Il difficile mestiere di capo

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Abstract: Essere un buon capo è certo uno dei mestieri più difficili del mondo. La formazione e il coaching possono offrire degli strumenti davvero utili a chi vuole migliorare le proprie capacità di gestire e motivare le persone.

IL DIFFICILE MESTIERE DI CAPO (parte prima) di Luciana Zanon Pubblicato su Aziendaitalia IPSOA, 2009 questo difficile mestiere lo fanno tutti i giorni. Essere un buon capo è certo uno dei mestieri più difficili del mondo. Ed è altrettanto certo che questo è ancora più vero nelle Amministrazioni comunali, dove spesso le logiche che governano la gestione delle persone rispondono più ad esigenze di tipo amministrativo che non a quelle volte al raggiungimento degli obiettivi che la stessa Amministrazione si da o ai bisogni di sviluppo e crescita delle persone.

In questo articolo (diviso in due parti) verranno approfonditi i contributi dell’Analisi Transazionale utilizzati nel corso di un esperienza formativa al Comune di San Giovanni in Persiceto1. Saper rileggere la realtà attraverso un modello semplice ma molto efficace non solo può aiutare ad aumentare le proprie abilità di capo ma può anche contribuire a migliorare il benessere di tutti coloro che 1

In qualsiasi organizzazione ad ogni modo, il capo diretto influenza notevolmente la motivazione e il rendimento delle persone che gli rispondono: se ognuno di noi pensa ai capi che ha incontrato nella propria storia professionale vedrà che ce ne saranno stati alcuni (forse) che ci hanno saputo valorizzare e motivare, capi con i quali il lavoro diventava coinvolgente ed appassionante; ce ne saranno stati altri invece dove il lavoro si trasformava in una lotta continua o in un fardello che

“I dirigenti formano se stessi. Diario di una formazione concreta al Comune di San Giovanni in Persiceto” in Aziendaitalia, n.1/2009 www.lucianazanon.it

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condizionava il nostro umore fin dal

mattino (o dalla domenica pomeriggio).

Ma se queste considerazioni sono facili pensando a quando siamo stati o siamo nella posizione di collaboratori, la faccenda si complica quando ad essere nel ruolo del capo siamo noi. Immediatamente si percepisce la responsabilità di guidare altre persone e, pensando alla nostra stessa esperienza, sentiamo il peso di poter condizionare in maniera

positiva o negativa la motivazione di chi lavora con noi. Forse ci saranno anche capi senza nessuno di questi dubbi e magari saranno anche degli ottimi gestori di persone; certo è che, per quel che riguarda la mia esperienza, specialmente i capi più bravi continuano ad interrogarsi sulla loro capacità di coordinare e sviluppare le persone che gli sono affidate.

Ma quali sono le abilità di un buon capo? Volendo semplificare di molto, possiamo dire che possono essere identificate tre macro aree: le competenze tecniche che il ruolo richiede, le capacità organizzative ed infine le competenze più soft, le qualità umane, che permettono di entrare in relazione con le persone e di gestirle. Le prime due aree tutto sommato sono le più semplici da

acquisire e sviluppare, certo bisogna studiare, leggere, aggiornarsi e confrontarsi ma in definitiva non sono così problematiche. L’ultima area invece, quella che a volte è definita l’area delle qualità personali, sembra più difficile da trattare perché in fondo mette in discussione noi stessi come persone. Quante volte abbiamo sentito la frase “buon capo si nasce non si diventa”? Questa frase testimonia la

