con la biblioteca e abbandono di questa in favore della conservazione del giacimento archeologico. Nell’aprile del 2002 il rapporto degli archeologici sancì l’incompatibilità di coesione tra la conservazione del reperto e la costruzione della biblioteca, così

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nel 2006, il governo spagnolo che aveva la proprietà del suolo, vista l’impossibilità di realizzare la biblioteca, restituì il terreno al comune; poco dopo, la Generalitat dichiarò l’edificio come un bene culturale di interesse nazionale. La vicenda, all’inizio del XXI secolo, rappresentò un momento importante del rapporto fra politica, architettura e società; in quest’occasione, dopo decenni di semplicistico confronto tra conservazione e contemporaneità, uscì prepotentemente, anche con la fine del modello, l’idea che le pietre, l’archeologia potessero essere il riflesso dell’identità di un luogo, simbolo di valori, che fino a pochi anni prima Barcellona ripudiava in favore del cambiamento. Nel 2011 dunque, Sòria, senza la partecipazione di Cáceres presentò una versione finale del progetto che rispetto alla prima versione, conservò solo la quota stradale, mentre ne aumentò il costo, passando dai 3,5 milioni di euro

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fino a sfiorare i 30. Poco dopo iniziarono i lavori di restauro, i quali durarono due anni, terminando così con la sua inaugurazione l’11 settembre 2013 come Born Centre Cultural, in coincidenza con la commemorazione del 300° anniversario dell’assedio di Barcellona del 1714, alla presenza del presidente della Generalitat Artur Mas e dell’allora direttore disegnato Quim Torra, attuale presidente della Generalitat. La mission del centro dunque venne incentrata sulla promozione dei riemersi reperti archeologici settecenteschi, sulla divulgazione degli avvenimenti correlati all’assedio della città e sulla diffusione dello sviluppo storico dell’edificio mercatale che lo ospita; tutto teso a glorificare la memoria storica del catalanismo, come simboleggia la bandiera catalana posta all’ingresso in cima ad un’asta lignea. Il progetto di Sòria, il quale poco dopo l’inaugurazione vincerà il “Premio Ciudad de Barcelona”, nella

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categoria “Arquitectura i Urbanisme” grazie all’attenzione riposta tanto nella struttura ottocentesca quanto alla memoria archeologica. Il CCM presenta una pianta regolare di 58x 138m con un’altezza variabile dai 15 ai 30m (in corrispondenza del ciborio centrale), accompagnata da quattro ampi ingressi proiettati sul grande scavo archeologico di 8000 m², mentre ai quattro angoli l’architetto pone quattro grandi sale di 600m² ciascuna, le quali ospitano la mostra permanente sul giacimento, esposizioni temporanee, eventi e uno spazio adibito a caffèlibreria. Contemporaneamente alla ristrutturazione del mercato, anche l’area circostante fu oggetto di un intervento urbano fine alla rivitalizzazione dell’area, che fino a quel momento era occupata dall’asse di Carrer del Comerç. Il concorso fu vinto dallo studio Vora Arquitectura, anch’esso premiato dalla città di Barcellona. Il progetto teso a rispondere alle potenzialità di spazio pubblico generate con l’apertura del CCM, eliminò il traffico veicolare e i parcheggi, creando un unico grande spazio pedonale vuoto intorno all’edificio per evidenziarne la monumentalità. La grande peculiarità di questo vuoto è rappresentata dalla sistemazione della pavimentazione che riproduce, scolpita direttamente nel pavimento, la trama del tessuto settecentesco, diventando così un elemento di connessione con la storia e la memoria del luogo. Un lavoro di concettualizzazione e astrazione del tessuto storico tradotto in una composizione veicolata della pavimentazione che, oltre a dare carattere allo spazio pubblico, introduce al tema del museo. Si stima che il costo complessivo tra riqualificazione del mercato e trasformazione della piazza superi i 61 milioni di euro. Oggi il Born CCM è uno spazio storico, un nucleo di memoria collettiva, una struttura culturale unica dotato di uno spazio pubblico concepito per promuovere la massima diversità di usi. Con l’apertura del centro infatti, gli attuali usi si sono intensificati e ne sono apparsi di nuovi legati sia alla fruizione dello spazio di diversi flussi che alle attività commerciali.

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Born CCM, interno

Born CCM, esterno

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DISSENY HUB

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Se i primi due musei esaminati ricadono all’interno del distretto della Ciutat Vella e che per questo vedono il proprio concepimento confrontarsi con le questioni che, come abbiamo avuto modo di osservare nella precedente parte del testo, sono strettamente legate alla riforma della città storica e al problematico rapporto con il patrimonio architettonico, il Disseny Hub e la Can Framis Museum, i due ultimi musei presi in considerazione, vedono la loro nascita legarsi rispettivamente a Plaça de les Glòries Catalanes e all’area nord del quartiere del Poblenou. La piazza posta ai margini del quartiere, nel distretto urbano di Sant Martì, è stata per più di un secolo estrema periferia urbana di carattere produttivo, fino a quando Ildefonso Cerdà la concepì come il centro della città dove confluivano i tre assi più importanti: Avenida Diagonal, la Gran Vìa de les Corts Catalanes e l’Avenida Meridiana. Tra gli anni Sessanta e Ottanta furono realizzati tanti interventi di urbanizzazione della piazza per risolvere gli annosi problemi relativi alla sovrapposizione dei percorsi pedonali, veicolari e ferroviari, senza però mai trovare una soluzione che accontentasse tutti. Con le Olimpiadi, vista la prossimità della piazza con il Villaggio Olimpico, che inevitabilmente avrebbe accentuato la congestione veicolare della piazza, si optò per la realizzazione di due rondas, due viadotti, il Litoral e il Dalt, progettati dagli architetti Andreu Arriola, Gaspar García, Joan Mas e Artur Juanmartí con la consulenza dell’ingegnere aeronautico Adolf Monclús. Questa soluzione non risolse il problema del traffico, ma trasformò la piazza in un nodo congestionato che faceva percepire questa come un luogo tutt’altro che centrale della città. Il viadotto caratterizzò la piazza fino ai primi del 2000 quando, l’Ajuntament e le associazioni ed altri partecipanti, intrapresero un progetto di riqualificazione della piazza e di rifondazione di tutto il quartiere di Poblenou nell’ambito del piano @22 Barcelona – El districte de la innovació, che prevede la trasformazione delle vecchie aree industriali di Poblenou in un moderno distretto produttivo, all’interno del quale attività connesse all’economia

