Giovanni Paolo I

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Anno XXII • N. 135 • 2016

GIOVANNI PAOLO I ALBINO LUCIANI UN PAPA ATTUALE

CONSIGLIO REGIONALE DEL VENETO

CONSIGLIO REGIONALE DEL VENETO


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i rara umanità e cultura come i suoi due predecessori dai quali prese il nome pontificale a sottolineare la continuità e il suo essere umile attuatore del Concilio Ecumenico Vaticano II: questa è l’immagine di Albino Luciani che nei suoi 33 giorni di pontificato riuscì a colpire non solo i cattolici per la sua mitezza e l’immagine gioiosa che seppe dare di sé. Papa del Sorriso fu chiamato ma questa definizione è oltremodo parziale e fuorviante se non caliamo la riflessione su Albino Luciani in quel Veneto di cui fu espressione autentica. Nato in una famiglia povera prima della Grande Guerra, di cui ricordava la fame sofferta da bambino, in una terra segnata sino e ben oltre il Secondo Dopoguerra da sottosviluppo e da diffusa povertà che costrinse non pochi, e tra questi anche suo padre, a emigrare, papa Luciani visse in prima persona come sacerdote lo sforzo sostenuto dall’intera società locale per il riscatto e promozione sociale, per la conquista di livelli di vita dignitosi delle masse popolari: la Chiesa, in Veneto, nel Novecento fu protagonista, motore e guida di questo sforzo, capace di tradurre in opere e azioni concrete le politiche sociali espresse da Leone XIII e di essere punto di riferimento di buona parte della società. Sacerdote, educatore e infine vescovo fu espressione concreta del cattolicesimo democratico, negli anni della transizione dal sottosviluppo al benessere economico del policentrismo diffuso. Come accade in molti veneti, dietro la sua umiltà e bonarietà si celava una profonda cultura, mai ostentata, mai usata per alzare un muro tra sé e il suo interlocutore. Veneto al 100 per cento, rigoroso e intransigente nei principi, uomo prudente ma curioso, aperto alle novità. Veneto al 100 per cento ma cittadino del mondo, “sacerdos et hostia”: nel suo sorriso indimenticabile c’era tutta la nostra terra e storia, il nostro Novecento, c’era tutto il suo essere sacerdote, e voce, degli umili e dei più poveri, c’era tutto il suo amore e ammirazione per il Vangelo. Roberto Ciambetti Presidente del Consiglio Regionale del Veneto

Una pubblicazione patrocinata da:

Provincia di Belluno

Unione Montana Agordina

Comune di La Valle Agordina

Comune di Falcade

Comune di Rivamonte Agordino

Comune di Canale d’Agordo

Comune di Cencenighe Agordino

Comune di Livinallongo del Col di Lana

Comune di Taibon Agordino

Comune di Selva di Cadore

Comune di S. Tomaso Agordino

Comune di Rocca Pietore

Comune di Alleghe

Comune di Gosaldo

Comune di Colle S. Lucia

Comune di Agordo

Comune di Vallada Agordina

Comune di Voltago Agordino

Con il contributo di:

Grafica Veneta SpA

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’indomani dell’elezione che elesse al Soglio di Pietro Albino Luciani, diversi cardinali che presero parte al Conclave vollero venire a Canale d’Agordo nel cuore delle Dolomiti per visitare i luoghi natali del nuovo Papa, nell’intento di voler cogliere più profondamente la sua persona e sapere come sarebbe stato il suo pontificato. Tra questi anche l’allora arcivescovo di San Paolo del Brasile, il francescano Paulo Evaristo Arns, al quale in seguito, sapendo di questa visita, lo stesso Papa Luciani incontrandolo in Vaticano gli disse: «Eminenza, lei è un reporter! I miei parenti a Canale mi hanno detto che han dovuto raccontarle tutta la mia vita!». Dieci anni più tardi fu l’intera Conferenza episcopale brasiliana a inoltrare a Giovanni Paolo II la petizione per aprire la Causa di canonizzazione del Papa di origini bellunesi. Ma è un dato che fin dall’inizio del pontificato di Giovanni Paolo I e ancor più in seguito alla sua morte, un flusso ininterrotto di pellegrini provenienti da ogni continente continua a visitare Canale d’Agordo e la sua antica Pieve. La memoria di Papa Luciani è strettamente vincolata a questi luoghi della diocesi di Belluno-Feltre, nella quale egli nacque e operò per oltre quarant’anni. Il suo paese natale resta pertanto un riferimento per i fedeli di tutto il mondo che oggi vogliono ripercorrerne l’insegnamento, la vicenda umana e spirituale. Il nostro comune della Valle del Biois rende così anche testimonianza della diffusione della fama di santità che è andata crescendo nel corso degli anni, come attestano i numerosi ex voto e le candele votive presenti nella chiesa parrocchiale. Dal 2001 il libro delle presenze, che il parroco ha posto vicino all’entrata della chiesa, si riempie rapidamente di preghiere, ringraziamenti per grazie ricevute. Da allora ne sono stati riempiti più di un centinaio con più di centomila testimonianze in venti lingue diverse. «Io sono il piccolo di una volta, io sono colui che viene dai campi, io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto la dignità episcopale» disse Luciani nella prima omelia che pronunciò proprio nella chiesa del suo paese natale, dopo la consacrazione episcopale il 6 gennaio 1959. Un testo dal quale emerge il profilo della sua figura e nel quale si trovano i motivi che sempre ricorrono nei suoi discorsi e interventi e dove si ritrovano, nel medesimo ordine, anche gli stessi temi che egli espose da Pontefice nelle quattro udienze generali del mercoledì: l’umiltà, la fede, la speranza e, in un ultimo, la carità. La nostra Fondazione Papa Luciani – Giovanni Paolo I che lavora dal 2009 per raccogliere, conservare e valorizzare il patrimonio delle sue memorie in questa terra, ha pertanto sostenuto anche il progetto – fortemente voluto dall’Amministrazione Comunale di Canale d’Agordo – di realizzare uno spazio museale dedicato all’opera e al pensiero del Pontefice con l’obiettivo di creare un polo culturale. Così il Museo Civico “Albino Luciani Papa Giovanni Paolo I”, che ha sede nel palazzo quattrocentesco dell’ex-municipio, accanto alla Pieve di San Giovanni Battista, restaurato attraverso un intervento mirato nel rispetto dell’ambiente per accogliere adeguatamente i visitatori e gli studiosi, è un sogno che oggi è diventato realtà. Rinaldo De Rocco Presidente della Fondazione Papa Luciani - Giovanni Paolo I - Sindaco di Canale d’Agordo


daL Veneto aL mondo D

a veneto qual sono, ricordo con emozione il 26 agosto del 1978, quando il cardinale Albino Luciani, Patriarca di Venezia, divenne Giovanni Paolo I. Mi stupì, come stupì molti, la rapidità di quel Conclave che scompaginava i prognostici elaborati dalla stampa nei giorni precedenti. I cardinali non si erano pronunciati certo sul filo di strategie politiche, ma soltanto secondo un criterio ecclesiale, quello cioè che mette al centro la più importante qualità di un vescovo: il suo essere pastore. Fu dirimente quella virtù che era stata prima di altri due santi, passati dalla Cattedra di San Marco a quella di San Pietro: Papa Sarto e Papa Roncalli. I cardinali scelsero il pastore di fede sicura, che aveva vissuto nel gregge, aveva condiviso i dolori del mondo e in modo particolare dei poveri e degli emigranti, aveva sostenuto i travagliati percorsi dei preti del suo tempo, parlava con quella sapienza che non è solo profondità di cultura, che pure era in lui vasta ed emblematica della caratura della sua formazione e che è andata sempre più ampliandosi ecclesialmente ed ecclesiologicamente alla luce del Concilio Vaticano II. Il fatto che provenisse dal piccolo mondo del Veneto ai porporati del primo Conclave del 1978 non sembrò un limite, ma un elemento importante. La nostra era una terra che da secoli aveva conosciuto il sacrificio del lavoro. Era allora terra provata da un’emigrazione, che oggi sembra esperienza dimenticata. Ai tempi in cui Luciani era un giovane prete, portava le ferite di due guerre mondiali che in modo particolare fecero provare stenti e lacerazioni sociali. Quel mondo rurale e operaio veneto fatto di fittavoli o di piccoli proprietari, di braccianti e artigiani, che conobbero l’esperienza del riscatto sociale, guidati dalla solidarietà del cooperativismo. Terra in cui i parroci erano prossimi alla gente, figure di riferimento non solo nell’ambito religioso, ma anche in quello sociale, secondo la sana dottrina sociale della Chiesa. Una terra costellata di chiese e di edicole votive, ornate dalla devozione dei fedeli; terra di pellegrinaggi e rogazioni, di pratica religiosa assidua e di opere pie. Da questo background sociale e culturale, in cui la religione non è stata mai una sovrastruttura, ma un tessuto connettivo e d’integrazione, venne Albino Luciani. Comprendiamo pertanto la vivace fiammata che il suo pur breve pontificato suscitò nella Chiesa: egli aveva sposato “sorella povertà”, aveva fatto della semplicità evangelica il suo stigma. Proprio le vesti della povertà e della semplicità davano alla sua parola il senso della concretezza, della verità della cose; proprio queste conferirono alla sua figura, in una suggestiva coincidentia oppositorum, il volto della mitezza e quello della fermezza, della comprensione e del rigore, della misericordia e della sicurezza nella dottrina. L’ antica indole veneta aveva insegnato a Luciani anche quel realismo e la fine vena di humor, che viene dalla gente umile che aveva conosciuto fin dall’infanzia e fino alle periferie industriali lagunari. Un humor che ridimensiona gli sfoghi delle tensioni e la superbia intellettuale. Luciani amava la storia della sua Chiesa, gli alti voli dei santi e pure le sue piaghe, per dirla con quel Rosmini sul quale indagò mentre si formava. Proprio alla ricchezza della sua personalità la Causa di canonizzazione in corso rende ora finalmente giustizia: l’amore per la ricerca scientifica e la vasta frequentazione della letteratura universale in lui si coniugavano felicemente con l’ansia di un vescovo che voleva soprattutto comunicare a tutti la Buona Novella, facendosi anzitutto testimone del Vangelo. Per tutto ciò allora fu veramente un «gaudium magnum» sentire dalla voce del protodiacono «Albinum Luciani», uomo di terra veneta, formatosi e cresciuto in un lembo di questa terra, che poi servì come prete e vescovo. Venne poi la penultima chiamata di Gesù: «Pasci i miei agnelli»; e infine l’ultima chiamata nel silenzio di una notte di fine settembre: «Seguimi». Ma la prospettiva segnata nel suo breve Pontificato di apostolo del Concilio non è stata una parentesi, è più attuale che mai. Per tutto ciò plaudo a questa pubblicazione che mira a ravvivare la memoria di questo Servo di Dio che il Veneto ha donato al mondo.