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credenza che quello che fa davvero la differenza fra un buon capo ed uno mediocre, siano tutto sommato le qualità che ci sono state date in patrimonio dalla natura fin dalla nascita, piuttosto che gli apprendimenti che scuola, università e corsi vari possono fornire. Le attitudini personali sono certamente importanti nel nostro modo di essere capo; ma nella cultura manageriale è ormai assodato che formare e sviluppare le proprie qualità personali sia non solo possibile ma addirittura obbligatorio per chi ha la responsabilità di gestire i collaboratori. La formazione manageriale ha da sempre sviluppato sistemi e modelli che aiutino i manager a riconoscere ed accrescere le loro “qualità personali”. Un modello molto conosciuto ed utilizzato in questo campo è l’Analisi Transazionale (AT).2 L’AT nasce negli anni 60 negli Stati Uniti e il padre fondatore, Eric Berne, cominciò ad elaborare questa teoria proprio all’interno di un’organizzazione: l’esercito. In seguito l’ AT si è affermata come solido modello teorico e terapeutico e ben presto per la sua efficacia e semplicità è entrata nelle aule di formazione. E questo è il primo punto che vale la pena di sottolineare: il grande contributo dell’AT sta proprio nel fornire dei modelli di lettura della realtà semplici da capire ma molto efficaci nella applicazione pratica. Non sono ricette di cosa è bene fare oppure no, ma fornisce gli strumenti per poter interpretare la realtà con più consapevolezza e quindi intervenire modificandola con strategie comportamentali più evolute rispetto a quelle che agiamo istintivamente. Ma

cominciamo con il dare subito qualche esempio. Uno dei temi più interessanti per qualsiasi capo è comprendere quale sia il nostro stile nell’agire il ruolo e come ci relazioniamo nei confronti dei collaboratori. Gli stati dell’Io, uno dei capisaldi di questa teoria, ci dice che possiamo agire da tre stati dell’Io principali: Genitore, Adulto, Bambino (tab.1). Attraverso il questionario dell’Egogramma possiamo capire quali sono i nostri stati dell’Io e vedere come questi influenzano il nostro modo di agire, anche nella relazione con i nostri collaboratori . Non si tratta di fare una classificazione delle persone ma, analizzando in aula i casi degli stessi partecipanti, di capire di volta in volta da quale stato dell’Io si sta agendo e quale sia il più funzionale nelle diverse situazioni. Si tratterà di capire quando uno stato dell’Io è funzionale o quando, se utilizzato eccessivamente, può diventare negativo (vedi alcuni esempi in tab. 2). Se ad esempio, una modalità ricorrente di gestire i collaboratori è attraverso il Genitore Normativo, che normalmente usa regole e principi come valori fondanti, quando esaspera questa posizione può diventare, spesso in maniera inconsapevole, giudicante e svalutante.

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Per approfonfire: “Stewart e Joines, L’analisi transazionale, ed. Garzanti” www.lucianazanon.it

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Stato dell’io Genitore Ha le registrazioni delle esperienze passate di figure genitoriali. Contiene valori, norme, modelli di comportamento, criteri di giudizio che sono alla base (spesso in modo inconsapevole) dei nostri pensieri, emozioni comportamenti. Può essere normativo o affettivo. Stato dell’io Adulto Tiene conto della realtà esterna (dati, problemi, valori e bisogni degli altri). Conosce ed ascolta i propri valori, bisogni ed emozioni. Integra gli stati dell’io e l’esperienza esterna. Stato dell’io Bambino Contiene la registrazione delle esperienze (soprattutto infantili) emotivamente significative, libere o adattate e sono alla base (spesso in modo inconsapevole) dei nostri pensieri, emozioni comportamenti. È la fonte della nostra energia vitale.

G A B

Tab. 1 STILE MANAGERIALE DEL GENITORE NORMATIVO aspetti positivi Il capo forte e deciso, che ha dei principi, li fa applicare e ne assicura il controllo aspetti critici Il capo che svaluta, accentra e non si fida, si lamenta continuamente dei suoi collaboratori STILE MANAGERIALE DEL GENITORE AFFETTIVO aspetti positivi Il capo “consigliere”, che rileva i bisogni e le motivazioni; consiglia, aiuta, sostiene aspetti critici Il capo “salvatore”, paternalista non sa delegare, ha la tendenza alla demagogia STILE MANAGERIALE DELL’ADULTO aspetti positivi Chiede e dà informazioni, misura, stima le probabilità, decide sulla base del conosciuto, è orientato alle soluzioni, vive nel qui ed ora. aspetti critici Trascura le emozioni, si orienta ai soli obiettivi, è freddo e calcolatore Tab. 23

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Tratto da “M. Castagna, L’analisi transazionale nelle formazione degli adulti, ed. Franco Angeli” www.lucianazanon.it