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si integrano con funzioni di tipo residenziale, commerciale e di svago. In concomitanza anche con il progetto del Fòrum, vennero costruiti nei pressi della piazza il Teatro Nazionale della Catalogna di Bofill e la Torre Glòries, allora denominata Agbar, realizzata da Nouvel. Nel 2007 venne presentato il compromís per Glòries, un documento programmatico, frutto di 5 anni di cooperazione tra associazioni e comune, stipulato per la redazione del progetto di riqualificazione della piazza e delle aree confinanti. L’obiettivo posto era quello di trasformare la piazza in un luogo civile e di buona convivenza, nonché in un grande spazio urbano restituito alla collettività, pur mantenendo la sua caratteristica di porta urbana. I principi strategici scelti furono: l’eliminazione dell’anello viario; la creazione di un parco che ridimensioni il transito di veicoli e massimizzi la superficie

Plaça de les Glòries Catalanes, anni ‘90

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verde; l’interramento delle carreggiate della Gran Via; l’integrazione della pubblica mobilità; la costruzione di servizi pubblici concertati e polifunzionali. Fu scelto di realizzare alcuni impianti architettonici di scala metropolitana allo scopo di prolungare e recuperare la Avinguda Meridiana (processo già iniziato con l’Auditori e il Teatre Nacional de Catalunya), venne così introdotto insieme al Mercat dels Encants il Museu del Disseny. Il seguito al concorso bandito dall’Ajuntament nel 2013, la giuria formata da dodici esperti di discipline diverse e da due rappresentanti delle organizzazioni di quartiere, scelsero all’unanimità il progetto “Canòpia Urbana”, nato dalla collaborazione tra l’architetta catalana Ana Coello de Llobet e gli urbanisti francesi UTE Agence Ter. La presentazione esaurì con successo tutte le aspirazioni contenute nel processo di coinvolgimento dei cittadini e nel Compromís, oltrepassando addirittura le richieste formali del bando e trascendendo la dicotomia tra piazza e parco mediante la progettazione di un luogo urbano identitario dal carattere forte e senza precedente alcuno, un nuovo Espacio Glories dove la memoria dei tre assi viari viene reinterpretata secondo un nuovo approccio paesaggistico ed ecologico. Jaime Lerner, presidente di giuria del concorso, descrisse il progetto vincitore come “una proposta innovativa che facilita l’incontro delle persone, sostenibile ed autosufficiente: più eco-architettura che ego-architettura”. Il progetto però, rappresenta soprattutto una tappa della grande infrastruttura verde progettata dallo studio di architettura del paesaggio West 8, in collaborazione con Aldayjover e RCR che connette i parchi limitrofi di Trinidad, Sagrera e Ciutadella in una sorta di diagonale verde che attraversa Barcellona, estendendosi dal margine della città fino al cuore del suo centro urbano. Il Disseny Hub rappresenta allo stesso tempo, insieme alla Torre Glòries e al mercato dels Encants (b720 Arquitectos di Fermin Vazquez), un elemento essenziale della configurazione di Plaça de les Glòries come un nuovo spazio d’uso culturale e sociale della città e simbolicamente grazie alla capacità di

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essere dei forti landmark, il passaggio tra i quartieri di Clot e Poblebou. L’HUB, progettato sul fianco sud-est della nuova piazza dallo studio MBM (Martorell, Bohigas, Mackay), riunisce le collezioni del Museo delle Arti Decorative, del Museo della Ceramica, del Museo del Tessile e dell’Abbigliamento. Oltre a questo, il Disseny Hub è uno spazio aperto cogestito, dove confluiscono attività che vedono istituzioni pubbliche e private collaborare per la promozione, la diffusione e la ricerca nel campo del design, uno dei motori trainanti per l’economia locale, su cui l’amministrazione pubblica vuole puntare per rafforzare la visibilità del marchio Barcellona a livello

internazionale. Al suo interno sono state trasferite le sedi delle due principali istituzioni private legate al design: il FAD (Foment de les Arts i del Disseny) e il BCD (Barcelona Centre de Disseny).

Mentre quest’ultima si occupa di promuovere e sviluppare progetti e attività legati all’imprenditoria autoctona, il FAD rappresenta associazioni di professionisti del settore, e dal 1903 promuove la buona pratica, il design e l’architettura che apportano miglioramenti per la vita delle persone. Insieme agli uffici, si sono trasferiti qui anche il Materfad, il centro di ricerca e consulenza sui materiali innovativi con l’archivio più grande di Spagna e il Centro di documentazione, la biblioteca comunale del Clot-Josep Benet specializzata con un fondo di più di 22.000 documenti, gran parte dei quali consultabili liberamente anche dai non addetti ai lavori. Costruito tra il 2008 e il 2013, il Disseny posa su una base longitudinale semi-sotterranea da cui

Canòpia Urbana, 2019

Disseny HUB

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emergono i cinque piani destinati a vari usi, come ad esempio sale espositive, uffici, laboratori, sale polifunzionali, biblioteca, auditorium e caffetteria. La differenza di quota tra la nuova piazza e Carrer d’Àvila, posta sul retro dell’edificio, ha portato i progettisti ad optare per un piano terra caratterizzato dalla presenza delle scale mobili, protagoniste dell’ingresso posto sul retro del piano interrato, il quale ospita oltre già citate scale, la principale sala espositiva, il centro di documentazione, la biblioteca, gli uffici, le sale dedicate alla ricerca, le aule didattiche e la caffetteria, oltre all’accesso del magazzino ubicato alla quota inferiore. Le scale sono percorse ogni giorno durante l’apertura del museo da numerosi flussi che attraversano il museo per giungere in piazza. L’attraversamento del museo tramite le scale mobili rende il museo parte del tessuto urbano; un’infrastruttura adoperata non solo dai visitatori del museo, ma anche dai lavoratori dell’area, i quali trovano in questo spazio, un luogo dove trovare riparo, intrattenersi, bere un caffè oppure osservare e godere delle mostre temporanee gratuite ospitate all’interno di questo spazio. L’ingresso dal quartiere Poblenou è caratterizzato da una grande gradonata posta sul versante ovest e due grandi vasche d’acqua poste in corrispondenza di tutto il prospetto interrato del Disseny, intervallate solo dalla passerella d’ingresso, ponte tra la piccola piazza e l’ingresso del museo. Su queste vasche, dalla profondità irrisoria, riflettono le ampie vetrate del museo che, in alcuni punti lasciano intravedere gli spazi interni, come nel caso dell’area ristoro. Intorno alle vasche si articolano alcuni punti di seduta, spazi di transizione tra l’area sud del museo e il suo corpo principale posto su piazza Glòries. Questi spazi fuggono dalla dinamicità della piazza e dei vicini luoghi di commercio come il mercato o il centro commerciale; sono spazi silenziosi, fermi nel tempo, dove è possibile riposarsi, scrutare il profilo del museo e della torre Glòries ed ascoltare solo il fruscio delle foglie della vegetazione. Il dislivello di 14,5m che si crea ai lati del museo, tra la piazza e il suo retro è trasformato in spazio

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Scale mobili interne ed aree esterne del retro del Disseny HUB

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pubblico fruibile dove spicca l’installazione luminosa e acustica, opera di David Torrents, dove i cittadini, con la voce, attivano un motivo luminoso realizzato con LED sulla pavimentazione dello spazio adiacente all’edificio, che è a sua volta una superfice granitica sulla quale il comune dispone sedie, tavolini e sdraio al servizio dei passati. Sull’altro versante, tra il museo e la torre Glòries è presente un grande tappeto verde dove quotidianamente si ritrovano bambini accompagnati dai genitori, giovani e lavoratori sostare in un momento di pausa.