Card. Pietro Parolin Segretario di Stato Vaticano


L’esempio deL Buon pastore S

ul finire degli anni Cinquanta ho conosciuto da vicino quello che fu il mio vescovo diocesano Albino Luciani. Erano gli anni del mio liceo e la mia conoscenza di monsignor Luciani fu allora quella di un giovane liceale che incontrava il vescovo per le celebrazioni in seminario e in cattedrale. Ricordo come sapeva comunicare e trasmettere con efficacia la dottrina ai seminaristi e sempre con esempi tratti dalla vita quotidiana, ma colto e ben formato negli studi classici e accademici.Lasciai poi la diocesi per Roma nel 1960 per i successivi sei anni e gli incontri con lui furono occasionali ma, quando mi riceveva nel castello vescovile di Vittorio Veneto, era sempre con affetto paterno e semplicità. Mi sentivo bene con lui per il tratto umano, fatto di cordialità e di calore, che dimostrava nelle conversazioni personali. Entrai poi nella Pontificia Accademia Ecclesiastica a Roma e, del resto, fu lui ad avviarmi agli studi diplomatici. Ricordo come fosse ieri quando e come lo chiese. Era durante l’ultima sessione del Concilio ecumenico Vaticano II: mi chiamò, presso il Pontificio Seminario Romano Minore dove alloggiava, per dirmi che mi avevano chiesto per entrare in questa Accademia e che egli aveva già risposto di sì. Così, secondo il modus procedendi di quei tempi ormai passati, si rivolse senza tanti preamboli a me: «Lei è d’accordo, non è vero?». In seguito lo incontravo durante le vacanze estive per un saluto e per metterlo al corrente della mia vita di sacerdote e dei miei studi. Lo rividi poi una volta, all’inizio degli anni Settanta, quando andai a visitarlo a Venezia. Purtroppo non ebbi occasione di incontrarlo da Papa nell’agosto-settembre del 1978, trovandomi come incaricato d’affari della nunziatura a Malta. Per me Luciani è sempre stato il “mio vescovo”. Un uomo di preghiera assidua e profonda, di attento ascolto e capace di sostegno umano e spirituale nei confronti dei fratelli sacerdoti e del popolo di Dio, in particolare vicino ai poveri, alla gente umile e agli ammalati. Dotto maestro della fede e avvincente comunicatore della Parola di Dio, catechista impareggiabile. Queste le caratteristiche che considero esemplari in lui. Mia madre spesso citava monsignor Luciani, per dire che il sacerdote non doveva avere conti in banca e libretto di assegni. Penso che lo avesse sentito da lui stesso nelle periodiche visite ed incontri dei genitori in seminario. Partecipava agli incontri dei suoi preti vittoriesi per prendere il polso della vita diocesana e del loro ministero. Conosceva personalmente i suoi sacerdoti, li visitava nelle canoniche nell’ora della malattia e della vecchiaia, li riceveva nel castello vescovile durante mattinate intere, paziente e suadente. I preti li voleva preparati e formati. Il Concilio aveva fortemente alzato l’asticella delle attese e delle esigenze del popolo cristiano e si erano moltiplicati gli ambiti di attenzione e di cura pastorale. Qualche viaggio in terre lontane lo fece sì, in Africa e in America, soprattutto per visitare i suoi preti vittoriesi, mandati in missione nel Burundi e in Brasile, o tra le comunità italiane emigrate oltralpe. Aprì infatti la diocesi al servizio missionario, raccogliendo l’appello del Papa, che aveva sollecitato l’invio di sacerdoti diocesani in Africa e America Latina. Era pastore che cercava di convincere con pazienza il suo interlocutore, seppure non incapace di decisioni impegnative, che gli costavano sofferenza e lotta interiore, soprattutto nelle due dolorose crisi della diocesi di Vittorio Veneto, quella economica, con il disastro che ne causò la bancarotta finanziaria, dovuta alla mala amministrazione dell’economato diocesano, e quella del penoso conflitto con la comunità di Montaner. I malesseri del post-Concilio li visse soprattutto a Venezia; gli impegni episcopali si erano allora già ampliati e moltiplicati, tanto per la rappresentanza personale che gli comportava l’investitura cardinalizia come Patriarca di Venezia, come anche per la responsabilità istituzionale della vice-presidenza della Conferenza episcopale italiana. Ma fu e volle essere sempre un prete e un vescovo fedele alle sue radici, in mezzo al suo popolo e ai suoi sacerdoti. Talvolta ho detto a Papa Francesco che a mons. Luciani – forse proprio come a lui Arcivescovo di Buenos Aires – in Roma bruciavano sotto i piedi i “sanpietrini” di Piazza San Pietro… Appena assolti i suoi impegni istituzionali in Curia e alla CEI ben volentieri ritornava in fretta a casa, a servire da pastore buono che fu, la sua gente. Credo nella santità di vita cristiana di Giovanni Paolo I, quella che si vive nell’ umiltà e nella dedizione quotidiana alla Chiesa e al prossimo in necessità, ispirate dalle virtù teologali, praticate con fervore interiore, e dove la croce e il sacrificio, e talvolta l’umiliazione, hanno da contribuire a rendere il discepolo di Gesù più vicino al suo Signore. Spero che anche questa pubblicazione possa restituirlo a quanti nella nostra terra veneta, e non solo, lo ricordano con vivo affetto e di quanti oggi ne incentivano la memoria.

Card. Beniamino Stella Postulatore della Causa di beatificazione e canonizzazione di Giovanni Paolo I


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on soddisfazione e con un po’ di orgoglio affidiamo ai lettori questo numero monografico de Le Tre Venezie, centrato sulla figura di Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I, nel quale abbiamo l’onore di ospitare le testimonianze di due eminentissimi porporati veneti: il card. Pietro Parolin, Segretario di Stato Vaticano, e il card. Beniamino Stella, che offre il suo personale ricordo di seminarista e prete della diocesi di Vittorio Veneto negli anni in cui mons. Luciani ne fu vescovo, e la sua firma di postulatore della Causa di canonizzazione. La pubblicazione di questo numero si pone sullo sfondo di tre eventi: il 38.mo anniversario della sua elezione al soglio di Pietro, avvenuta il 26 agosto 1978; l’inaugurazione a Canale d’Agordo, suo paese natale, dell’ambizioso progetto di un Museo dedicato alla sua memoria; e soprattutto l’annunciata conclusione della “Positio”, ossia la complessa raccolta documentale che è stata predisposta durante la seconda fase del processo di canonizzazione, tecnicamente indicata come la “fase romana”. Se anche la raccolta documentale è ancora coperta dal segreto d’ufficio, nella redazione di questo numero sono stati coinvolti proprio gli studiosi che hanno lavorato alla “Positio”. Gran parte degli articoli sono stati composti dalla dott. Stefania Falasca, vicepostulatore della causa ed editorialista del quotidiano “Avvenire”, e dal dott. don Davide Fiocco, collaboratore nella redazione della “Positio”. Si aggiunge a loro il contributo del dott. Mauro Velati, storico che ha approfondito le carte d’archivio del periodo veneziano, anni difficili e importanti nella vita di Luciani. I loro interventi presentano la sintesi di dieci anni di ricerca e studio sulla vita e gli scritti di Albino Luciani. Hanno dato inoltre il loro contributo: Giorgia Menegolli, autrice di un saggio su don Filippo Carli, il parroco di Canale che plasmò il giovane Albino Luciani nei suoi primi passi verso il sacerdozio; mons. Martino Zagonel, vicario generale di Vittorio Veneto, che ha raccontato gli anni dell’episcopato cenedese; il dott. Loris Serafini, curatore scientifico del succitato museo; il dott. Quirino Bortolato, autore di un saggio sulla passione di Luciani per la montagna. Un particolare ringraziamento giunga innanzitutto alla dott.ssa Stefania Falasca, a don Davide Fiocco e al dott. Roberto Valente per aver coordinato l’edizione di questo numero. Un ringraziamento speciale inoltre alla ditta Ivecos e Grafica Veneta per il fattivo contributo e a tutti gli Enti pubblici che hanno patrocinato questa iniziativa editoriale. Cav. Tonino Bortoletto Direttore Responsabile


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LE TRE VENEZIE Testata giornalistica multimediale di cultura, storia, arte e turismo

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LA SOLA RICCHEZZA DEL CRISTO POVERO

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IL PATRIARCA ALBINO LUCIANI A VENEZIA

Registrata al Tribunale di Treviso con il n. 936 in data 27.9.94 Iscritta al R.o.c. al n. 12479 già Registro Nazionale della Stampa

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LA PIEVE DI CANALE D’AGORDO VIVACITÀ CULTURALE ED ECCLESIALE

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ALBINO LUCIANI E LA FONDAZIONE GIORGIO CINI

Numero 135

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ALLA SCUOLA DI DON FILIPPO CARLI: MAESTRO IN CURA D’ANIME

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IL CONCLAVE: UN CONSENSO UNANIME

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GLI ANNI BELLUNESI

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LE PRIORITÀ DI GIOVANNI PAOLO I VESCOVO DI ROMA

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A VITTORIO VENETO NEL SOLCO DEL CONCILIO

Editore Le Tre Venezie Editoriale S.c. Iscrizione albo cooperative n. A155114 Direttore editoriale e Direttore responsabile Tonino Bortoletto Coordinamento generale Stefania Falasca Davide Fiocco Bernard Roy Roberto Valente Direzione Via Zermanese, 161 31100 Treviso tel. e fax +39 0422 404807 tel. +39 0422 348142 indirizzo e-mail: letrevenezie@letrevenezie.com letrevenezie@letrevenezie.net Le Tre Venezie on-line www.letrevenezie.com www.letrevenezie.net Direttore editoriale edizione on-line Andrea Angelini Condirettore Valeria Bortoletto Redazione Paolo Belvedere (fotografia) Quirino Bortolato Marialuisa Bortoletto Franco Caramanti Giuseppe Franco Marino Piovanello Giovanni Porcellato (fotografia) Sebastiano Rizzardo Massimiliano Spolaore Collaboratori scientifici Giorgia Menegolli Loris Serafini Mauro Velati Martino Zagonel Stampa Grafica Veneta

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LA SCELTA TEOLOGICA DEL SERMO HUMILIS

Il Cardinale Beniamino Stella con i coordinatori della pubblicazione.

«DIO È PAPÀ, PIÙ ANCORA È MADRE» IL PAPA DELLA MISERICORDIA


STEFANIA FALASCA

La soLa ricchezza deL cristo poVero

Dottore di ricerca in italianistica, editorialista di Avvenire, vicepostulatore della Causa di canonizzazione di Giovanni Paolo I

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abato 26 agosto 1978, dopo sole ventisei ore di conclave, il cardinale protodiacono Pericle Felice annunciava l’elezione di Albino Luciani come successore di Paolo VI. Sbaragliando le tabelle dei valori stabiliti dai canali dell’informazione giornalistica

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PAPA LUCIANI

e non, i cardinali avevano scelto quasi all’unanimità un padre e un pastore nutrito di umana e serena saggezza e di forti virtù evangeliche, che viveva nel gregge e per il gregge, esperto di umanità e delle ferite del mondo, delle esigenze dell’immensa moltitudine dei derelitti,


LA SOLA RICCHEZZA DEL CRISTO POVERO

un sacerdote di vasta e profonda sapienza che sapeva coniugare in felice e geniale sintesi nova et vetera. Avevano scelto un apostolo del Concilio, che aveva fatto del Concilio il suo noviziato episcopale, di cui spiegò con cristallina lucidità gli insegnamenti e ne tradusse rettamente e con coraggio in pratica le direttive. Anzi, le incarnava. In primis la povertà che per Luciani costituiva la fibra del suo essere sacerdote. È stato osservato che non si può ignorare l’humus sociale di quella storia di povertà rurale e operaia del Veneto dal quale proveniva. Tuttavia non è la povertà del populismo, non la vicenda

romantica e paternalistica del modesto prete di montagna, ma quella storica ed esistenziale che si assimila anche con l’educazione e che per Luciani, sacerdote di solida formazione teologica, affondava le radici nel mai dimenticato fondamento di una Chiesa antichissima, senza trionfi mondani, vicina agli insegnamenti dei Padri, sul modello di Cristo e della predilezione per i poveri, e senza la quale poco si capirebbe dello spirito di governo di Giovanni Paolo I. Luciani aveva sposato la povertà, ne aveva fatto la dote più importante, e da essa aveva tratto alimento anche la sua cura d’anime. Ed è proprio l’abito non

San Pietro.

PAPA LUCIANI

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Interno della Basilica Vaticana.