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Utilizzare il modello degli stati dell’Io aiuterà a capire anche come le nostre modalità relazionali possano influenzare il comportamento dei collaboratori. Faccio un esempio semplicissimo, forse banale, ma molto comune: se il comportamento prevalente del capo sarà di tipo genitoriale (controllo, poca delega, ordini o consigli CAPO

continui) sarà abbastanza naturale che il collaboratore si posizioni nello stato dell’Io bambino (non mi prendo responsabilità, non faccio proposte, chiedo continuamente). Utilizzando la classica simbologia dell’AT si utilizzerà una comunicazione di questo tipo (transazione 1):

COLLABORATORE

G

G Transazione 1 (G/B)

A

A Transazione 2 (A/A)

B

B

Naturalmente pochi di noi saranno disposti a riconoscere che questo è il modello di comunicazione prevalentemente utilizzato con i propri collaboratori. Ma se vi capita di lamentarvi con una certa frequenza che le persone che lavorano con voi non sono responsabili e proattive, che devono essere seguite passo passo e non prendono nessuna iniziativa, vi consiglierei seriamente di prendere in considerazione questa domanda: “Quanto del mio comportamento (molto spesso inconsapevole) incide su questo modo di essere?”. Quando in aula vengono analizzate situazioni simili, spesso si hanno delle grosse sorprese e nello stesso tempo, fortunatamente, emergono idee per strategie comportamentali diverse, volte a stimolare una maggiore responsabilità e proattività (transazione 2), sviluppando

cioè una comunicazione maggiormente centrata sulla relazione Adulto-Adulto. Per capire più a fondo la comunicazione e la relazione fra capo e collaboratore, un modello sicuramente efficace è quello delle quattro posizioni esistenziali4. Questo modello incrocia il modo di percepire sé stessi (sono a mio agio con me stesso, sono OK oppure mi sento a disagio e sono non OK) con il modo in cui mi relaziono con gli altri (apprezzo e riconosco il valore degli altri e li vedo OK oppure non attribuisco agli altri valore e dunque li vedo come non OK).

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“Stewart e Joines” ibid. www.lucianazanon.it

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TU NON SEI OK

TU SEI OK

IO SONO OK

-

IO NON SONO OK

Accettazione di sé e degli altri Benessere Realizzazione personale Cooperazione Relazioni positive Apertura di spirito

-

Autosvalutazione Bassa autostima Assenza d’iniziative Sottomissione e dipendenza Disagio

POSIZIONE ESISTENZIALE DI POSIZIONE ESISTENZIALE DI PASSIVITA’ ASSERTIVITA’ - Sopravvalutazione di sé e - Pessimismo svalorizzazione degli altri - Fatalismo - Incapacità di comunicare - Emarginazione - Non accetta le opinioni altrui - Spirito rivoluzionario - Scoraggiamento POSIZIONE ESISTENZIALE DI AGGRESSIVITA’ POSIZIONE ESISTENZIALE DI FUGA

Anche la nostra posizione esistenziale, che come si può ben capire cambia continuamente anche nel corso della stessa giornata, influenza parecchio il rapporto con il collaboratore. E a nostra volta siamo influenzati dalla posizione esistenziale delle persone che lavorano con noi: così ad esempio se un collaboratore tende ad essere passivo e sottomesso è probabile (ma non certo!)

che la mia reazione istintiva sia quella di rispondere aggressivamente, o invece questo comportamento sarà stimolato dalla stessa aggressività dell’altro. Inutile dire che la posizione più efficace è quella assertiva (mi faccio rispettare, rispettando gli altri) che però non sempre è facile da mantenere, specialmente nelle situazioni di stress o di conflitto.