Questo spazio è proiettato sulla grande piazza Glòries come una porta d’accesso a questa che, fornita di fermate di metro, tram e autobus, rappresenta un importantissimo snodo intermodale che collega tutti i principali distretti di Barcellona.

Vasche e ingresso sul retro del Disseny HUB

Aree laterali al Disseny HUB e caffetteria sulla piazza retrostante

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MUSEU CAN FRAMIS

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Per comprendere il valore dell’intervento della Can Framis è indispensabile osservare un approccio multiscalare che miri a comprendere la grande trasformazione in atto con il progetto @22 che, attraverso l’applicazione di politiche urbane integrate, realizza obiettivi sociali e culturali mediante la creazione di strutture pubbliche, spazi verdi, tutela e valorizzazione del patrimonio architettonico industriale e la promozione di una “nuova edilizia”. Queste operazioni preservano e rafforzano l’identità socioculturale e l’unicità di un contesto unico nel panorama cittadino. Il quartiere Poblenou ricade nel distretto di Sant Martí, confinante ad Est con il distretto di Sant Adrià de Besòs, a Ovest con la Ciutat Vella, a Nord con il distretto di Sant Andreu, mentre a sud il limite è delineato dalla fascia costiera.

Il distretto, si originò nel nucleo abitato di Sant Martí de Provençals, una zona umida, con lagune circondate da giunchi che diedero il nome a strade come Carrer de la Llacuna o del Joncar. L’abbondanza di acqua, la grande estensione e il basso prezzo del suolo, favorirono durante il XVII e XVIII secolo, l’istallazione di cortili delle fabbriche tessili dove, i tessuti venivano bolliti, sbiancati ed essiccati. A metà del XIX secolo, proliferarono i vapori, in seguito utilizzati per alimentare industrie elettriche. Sul finire dell’Ottocento, Poblenou diventò l’epicentro catalano dell’industria iberica, guadagnandosi il soprannome della “Manchester catalana”. Nel corso della prima metà del XX secolo, il quartiere si consolidò come zona industriale e operaia, aumentando in maniera considerevole il proprio tasso demografico, diventando un’importante zona residenziale; successivamente nella seconda fase del Novecento, ci fu un costante e intenso processo di deindustrializzazione che ebbe come conseguenza la ritrovata disponibilità sul mercato di grandi appezzamenti di terreno. Il punto focale su cui si articolò la prima fase di trasformazione del quartiere fu l’apertura del Passeig del Triomf, risalente al Pla per L’Eixample di Cerdà. In seguito, nel 1986, il nome cambiò in Rambla del Poblenou, nome utilizzato dai cittadini fin dalla sua

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apertura. Successivamente all’apertura della Rambla, cominciarono a manifestarsi nuovi usi per i contenitori industriali dismessi; alcuni furono utilizzati come loft, altri adibiti a studi, laboratori, magazzini o sedi di entità diverse, i quali convivevano all’interno del quartiere con case costruite durante il XIX e il XX secolo, spesso disposte intorno alla già citata Rambla del Poblenou. Il cambiamento più importante però, si ebbe nel periodo olimpionico quando si attuò la grande trasformazione del quartiere con la costruzione del porto e del villaggio Olimpico. In seguito alle Olimpiadi, come abbiamo detto nei primi anni del 2000, l’Ajuntament lanciò il progetto @22 che consisteva nel riconvertire 200 ettari di terreno

Poblenou, prima metà del ‘900

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industriale del quartiere Poblenou in un distretto produttivo di innovazione tecnologica, trasformando in patrimonio industriale alcuni dei complessi più importanti della città.

All’interno di questo progetto fu contemplata la protezione del ricco patrimonio industriale sito all’interno del quartiere. Per favorire il processo di recupero dei simboli della memoria industriale del Poblenou, nel 2006 il Comune incluse nel Càtaleg della città ben 114 tra elementi e complessi industriali, contribuendo a definire lo spazio urbano del Poblenou tutelando fabbricati, vicoli, edifici residenziali e particelle catastali con strumenti normativi specifici. Tra questi, quelli di maggior rilievo sono la Can Ricart, un impianto industriale unitario di stile neoclassico che non ha subito modifiche strutturali dalla sua costruzione, e la Can Felipa, un’antica fabbrica tessile del 1855 che oggi ospita l’archivio storico di Poblenou e persino un teatro. Un’importante operazione legata al recupero delle fabbriche dismesse e che segnò l’inizio del cambio di tendenza del quartiere è stata la realizzazione del Campus Audiovisual Ca l’Aranyó dell’Università Pompeu Fabra, una delle più prestigiose della Spagna e dell’Europa, istituita nel 1990. Il Campus, che rispetto al Museu Can Framis si trova sull’altro versante del Carrer de Tànger è un’opera allo stesso tempo di conservazione e riqualificazione della vecchia fabbrica tessile di Ca l’Aranyó e la costruzione ex-novo di nuovi edifici. La fabbrica, costruita nel 1972 dalla società britannica di strutture Prince Smith & Sieso ma diventata operativa solo nel 1977. Questa seguendo il modello della scuola di Manchester, combinò la struttura in metallo inglese con il tradizionale sistema di volta catalano, seguendo gli allineamenti del Pla Cerdà de l’Eixample, facilitandone la sua sopravvivenza e integrazione nei nuovi piani urbani della zona. La fabbrica chiuse nel 1986, iniziando un lento processo di degradamento delle sue strutture fino a quando, nel 2004, si decise di utilizzarla per ospitare il campus audiovisivo dell’Università Pompeu Fabra (UPF). L’anno successivo, nel 2005, gli architetti Antoni Vilanova e Eduard

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Simó eseguirono vari lavori di consolidamento e riparazione.

Ma è grazie al lavoro di Josep Benedito e Ramon Valls nel 2009 che si realizzò l’adattamento al nuovo uso; i due furono anche autori del nuovo edificio universitario su Carrer de Roc Boronat che fa da fronte anche alla corte interna. Questo è costituito da due volumi simmetrici con una facciata alta dieci piani, collegati tra loro ai livelli di accesso, patio, piano interrato e ai tre piani superiori. Un terzo volume, di altezza inferiore e di colore granato, completò le quattro facciate che andarono a costituire la nuova piazza interna, impreziosita dal recupero della vecchia ciminiera della fabbrica. La nuova piazza dialoga con l’esterno, è un luogo poroso, attraversabile grazie alle aperture poste tra la vecchia fabbrica e i nuovi edifici e tra i nuovi edifici stessi.