LA SOLA RICCHEZZA DEL CRISTO POVERO

Due pagine di un’agenda personale scritte a Venezia nell’estate 1970 con riflessioni dell’allora Patriarca di Venezia Albino Luciani sul tema “Chiesa povera”.

usato come slogan, non ostentato e non occasionale della povertà che ha dato alla sua stessa parola il senso della concretezza, delle realtà vissute, delle cose come sono, conferendo alla sua personalità di vescovo credibilità nelle manifeste qualità di indulgenza e severità, di comprensione umana e del saper attendere, unite alla fermezza nella custodia del depositum fidei. La piena adesione sia sul piano teologico che pastorale alle linee del magistero montiniano in materia sociale – espresse in particolare nella enciclica Populorum progressio – diviene per Giovanni Paolo I l’orientamento della Chiesa nello sguardo sul mondo. A questo infatti richiama da Pontefice anche nell’ultima udienza generale del 24 settembre 1978, riprendendo con forza «le gravi parole» di Montini riguardo al «grido d’angoscia» dei «popoli della fame», che «interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza» e per il quale «la Chiesa trasale». Parole gravi alla luce delle quali «non solo le nazioni, ma anche noi privati, specialmente noi di Chiesa dobbiamo chiederci: “Abbiamo veramente compiuto il precetto di Gesù che ha detto “Ama il prossimo tuo come te stesso”». Parole quindi che il successore di Paolo VI riprende e pronuncia non prima di aver ricordato la pratica cristiana delle opere di misericordia corporali e spirituali che pure «non sono complete e bisognerebbe aggiornarle» perché «oggi non si tratta più solo di questo o quell’individuo ma

sono interi popoli che hanno fame». E lì dove giustizia e carità s’intrecciano non esita a pronunciare perentoriamente con Paolo VI, secondo quanto trasmesso dalla dottrina sociale della Chiesa, che «la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto», perché «nessuno ha la prerogativa di poter usare esclusivamente dei beni in suo vantaggio oltre il bisogno quando ci sono quelli che muoiono per non aver niente». Del motivo della Chiesa povera al servizio dei poveri è intessuto il magistero di Luciani. È nota del resto la sua attenzione alla trasparenza e alla giustizia con cui affrontò anche i gravi problemi finanziari della diocesi di Vittorio Veneto; come pure è noto che da patriarca di Venezia si attivò per salvare il Banco di San Marco, perché la soluzione che si prospettava avrebbe cancellato il carattere locale della banca veneziana e messo in pericolo numerosi posti di lavoro. A questa vicenda si intrecciò anche l’interessamento per la Banca cattolica del Veneto, quando lo IOR decise di vendere parte della sua partecipazione azionaria al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. È la povertà «secondo la forma del santo Vangelo» di francescana memoria che egli perseguiva nel suo indirizzo pastorale, estraneo ad ogni forma di mondanità nella Chiesa. Nel 1966 scrivendo Il sacerdote diocesano alla luce del Vaticano II, affermava: «Qualcuno aveva detto: “Se il Concilio di Trento di Trento è stato il Concilio


Giovanni Paolo I in udienza.

della castità del clero, il Vaticano II sarà il Concilio della povertà del clero”. È forse un’esagerazione, ma è vero che su questo punto siamo sorvegliati: qui la gente ci aspetta oggi». Ed è proprio sul tema della povertà ecclesiale che s’incentrano anche le note autografe appuntate da Luciani nella sua agenda personale titolate: «Chiesa povera». Sono pagine che appartengono alla documentazione inedita rinvenuta grazie alla ricerca sostenuta e allo studio intrapreso dalla Causa di canonizzazione di Giovanni Paolo I, la cui Positio – che raccoglie tutte le prove documentali e testamentali inerenti alla figura del Servo di Dio, tra le quali la testimonianza del papa emerito Benedetto XVI (un unicum nella storia della Chiesa per quanto concerne i processi di canonizzazione) – è ormai completata è si avvia alla fase di giudizio conclusiva presso la Congregazione delle cause dei Santi. Il documento, risalente all’estate del 1970, primo anno del suo patriarcato a Venezia, è una riflessione per un intervento verosimilmente destinato a sacerdoti o religiosi, vergato su una delle numerose agende che egli usava come quaderni per annotare schemi di omelie, pronunciamenti, conferenze. Nel quale, riprendendo ancora una volta citazioni di Paolo VI e del decreto conciliare Presbyterorum ordinis, l’allora Patriarca scriveva: «Gli uomini – specie quelli che guardano la Chiesa dal di fuori – non la vogliono potenza economica, rivestita di apparenze agiate, dedita a

speculazioni finanziarie, insensibile ai bisogni delle persone, delle categorie, delle nazioni dell’indigenza. Per attuare tale istanza Paolo VI sta lavorando “con graduali, ma non timide riforme, con il rispetto dovuto a legittime situazioni di fatto, ma con la fiducia d’essere compresi e aiutati dal popolo fedele”». Prosegue la nota: Con quale criterio? «La necessità dei ‘mezzi’ economici e materiali, con le conseguenze che essa comporta: di cercarli, di richiederli, di amministrarli, non soverchi mai il concetto dei ‘fini’ a cui essi devono servire». Questo è il criterio espresso da Luciani che richiamando ancora il decreto conciliare sul ministero e la vita dei sacerdoti rispondeva anche in merito ai fini: «Al punto 17 del decreto sono elencati: “L’organizzazione del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, l’esercizio di opere di apostolato e di carità, specialmente a favore dei poveri’». Non manca qui anche un accenno alle «finanze del Vaticano». «Non sono quelle che ci si immagina – notava il Patriarca – Se però fosse possibile che l’amministrazione delle medesime diventasse “una casa di vetro” ne verrebbe probabilmente un vantaggio». Il punto non rinviabile della povertà ecclesiale viene argomentato da Luciani a partire da Cristo stesso: «La bandiera della povertà ecclesiale l’ha inalberata Cristo con tutti i veri riformatori (da san Francesco a Charles de Foucauld)». Precisa poi che anche i «falsi riformatori» l’hanno reclamata alla Chiesa, «ma senza amore per



LA SOLA RICCHEZZA DEL CRISTO POVERO

essa, con orgoglio, negando parecchie verità di fede spirituali», quindi nel passaggio successivo definisce chi sono i poveri nel Vangelo e cosa s’intende per povertà evangelica: «I poveri del Vangelo sono una categoria in primo luogo religiosa e solo secondariamente sociologica. Senza beni copiosi (o distaccati dai beni copiosi) si rivolgono al Signore: “In Te la mia fiducia, non nei beni terreni, che lascio o da cui mi distacco!”». Nel «Nota bene» a seguire nell’appunto chiarisce come la povertà comporti «una condizione modesta – mai miseria, perché la miseria è contraria al Vangelo, essendo condizione disumana non voluta da Dio – ma non si identifica con essa. Uno – spiega infatti – può essere di modesta condizione, ma se aspira alla ricchezza avidamente, invidia o odia i ricchi, non è povero evangelicamente». Alla domanda se abbia quindi valore o meno l’essere sociologicamente povero, Luciani risponde che vale «non in se stesso, ma in quanto dispone naturalmente alla povertà evangelica-spirituale: chi è povero è più disposto a confidare in Dio, chi è ricco è portato a dimenticare Dio. Per questo Cristo è duro con la ricchezza (non è che fosse risentito contro i ricchi per motivi populistici, ma per motivo religioso: la ricchezza impedisce di aprire il cuore al desiderio del Regno di Dio)». Così dunque conclude riguardo alla povertà ecclesiale: «Il dovere della povertà evangelica è per tutti i cristiani. Più per i vescovi, preti, religiosi. La ragione? Rappresentano – agli occhi del mondo – la Chiesa di più». Quindi: «Ad hoc convertirsi interiormente ed esteriormente, passando dalla retorica della povertà alla povertà reale». Non si è chiuso con Giovanni Paolo I un breve capitolo di storia dei Papi. Non si torna

indietro né si incomincia da capo. Ciò che la Chiesa sta rivivendo dal suo interno, da Giovanni XXIII, dal Concilio Vaticano II, da Paolo VI, non è una parentesi. Se il governo di Albino Luciani non si è potuto dispiegare nella storia, egli ha concorso decisamente a rafforzare il disegno di questa Chiesa del Concilio che, ricca «di Cristo povero», nella povertà evangelica, si fa prossima alle ferite delle realtà umane, al dolore delle genti e alla loro sete di carità, come indeclinabile testimonianza di ciò che è l’essenza, il fondamento autentico del vivere nella Chiesa e per la Chiesa.

Basilica Vaticana, Cappella della Presentazione.

Una rara fotografia di Canale d’Agordo degli anni Venti del Novecento. Canale d’Agordo ai nostri giorni


La Chiesa della Pieve.

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PAPA LUCIANI


DAVIDE FIOCCO

La pieVe di canaLe d’agordo

Dottore di ricerca in teologia, patrologo, collaboratore per la Positio di Giovanni Paolo I.

ViVacità cuLturaLe ed eccLesiaLe A

Canale sono stato fanciullo di povera famiglia». Così scriveva nel 1977 Albino Luciani, ormai rivestito della porpora cardinalizia come «patriarca di Venezia. Egli era nato il 17 ottobre 1912 a Canale d’Agordo (già Forno di Canale fino al 1964) – a 45 chilometri da Belluno, 976 metri sul livello del mare, nel mezzo delle Dolomiti, un borgo di mille anime nella Valle del Biois. Come tutta la provincia bellunese, agli inizi del Novecento le vallate dolomitiche furono afflitte dal fenomeno dell’emigrazione; dopo prima guerra mondiale le privazioni, dovute all’occupazione austriaca e alla ricostruzione, continuarono a vessare i valligiani in una difficile situazione economica e sociale.

Vivacità culturale Tuttavia a dispetto di molte vulgate, che hanno spesso sottolineato la provincialità e l’umiltà del paese di nascita di Papa Luciani, un’onesta e approfondita disamina storica deve rendere ragione alla sua comunità natale, la Pieve di Canale d’Agordo, che è stata luogo di riferimento per la popolazione della valle, area di scambi culturali e quindi fucina di eminenti personalità. Fino alla prima guerra mondiale, infatti, la Valle del Biois si trovava nella condizione tipica delle zone di confine, foriere di arricchenti scambi culturali. La Pieve di san Giovanni Battista, eretta nel 1456 da papa Callisto III, continuò nei secoli a essere punto

Canale d’Agordo Interno della chiesa parrocchiale.

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LA PIEVE DI CANALE D’AGORDO VIVACITÀ CULTURALE ED ECCLESIALE

La casa in cui nacque Albino Luciani nel 1912, come si presenta oggi.

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di convergenza di tutta la popolazione della valle: il contributo culturale dei sacerdoti incoraggiò anzi un’alfabetizzazione inusuale per l’Italia di quegli anni e forme di cooperativismo che vantano la primogenitura in ambito nazionale. Nonostante dunque, le difficoltà dei tempi, i paesi della valle del Biois conobbero una significativa vitalità, sia culturale che ecclesiale. Durante gli anni della dominazione austriaca (1797-1866) e poi fino alla prima guerra mondiale, non è affatto un caso che quei villaggi abbiano dato i natali a figure di un certo rilievo nel panorama culturale locale: lo scultore Giovanni Marchiori di Caviola (1696-1778), il pittore Giuseppe Zais di Canale (1709-1781), il poeta dialettale Valerio Da Pos di Carfón (1740-1822), il poeta don Pietro Follador di Sappàde (1827-1872), il pittore Pietro Antonio Andrich di Canale (1834-1904), lo storico don Francesco Pellegrini di Falcade (1826-1903), il poeta vernacolare Luigi Làzzaris di Celàt (1816-1906), lo scultore Pietro Amedeo Làzzaris pure di Celàt (18571917), lo scultore Amedeo Da Pos di Carfón (18701966). Sempre a Canale nel 1847 venne avviata da Giovanni Battista Zannini un birrificio, poi acquistato

poi da tre fratelli Luciani, che nel 1897 migrarono a Pedavena, alle porte di Feltre, dove tuttora esiste un notevole impianto. Una genealogia di grandi parroci A sostenere questa vitalità sociale e culturale furono soprattutto i parroci. A guidare la Pieve dal 1860 al 1898 fu don Antonio Della Lucia († 1906), portabandiera bellunese del cooperativismo sociale: nel 1868 vi fondò il primo asilo rurale della provincia; nel 1871 una cooperativa di consumo; nel 1872 la prima latteria sociale cooperativa d’Italia e una società di mutuo soccorso; nel 1892 una piccola cassa di risparmio. Per l’alfabetizzazione si prodigò con un’iniziativa avviata nel 1878: le “biblioteche circolanti”, che mettevano a disposizione dei valligiani libri per incentivare la lettura. La battaglia contro l’analfabetismo diede frutto: per quanto riferisce lo storico Francesco Pellegrini (1826-1903), in quell’arco di tempo la valle del Biois si distingueva nel comprensorio per una superiore alfabetizzazione. In pochi anni la solerte iniziativa del pievano si estese a tutto il comprensorio agordino, con iniziative per la