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Sono proprio le situazioni di conflitto 5 in cui l’utilizzo di questo modello diventa particolarmente prezioso per capire cosa realmente succede fra due interlocutori che non si intendono. Nelle aule di formazione, oltre all’analisi di situazioni concrete, possiamo migliorare la nostra capacità di leggere la realtà anche attraverso l’analisi di film. Vi suggerisco di utilizzare questo modello, guardando il film La febbre6, la storia di un impiegato nel Comune di Cremona. In particolare analizzate il colloquio che avviene il primo giorno di lavoro fra l’impiegato e il suo capo. Quali sono le posizioni esistenziali degli interlocutori? Guardate una seconda volta la scena senza l’audio e verificate se siete sempre della stessa opinione. E’ un esercizio interessante e vi farà vedere come non sia così semplice capire quello che sta realmente succedendo, a meno che non ci si alleni a farlo! E se diventa difficile capirlo guardando un film, provate ad immaginare quanto lo sia quando siamo noi stessi attori di relazioni critiche. Nel rapporto con i collaboratori spesso succede che ci siano delle situazioni che si ripetono con una certa costanza nel tempo, situazioni dalle quali sembra impossibile uscire anche se creano disagio (e alle volte anche qualcosa di più) sia al capo che al collaboratore. In realtà i due interlocutori solo apparentemente mettono in atto delle azioni positive di risoluzione, molto più spesso agiscono come se fossero dentro ad un copione già scritto che si ripete all’infinito. Se mai qualche volta vi è capitato con sgomento

di chiedervi: “Ma come può essere che ogni volta mi trovi in questa situazione?” è probabile che siate in quella che l’AT definisce “gioco”, che sfortunatamente non ha niente a che vedere con i giochi divertenti di quando eravamo bambini. I giochi sono:  Relazioni falsate e provocano effetti più distruttivi che benefici  Lo svolgimento della relazione è apparentemente regolare e sembra che lo stato dell’Io utilizzato sia l’Adulto; in realtà siamo alla presenza di transazioni che celano un messaggio latente  La discussione appare inizialmente sottoposta al controllo dell’Adulto, ma viene in breve dominata da un diverso Stato dell’Io in modo da stabilire una relazione Genitore/Bambino. Esistono diversi giochi7 per fare un esempio ne riporto uno fra i più conosciuti nel mondo del lavoro: “Gamba di legno”. Una persona può innescare questo gioco per giustificare una qualsiasi incapacità di dire o di fare (es. non posso perchè ho mal di testa, non sono abbastanza bravo, non è il mio ruolo . “Gamba di legno” potrebbe rappresentare il complesso di cui soffrono alcune persone che si sentono costantemente a disagio e che cercano in ogni modo di affermarsi interpretando il ruolo della Vittima. Ovviamente per “giocare” hanno bisogno di un interlocutore e in questo caso il capo può essere l’altro giocatore che assume il ruolo di Salvatore (ti aiuterò io). Se il gioco ha inizio, quello che succede è che inaspettatamente la Vittima si trasforma

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Vedi l’articolo “I dirigenti formano se stessi. Diario di una formazione concreta al Comune di 7 San Giovanni in Persiceto” in Azienditalia, Per approfondire il tema dei giochi: “G. n.1/2009, pag. 32 Magrograssi, I giochi che giochiamo, ed. Baldini 6 La febbre di D’Alatri, Italia 2005 Castoldi Dalai”. www.lucianazanon.it

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in Persecutore8 (non ce la farai mai ad aiutarmi, guarda in che condizione mi metti) e chi prima si trovava nel ruolo di Salvatore si trova ora nella posizione di Vittima (ma come! con tutto quello che ho fatto per lui‌). Il risultato è che entrambi i giocatori sono in una situazione di disagio e frustrazione, incapaci di capire cosa realmente è successo e soprattutto pronti a ripetere lo stesso o un altro gioco alla prossima occasione.

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Vittima, Salvatore, Persecutore formano il Triangolo drammatico attorno a cui si costruiscono i giochi. Vedi Magrograssi, ibid. www.lucianazanon.it

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Le tappe classiche del gioco sono :  Il dialogo è in apparenza perfettamente instaurato.  Improvvisamente, uno dei due interlocutori viene meno all’accordo, ponendo l’altro in situazione di disagio.  La persona attaccata si sente a disagio e prova un forte sentimento di impotenza  In questo momento la sua posizione esistenziale è Io non sono OK Tu sei OK  Il registro dell’Adulto si dimostra una semplice apparenza  Lo scambio del tipo Genitore Bambino prende il sopravvento Molte relazioni organizzative (compresa la relazione capo-collaboratore) sono centrate sui giochi e dunque è importante riconoscerli e non entrare nel meccanismo perverso per non fare e farsi del male. Ogni volta che si propone questo tema, appassionanti discussioni e analisi di casi concreti portano a capire come davvero molte volte, in maniera inconsapevole, siamo portati a ripetere schemi comportamentali ripetitivi, inutili e dolorosi. Essere un buon capo in fondo vuol dire anche questo, essere in grado di far lavorare bene le persone in un ambiente sano dove ci si senta apprezzati e valorizzati per quello che realmente si da, il più possibile fuori dai giochi. Insomma creare un ambiente un po’ più felice per lavorare meglio11.