Usufruibile non soltanto dagli studenti universitari, ma da tutti coloro che vogliono godere di uno spazio pubblico intrinseco di significati. Negli ultimi anni dunque, il quartiere si è evoluto verso il lato creativo, configurandosi come il nuovo distretto delle arti e della cultura alternativa di Barcellona grazie alla comparsa oltre alle già citata università, di atelier, gallerie alternative, produttori audiovisivi, sale da concerto, studi di architettura, compagnie di danza, agenzie di pubblicità, negozi di mobili, “show-room”, hotel di design, “start-up”, scuole creative e soprattutto di associazioni che alimentano il fervore dell’intero quartiere, come ad esempio la Poblenou Urban District, nata all’inizio del 2012 da un gruppo di aziende e professionisti indipendenti del settore creativo, che si sono uniti con l’obiettivo di promuovere l’offerta culturale e commerciale dell’area e promuovere Poblenou come quartiere artistico e creativo di Barcellona. La Can Framis, come detto sorge accanto l’UPF, nella zona nord del Poblenou, in prossimità di Plaça de les Glòries Catalanes. Il Museo è stato voluto dalla Fondazione Vila Casas, un ente privato che si occupa di arte, fotografia e scultura contemporanea. La fondazione possiede vari musei dislocati fra Barcellona e la provincia di Girona, fra questi il museo di fotografia Palau Solterra a Torroella e il museo

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Can Mario a Palafrugell, dedicato alla scultura contemporanea.

In aggiunta, la Fondazione gestisce uno spazio espositivo a Barcellona, l’Espai Volart, dedicato esclusivamente a mostre temporanee. Inaugurata nell’Aprile del 2009, il museo Can Framis è interamente dedicato alla pittura contemporanea catalana ed ospita al suo interno circa 300 opere d’arte, coprendo un periodo che va dalla fine degli anni ‘60 fino all’attualità, appartenenti a vari artisti nati o che risiedono il Catalogna. Le opere in esposizione sono solo una piccola parte di quelle possedute dalla Fondazione, per cui ogni anno il museo cambia completamente le opere esposte. Oltre alle esposizioni, la Fondazione presenta un ricco programma di mostre

Can Framis, primi anni 2010

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temporanee e di attività in tutte le sue strutture, fra queste una dedicata ad artisti promettenti, che offre loro la possibilità di esporre le proprie opere in una mostra personale all’interno delle proprie strutture. A queste si aggiungono altre attività promosse insieme alle scuole materne e secondarie. Il Museo sorge all’interno di un complesso industriale dismesso composto da tre edifici originariamente di proprietà della famiglia Framis. La conversione della fabbrica fu realizzata nel 2008 dallo studio di architettura BAAS, con a capo Jordi Badia.

Il progetto consisteva nel ripristinare i due attuali edifici della fabbrica e costruirne uno nuovo che avrebbe unito gli altri due, in coincidenza con il sito di un altro ex magazzino (gravemente danneggiato), formando così un cortile, pavimentato con pietre recuperate dall’ex fabbrica, che funge anche da ingresso principale del museo. Il cortile ospita una scultura di Jaume Plensa, donata della Fondazione Vila Casas alla città di Barcellona. Il nuovo corpo, realizzato in calcestruzzo, è composto da tre piani ed è edificato alla stessa quota degli altri due, cioè 1,5 metri sotto il livello della strada. I volumi recuperati, furono riconfigurati utilizzando le medesime tecniche

Vista dalla strada dell’isolato della Can Framis con museo e giardino Dettaglio sul nuovo edificio e sulla soluzione per il salto di quota

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adoperate per la realizzazione del corpo ex-novo, salvaguardando però dettagli originali come archi, finestre e gli stessi mattoni a vista. Il trattamento operato mette in risalto la natura mista del nuovo assetto, dove i segni originari sono in contrasto con la nuova impostazione proposta dal nuovo corpo, creando un collage contemporaneo di trame, buchi e pareti, risultato della stratificazione nel tempo dell’edificio. Badia descrisse la piazza come lo spazio più importante del museo e il luogo più logico per l’ingresso principale dell’edificio mentre evidenziava non tanto la qualità dei corpi fabbrica preesistenti quanto la caratteristica di essere posti su una quota inferiore rispetto alla strada, risalente ad un periodo precedente dell’attuazione del Pla Cerdà. Questa caratteristica ha permesso la realizzazione di creare un giardino intorno all’edificio, sotto

Cortile interno della Can Framis

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forma di una “piccola catena montuosa” per nascondere strade e automobili. Badia fin dal concepimento dell’idea progettuale, vedeva la Can Framis come una sorta di oasi, un luogo tranquillo, uno spazio silenzioso in cui rilassarsi, circondato da alti edifici occupati da molte persone. Attraverso l’utilizzo di dune di legno, l’isolato sopperisce alla differenza di quota rispetto alla strada, riuscendo al tempo stesso sia a creare delle sedute che offrire la percezione di entrare in un ambiente diverso, estraneo rispetto all’esterno; percezione amplificata dalla “foresta” che lo circonda e regala un tranquillo spazio al riparo dal traffico cittadino. Il giardino realizzato dallo studio EMF Landscape Architecture di Marti Franch, si pone come pezzo di natura nel mezzo della città, uno spazio naturale che si presenta come una vera e propria foresta urbana, serena e calma, semplice e

Sentieri del Can Framis Garden

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“selvaggia”: un angolo senza tempo, composto da un fitto mare di edera, pioppi bianchi e querce che avvolgono l’intero isolato, in un’esplosione di colore, dove il trionfo della vegetazione accompagna il museo. La foresta e l’edificio dialogano mediante la realizzazione di sentieri stretti e tortuosi che lasciano immaginare la preesistenza del giardino rispetto al museo stesso. Percorrendo uno di questi, alle spalle del museo ci si imbatte in uno slargo con protagonista la vecchia ciminiera della fabbrica. Inoltre, all’interno della foresta sono presenti diverse aree naturali concepite come un’immersione totale nella natura, tant’è che non è presente neanche la pavimentazione, ma sono delle sedute. Lo stare in uno spazio concepito, disegnato in questo modo trasmette senso di estraneità rispetto a quello che è il contesto urbanizzato in cui è stato realizzato. Il passaggio da un ambiente all’altro si manifesta e lo si avverte nel momento in cui si oltrepassano le onde di legno, entrando nella foresta. Lo si percepisce in tutti i sensi grazie ad un atteggiamento responsabile nei confronti dell’ambiente durante la fase di costruzione e la successiva manutenzione degli edifici, utilizzando semplici soluzioni passive basate sulla saggezza dell’architettura tradizionale e sull’attenzione riposta verso una progettazione ecologica dell’isolato che risponde all’ambiente e alla funzione, caratterizzata da qualità e attenzione nei minimi dettagli e dalla loro integrazione nel progetto.

