Frammenti di meditazione da pittore su L’ultima cena di Leonardo-tracce

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Frammenti di Meditazione (da pittore) su

L’ULTIMA CENA di Leonardo Tracce

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Michel Pochet

Michel Pochet

Frammenti di Meditazione (da pittore) su L’ULTIMA CENA di Leonardo

Tracce

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PRESENTAZIONE

“Frammenti di meditazione da pittore su L’ultima cena di Leonardo-tracce” è una serie costituita da nove grandi tele libere in cui Michel Pochet medita su L’ultima cena di Leonardo.

Analizzando gli esiti dell’ultimo restauro del Cenacolo, Pochet scopre fra i frammenti del volto di Gesù, le “tracce del sublime”: la tecnica estremamente lesionata, gli sembra che lasci intravvedere l’anima dell’opera che Leonardo da Vinci ha realizzato, la perla preziosa.

Pochet parla di una “porta regale” sul capolavoro vinciano che ci permette di comprendere che Leonardo si fa “portatore di una meditazione originalissima su quel momento essenziale della storia della redenzione”: il volto vinciano mostra un’espressione estremamente originale che ci rivela cosa provava Gesù in quel momento, ci descrive “un Gesù mesto, quasi doloroso, anche se benevolente e sereno”.

Pochet decide di realizzare un’opera in cui mostrare ciò che ha intuito. Come supporto utilizza una grande tela libera di lino grezzo, sulla quale vuole realizzare il volto di Gesù, il suo particolare ingrandito. Leonardo in questi cinquecento anni ha perso la sua tecnica all’interno del Cenacolo, Pochet di conseguenza decide di fare altrettanto. La tempera disgregata del cenacolo lo ispira: Leonardo è privato della sua perfezione, ciò che resta è solo l’anima.

Pochet fa lo stesso esercizio, perde la sua tecnica, la bellezza della sua arte, per raccontare quell’anima. Sceglie di eliminare la sua ricca tavolozza, i suoi segni definiti, utilizzando semplicemente della candeggina con cui togliere il colore della tela grezza. Un’avventura che lo porta a la lavorare al buio, in negativo, constatando il risultato del suo lavoro solo quando la tela si asciuga.

Fa tre tentativi diversi, caratterizzati da un climax discendente di spoliazione tecnica e stilistica in cui l’arte si fa silenzio per lasciare affiorare l’anima. Oltre le tre versioni del grande volto di Gesù realizza anche i dodici apostoli con la stessa tecnica, due per ogni tela, dando corpo ad una grande serie de L’ultima cena di Leonardo, più propriamente, dell’anima de L’ultima cena di Leonardo.

Pochet definisce questo ciclo di opere “meditazione da pittore”, l’invito è quello di soffermarci davanti ad ogni tela in atteggiamento di meditazione, di silenzio interiore, che ci permetterà di fare un’esperienza profondamente spirituale, sfiorando l’anima di un grande artista attraverso l’anima di un artista, entrando in punta di piedi nell’intimità di un dialogo oltre il tempo.

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Percorrendo il bel libro di Electa: Leonardo L’Ultima Cena, che raconta ed illustra splendidamente l'epopea del restauro del capolavoro vinciano, ho guardato a più riprese queste due pagine andando avanti e dietro par veriÞcare la strana prima impressione. Infatti più scrutavo le due fotograÞe più preferivo il volto di Gesù nella seconda.

Come mai? In fondo la seconda fotograÞa non era altro che un particolare della prima, ma guardando il volto nella prima non sentivo la stessa intensa emozione provata guardando lo stesso volto nella seconda.

In quel frangente mi visitaTatiana Falsini, grande amica nonché storica dellÕarte. Le mostro le due fotograÞe e lei reagisce nello stesso modo mio.

Un’altro fatto ci sorprende: l’espressione di questo volto è diversa da quella di altre numerose rappresentazioni dell’Ultima Cena. Leonardo mostra Gesù mesto, quasi doloroso, anche se benevolente e sereno. Non guarda gli apostoli ma neanche il Cielo. Sembra assorto in una rißessione solitaria. Infatti osservando la scena intera, stupisce l’isolamento di Gesù tra i due gruppi di apostoli, sottolineato dallo sfondo chiaro della porta dietro di lui.