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Grazie a Francesco Aprile per le belle vignette. Elaborazione di Silvana Fassina. 11 “G. Piccinino, Il piacere di lavorare, ed. Erickson” www.lucianazanon.it 10

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IL DIFFICILE MESTIERE DI CAPO (parte seconda)

Essere un buon capo è certo uno dei mestieri più difficili del mondo. Nella prima parte di questo articolo sono stati forniti alcuni strumenti dell’Analisi Transazionale utili a rileggere le esperienze quotidiane e le relazioni fra capo e collaboratori. In questa seconda parte verrà affrontato un altro tema

molto importante per chiunque si trovi a dover gestire le persone: il tema della motivazione dei collaboratori e del loro sviluppo. Cosa può fare un buon capo per far crescere le persone, per sviluppare i loro talenti e mantenere alta la loro motivazione?

Premessa Essere un buon capo è certo uno dei mestieri più difficili del mondo. E, per ripetere quello che già nella prima parte di questo articolo veniva sottolineato, è altrettanto certo che ciò è ancora più vero nelle amministrazioni locali, specie quando si parla di motivazione e di sviluppo dei talenti. Cosa può fare un buon capo per far crescere le persone e per sviluppare i loro talenti in un’organizzazione non certo orientata alla carriera e agli incentivi economici? Qualche anno fa a Roma in una bella mostra su Marc Chagall, oltre ai quadri, qua e là erano esposti dei brani autobiografici. Alcuni davvero commoventi: Un bel giorno (ma tutti i giorni sono belli) mentre mia madre stava mettendo il pane nel forno, mi feci accosto a lei che teneva la paletta e afferrandola per il gomito infarinato le dissi: “ Mamma vorrei fare il pittore. È finita, non posso più fare il commesso né il contabile…. Lo vedi da te stessa, mamma, sono forse un uomo come gli altri? Di che cosa sono capace? Vorrei fare il pittore. Salvami mamma. Vieni con me. Andiamo, andiamo! C’è un posto in città; se mi accettano e se concludo i corsi, sarò un artista. Ne sarei così felice!” “Cosa? Un pittore? Sei pazzo, tu. Lasciami mettere il pane in forno: non mi seccare.

Ho il pane da fare….” alla fine, è deciso. Andremo dal signor Pen. E se egli riconosce che ho del talento, allora ci si penserà. Ma in caso contrario…. (Sarò pittore lo stesso, pensavo tra di me, ma per conto mio). Marc Chagall, 1931 Commovente che un povero bambino ignorante a Vitebsk, un piccolo paese sperduto nella Russia di inizio secolo, riconosca con tanta chiarezza il suo talento prepotente e con determinazione, a dispetto di tutto e di tutti, decida che comunque lui sarà un pittore. Un pittore! E dove ne avrà mai sentito parlare (avrà pensato la madre), in quel paese di contadini e di venditori di aringhe? Eric Berne, padre fondatore dell’Analisi Transazionale, sosteneva che quando veniamo al mondo la nostra posizione esistenziale12 è IO OK –TU OK. Veniamo al mondo con una nostra dotazione di talenti e attitudini che ci rendono unici ed inimitabili. Questo patrimonio è 13 depositato nel nostro Bambino , la fonte della nostra creatività e della nostra motivazione e compito di ognuno di noi è quello di dare credito e sviluppare questo 12

Le 4 posizioni esistenziali, vedi la prima parte. Gli stati dell’Io, vedi la prima parte www.lucianazanon.it 10 13