Rapporto con il quartiere percepito dall’interno e dall’esterno

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CONCLUSIONI “Dopo più di 25 anni di applicazione il cosiddetto modello Barcellona si è esaurito. Le ragioni della crisi sono diverse e si manifestano allo stesso tempo con la necessità di una revisione progressista del modello di città socialdemocratica che si è sviluppato in Europa a partire dagli anni Venti del secolo scorso Il modello Barcellona si è innervato sulla promozione di grandi eventi, sulla comprensione tra lo spirito sociale dell’iniziativa pubblica e gli interessi dell’impresa privata e sulla completa delega ai tecnici dell’iniziativa progettuale urbana. Tuttavia, la città non ha più potere la chiaroveggenza e la capacità di configurare adeguate compensazioni sociali e urbane per gli operatori privati come era stato invece possibile nella metà degli anni Ottanta”. Con queste parole di Josep Maria Montaner,

potremmo semplificare l’ascesa e la decadenza del modello Barcellona tra i primi anni Ottanta e i primi del Duemila, che ha portato oggi la città ad essere diventata da ormai tempo una metà turistica internazionale ambitissima e popolata da quasi 10 milioni di turisti durante il corso dell’anno, generando conseguenze importanti sull’aspetto identitario della città e su tutti gli altri sistemi collegati a quest’evoluzione, come ad esempio i prezzi degli affitti i quali continuano ad aumentare, portando gli affittuari storici ad essere espulsi dalla propria abitazione favorendo i proprietari, che il più delle volte coincidono con agenzie immobiliari estere, a fittare l’alloggio a breve termine, potendo quindi usufruire, tramite i colossi di internet presenti nel settore, di entrate economiche più redditizie. La conseguenza di questo processo che ha generato una complessa opera di gentrificazione, ha portato molti dei quartieri storici a perdere tale connotazione, diventando distretti privi di carattere identitario, confondibili con qualsiasi altro quartiere in Europa o nel mondo, ed alimentando la crescente “turismofobia” dei barcellonesi. Il racconto politico, sociale, economico, architettonico e urbanistico della trasformazione della città, in particolare dalla caduta del regime franchista e l’affermazione della democrazia, risulta 229

importantissimo nel comprendere quelle che sono state le dinamiche che hanno portato alla realizzazione di importanti operazioni pubbliche sia durante la giunta Maragall che quella successiva di Clos. I quattro musei analizzati, rientrano in due dei quartieri maggiormente citati durante il racconto, ovvero la Ciutat Vella e il Poblenou. Il primo, protagonista delle più importanti trasformazioni fisiche e sociali durante il periodo Olimpionico, con particolare attenzione rivolta ad all’area Nord del Raval, che vide nei primi anni Novanta la realizzazione del CCCB e del MACBA; il secondo invece, delle trasformazioni del progetto @22 che hanno coinvolto e coinvolgono tutt’ora il quartiere in un’importante e ambiziosa trasformazione in chiave eco-culturale di tutta l’area ex- industriale dell’area che, partendo da piazza Glòries, corre lungo la Diagonal. Ognuno dei quattro contenitori museali rappresenta un modo e una maniera di valorizzare e trasformare il tessuto urbano, evidenziando e rafforzando il tema culturale e la funzione sociale. Il MACBA ad esempio, rientra in quella sfera di operazioni che punta su un’architettura realizzata da una grande firma, per creare un Landmark capace di innescare nuovi circuiti economici e sociali mentre il CCM Born, punta sulla memoria storica della città, sul patrimonio di un’architettura del XXVIII secolo, per restituire dignità ad un’area ed un quartiere che stava diventando luogo dedito alla microcriminalità. Partendo sempre dal CCM, gli interventi di rigenerazione del Poblenou, fanno leva proprio sulla volontà del recupero del patrimonio industriale della città sempre del XVIII secolo, inserito in quel che abbiamo già citato innovativo progetto del @22 del Poblenou, il quale vede come porta d’accesso, l’avveniristico progetto di riqualificazione della piazza de les Glòries Catalanes, che tra i tanti landmark che propone, vede il Disseny HUB, metaforicamente per il richiamo alla cultura e fisicamente per la sua forma, come porta di accesso all’innovativo distretto culturale.

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TERZA PARTE

LO SPAZIO PUBBLICO, NAPOLI

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INTRODUZIONE CASO STUDIO MANN MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI NAPOLI Il museo Archeologico Nazionale di Napoli MANN ricade in un’area che custodisce una ricchezza nei rapporti, fisici ed immateriali, tra lo spazio e le persone che lo rendono probabilmente un esempio unico nel suo genere. Una singolarità che emerge ancor di più se si considera la storia di questa città e la si guarda da un punto di vista dei processi che ne hanno plasmato l’immagine odierna. La stratificazione storica, le permanenze e le tracce che la natura e la mano dell’uomo hanno prodotto nel corso del tempo spesso si sovrappongono, si intersecano e si affiancano, così di frequente da comportare una lettura complessa e intrinseca di significati. Il contesto nel quale è situato il MANN, si presenta come un luogo contraddistinto dal “limes”, nel suo significato polivalente di strada e di linea di confine. L’edificio si trova, infatti, immediatamente all’esterno del nucleo antico di Neapolis, nel limite nord-ovest, a valle dell’acropoli e a ridosso dell’alveo dell’attuale Via Foria. Un impluvio naturale nel quale confluivano le acque meteoriche provenienti dalle colline nordoccidentali che cingono il nucleo della città greca fondata nel V secolo A.C. L’edificio sorto alla fine del 1500 come dimora della cavalleria Vicereale e successivamente adibito prima a Palazzo degli Studi nel 1616 al poi come sede dell’Università nel 1777.

Oggi, da più di due secoli ospita il MANN, più precisamente da quando nel 1782 Ferdinando IV di Borbone trasferì all’interno di questo enorme contenitore la collezione Farnese. L’area retrostante rispetto all’edificio del Museo e l’edificio stesso rappresentano oggi il risultato di trasformazioni settecentesche ed ottocentesche molto consistenti: dopo il trasferimento della collezione Farnese l’edificio venne trasformato dall’architetto Ferdinando Fuga prima, successivamente dall’architetto Pompeo Schiantarelli ed ancora, agli inizi dell’800 durante l’epoca napoleonica, dall’architetto Francesco Maresca.