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diffusione dell’istruzione tra gli strati più bassi della popolazione e la promozione sociale ed economica dei parrocchiani. Precorse i tempi nel difendere i diritti delle donne e l’estensione universale del voto. Non è un caso che, quando dovette cambiare aria per avversità politiche, il veneziano don Luigi Cerutti († 1934), fondatore delle casse rurali dell’area veneziana e del Banco di San Marco, attivista dell’Opera dei Congressi e in altre iniziative cooperativistiche, abbia chiesto asilo alla parrocchia di Canale. Nel 1918 poi resse la parrocchia come vicario economo, finché il patriarca Pietro La Fontaine ottenne dall’autorità militare che don Cerrutti potesse ritornare a Venezia. Durante i 38 anni del ministero di don Antonio Della Lucia, la Pieve di Canale d’Agordo vide una fioritura di vocazioni, tra cui i sacerdoti che molta parte avranno nella crescita umana e cristiana di Albino Luciani. L’arciprete avviò al seminario 24 giovani, 16 dei quali divennero sacerdoti. Tra di essi don Sante Cappello (1876-1954), morto in concetto di santità; mons. Luigi Cappello (1877-1952), l’arcidiacono di Agordo di cui don Albino Luciani fu il primo cappellano; il gesuita padre Felice Maria Cappello (1879-1962), fratello del

precedente e lontano parente di Albino Luciani; padre Domenico De Rocco (1889-1958) e don Filippo Carli (1879-1934), il parroco che tanta parte ebbe nella formazione del giovane Albino. La biblioteca della canonica Segno della vitalità culturale della Pieve è pure la biblioteca della canonica, formatasi con i lasciti dei vari pievani. La serie di volumi attesta una sorprendente e inattesa varietà di interessi, che spaziano dalla teologia alla predicazione, dalla filosofia alla storia, dalla letteratura alle scienze esatte; e poi la numismatica, libri in tedesco, greco, arabo, ebraico e perfino un vocabolario e una grammatica cinesi. Fra i testi anche due opere elencate allora tra i “libri proibiti”, come le Opere complete di Baldassarre Castiglione, l’Andrea Cornelis di Paul Bourget e la tragedia Causae di Giuseppe Nicolini. Il tutto conferma l’insospettata apertura mentale e la vitalità culturale che la Pieve godette nei secoli e che abbiamo già avuto modo di sottolineare. Quei volumi erano fonte delle abbondanti citazioni, degli aneddoti e degli esempi che costellavano la predicazione e la

Uno scorcio di Canale d’Agordo con la Casa delle Regole - 1640.

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pubblicistica dell’arciprete don Carli. Proprio don Filippo nel 1931 affidò al giovane chierico Albino Luciani l’onere di catalogare le opere e di sistemarle in una vetrina nuova. Infatti durante quell’estate, Albino Luciani lavorò alla catalogazione di quei numerosi volumi, con l’aiuto del fratello Edoardo, di Igino Serafini (1913-1984) e di Saba De Rocco (1910-1984). Oltre milleduecento titoli vennero suddivisi per argomento e recensiti in un catalogo, vergato con la minuta grafia di Luciani; soltanto gli ultimi trenta volumi risultano invece annotati con scrittura diversa. Va rimarcato il fatto che il giovane seminarista – dopo aver elencato autore, titolo, luogo e data di edizione del volume in analisi – abbia dato anche un piccolo riassunto e un giudizio sintetico del testo: il che comporta necessariamente una lettura, per quanto sommaria, dei saggi inventariati. Si concesse anche stroncature piuttosto ambiziose contro autori di pregio; giudizi che tuttavia non stupiscono sulla penna di un ventenne, infiammato dall’ardore del neofita nello studio teologico. Da notare che, fra i Padri della Chiesa, l’opera più lodata è quella di san Gregorio Magno, il patrono del Seminario bellunese; un particolare appunto lascia presagire ex-post lo stile che il Servo di Dio assumerà nella predicazione: «I “Dialogi”, candide confabulazioni di un grande uomo, che si riduce a balbettare per essere compreso dai semplici... L’ingenuità non vi nasconde il genio». Anche questa inventariazione libraria fu importante nella formazione di Albino Luciani, apportando nuovo bagaglio alla sua vasta cultura, fatta di una solida preparazione umanistica e teologica che, aiutato dalla sua formidabile memoria, possederà poi con tanta padronanza senza mai farne sfoggio. Autografo di Luciani Catalogazione della biblioteca parrocchiale (estate 1931) La Biblioteca della Parrocchia Nella pagina a fianco: Atto di battesimo di Albino Luciani.

Tre padri conciliari Si può in conclusione affermare che la sensibilità culturale, pastorale e sociale del Servo di Dio nasce in un preciso contesto parrocchiale, contrassegnato

da figure sacerdotali di notevole spessore umano e cristiano, che hanno dato lustro alla Pieve di Canale d’Agordo, e hanno dato una significativa testimonianza di intelligente carità pastorale e provocato un’importante fioritura di vocazioni sacerdotali. E va certamente rilevato che durante il Concilio Vaticano II – caso forse unico al mondo – questa piccola parrocchia montana contava tra i Padri conciliari ben tre dei suoi figli: mons. Albino Luciani, allora vescovo di Vittorio Veneto; padre Saba De Rocco (†1984), generale dei padri Somaschi; il salesiano mons. Giovanni Battista Costa († 1996), figlio di emigranti e primo vescovo di Porto Velho in Brasile.


La frazione di Carfon, a pochi chilometri da Canale d’Agordo.


L’antica chiesa di San Simon di Vallada, monumento nazionale che custodisce un ciclo di affreschi di Paris Bordone (1500-1571).

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Ritratto di famiglia

iovedì 17 ottobre 1912, a mezzogiorno, nella casa di via Rividella n. 8, nella stua, la stanza più calda della casa, nacque Albino, primogenito di Bortola Tancon e Giovanni Luciani. Il gracile aspetto del neonato fece temere per la sua sopravvivenza e per questo fu battezzato in articulo mortis dalla levatrice Maria Fiocco. Alla nascita del figlio Albino, il padre Giovanni Battista Luciani (27 maggio 1872 – 9 gennaio 1952) si trovava all’estero per lavoro. Come molti dei conterranei aveva preso la via dell’emigrazione stagionale, che per circa ventisette anni, fino al 1925 lo portò ogni anno, da marzo a novembre, in Germania, Francia, Svizzera e in Argentina. Era nato nel 1872 e a soli undici anni era partito alla volta di Innsbruck come manovale. Aveva quindi lavorato come muratore a Pforzheim e a Bellingen, poi come operaio specializzato negli altiforni della Ruhr, a Solingen, Essen, Bochum, impiegato a rivestire gli altiforni con materiale refrattario; infine, in Belgio e in Francia. In questo periodo, Giovanni strinse una profonda amicizia con un operaio bergamasco di nome Albino, che perì tragicamente sul lavoro: lo volle ricordare chiamando Albino prima i tre figli nati dal primo matrimonio e morti dopo poche settimane di vita, poi il primogenito avuto dalle seconde nozze con Bortola Tancon. Giovanni si era infatti sposato una prima volta nel 1990 con Rosa Angela Fiocco, sua cugina di primo grado, che morì nel 1906 lasciando due figlie sordomute: Pia e Amalia. Anche la madre Bortola Tancon (19 agosto 1879 – 2 marzo 1948) era stata all’estero a lavorare. Dopo essere emigrata nel 1897 a San Gallo in Svizzera per impiegarsi in una fabbrica di caramelle, nel 1900 aveva trovato lavoro nella cucina dell’Ospizio dei Santi Giovanni e Paolo a Venezia, tenuto dalle Elisabettine. Ed è a Venezia che Giovanni Luciani e Bortola Tancon si conobbero. Si unirono in matrimonio il 2 dicembre 1911. Nella nuova famiglia trovarono posto anche Pia e Amalia, le figlie del primo matrimonio di Giovanni: in Bortola, donna distinta per una fede granitica e un forte carattere, ebbero una seconda madre, che si prese cura della loro infermità. Amalia morirà il 12 ottobre 1939, a 38 anni, dopo aver visto il fratellastro Albino salire all’altare come sacerdote. Pia nel 1928 diverrà religiosa nella Congregazione delle Piccole Suore del Cottolengo, nella Piccola Casa della Divina Provvidenza di Torino, con il nome di suor Maria del Buon Consiglio; poté vedere il fratellastro vescovo rivestito della mitria che lei stessa aveva confezionato; morirà il 19 marzo 1969. Dopo Albino, nacquero Tranquillo Federico che morì a soli cinque mesi (2 settembre 1915 – 12 febbraio 1916), Edoardo poi detto “Berto” (26 marzo 1917 – 10 marzo 2008) e Antonia Adele poi detta “Nina” (3 febbraio 1920 – 5 giugno 2009). Il legame con i fratelli rimase sempre molto forte. L’anno seguente la nascita di Albino, nel 1913, il padre Giovanni emigrò in Argentina, dove da una decina d’anni si trovava il cognato Federico Vincenzo Tancon, nell’ipotesi di farvi emigrare tutta la famiglia. Ipotesi che non era esclusa nemmeno per i Luciani. Giovanni operava come muratore esperto nella costruzione di un acquedotto nei pressi di La Plata. Ma lo scoppio della prima Guerra mondiale cambiò i piani: i due cognati rientrarono presto in Italia, per essere vicini alle famiglie. Durante il periodo bellico, Giovanni non si allontanò dalla famiglia. Dopo la ritirata di Caporetto, la zona vide l’invasione austriaca con le requisizioni e le ristrettezze che, dall’inverno del 1917 fino a tutto il 1918, comportarono l’anno più terribile dall’inizio della guerra, ricordato come “l’anno della fame”. Albino Luciani ricorderà spesso la crudezza di quegli anni: «Durante l’anno dell’invasione ho patito veramente la fame. E anche dopo» Lo ricordò anche da Pontefice nell’udienza con il fedeli di Belluno, il 3 settembre 1978.Luciani conservò sempre la lettera con la quale il padre, scrivendogli dalla Francia, dove si trovava in quel momento a lavorare, gli diede il consenso per entrare in seminario: «Spero che quando tu sarai prete, starai dalla parte dei poveri, perché Cristo era dalla loro parte». D.F.