Da giovane avevo visto l’Ultima Cena che non mi aveva fatto grande impressione. Dopo il restauro mi ero ravveduto: queste poche tracce del lavoro di Leonardo mi sconvolgevano. Erano le tracce del sublime.

Avevo già sperimentato qualcosa di simile a Santa Croce a Firenze: Il famoso crociÞsso di Cimabue, quasi interamente distrutto dall’alluvione del 1966, mi era apparso addirittura quasi più bello, per lo meno più sublime. Era diventato una porta regale sul Paradiso, un Icona. Avevo forgiato una massima estetica paradossale: Un Icona è quando l'arte è sparita. Cioè quando non c'è più tra il soggetto e il fruitore la Þsica presenza ingombrante dell’artista, ma, in qualche modo, il suo occhio, luce della sua anima.

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Ho passato sette anni della mia vita artistica a dipingere quello che ho chiamato il mio Autoritratto da artista, cioè a rendere conto, da pittore, delle mie più forti esperienze estetiche a contatto con i più vari capolavori incontrati lungo una lunga vita. Uno dei primi quadri di quel mio autoritratto era stato proprio La Gioconda, che mi aveva risolto il grande problema estetico della mia gioventù: l’insopportabile divisione tra sacro e profano. Ora mi sembrava che non potevo accaparrarmi, per il mio solo proÞtto, di quel nuovo intimo colloquio con Leonardo. E mi sono lanciato nell’avventura artistica più rischiosa: rendere conto da pittore della mia visione dell’Ultima Cena di Leonardo.

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Non si trattava di realizzare una copia iperrealista - cosa perfettamente inutile (bastava la foto) e della quale ero ovviamente incapace - ma di tentare di attraversare la “porta regale” verso il sublime che cinque cento anni di storia convulsa avevano aperto nel capolavoro.

Cercare di mostrare, per quanto la mia arte l’avrebbe concesso, quello che credevo fosse, oltre la perfezione artistica perduta, la bellezza pura che ambiva l’anima di Leonardo e che mi si era presentata cosi viva nella foto.

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Ho preso una tela libera di lino grezzo - che amo appunto perché “grezza” e senza nessuna preparazione - che ho “dipinto” con candeggina, cioè togliendo il colore della tela… in qualche modo come avevano fatto i restauratori.

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Ho avuto la curiosità di veder il retro della tela che presentava la stessa immagine rovesciata, simile ma diversa e magari più bella del verso. In seguito ho lavorato alternativamente sui due lati, cosciente che ogni pennellata da una parte produceva un cambiamento sull’altro. Mi sentivo legittimato dal fatto che tante “copie” eseguite da artisti come Delacroix o Van Gogh, sono rovesciate e che Leonardo stesso scriveva da destra a sinistra.

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Confesso che ero piuttosto soddisfatto. Ero riuscito a trasporre nella mia arte qualcosa della foto, senza però scimmiottare Leonardo. L’espressione della bocca era dolorosa ma serena e benevolente. Avevo aperto gli occhi, come sempre nei volti che dipingo, con pure la piccola macchia rossa all’angolo interno. Era un chiaro omaggio a Leonardo, ma non dimeno una autentica pittura mia.

Ero soddisfatto, sì, lo ero… ma… Ma era troppo mia, troppo “bella”, troppo “perfetta”. istintivamente avevo corretto degli anni l’irreparabile oltraggio - per dirlo con Racine - che caratterizzava la foto che mi aveva svelato la sublimità di questa opera martoriata. Inconsciamente mi ero lasciato sopraffare da un umiliante orgoglio di “professionista” del bello, che crede di dover sempre far mostra del suo virtuosismo e della sua bravura. A riguardo della sÞda che mi ero proposta, sostenuto da Tatiana, quella tela era una mezza vittoria o addirittura un mezzo scacco. Ho preso una nuova tela e ho tentato di nuovo l’impossibile.