Una delle trasformazioni, ad esempio, riguarda il passaggio

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dal livello unico dell’originaria cavallerizza vicereale ai due livelli nati dal trasferimento della collezione Farnese, alla quale si aggiunsero anche le collezioni provenienti dagli scavi archeologici di Ercolano iniziati nel 1738 e di Pompei iniziati nel 1748. del Museo, passando per l’espansione angioina prima e borbonica poi. Una fase molto interessante della storia della città di Napoli, relativamente alla ricostruzione dei processi storici che hanno originato la fondazione del Museo e dei tessuti limitrofi, è quella che va dalla metà del ‘500 fino alla prima metà del ‘700. Un periodo in cui i ceti privilegiati, gli ordini ecclesiastici in particolare, condussero operazioni di lottizzazione fondiaria

MANN, incisione di U.Rizzi, 1841

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tese al conseguimento della massima rendita e del massimo profitto, un modus operandi che si verificò, infatti, anche per alcune aree limitrofe al museo. Il rapporto con questa parte di città dell’edificio museale, dalla sua fondazione fino alla metà del ‘700, presentava una sovrapposizione di disegni legati all’asse di via Foria da un lato e dal tracciato perpendicolare direzionato verso il mare, senza che questi presentassero quella forte relazione che invece si innesta, almeno da un punto di vista teorico, nei progetti degli anni successivi. A partire dalla fine del XVIII secolo invece, in linea con i dettami della cultura contemporanea della città neoclassica, riferiti alle nuove esigenze dovute alla crescita, all’addensarsi della popolazione nei grandi centri, alla fine della città murata, ecc, anche a Napoli si cominciano ad accogliere proposte di radicale modifica del tessuto urbano tesa a relazionare il Museo con altre funzioni, non più costrette solo nell’edificio museale come si era verificato fino a quel tempo, ma che investivano tutto l’ambiente circostante. È del 1789 infatti lo straordinario “Saggio sull’abbellimento di cui è capace la città di Napoli”, scritto da Vincenzo Ruffo, nel quale egli individuando alcuni punti fondamentali da cui dipende la bellezza della città, mise in risalto la sua visione di una città nuova, rispondente al gusto dell’epoca, all’interno della quale si colloca anche la sua ipotesi di ristrutturazione della zona intorno al museo. Il disegno del Ruffo, animato da una sequenza di piazze circolari, annunciate da ingressi trionfali e collegate da vie dritte e spaziose, rimase però sulla carta. Tuttavia, l’idea rappresentò l’apripista dei progetti che nel 1810 diedero il via alla sistemazione di Via Foria con l’allineamento del Largo delle Pigne (l’attuale piazza Cavour), un’opera che permise sicuramente il miglioramento dell’asse di connessione tra il Museo e l’Albergo dei Poveri, ma che lasciò allo stesso tempo aperto il problema della relazione con gli spazi intercettati, il Largo delle pigne su tutti, che si protrarrà fino ai nostri giorni. Uno degli avvenimenti che, invece, più di altri segnò il processo storico di trasformazione

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dell’area compresa tra il Museo e Piazza Dante, è sicuramente il bando di concorso per la “Sistemazione della contrada Fosse del grano”, pubblicato nel 1861, a seguito della demolizione della struttura delle Fosse del grano determinata dall’abolizione nel 1804 del monopolio annonario. Il problema di un’organica ristrutturazione della zona si era posto, in realtà, già negli anni precedenti al concorso, durante i quali tra le varie idee vi fu anche quella di erigere l’edificio del Parlamento sui resti delle Fosse del Grano. Questa, come l’idea ricorrente di un collegamento rettilineo dal Largo del Mercatello (piazza Dante), come prolungamento di Via Toledo, fino dinanzi alla facciata del Palazzo degli Studi, peraltro ripresa dalla maggioranza dei progetti che furono presentati per il concorso del ’61, rimase una volontà irrealizzata. Il Concorso stimolò sicuramente la formazione di proposte interessanti, le quali tuttavia, a causa della realtà economica e politica dell’epoca, oltre alla presenza di forti interessi particolari dovuti alla presenza di proprietà nobiliari ed ecclesiastiche, si tradussero in un semplice Piano di lottizzazione, realizzato poi sul finire degli anni ’60 del XIX sec.

La Galleria Principe di Napoli, realizzata tra il 1870 ed il 1883, su progetto degli architetti Nicola Breglia e Giovanni De Novellis, fu di fatto l’ultima testimonianza di quella volontà di un asse pubblico di collegamento che mettesse in relazione il Museo con Piazza Dante.

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Localizzazione del MANN all’interno del tessuto urbano di Napoli MANN, facciata principale

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IPOTESI Joan Clos che dal 2010, dopo l’esperienza di alcalde di Barcellona e di ministro dell’industria del governo Zapatero, dal 2010 è diventato sottosegretario generale dell’Onu e direttore esecutivo di Un- Habitate, (programma delle Nazioni Unite per gli insediamenti umani) un’agenzia nata nel 1978 allo scopo di promuovere un’urbanizzazione socialmente ed ambientalmente sostenibile e garantire a tutti il diritto ad avere una casa dignitosa. In occasione della quarta edizione del Word Urban Forum nel 2012 tenutasi a Napoli, una conferenza mondiale sulle questioni urbane, promossa proprio da UnHabitate, Joan Clos, presente all’evento, riconobbe il WUF organizzato dal governo italiano in collaborazione con la regione Campania e il comune di Napoli, un immenso successo, con oltre 10mila visitatori accorsi in città per la manifestazione e 152 paesi coinvolti. Nel corso della settimana durante la quale si svolse il convegno, (1-7 settembre) Joan Clos rilasciò alcune importanti dichiarazioni in merito al futuro delle città e la necessità di perseguire uno sviluppo sostenibile in grado di offrire le giuste risposte agli abitanti per migliorare la loro qualità della vita: “affrontare i problemi delle città, che nonostante le distanze si somigliano tutte, significa anticiparli perché, se vogliamo affrontare i problemi quando emergono probabilmente falliremo, per questo dal confronto internazionale deve nascere la capacità di capire i problemi quando stanno per nascere ed anticiparli Il confronto è ricchezza, non per copiare gli altri, perché ogni città ha le sue regole, le sue specificità e i suoi conflitti interni. Ma ognuna deve trovare la propria strada prendendo spunto da quello che fanno le altre, adattando le idee alla propria realtà.”22