GIORGIA MENEGOLLI

Autrice di saggi accademici sulla figura di don Filippo Carli.

aLLa scuoLa di don FiLippo carLi: maestro in cura d’anime L

Feltre - il Seminario vescovile

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’8 luglio 1935, il ventitreenne Albino Luciani celebrava, nella Pieve di Canale d’Agordo, la sua prima messa. Il concorso della comunità era stato unanime. Una nota di mestizia aveva tuttavia segnato l’assemblea e lo stesso novello sacerdote: mancava don Filippo Carli, l’amato arciprete di Canale. Era spirato pochi mesi prima, il 19 ottobre 1934, dopo quindici intensi anni di servizio nella Pieve di Canale (19191934). Don Filippo Carli era nato nel 1879 nella vicina Caviola, che allora rientrava in una vasta parrocchia comprendente tutta la Valle del Biois. Don Carli si era formato sotto le ali di un altro eminente parroco, don Antonio Della Lucia, che aveva servito la vallata dal 1860 al 1898. Della Lucia era un prete di altri tempi, ma geniale precursore di iniziative che anticiparono le istanze sociali della Rerum Novarum; in un’epoca in cui l’emigrazione sembrava l’unica alternativa alla

miseria per la gran parte delle famiglie della valle. Aveva istituito società cooperative, asili rurali e biblioteche circolanti. Non fu soltanto un corifeo del cooperativismo cattolico; egli era un buon prete, che aveva lasciato in eredità il suo talento nel saper parlare alla gente comune e nel trasmettere la dottrina cristiana con un linguaggio efficace e comprensibile. Proprio questa particolare attitudine diverrà un timbro pastorale, affidato prima a don Filippo Carli e poi, in un suggestivo passaggio di testimone generazionale, al futuro Papa Luciani. In quegli anni la parrocchia di Canale vide una fioritura di vocazioni, che portò alla talare ben sedici dei suoi figli, tra i quali alcuni meritano una menzione particolare: don Sante Cappello, morto in concetto di santità; il canonista gesuita padre Felice Cappello, del quale nel giugno 2014 si è conclusa l’Inchiesta


ALLA SCUOLA DI DON FILIPPO CARLI: MAESTRO IN CURA D’ANIME

diocesana della causa di canonizzazione nella diocesi di Roma; il missionario padre Domenico De Rocco e infine don Filippo Carli, il maestro di Albino Luciani. Già nella primavera del 1923 Albino Luciani manifestò al suo parroco i primi segnali della sua vocazione, sbocciata quando un frate cappuccino di Padova, Remigio Braiato (1894-1970), venne chiamato a predicare a Canale il quaresimale. Don Filippo accompagnò poi il giovane Luciani lungo tutto il suo percorso di formazione: prima a Feltre per le medie e il ginnasio, quindi a Belluno per il liceo e la teologia. Riuscì a vederlo salire all’altare soltanto come suddiacono. Ma il suo segno rimase indelebile. Nel 1977, un anno prima di essere eletto al Soglio di Pietro, l’allora patriarca di Venezia Luciani ricordò con trasporto e nostalgia la stoffa di questa figura che era stata di centrale riferimento nella sua giovinezza: «Quanto al parroco, mi sia permesso di rievocare qui la figura del mio... Tento di dire cosa faceva per noi seminaristi il parroco, durante le vacanze... un drappello di seminaristi, che per tre mesi, passando da casa a chiesa, da canonica a sala parrocchiale, dava l’immagine di un ronzio di api attorno un alveare... Dire quanto miele abbia prodotto quel ronzio è un’altra faccenda... Restava, però, che nel ronzio i poveri ragazzi venivano grado grado iniziati alle responsabilità, avviati al lavoro personale, stimolati allo spirito d’iniziativa, costretti a toccare con mano le difficoltà, abituati a collaborare tra di loro in fraterna emulazione e ad osservare la gente... Aveva l’ambizione di iniziarci alla

vita pastorale... Osservandolo riflessivo, prudente, interessato solo alle anime o a cose buone e nobili, diventava per me concreto, reale, vicino, quello che in seminario avevo visto astratto, ideale e lontano». Don Filippo, tra il 1920 e il 1930, aveva avviato al seminario quindici ragazzi, dieci dei quali divennero sacerdoti: la sua parrocchia era pertanto divenuta un «piccolo seminario», soprattutto durante le vacanze estive. I giovani seminaristi avevano imparato da lui a volersi bene, a condividere momenti di preghiera o di studio, collaborando fraternamente alla vivacità della parrocchia. Non è quindi difficile scorgere le linee di continuità che uniscono don Filippo e don Albino. Si è già notata la comune modalità espressiva nella predicazione e nella catechesi. La ricerca nell’archivio parrocchiale, dove sono custoditi gli appunti della predicazione del parroco don Carli, ha permesso a chi scrive di evidenziare quanto egli si adoperasse nella scelta di un linguaggio semplice ed efficace, ricco di citazioni, aneddoti ed esempi tratti da una feconda immaginazione, oltre che dai numerosi volumi della sua biblioteca personale. Questa volontà di farsi capire fu anche il pregio del sermo humilis di papa Luciani, uno stile apparentemente popolare, frutto tuttavia di un’ attenta e meticolosa preparazione. Tra i numerosi testi manoscritti conservati in archivio, a colpire il ricercatore in modo particolare è il discorso pronunciato il 6 giugno 1920: «Grande il cuore di una madre! Quante volte ella ha messo in

Canale d’Agordo, luglio 1933. Foto ricordo della prima Messa di don Giovanni Battista Costa, salesiano (poi vescovo di Porto Velho in Brasile). In piedi da sinistra: tre ignoti, probabilmente salesiani ospiti; poi i chierici Igino Serafini, Valentino Feder, Albino Luciani, Felice Tomaselli. Seduti da sinistra: don Giovanni De Mio, mons. Angelo Santin, il festeggiato don Giovanni Battista Costa, don Giacomo Mezzacasa e l’arciprete don Filippo Carli.

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Veduta di Canale d’Agordo e della Valle di Gares.



ALLA SCUOLA DI DON FILIPPO CARLI: MAESTRO IN CURA D’ANIME

Interno del duomo di Feltre.

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pericolo e ha sacrificato anche la propria esistenza per salvare i suoi figli! [...] Carissimi, e Gesù Cristo Dio non ci ha egli amati e non ci ama forse d’un amore generoso e infinito? [...] Ama i fanciulli e li trae a sé, se li porta tra le braccia con tenerezza materna e minaccia gravi castighi a chi oserà offendere col cattivo esempio la loro innocenza». Impressiona quell’immagine del cuore materno evidenziata in corsivo, perché qualche decennio dopo dalla finestra del Palazzo Apostolico, papa Luciani ebbe a dire una celebre frase che lasciò di stucco il mondo: «…noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha gli occhi sempre aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà; più ancora è madre». Non fu soltanto la predicazione ad accomunare questi due uomini di Chiesa. Per arrivare a tutti i parrocchiani e agli emigranti, don Filippo avviò la pubblicazione di un bollettino parrocchiale, intitolato “Il Celentone”, dal toponimo di un monte della valle su cui la leggenda poneva i primi insediamenti cristiani. Egli vi appuntava i contenuti della fede, ma anche arguti giudizi sull’attualità, riuscendo così a suscitare nei suoi parrocchiani un sorriso e una riflessione. Su queste pagine nacque anche il pubblicista Luciani che più tardi diverrà commentatore di punta de “L’Amico del popolo”, per attrarre l’attenzione su temi di vitale importanza ecclesiale e chiederà poi posto tra le colonne del “Gazzettino” e del “Messaggero di Sant’Antonio” e infine dell’“Osservatore romano” attestandosi – venne annotato – come la migliore penna dell’episcopato italiano. Don Filippo si dedicava con pazienza e amore alla catechesi dei fanciulli: perseguendo la trasmissione della dottrina cristiana, ricorse anche ad espedienti innovativi per quei tempi, allestendo a proprie spese un piccolo cinema parrocchiale, dove proiettava i primi filmati di carattere biblico. Nel solco tracciato dal suo formatore, mentre assumeva impegni

sempre più gravosi nella curia bellunese, Luciani si impegnò nella capillare diffusione dell’insegnamento della dottrina cristiana, da cui ricavò il volumetto Catechetica in briciole e curò la formazione culturale di alcuni giovani utilizzando i moderni mezzi di comunicazione, tra cui il cineforum. L’attenzione ai poveri era un’altra delle caratteristiche peculiari del pievano don Carli: numerose erano le persone che da Canale e dai paesi limitrofi andavano a bussare alla porta della sua canonica. Frequentemente egli tratteneva a pranzo o a cena i bambini più poveri del paese. Anche il vescovo Luciani non lasciava mai andare un questuante che bussava alla porta dell’episcopio. Alla stessa maniera si dedicava assiduamente alla visita dei malati. Portava loro il conforto dei sacramenti, si fermava volentieri a parlare con i familiari dei malati e si interessava amorevolmente di ognuno di essi. Nella citata occasione del 1977, il patriarca Luciani ricordava di aver accompagnato il suo parroco, «notando il modo con cui si interessava prima del degente e poi giù giù di tutti quei di casa con una parola buona per ciascuno…». Da vescovo e da patriarca, anche Albino Luciani mai trascurò quest’opera di misericordia. Diverse volte aveva poi ricordato un’espressione che aveva sentito spesso dal suo parroco: «Obbedire bisogna!». Luciani si distinse particolarmente per la lealtà ai suoi superiori e nello stesso spirito di obbedienza accettò anche l’elezione al Soglio di Pietro, quasi sopraffatto da quella “maggioranza regale”, nella quale – secondo il ricordo del card. Pericle Felici – «deve aver pensato: qui c’è il dito di Dio». Se durante la sua prima messa, certamente il futuro Papa avvertì la presenza spirituale del suo maestro don Filippo, non meno la percepirono i parrocchiani, che alla scrivente lo indicavano ancora, dopo più di mezzo secolo, come «un prete che faceva sentire le persone amate».


Il duomo di Feltre.

Albino Luciani sui banchi del seminario di Feltre.

Foto di gruppo nel seminario di Feltre.


Stampa d’epoca di un sonetto scritto dal poeta Valerio Da Pos per l’inaugurazione del nuovo organo Callido - 1801

Interno della chiesa parrocchiale di Canale d’Agordo - sul fondo il pregiato organo Callido (1801).

Canale d’Agordo, 8 luglio 1935: foto di famiglia nel giorno della prima Messa di don Albino Luciani.

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La chiesa parrocchiale di Vallada Agordina, all’epoca parte della più vasta Pieve di Canale d’Agordo.

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Nella pagina seguente: Vesti prelatizie e papali usate da Albino Luciani – Giovanni Paolo I, ora custodite nel Museo “Papa Luciani” di Canale d’Agordo.

Il Museo Albino Luciani, Papa Giovanni Paolo I

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l nuovo museo Albino Luciani Giovanni Paolo I ripercorre le tappe della storia umana del Sommo Pontefice, figlio di contadini di Canale d’Agordo, nelle Dolomiti bellunesi ai piedi della Marmolada. Dopo un breve ma sostanzioso excursus nella storia dell’antica Pieve di San Giovanni Battista – culla di numerose personalità eminenti in campo artistico, letterario e religioso, tra cui ricordiamo lo scultore Giovanni Marchiori (1696-1778), il paesaggista Giuseppe Zais (1709-1781), il poeta Valerio Da Pos (1740-1822) e il gesuita p. Felice Cappello (1879-1962) – la narrazione ripercorre l’ambiente della Valle del Biois di fine Ottocento e di primo Novecento, presentando la famiglia del futuro Pontefice e le figure dei suoi educatori, per poi L’antico Ospizio della Confraternita dei Battuti, ora proseguire il racconto scandendo le sede del Museo “Albino Luciano - Giovanni Paolo I“. tappe più significative dell’ascesa di Albino Luciani alla Cattedra di Pietro, il 26 agosto 1978. L’esposizione si caratterizza per lo speciale coinvolgimento del visitatore che, ascoltando o leggendo una sorta di autobiografia tratta dagli scritti del Pontefice, viene condotto dalle stesse parole di Albino Luciani. La voce del Papa accompagna alcuni momenti significativi, come il periodo delle scuole elementari o il conclave. Luci, suoni, fotografie, filmati, documenti, vesti, oggetti, e testi contribuiscono a creare un’atmosfera che rievoca gli anni del primo Novecento a Canale, fino a giungere, attraverso i vari passaggi biografici, al primo conclave del 1978 e al breve pontificato di Giovanni Paolo I. Tra gli oggetti più significativi possiamo ricordare il quaderno di quarta elementare autografo, il libro regalatogli dalla madre Bortola, la valigetta usata in seminario con le sue stesse iniziali, il calice personale, la valigia con cui partì per il Vaticano, i sigilli di piombo del conclave. Emozione susciterà senza dubbio lo spontaneo racconto del conclave narrato dalla voce del nuovo Papa Giovanni Paolo I all’indomani della sua elezione, o la visione di spezzoni amatoriali degli anni Sessanta e Settanta che lo riprendono vescovo di Vittorio Veneto, patriarca di Venezia o Papa. La semplicità e la linearità di questo museo vogliono lasciare nel ricordo di chi lo visiterà un’eco dell’umiltà, dell’umanità e della fede che ha caratterizzato la figura e la vita di Albino Luciani. L’intera struttura – promossa e parzialmente finanziata dall’Amministrazione comunale di Canale d’Agordo – è stata co-finanziata dalla Regione Veneto, dai Fondi Odi-Brancher per i Comuni di confine e dalla Fondazione Cariverona per gli edifici adibiti ad uso sociale.