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La seconda versione mi convinceva di più, perché meglio in sintonia con l’idea originaria. Avevo limitato la mia presenza artistica. Infatti avevo rispettato e, se occorreva, sottolineato l’immagine casuale che la candeggina aveva delineata. Non avevo neanche preteso al “leonardesco”, all’opera miracolosamente “ritrovata” come si è creduto Il Salvator Mundi, restaurato a pennello e imprudentemente comprata all’asta del secolo la modica somma di 450 milioni di dollari.

Quella tela dipinta colla candeggina, cioè togliendo materia più che aggiungendone. mi sembrava, a suo modo, come la foto del libro, ridotta ad una semplice traccia, ma che prendeva ai miei occhi, proprio per questo, la valenza di una icona. Ne ho subito mandato una foto a Tatiana e ne abbiamo ampiamente parlato in una video telefonata.

Tatiana vedeva sul piccolo schermo quella tela che commentavamo e il mio volto. A un certo momento ha espresso una rißessione sconvolgente: le pareva che mi fossi Òintrodotto nella tela”, che i tratti del volto di questo Gesù si sovrapponessero ai miei. Paradosso: cercando di non essere artisticamente una presenza disturbante, pareva che avesse dipinto inconsciamente un vero autoritratto.

Comunque quel mio Volto di Gesù dell’Ultima Cena di Leonardo aveva ricevuto l’approvazione, indispensabile per me, di Tatiana e lÕavrei Þrmato senza aggiungere o togliere niente.

Rimaneva una domanda sia in me che in Tatiana: con questa tela il publico avrebbe capito la nostra scoperta sconvolgente guardando le foto nel libro?

Questo volto non era uno dei tanti volti possibili di Gesù, era il volto di Gesù all’Ultima Cena, cioè lo sguardo paradossale di Leonardo portatore di una meditazione originalissima su quel momento essenziale della storia della redenzione. Perché fosse indiscutibilmente il Gesù dell’Ultima Cena era necessaria la presenza degli apostoli!

Ho tagliato delle teli delle stesse dimensioni di quella del Gesù ma che ho girato per dipingere due apostoli alla volta. Ho dipinto con la candeggina, ma pensando che l’originale milanese era più colorato, ho usato pigmenti e tanta acqua sulle tele disposte per terra, maneggiando vigorosamente una scopa a spazzola per spargere il colore.

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In queste quattro fotograÞe si vede per terra la tela umida e perci˜ più scura, che ho lavorata con la scopa a spazzola.

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Quando avevo dipinto sei apostoli, mi sono accorto che erano troppo diversi per accompagnare il volto di Gesù e mi sono convinto della necessità di dipingere un nuovo volto di Gesù, più in armonia. Ho disegnato su una tela quel volto ma aggiungendo, come avevo fatto in tanti “autoritratti”, il volto benevolente del Padre.

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Però qualcosa in me mi ha impedito di proseguire, non ero tranquillo e ho rimandato la realizzazione di questo nuovo volto. Intanto ho dipinto gli altri sei apostoli.

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Giacomo il minore e Andrea Bartolomeo e Tommaso Filippo e Giacomo il maggiore Giovanni e Pietro Giuda e Tadeo Matteo e Simone

Finita la serie dei dodici, non potevo più procrastinare la sÞda del nuovo volto di Gesù. Intanto si era chiarito in me che non dovevo aggiungere niente di mio e che ci voleva una grande tela. Il tavolo sul quale avevo dipinto tutte le tele precedenti era grande di per sé, ma piccolo nell’occorrenza.

Consentiva solo di lavorare in tre fasce successive. Così ho dipinto nel buio pesto. Scoprivo quello che il “caso” aveva fatto, solo quando la tela era asciutta.

Questa insicurezza radicale non mi turbava. Avevo invece l’impressione, quasi la certezza, che quel “caso”, coscientemente assunto. aveva trasformato il lavoro delle mie mani in quello che la Tradizione orientale chiamava acheiropoeta per certe icone particolarmente venerate, cioè opere non fatte da mano d’uomo.

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Si può legittimamente esitare tra il verso e il retro della tela. Ho esitato, ma decisamente preferisco il retro, anche se…

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