Con queste parole, Clos rafforza l’idea di fondo della tesi di riuscire a creare un modello virtuoso di soluzioni, un abaco di best practices versatili e adattabili in diversi contesti. Nel caso specifico, come abbiamo già detto in apertura di questo racconto, il caso studio del MANN rappresenta un esempio di questa ipotesi, che vede la realizzazione di un modello di scelte progettuali replicabili, in uno scenario che mira alla creazione di uno spazio pubblico di qualità nelle aree museali. La centralità del MANN rispetto ai ragionamenti che hanno guidato negli anni l’attività progettuale e le ipotesi di intervento nel contesto urbano in cui si colloca, pongono l’ipotesi di intervento per il miglioramento dello spazio pubblico del MANN, forte del ruolo centrale che il museo sia a livello fisico nel tessuto urbano di Napoli che d’importanza nell’ambiente culturale nazionale ed internazionale, grazie soprattutto alla sua importantissima collezione, su un livello d’importanza privilegiato, rispetto a quella che è l’attuale composizione morfologica dell’area che non rispecchia in alcun modo nessuna delle qualità che abbiamo raccontato finora. Dare valore e qualità a la piazza museo, il basamento che orbita intorno all’edifico, il giardino della Vanella posto alle spalle del museo e che si interpone con il nuovo laboratorio di restauro, ed in generale a tutto l’assetto spaziale dell’isolato museale, sono gli obiettivi che attraverso soluzioni viste nei quattro musei barcellonesi, provo a concretizzare, realizzando uno scenario che vede il riassetto di tutto lo spazio pubblico relazionato con il MANN, fatto di relazioni tra la strada e il museo stesso, avvalorando la funzione pubblica, sociale e culturale dell’area e del museo stesso, proponendo soluzioni anche per l’accessibilità pubblica all’interno del contenitore, caratterizzato oltre dal giardino retrostante, persino da due importanti cortili.

ansa.it/web/notizie/canali/energiaeambiente/istituzioni/2012/09/06/ClosNapoli-passi-verso-visione-citta-future-_7434423.html

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RIFERIMENTI PROGETTUALI I quattro musei barcellonesi precedentemente analizzati, presentano delle caratteristiche particolari, osservabili in maniera multiscalare, dal quartiere dove hanno luogo allo spazio di pertinenza. Queste caratteristiche in questa parte di testo vengono estrapolate e rappresentate graficamente con l’obiettivo di comporre un abaco di best practices, prese come riferimento per un ragionamento legato all’area presa in esame per il museo Archeologico Nazionale di Napoli. La scelta di questi quattro musei è giustificata per due importanti motivi: il primo trova ragione nella due fasi storiche che hanno portato alla loro realizzazione, la prima corrisponde all’ascesa del “modelo Barcelona” (1982/1996) e la sua decadenza (19962006), mentre la seconda iniziata nei primi anni del XXI secolo, corrisponde alle nuove trasformazioni urbane in atto in città nel nuovo distretto culturale del Poblenou. Il secondo motivo invece, è legato all’importante tematica che è stata un filo condutture di tutti i discorsi che si sono articolati intorno alla realizzazione di questi nuovi contenitori culturali, ovvero il tema del patrimonio storico- architettonico. Entrando nel merito, senza scendere troppo nel dettaglio, è indubbio come la realizzazione del MACBA, un grande Landmark realizzato da un grande archistar, abbia influito sulla demolizione di un’ala dell’edifico ottocentesco della Casa de la Caritat, producendo quindi una perdita di patrimonialità a fronte del nuovo.

Discorso diametralmente opposto se si parla del CCM Born, dove a fronte di tanti anni di discussioni, prevalse la scelta di tutelare e valorizzare non solo l’architettura del 1976, ma soprattutto la città settecentesca riemersa dal sottosuolo, a testimonianza proprio di quel cambio di impostazione legata alla tutela del patrimonio sorto in seguito alle critiche poste al Modelo, sottolineato ancor di più dal recupero della Can Framis per farne una nuova centralità culturale.

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Inquadramento del MACBA e del CCCB all’interno del fitto tessuto storico dell’area nord del Raval.

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Piazze, slarghi, corti e corridoi evidenziati all’interno dei margini di influenza fisica dei musei.

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In alto a destra Plaça de Terenci Moix con dei giovani intenti a giocare a Basket; in basso sulla sinistra Plaça de Joan Coromines è un dettaglio sia del Teatro del CCCB che del retro del MACBA.

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In alto a sinistra Plaça dels Àngels con un frame sulla principale funzione che riveste lo spazio; in basso a sinistra il Patio de les Dones aperto al pubblico per un evento.

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In azzurro sono evidenziate le connessioni spaziali tra gli spazi pubblici aperti ed in rosso il percorso pedonale che attraversa dall’interno i contenitori museali, creando una continuità spaziale tra i diversi ambienti.

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Inquadramento del BORN CCM all’interno del quartiere de la RIbera.

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Nelle foto è evidenziata il disegno di suolo della nuova piazza che riproduce sulla pavimentazione la pianta del tessuto settecentesco.

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In azzurro è evidenziata l’accessibilità interna del CCM con quattro grandi aperture poste sulle quattro facciate, poste sulla medesima quota della piazza.

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I punti evidenziati rappresentano la fluente attività commerciale sorta in corrispondenza del museo, che hanno prodotto un rilancio in chiave turistico-culturale dell’intera area, restituendo dignità al quartiere, riproposto oggi in una nuova veste.

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Inquadramento del Disseny HUB all’interno del cantiere di Plaça de les Glòries Catalanes nell’ambito della realizzazione del progetto “canopia urbana”.

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In alto sono raffigurati gli spazi pubblici realizzati sui lati all’estero del HUB, mentre nelle foto in basso è evidenziato l’area pubblica del museo in riferimento all’accesso dal basso.

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Il salto di quota di 15 metri tra l’area posta sul retro del museo è la piazza superiore è risolto all’esterno del museo attraverso due rampe di scale poste agli estremi dell’isolato di pertinenza dell’HUB.

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In azzurro viene esaltata la funzione di infrastruttura dell’HUB il quale, attraverso il corpo scale mobili interno offre una nuova soluzione per la transizione dal quartiere del Poblenou verso la piazza e viceversa.

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Inquadramento dell’isolato della Can Framis all’interno dell’area nord del nuovo distretto produttivo del Poblenou.

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In giallo sono evidenziati il cortile interno del museo e l’accesso a questo posto tra il nuovo corpo e quello recuperato della precedente fabbrica.

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In questo schema è evidenziata la transizione dalla strada verso i sentieri interni dell’”isolato-foresta”.

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Le foto restituiscono la nuova peculiarità delle strade (rientranti nel progetto dei “superblocks”) intorno all’isolato della Can Framis.

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STRATEGIE Prendendo come riferimento i quattro musei barcellonesi, ma avendo una visione ben più ampia di quelle che sono le strategie necessarie per conferire dignità e valore allo spazio pubblico del MANN e configurare una nuova ed inedita accessibilità pubblica all’interno del contenitore museale, le soluzioni proposte vanno ad operare sugli ambienti interni del museo e sulle aree immediatamente a ridosso di questi.