Loris Serafini

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Da sinistra: La canonica (sorge sul sedime dell’antico palazzo, demolito nel 1971), una casa privata, l’Ospizio della Confraternita dei Battuti, la Chiesa della Pieve.

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Il confessore di Agordo

el dicembre del 1935, Albino Luciani, sacerdote novello, venne mandato nella parrocchia di Agordo. Lo aveva voluto come suo cappellano monsignor Luigi Cappello, fratello del noto canonista gesuita padre Felice Cappello (1879-1962), per il quale è in corso la causa di canonizzazione. Ad Agordo Luciani rimase fino al 1937, quando ricevette la nomina di vicedirettore del seminario Gregoriano di Belluno. E ad Agordo, nelle estati di quegli anni, il padre Cappello veniva a trascorrere le vacanze, Luciani e il “santo confessore di Roma” si ritrovarono dirimpettai nell’amministrare il sacramento della riconciliazione. Nelle sue memorie così lo ricorda la sorella di Giovanni Paolo I, Antonia Luciani.

C’è una parentela, per parte di papà, tra la nostra famiglia e padre Felice Cappello. La nostra mamma inoltre aveva frequentato il catechismo insieme a lui, erano coetanei. Quando noi eravamo piccoli, padre Felice era già uno stimato sacerdote. Mio fratello Albino, fin da ragazzino ne aveva sentito parlare, ma ebbe modo di conoscerlo quando era ancora giovane seminarista. Durante il periodo estivo, quando padre Cappello veniva dai familiari, passava sempre a trovare don Filippo Carli, con il quale era cresciuto ed erano molto amici. Così durante quelle visite, l’Albino ebbe modo di incontrarlo. Ricordo che tra i libri che aveva portato con sé a Venezia, ce n’era uno, con una dedica di padre Felice, che mio fratello conservava come un caro ricordo: era un famoso testo di diritto canonico scritto dal padre Cappello. Glielo aveva regalato nel ’32. Conosceva bene anche i suoi scritti fin da ragazzo. Negli anni seguenti, 1935-38, l’Albino ebbe possibilità di frequentarlo ancora durante le estati, quando il padre Felice veniva a trovare suo fratello, don Luigi Cappello, che era, in quegli anni, arcidiacono ad Agordo. E poi ancora alla Gregoriana, dove il padre Felice insegnava, negli anni Quaranta, quando l’Albino si recava spesso a Roma per la preparazione e la discussione della tesi di licenza e di dottorato. Durante quel periodo di studio padre Felice si era anche interessato di far ottenere all’Albino l’esonero dalla frequenza, non potendo, a causa della lontananza, partecipare alle lezioni. Si frequentarono poi anche più tardi, durante la fase preparatoria del Concilio. Mio fratello aveva avuto il desiderio di farsi gesuita. Questo lo confidò proprio a me. Erano gli anni 1934-35. Poco tempo prima che venisse ordinato sacerdote. Due suoi compagni di seminario, con i quali l’Albino era amico, erano entrati nella Compagnia di Gesù. Ricordo la circostanza in cui me lo disse. Eravamo intenti a tagliare l’erba per il fieno nei prati verso Gares, mi disse: «Sai che Giuseppe Strim e Roberto Busa si sono fatti gesuiti? Anche a me piacerebbe tanto…». «E se lo vuoi» dissi «fai così anche tu». «Non posso», rispose. «Chiedi il permesso al vescovo... E lui: «Glielo ho chiesto, ma ha risposto di no». Servivano sacerdoti in diocesi. E così a lui il vescovo non lo consentì. Lo voleva in diocesi. Più volte, raccontando di aver visto la partenza dei suoi compagni di seminario, ricordava questo fatto con una punta di tristezza, e più volte mi ripeté che anche a lui sarebbe piaciuto tanto farsi gesuita e partire missionario. Uno dei suoi santi preferiti era Francesco Saverio. In casa avevamo una devozione per questo santo. «I missionari» diceva «sono quelli che tirano il carro della Chiesa. Quelli che tirano il carro sono quelli che domandano i posti della fatica e del rischio». Andare missionario era stato il suo desiderio giovanile, come quello di farsi gesuita. L’Albino era attratto dallo studio e dal modo di vita dei gesuiti. Sottolineava il loro spirito d’obbedienza, anche il loro singolare voto di non accettare cariche ecclesiastiche e penso che se da giovane aveva avuto questo desiderio di entrare nell’ordine di Sant’Ignazio, era anche perché aveva conosciuto il padre Felice. Una volta sentii l’Albino ricordarlo con queste parole: «Giovanissimo, aveva preso tre lauree, era professore universitario consultato da congregazioni romane, vescovi, ministri... di lui però non m’ha colpito la scienza, che conoscevo attraverso i suoi tanti scritti, ma l’umile fedeltà». E raccontò in proposito un episodio di quando si frequentavano a Roma, prima dell’apertura del Concilio: «Dovendo uscire con lui dalla Gregoriana dove risiedeva, il padre Felice mi disse una volta: “Aspettami qui un momento, vado dal padre rettore perché legga queste tre lettere, prima che io le spedisca”». E l’Albino commentava: «Aveva ottant’anni, era quello che era, ma obbediva con semplicità alla regola che voleva la posta controllata dal superiore». Albino non partì per le missioni, non entrò nella Compagnia di Gesù, ma un legame con i gesuiti e col padre Felice, all’inizio del suo sacerdozio, era destino che lo mantenesse, perché appena ordinato sacerdote venne chiamato ad aiutare proprio il fratello del padre gesuita. Albino ricevette l’ordinazione sacerdotale il 7 luglio del ’35. Rimase tutta l’estate a Canale, e ai primi di dicembre, quando monsignor Luigi Cappello fece il suo ingresso ad Agordo, scese giù anche l’Albino, come suo aiutante. Nei due anni di quel servizio ha confessato molto e li ricordava come i più belli del suo sacerdozio. Li ricordava anche per la compagnia del padre Felice: «La sua compagnia è stata per me una benedizione», diceva. Durante le estati, quando il padre veniva a trascorrere le vacanze dal fratello, si erano trovati uno di fronte uno all’altro nel confessionale. All’epoca il padre Felice era già rinomato professore alla Gregoriana e diffusa era anche la sua fama di santo confessore. Ricordo che si fermava anche a Canale a predicare e la chiesa si riempiva di gente. Venivano da tutta la vallata e poi tanti andavano da lui a confessarsi ad Agordo. Nella chiesa parrocchiale di Agordo c’è ancora il suo confessionale. È davanti a quello del cappellano, quello che allora occupava l’Albino. Mio fratello aveva appena ricevuto la licenza allora necessaria per confessare i bambini e il suo confessionale era sempre assalito dai ragazzini di prima comunione. Quando poi padre Felice tornava a Roma, anche tutti gli altri andavano volentieri a confessarsi da lui. Il “santo confessore di Roma” rimase sempre un riferimento per l’Albino. * Tratto da: Stefania Falasca (a cura di), Mio fratello Albino, ricordi e memorie della sorella di Papa Luciani, Roma 2003.


Con i cantori della parrocchia di Agordo (1936).

Don Albino Luciani (terzo da sinistra nella prima linea in piedi) con insegnanti e allievi dell’Istituto Minerario di Agordo.


“El broi”, cioè la piazza del capoluogo agordino.

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DAVIDE FIOCCO

(1937 - 1958)

gLi anni BeLLunesi I

l biografo solitamente scalpita per arrivare presto ai momenti di svolta nella vita che racconta; ma così dimentica che il protagonista visse il preludio della svolta nella quotidiana normalità. Nel caso di Luciani, le pubblicazioni agiografiche si diffondono sulle sue umili origini, sul brillante percorso scolastico; vagheggiano qualche notizia sull’impegno nel seminario bellunese, per fargli infine scalare celermente i gradini delle mansioni curiali fino alla nomina episcopale: 15 dicembre 1958. Tra il 1935 e il 1958 ci sono ventitré anni, quelli nascosti ma intensi, che condussero il giovane prete agordino ad essere quell’autorevole uomo di Dio che a colpo sicuro il neoeletto Giovanni XXIII scelse per la diocesi cenedese.

Basilica cattedrale di Belluno: la facciata.

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Il vicedirettore Luciani Dopo l’ordinazione sacerdotale – celebrata il 7 luglio 1935 con dispensa papale super defectum aetatis: a causa della giovane età – don Albino fece una breve esperienza nel suo paese natale; poi, per quasi due anni, fu cappellano ad Agordo. Nell’autunno del 1937 fu richiesto come vicerettore nel Seminario

di Belluno: aveva soltanto 25 anni. L’incarico era delicato, perché nell’istituto diocesano da tempo alcune tensioni attraversavano il corpo insegnante. Nell’estate il vescovo Giosuè Cattarossi intervenne a voltar pagina, cambiando rettore, vicerettore e padre spirituale. Luciani si trovò a vivere tra i giovani chierici come loro immediato superiore e insegnante: una docenza inizialmente senza titoli, ma scrupolosamente approntata, che via via si estese a una gamma di discipline, da quelle umanistiche del liceo a quelle teologiche, canonistiche e pastorali, il corredo professionale dei futuri preti bellunesi e feltrini. I superstiti ricordano la chiarezza didattica e l’originalità di alcuni interessi, in particolare quello per l’arte sacra locale. La diocesi si adoperò da subito e strenuamente affinché Luciani potesse completare il curriculum accademico ma, per non rinunciare alla sua presenza in sede, ottenne dalla Santa Sede l’esonero dall’obbligo di frequenza. La concessione fu un privilegio, ma all’interessato comportò l’onere di unire al servizio in seminario l’impegno nello studio, tra l’altro negli anni di privazione della guerra. In quel lasso di tempo


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infatti l’Italia conobbe l’apogeo del regime fascista, con le sue liturgie e con i suoi metodi squadristi; poi la sciagura della guerra. Il giovane Luciani non manifestò mai sintonia con il regime. Si tramanda, non come leggenda, che, dopo il summit tra Mussolini e Hitler a Villa Gaggia, presso Belluno, il 19 luglio 1943, Luciani abbia sbottato: «Siamo nelle mani di due pazzi!». La situazione locale si fece particolarmente pesante dopo l’8 settembre 1943, quando la provincia bellunese si trovò amministrata negli affari minori dai preposti di Salò, ma di fatto governata dai nazisti, che si erano annessi Bolzano, Trento e Belluno come Operationszone Alpenvorland. Nell’agosto 1944 Luciani fu nel suo paese natale, quando la rappresaglia nazista mieté quarantaquattro persone e incendiò diversi villaggi, lasciando sulla strada seicento persone. In quei giorni salvò dalla ritorsione partigiana alcuni compaesani, tra i quali il maestro Sorarù, che vent’anni prima gli era stato precettore prima dell’ingresso in seminario, dal momento che a Canale non era ancora attiva la quinta elementare. Non ha invece riscontro la voce che lo vuole al fianco del vescovo Girolamo Bortignon, quando il 17 marzo 1945 si presentò in piazza a Belluno, sotto i mitra spianati dai nazisti, per portare i conforti religiosi a quattro partigiani impiccati. Fidato collaboratore di due vescovi Il servizio in seminario continuava, mentre Luciani redigeva la tesi di dottorato, discussa nel febbraio 1947. Poi la fatica e la tensione presentarono il

6 luglio 1956 - Due futuri Papi si incontrano a Borca di Cadore, durante il convegno degli insegnanti di teologia dei seminari veneti. In prima fila da sinistra: mons. Albino Luciani, all’epoca vicario generale di Belluno; il vescovo di Padova, mons. Girolamo Bortignon; il patriarca di Venezia card.ŁAngelo Roncalli; il vescovo di Feltre e Belluno mons. Gioacchino Muccin.