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talento. A volte, se il talento è sepolto troppo in profondità non riusciamo a ritrovarlo; e così ci si convince di non aver poi niente di così singolare che valga la pena di essere coltivato e ci adattiamo ad un lavoro banale, tanto a ben pensare un lavoro vale l’altro. O non abbiamo il coraggio di proporci, di proporre le nostre idee o anche solo di sentirci all’altezza di un ruolo di responsabilità che il mondo del lavoro ci può offrire. Gestire i collaboratori e sviluppare i talenti Lo sviluppo dei propri talenti è certo una responsabilità individuale, ma in certa misura è anche una responsabilità di chi ha il ruolo di capo. In prima istanza quella di capire e comprendere il proprio talento, di alimentare la propria motivazione. Un capo demotivato difficilmente potrà motivare i propri collaboratori: per questo è importante mantenere un canale aperto con il proprio Bambino, depositario della creatività e dello spirito vitale. In secondo luogo, riconoscere e sviluppare le attitudini dei propri collaboratori inciderà in maniera diretta sulla qualità del lavoro e sulla motivazione della propria squadra. Ma questo richiede doti di ascolto, richiede attenzione e assenza di pregiudizi. Richiede la capacità di saper osservare le proprie persone da una posizione IO OK - TU OK, richiede il coraggio di delegare, di veder crescere i propri collaboratori e diventare più bravi di noi. Vuol dire saper usare bene il proprio Genitore Affettivo. Sentiamo cosa dice a questo proposito Giorgio Piccinino14: “Penso che un leader dovrebbe creare un clima di grande fiducia nel posto di lavoro in modo tale che i suoi collaboratori si sentano di rivolgersi a lui apertamente quando ci sono delle difficoltà. Un vero leader è pronto a sostenere e a consolare, ad aiutare a rimediare, ad assistere e rinforzare, deve approfittare di ogni 14

occasione per dare valore alle persone e alla collaborazione reciproca”. Un altro concetto importante per lo sviluppo dei collaboratori e quello del copione. Eric Berne parlò per la prima volta di copione di vita nel 1972: “Il copione è un piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l'infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi, e che culmina in una scelta decisiva"15. Ognuno di noi ha scritto il proprio copione di vita, e quindi il proprio copione professionale, durante l’infanzia e tutti gli avvenimenti che seguono non sono altro che conferme delle decisioni già prese. E se questo è vero, noi non siamo che attori che continuano inconsapevolmente a recitare la parte di un copione scritto molti anni fa. Berne parlò di copioni vincenti, come probabilmente fu quello di Chagall: vincenti non perché si vinca qualcosa, ma perché la scelta decisiva, come per il piccolo Marc, fu quella di realizzare davvero se stesso. Ma Berne parlò anche di copioni banali o perdenti dove la decisione è quella o di non emergere mai (adattandosi ad un lavoro banale) o peggio ancora che tanto sarà un fallimento (facendo di tutto per dimostrare che è vero). C’è una bella storia che meglio di tante spiegazioni, rende immediatamente evidente cos’è il copione. Racconta di un bambino, che non si sapeva spiegare come mai l’elefante, il suo animale preferito, nonostante la grande forza che dimostrava durante lo spettacolo al circo, non riuscisse a liberarsi dalla catena che veniva bloccata da un minuscolo paletto conficcato nel terreno. Finchè cresciuto riuscì a ricostruire la storia: “L’elefante del circo non scappa perché è stato legato ad un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo. Chiusi gli occhi e immaginai l’elefantino indifeso appena nato, legato al paletto. Sono sicuro che, in quel momento l’elefantino provò a spingere, a tirare e sudava nel tentativo

Giorgio Piccinino, psicoterapeuta A.T. del Centro Berne di Milano, autore de “Il piacere di lavorare” 15 ed. Erickson Eric Berne, “Ciao!... e poi?”, ed. Bompiani www.lucianazanon.it