Partendo dall’ipotesi di una nuova accessibilità del MANN e prendendo spunto da alcuni musei, tra cui il Louvre e lo stesso MNAC di Barcellona, i quali condividono con il museo Archeologico la condizione di essere delle gallerie espositive adattate in un contenitore che non nasce con quella funzione, l’idea è quella di consentire l’accesso ad un grande spazio interno che offre l’opportunità sia di poter ammirare alcuni capolavori della collezione o performance artistiche che di usufruire di alcuni servizi e spazi comuni come librerie, bookshop, bar, giardini e cortili. Questo obiettivo non necessità di nessun intervento materiale, ma si articola esclusivamente sulla volontà di eliminare il tornello posto immediatamente a ridosso dell’ingresso principale del museo e porre un servizio di filtraggio all’ingresso di tutte le sale espositive mostrando un titolo di validità. Oltre a consentire l’avvicinamento di nuovi flussi di persone alla tematica culturale, con la prospettiva di incrementare i propri introiti, questa soluzione trasforma radicalmente la percezione del MANN che, da grande mausoleo incastrato in un densissimo tessuto urbano a ridosso di uno dei più trafficati nodi della città, si trasforma in una teca trasparente, permeabile, un’infrastruttura pubblica che mette a disposizione della collettività nuovi spazi e servizi pubblici, fortemente caratterizzati dall’ombra culturale, producendo così un doppio beneficio. La permeabilità dell’MANN è un tema che, partendo dall’accessibilità interna di questo e operando su una scala di riferimento diversa, potrebbe innescare una nuova serie di relazioni spaziali capaci di creare una nuova filiera di 259

Sala d’ingresso del MANN

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percorsi culturali, attraverso il recupero di spazi negati alla collettività, messi in collegamento tra loro mediante seguendo un disegno di suolo che metta in evidenza tali percorsi. Un esempio di questo ragionamento parte proprio dallo spazio esterno al MANN che ad oggi come abbiamo già detto, non presenta alcuna peculiarità capace di esaltarne il valore e nessun spazio in grado di essere utilizzato per l’interazione sociale. In particolare, con l’obiettivo di sopperire alla mancanza di un ampio spazio posto dinnanzi all’ingresso principale, che ad oggi è caratterizzato da un importante basamento dalla profondità risicata che ospita la coda di visitatori in procinto di accedere al museo e il parcheggio per i dipendenti, viene realizzato un ampliamento del marciapiede, riducendo la sezione della carreggiata passando dalle 4 alle 2 corsie. L’inspessimento del

Fila esterna a MANN che si ammassa lungo il marciapiede

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marciapiede fa acquisire una nuova dimensione a quello spazio, quasi a restituirne un senso di piazza, capace dare respiro al museo ed offrire la possibilità di essere un luogo dedito all’interazione sociale e culturale. Questo ragionamento viene rafforzato dall’idea di caratterizzare la pavimentazione posta tra il museo e la galleria in modo tale da rendere quello spazio un luogo che si distingue dalla strada, creando idealmente allo stesso tempo un ponte verso la galleria principi di Napoli, naturale estensione culturale del MANN verso il centro storico della città. Il ragionamento legato alla continuità di percorsi che si prolungano lungo le principali arterie della città gioca su due importanti temi: l’assialità e la cultura. Il primo gioca sulla continuità che da palazzo Fuga a piazza Carlo lll giunge sino a piazza Cavour e il MANN percorrendo via Foria; il secondo

Piazza Museo con dettaglio dell’ampiezza delle sezioni stradali

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invece, fa leva sull’importante patrimonio storico culturale il quale offre numerose riflessioni sulla possibilità di poter creare una continuità di percorsi culturali diramata attraverso il tessuto storico del centro città ma anche del quartiere Sanità posto alle spalle dello stesso museo. Via Foria è una delle principali strade di collegamento tra la zona est della città e il centro di questa; corre lungo tutto il margine del centro storico e nella sezione da via Duomo in poi parallelamente alle mura aragonesi. Nel tratto di piazza Cavour questa vira il proprio angolo, consentendo l’inserimento di nuovi percorsi articolati intorno all’isolato della piazza. Su questa l’idea è quella di riconfigurare una corrispondenza, una relazione tra l’inizio della piazza, attraverso un ridisegno dei giardini, fino alla facciata laterale del museo,

caratterizzata dal recupero del basamento esterno, liberato dalle auto e destinato ad ospitare uno spazio predisposto alla funzione pubblica. L’obiettivo sottointeso in questa operazione di donare spazio pubblico laddove non c’è è quello di limitare l’uso dell’automobile, disincentivare l’utilizzo incontrollato dal mezzo privato, favorendo una mobilità sostenibile capace di attutire l’inquinamento acustico. Il proporre una nuova configurazione dello spazio fisico, caratterizzato da elementi inediti, uno spazio nuovo, una nuova veste per un’area che, pulsante di storia, cultura, architetture, non è mai stata capace di proporre una continuità tra queste meraviglie, ha l’obiettivo di innescare nuovi usi di questo spazio, sulla falsariga di ciò che è accaduto in modo spontaneo all’esterno del MACBA in Plaça dels Àngels con gli skaters o altresì in maniera pianificata come i superblocks del Poblenou. Indirizzare un nuovo spazio verso una nuova funzione, non vuol dire imporre degli usi prestabiliti anzi, talvolta stabilire mediante un processo pianificatori l’uso specifico di un intero spazio, produce degli effetti negativi; è importante in questa fase, stimolare la finalità di senso di quel luogo, lasciando spazio alla casualità, alle persone che sono i veri protagonisti, i principali modellatori dello spazio sociale. In questo senso, il MANN ha l’opportunità di uscire da se stesso, invadere la strada con la cultura, “colorare” quello spazio, infondere un nuovo senso allo spazio pubblico, sovrapponendo quello museale a quello della città, creando una continuità virtuosa, stabilendo una nuova relazione tra museo e città, attraverso la realizzazione di uno spazio pubblico di qualità.

Ultimo tratto di via Foria con prospettiva su piazza Cavour e il MANN

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Aree prossime al MANN prese in considerazione per la realizzazione di una visione di trasformazione dello spazio pubblico intorno al museo, del giardino della Vanella e delle aree attigue come il porticato della galleria Principi di Napoli e gli spazi verdi di piazza Cavour articolati intorno alla stazione museo della metropolitana di Napoli.

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Schema che vede sovrapporsi l’area pubblica del museo e della galleria Principi di Napoli allo spazio pubblico della città, creando una continuità di percorsi, rappresentanti con delle linearità tratteggiate in rosso, dalla città verso il museo e dal museo verso la città.

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VISION

Situazione attuale

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Scenario di trasformazione

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Situazione attuale

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Scenario di trasformazione

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Finito di scrivere: GIUGNO 2020

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