Diploma del dottorato in Sacra Teologia


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Chiostro gotico del Seminario Gregoriano di Belluno.

conto: nella primavera del 1947 il neodottore si ammalò di polmonite. La degenza segnò la fine del servizio di vicerettore, non della docenza. Conclusa la convalescenza, alla fine del 1947 mons. Bortignon lo nominò pro-cancelliere vescovile e segretario del Sinodo diocesano, che Luciani organizzò con quell’acribia che è il suo stigma. Nel febbraio 1948, affiancando un venerando monsignore che esitava a farsi da parte, divenne pro-vicario generale e direttore dell’Ufficio catechistico. In questa veste organizzò il Congresso catechistico diocesano, per rilanciare in modo capillare l’insegnamento della dottrina cristiana. Se l’impronta scolastica e le preoccupazioni razionali sono figlie di quel tempo, l’accuratezza del lavoro porta ancora una volta la sua firma. Frutto dell’impegno fu il volumetto Catechetica in briciole, sussidio per la formazione dei catechisti, che venne recensito in maniera lusinghiera da La Civiltà Cattolica. Quando nel 1949 mons. Bortignon fu trasferito alla sede patavina, il nuovo vescovo Muccin confermò Luciani in tutti gli incarichi e l’8 febbraio 1954 lo nominò vicario generale. Dall’apice della curia bellunese, profuse un’azione discreta e intensa, fatta

di relazioni non sempre facili con i preti, di prese di posizione talora scomode e sofferte. In modo particolare seguì la riorganizzazione delle parrocchie perché, grazie alla fioritura delle vocazioni, la diocesi optava per lo smembramento delle grandi pievi e l’erezione di numerose parrocchie più piccole. Non mancarono contenziosi con la popolazione, con gli enti civili, con i vecchi pievani “depauperati”, con i paladini dello status quo e i nostalgici delle glorie patrie. Pubblicista Luciani rivelò anche la sua brillante penna nell’attività pubblicistica, un campo che oggi richiederebbe ulteriori approfondimenti. Infatti al brioso scrittore piaceva celarsi dietro l’anonimato o pseudonimi; pertanto, tra le operazioni più complesse che hanno impegnato la Causa di canonizzazione, non poco impegno è stato richiesto dall’attribuzione dei suoi articoli, che i testimoni dell’epoca hanno individuato negli archivi, soprattutto nelle raccolte del settimanale diocesano L’Amico del Popolo. La collaborazione con la testata lo occupò


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dall’aprile 1941 all’aprile 1956. Fin dalle prime uscite si notano la circospezione e l’arguzia dello scrittore che sapeva insinuare tra le righe rilievi critici alla retorica del regime, alle velleità dei comunisti, alla propaganda anticlericale. Citava rinomate firme o riferisce fatti di cronaca italiana e internazionale, che lasciano intravedere la vastità delle sue letture. Fu particolarmente attivo nella rovente campagna elettorale del 1948: nelle pagine di allora scopriamo con stupore la sagacia con cui bollava i candidati locali dei partiti anticlericali. Non ci meraviglia che, negli esuberanti anni dei Comitati civici, don Albino e i suoi giovani abbiano partecipato alla propaganda elettorale, talora con verve polemica. Sulle rive del Piave erano anni così, non lontani da quelli descritti dal Guareschi per le rive del Po.

Frontespizio della tesi dottorale.

Animatore culturale La ricostruzione del dopoguerra non poteva essere solo materiale. La diocesi bellunese avvertì l’urgenza di formare i fedeli e la futura classe dirigente; così Luciani si dedicò a un gruppo di giovani, cui propose un itinerario di formazione culturale e spirituale.

L’interno della chiesa di San Pietro, annessa al Seminario, nella quale il 7 luglio 1935 Albino Luciani divenne sacerdote.


Visione d’insieme della cattedrale e del campanile di Belluno: quest’ultimo, progettato dall’architetto messinese Filippo Juvara, venne completato nel 1747.

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PAPA LUCIANI


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Adottò con loro anche i nuovi mezzi di comunicazione, che diedero vita a un discreto cineforum cittadino. L’attività con i giovani, iniziata durante un corso di esercizi spirituali nell’estate del 1943, continuò fino al 1958. Da quel gruppo uscirono alcuni professionisti che poi si impegnarono in campo sociale e politico. Luciani Belluno, 6 giugno 1944. Ordinazioni sacerdotali. In piedi ad sinistra: don Emilio Del Din di Rivamonte, don Giulio Perotto di Pedavena, don Attilio Dal Pos di Quero, don Mario De Donà di Sospirolo, don Angelo De Bernardin di Rocca Pietore, don Gino Del Favero di Valle di Cadore, don Dino De Boni di Foen, don Giuseppe Eicher Clere di Costalta. Seduti da sinistra: don Riccardo Strim di Sedico, il rettore mons. Angelo Santin, il vescovo mons. Girolamo Bortignon, il vicerettore don Albino Luciani e don Mosè Francescato.

Interno del Duomo, il coro.

non aveva mandato ufficiale, ma per quei giovani era di fatto il catalizzatore, il confessore, l’educatore. Ne viene un delicatissimo ritratto di questo prete che sapeva guidare le coscienze all’autonomia e alla maturità umana e cristiana, lasciando in essi un segno profondo.


Nel segno di Rosmini: gli studi accademici «

I

o non ho né la sapientia cordis di Papa Giovanni, e neanche la preparazione e la cultura di Papa Paolo, però sono al loro posto»: sono le parole con cui si presentò il Servo di Dio all’Angelus di domenica 27 agosto 1978, all’indomani dell’elezione al soglio di Pietro. D’altra parte il prof. Vittore Branca, filologo cattedratico a Padova ed esponente della Fondazione Cini di Venezia, legato da cordiale amicizia con Giovanni Battista Montini, testimonia che Paolo VI avrebbe detto di Luciani: «È uno dei teologi più lucidi e una delle anime più sante che conosca». Dall’autunno del 1937 Luciani, appena venticinquenne, venne chiamato a ricoprire il delicato incarico di vicerettore e insegnante nel Seminario Gregoriano a Belluno. Considerate le sue riconosciute qualità e la predisposizione spiccata per gli studi, già negli anni del suo ministero ad Agordo gli era stata prospettata la possibilità del conseguimento della licenza in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana. E la Curia bellunese attivò da subito ogni canale per ottenere dalla Santa Sede che egli potesse completare gli studi all’Università Gregoriana, senza tuttavia doversi trasferire a Roma. La frequenza alle lezioni era divenuta infatti obbligatoria dal 1931 con la Costituzione apostolica di Pio XI Deus Scientiarum Dominus e ottenere la dispensa dall’obbligo di frequenza era impresa ardua. Ma né il vescovo di Belluno né il rettore del Seminario mons. Angelo Santin erano però disposti a privarsi della collaborazione del vicerettore in seminario. La dispensa per la frequenza venne concessa nel marzo 1941. Il cumulo delle responsabilità e degli impegni didattici non impedirono comunque a Luciani di prepararsi per gli esami e, consultando i volumi disponibili nella biblioteca della Certosa di Vedana e in quella ben fornita del Seminario, preparò uno studio sulle ordalie, teso a dimostrare l’azione moderatrice svolta dalla Chiesa di fronte alla barbara consuetudine. Dal 12 ottobre al 17 ottobre 1942 egli sostenne a Roma gli esami prescritti e conseguì magna cum laude la licenza in teologia. Terminata la guerra, si iscrisse tra gli uditori ordinari al quinto anno della Facoltà; si fermò a Roma dal 13 al 25 dicembre 1946, superando i cinque esami prescritti: il trattato De ente et essentia S. Thomae (voto 8/10); il De Trinitate S. Augustini (8/10); il De libro Corporis Christi quod est Ecclesia (9/10); il corso del gesuita Ferdinand Prat sulla teologia paolina e sul trattato De Redemptione (9/10); il corso del gesuita Theodor Granderath sulla Costituzione De Fide del Concilio Vaticano I (9/10). Non rimaneva dunque che l’onere di redigere una tesi dottorale, per la quale dovette ancora approfondire la ricerca, combinandola con gli incarichi in seminario. Aveva già da tempo concordato con il gesuita Charles Boyer (1884-1978), strenuo difensore del tomismo, un impegnativo studio sul Rosmini: L’origine dell’anima umana secondo Antonio Rosmini. Esposizione e critica. In seguito confesserà che lo spunto gli era venuto dall’aver rinvenuto, nella biblioteca del Seminario bellunese, l’intera opera del roveretano, donata all’istituto da papa Gregorio XVI, il bellunse Mauro Cappellari. Il tema era ancora assai dibattuto in quel periodo, non senza polemica tra gli assertori del tomismo e i sostenitori delle dottrine rosminiane; alcune opere del roveretano erano poste all’indice, insieme a quelle intuizioni ecclesiologiche, che noi oggi possiamo ritenere profetiche, ma con il “senno di poi”. La bibliografia dà ragione del peso della ricerca, comprendendo, oltre alle opere di Rosmini, più di centodieci titoli. Nell’esame dei documenti, Luciani si accorse che il Rosmini citava san Tommaso da fonte non diretta, ma attraverso citazioni del card. Gierdil; ne ricavò una lezione sul metodo di studio per i suoi seminaristi, per i quali intanto continuavano gli insegnamenti. La teoria rosminiana era già stata censurata nel decreto del Sant’Uffizio Post obitum del 14 dicembre 1887, che condannava quaranta proposizioni delle opere di Antonio Rosmini. Altri studiosi si erano già cimentati nella disamina del difficile argomento, ma – secondo Luciani – uno studio approfondito ancora non si era visto. Per questo nella prima parte della tesi, egli offrì un’accurata esposizione della dottrina del roveretano: il nucleo centrale del suo pensiero consiste nella moltiplicazione dell’anima sensitiva e nel suo passaggio in quella intellettiva. Il sistema rosminiano gli sembrava quindi collocare l’origine dell’anima umana tra il creazionismo, il “traducianesimo spirituale” e indizi di preesistenzialismo leibnitziano. Nella seconda parte, egli esaminava il pensiero del Rosmini alla luce dell’insegnamento ecclesiastico, a cui non gli parve conforme, in quanto si poneva in una concezione distante dal creazionismo tradizionale. La conclusione della tesi, nella prima edizione, è categorica: «Senza dubbio i concetti esposti dal Rosmini hanno tra loro una logica e una concatenazione tale da dare alla sua sentenza l’aspetto di un edificio dottrinale organicamente uno. Noi ne ammiriamo sinceramente la bella e soda impalcatura, l’alito di modernità e di adattamento che vi spira attorno. Ancora più volentieri riconosciamo nell’edificatore la genialità, la bravura, le vaste letture che gli permettono di allacciare il vecchio col nuovo, Leibnitz e sant’Agostino, le nuove scoperte scientifiche coi padri e coi Teologi. Rendiamo pure omaggio alla sincera ansia di ricerca che lo anima, al suo bisogno di ordine, in forza del quale cerca di presentare la particolare sentenza circa l’origine dell’anima come una parte naturale e organica del suo intero sistema filosofico, riuscendoci assai bene. L’esame accurato, portato direttamente sui fondamenti della sentenza, però, li trova deficienti e, pur lasciando alla sentenza stessa i pregi esteriori, la dimostra priva di quello che è il pregio intimo e sostanziale: la verità». Il 27 febbraio 1947 difese pubblicamente la dissertazione di fronte alla commissione in cui sedevano come relatori i gesuiti Charles Boyer e Maurice Flick. Ottenne la laurea magna cum laude, riscuotendo approvazioni particolari dalla Gregoriana di Roma, da mons. Olgiati della Cattolica di Milano e da altri eminenti studiosi. La tesi di dottorato venne pubblicata a Belluno nel marzo 1950, presso la Tipografia vescovile, con la dedica “A mio padre”. Era tuttavia prevedibile che i rosminiani si levassero in difesa del fondatore: tra tutti, Clemente Riva che pubblicò in seguito la sua tesi confutando il pensiero di Luciani. D.F.