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di liberarsi. Ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perché quel paletto era troppo saldo per lui. Lo vedevo addormentarsi sfinito, e il giorno provarci di nuovo, e così il giorno dopo e quello dopo ancora…. Finché un giorno, un giorno terribile per la sua storia, l’animale accettò l’impotenza rassegnandosi al proprio destino. L’elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perché, poveretto, crede di non poterlo fare”16. Ancora una volta per un buon capo è importante avere un’idea del proprio copione professionale. Prima di tutto per non innescare (o innescarne il meno possibile) relazioni basate sui giochi17. E poi perché solo così potrà dare una mano a chi lavora con lui ad evolvere da un copione banale o perdente, a trovare il modo di esprimere al lavoro il meglio di sé, il proprio talento. A togliere il minuscolo paletto che lo tiene bloccato. Gestire i collaboratori e motivare La motivazione al lavoro è stata definita in tanti modi diversi, ma sostanzialmente direi che è quella benefica energia che ci fa alzare al mattino contenti di andare a lavorare. Quando ci sentiamo motivati non ci pesa la fatica e l’impegno del lavoro. Anzi, fatica ed impegno diventano una sfida. Le persone motivate sono quelle che lavorano con voglia ed energia, che mettono se stessi e la loro creatività in quello che fanno. E soprattutto che sono contenti di quello che fanno. Purtroppo però non tutte le persone sono motivate: esistono i non demotivati, che fanno il loro lavoro in modo corretto senza però aggiungere niente di più di quello che viene richiesto. E quelli demotivati, che veramente fanno fatica, che non prendono mai l’iniziativa, che non trovano soddisfazione in quello che fanno.

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Ovviamente ogni capo desidererebbe collaboratori sempre motivati: la motivazione però è un bene delicato, che se non viene alimentato si deteriora facilmente. Da una ricerca della Gallup del 2001 in UK risultava che 6 dipendenti su 10 trovava il proprio lavoro demoralizzante. Un ulteriore 20% non si prendeva cura del proprio lavoro facendo lo stretto necessario e spesso usando la malattia. Il costo di questo era di 48 miliardi di sterline l’anno. Molti dipendenti lavoravano molto il primo anno, dopo di che perdevano motivazione. Solo il 17% delle persone affermava di prendere parte attiva al loro lavoro. E ancora una volta si sottolineava come la relazione con il capo diretto fosse determinante nella motivazione dei collaboratori. Ma cosa rende questa energia vitale e continuativa nel tempo. Sentiamo ancora cosa dice Giorgio Piccinino: “Gli esseri umani hanno delle pulsioni di base, che sono sopravvivere, appartenere, crescere e autoaffermarsi. Per soddisfare la pulsione di appartenenza, ad esempio, si devono imparare o affinare comportamenti specifici come la socievolezza, l’altruismo, il calore umano, l’intimità; per la pulsione di crescita si dovrà essere capaci di essere esplorativi, curiosi, intraprendenti, appassionati. Per l’auto realizzazione si dovrà favorire la creatività, l’indipendenza, la fantasia, l’intraprendenza, l’assertività. Il lavoro, inteso come l’occupazione con cui gli esseri umani realizzano insieme la sopravvivenza e l’evoluzione della specie, è uno dei luoghi in cui è possibile soddisfare i bisogni di sopravvivenza, di auto realizzazione e di crescita e di appartenenza. Non basta un lavoro materialmente e psicologicamente rassicurante, abbiamo in ogni caso bisogno di trovare, almeno in parte, soddisfatti i nostri orientamenti esistenziali di base, la natura dell’uomo è

L’elefante incatenato tratto da “Lascia che ti racconti” di Jorge Bucay, ed. Rizzoli 17 La teoria dei giochi, vedi la prima parte www.lucianazanon.it

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curiosa, creativa, appassionata, ha necessità di dare un senso e un significato alle proprie azioni, è gruppale e necessita di fiducia reciproca ed alleanze con i propri simili per poter condividere una meta. ”18 Visto così il lavoro diventa dunque un possibile luogo di realizzazione personale, qualsiasi lavoro. Purché in sintonia con le aspirazioni individuali e purché ci sia l’attenzione e la cura chi ha un ruolo manageriale. A maggior ragione se si tratta di Amministrazione Pubblica, dove l’obiettivo ultimo non è certo il profitto, ma la realizzazione di un servizio più alto, quello collettivo.

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Ne “Il piacere di lavorare”, è possibile trovare un utile questionario per misurare la propria (e dei collaboratori) motivazione. www.lucianazanon.it

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