STEFANIA FALASCA

La sceLta teoLogica deL sermo humiLis

T

ra le carte di Albino Luciani non ancora conosciute – e che grazie all’introduzione della Causa di canonizzazione è stato possibile recuperare

Piazza San Pietro.

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PAPA LUCIANI

– in uno dei suoi quaderni autografi, provenienti dal suo archivio personale, si trova anche il diario dell’udienza privata che egli ebbe con Giovanni XXIII


LA SCELTA TEOLOGICA DEL SERMO HUMILIS

nell’imminenza della sua consacrazione episcopale, il 21 dicembre 1958. È una pagina rara perché Luciani risulta pressoché estraneo al genere della diaristica. È scritta con la sua tipica grafia minuta, in stile telegrafico, caratterizzato da parole abbreviate, siglate a volte, che sembrano ricordare gli attuali sms. Luciani vi annota l’ora d’inizio dell’udienza: «21 dom. h. 11, 35 dal Papa» e nel riportare i momenti salienti dell’incontro sottolinea una particolare nota esortativa rivoltagli da papa Roncalli nel corso del colloquio. Trascritta letteralmente, conservando la frammentarietà dell’appunto, la nota dettata dal Papa è la seguente:

«+ chi fa capire che la gran scienza sono le parole facili – limitarsi – le parole difficili lasciano il tempo che trovano + efficaci le parole semplici…». L’insistenza di Giovanni XXIII sulla parola, sulla comprensibilità quindi della predicazione, in questa circostanza, appare un imperativo nel quale vi si legge quasi una sorta di traditio lampadis, una consegna di papa Roncalli nei confronti di Luciani, tanto più significativa se si pensa che proprio di lì a breve Giovanni XXIII avrebbe annunciato il Concilio Vaticano II. Il Concilio si era appunto aperto con la Riforma liturgica, ossia con il recupero della parola, di quell’oralità che sembrava essere stata esiliata dalla

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Il Vescovo di Vittorio Veneto Albino Luciani con Papa Giovanni XXIII e il segretario don Ausilio Da Rif.

Chiesa, e ritornare alla lingua parlata dopo tanti secoli significava ritornare alle fonti, significa ritornare al Vangelo. Questa breve ma significativa annotazione di Luciani porta quindi a considerare i canoni linguistici da lui adottati, che sono caratterizzanti del suo magistero episcopale e petrino e attraverso i quali egli esprime la sua particolare fisionomia di pastore. Nel 1965 il futuro Giovanni Paolo I, allora vescovo di Vittorio Veneto, trovandosi a dover spiegare la “grazia attuale” ai suoi preti, con rara efficacia descrittiva paragonava il desiderio di Dio con il desiderio di avere una bella automobile, procedendo con quella che in retorica si chiamerebbe “definizione per comparazione” ma che nel suo vocabolario è disarmante quotidianità; la stessa che in un passo più avanti, nel ricordare la necessità del raccoglimento, gli fa dire: «Silenzio con gli uomini. Macbeth diceva: “Ho ucciso il sonno”. Mi pare che abbiamo ucciso il sonno anche qui, con tutto questo fracasso, con tutti questi rumori. Si stenta ad avere un po’ di quiete. Andando a Lourdes alla stazione di Milano ho visto una cosa strana. Sapete che fracasso

lì, quanti fischi, quanti treni. Sono trent’otto binari m’han detto, alla stazione centrale. Ebbene c’era un facchino che s’era messo un sacco sotto la testa: era lì disteso […]. Come faceva a dormire? Aveva fatto la sua zona di silenzio». Non è che un accenno, questo, di quell’agio che Albino Luciani aveva a correlare la fede al mondo a piegare tutto al sermo humilis. Macbeth ai facchini. E non solo Macbeth ai facchini. Il brano appartiene alla raccolta edita non completa degli scritti, circa ottocento, che costituiscono l’Opera Omnia: omelie, discorsi, lettere, udienze, articoli, interventi, saggi, tra i quali Catechetica in briciole, pubblicato nel 1949, e la fortunata silloge di quaranta epistole immaginarie pubblicata nel 1976 dal titolo: Illustrissimi. In questi scritti, dagli anni Quaranta fino alle ultime relative alle udienze pontificie, è mantenuto pressoché invariato il medesimo registro. E si resta sorpresi di fronte al disinvolto quanto inusuale piegarsi di citazioni scritturali e patristiche alle voci vive e idiomatiche dei personaggi delle commedie goldoniane o di Molière, o


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quelle ancora dei dottori della Chiesa ai personaggi di Rabelais, di Cervantes. Così la voce di san Tommaso d’Aquino si trova unita a quella di Pantagruel, quella di sant’Agostino a Sancio Panza o quella di san Francesco di Sales a Pinocchio, accanto ad un affollato caleidoscopio di personaggi storici, pittori, scultori, registi, giornalisti, poeti ed autori di ogni epoca, della letteratura classica latina e greca, di quella italiana – da Dante a Manzoni, da Trilussa a Pasolini e Buzzati –, di quella tedesca, castigliana, francese, russa, con i grandi scrittori da Gogol a Pasternak, di quella angloamericana con Scott, Twain, Shaw, Dickens, Chesterton. Un interattivo mescolarsi di umile e sublime, sacro e profano, tanto naturaliter da far sì che il lettore quasi non s’accorga dell’innovativa quanto inaspettata teologia fatta a base di code e di schiene di elefante tratte dalle Favole di Tolstoj, come nella lettera a Gioachino Belli in Illustrissimi, o del disinvolto incedere di san Bernardino da Siena a braccetto con la scrittrice statunitense Willa Cather e il suo romanzo Shadows

on the Rock, del quale Luciani, alla ricerca del suo motjuste, occhieggiava l’incipit in un articolo sul giornale diocesano già nel 1943. E il solo dato che la Cather, scomparsa nel 1947, divenne nota oltre le frontiere statunitensi solo più tardi, non può che far riflettere sul suo guardare oltre e lontano, portando inevitabilmente a riconsiderare anche il nucleo originario della sua formazione, che stantii cliché relegano entro il cerchio di una sconfinata pieve montana del bellunese e le alte mura di un seminario post-tridentino. Il dato infatti rivela un interesse precoce non solo verso la narrativa, in particolare angloamericana, e come egli raggiunse presto un grado di maturità culturale ben oltre quello di un corso scolastico svelando una natura da enfant prodige. Il vasto repertorio di studi umanistici, letterari e artistici, uniti alla competenza nelle discipline acquisite da Luciani nella tradizionale formazione ecclesiastica, dimostrano la forte capacità speculativa di analisi e di sintesi e uno spiccato senso di rielaborazione dei termini incontrati nelle sue vaste letture.

Il Vescovo di Vittorio Veneto Albino Luciani con Papa Giovanni XXIII durante la consacrazione episcopale.


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Il 12 gennaio 1936 il giovane don Albino Luciani preparò questa omelia per la festa della Sacra Famiglia. E’ in assoluto la prima omelia che ci sia pervenuta.

A fronte di queste osservazioni, due le note da rilevare. La prima è che ci troviamo davanti ad un papa inedito, per diversi aspetti: non solo perché parte delle sue carte sono inedite e la sua opera non è pienamente conosciuta e frequentata dalla critica, data ancora ad oggi la scarsità degli studi specialistici, ma anche nel senso di originale, per l’assoluta singolarità del suo codice gestuale e linguistico sgorgante da una cultura vastissima e versatile che unisce in felice e geniale sintesi nova et vetera. Seconda nota: la familiarità di Luciani con la dimensione letteraria, o meglio, la letterarietà che si esplicita nella sua opera, non configurandosi come aspetto marginale, ma canone connotativo caratterizzante l’intera sua produzione orale e scritta, si offre anche quale cardine interpretativo privilegiato. Ciò è confortato anche dalla non estraneità di Luciani a certe istanze critiche umanistico-letterarie che, in particolare negli anni veneziani, lo vedevano presiedere «assiduo ed attentissimo», come rilevava Vittore Branca, agli incontri presso la Fondazione Cini. Ma è ancor più legittimato dal fatto che non costituzioni o esortazioni apostoliche, né encicliche

sono state il lascito del suo pontificato, ma un testo squisitamente letterario, Illustrissimi, dallo stesso Pontefice riveduto e corretto e ridato alle stampe proprio in quei trentatré giorni di pontificato. La quarta edizione di Illustrissimi, esce, infatti, con l’imprimatur papale siglato pochi giorni prima della morte. «È il suo testamento umano, spirituale e pastorale» scrisse nella presentazione postuma al volume l’editore Angelo Beghetto, allora direttore de «Il Messaggero di Sant’Antonio». L’aveva intuito Jean Guitton, il filosofo caro a Paolo VI, che, l’indomani della salita al soglio di Pietro di Luciani, su Le Figaro, il 28 agosto 1978, aveva scritto: «Ascoltando poco fa in piazza San Pietro il primo Angelus di Giovanni Paolo I, ho ritrovato l’arte dell’omelia, quella che i padri greci definivano arte di conversare semplicemente con gli uomini […]. Ho preso visione del testo della sua Catchetica in briciole e del suo Illustrissimi dove ho ritrovato il sapore di quello scrittore nato che è Albino Luciani. Il termine sapore riassume l’impressione di saggezza, di scienza e di sapidità lasciatemi dagli scritti e dalle parole di questo pastore incomparabile. Vi si intuiscono quel misto di humor e di amore che lo affratellano a Dickens e a Mark Twain, i suoi autori preferiti...». Guitton, in sostanza, rilevando nel nuovo pontefice il carattere dello scrittore aveva puntato l’attenzione sulla centralità del linguaggio e sulla scelta di un linguaggio comprensibile e leggibile come frutto di elaborazione e di arte. La selezione degli autori dialettali, il consistente numero di autori della narrativa angloamericana, dei personaggi dei romanzi e di Dante, sono del resto indicativi di precise scelte linguistiche, delle quali la scelta della colloquialità è la prima. «Conversare» è la cifra distintiva non solo di Illustrissimi, come Luciani indica nella lettera dell’epistolario indirizzata a Gioachino Belli, è la prima delle linee programmatiche del linguaggio lucianaeo: una forma colloquiale «senza predicozzi, senza pose, senza parole scelte o altisonanti», senza «conciossiacosaché». A questo allude proprio nella parte conclusiva della lettera al Belli in cui indica chiaramente la strada piana della parola parlata: «Quanto meglio se, almeno in conversazione, al posto delle difficili parole, usassimo parole semplici e facili, magari prese a prestito dalle favole di Tolstoj o dai vostri sonetti». In sintesi, la forma dell’accessibilità, perché la conversazione consente l’accessibilità, come ribadisce nella lettera a Bernardino da Siena: «Pensava che in tempi in cui parole irte di ismi nebulosi, sono usate ad esprimere perfino le cose più facili di questo mondo, fosse opportuno mettere in risalto il fraticello che aveva insegnato: “Parla chiarozzo acciò che chi ode, ne vada contento e illuminato, e non imbarbagliato”». La parola chiara, che apre e illumina sono il secondo elemento cardine dell’ossatura linguistica lucianea. I canoni fondanti di chiarezza e semplicità della lingua, il primato della parola nel suo statuto comunicativo e relazionale, costituiscono dunque le coordinate portanti del suo sermo e un richiamo costante nei suoi scritti. Colloquialità, accessibilità, chiarezza sono, in definitiva per Luciani, le condizioni stesse


LA SCELTA TEOLOGICA DEL SERMO HUMILIS

che consentono di andare incontro agli uomini. Nella lettera al musico Casella egli dichiara piena adesione a Dante. Anzi, Dante diventa paradigma perché Dante «è andato incontro al mondo, ha accolto tutte le lingue», la sua Commedia è scritta in lingua corrente, quindi per Luciani, Dante è attuale, fin tanto da affermare: «Dante è con il Concilio». E come per Dante, anche per Luciani non è questione di stile, è questione di sermo humilis, cioè di universalità, e dunque, al contempo, di perenne contemporaneità, di immersione nel divenire del mondo. Universalità che trova espresso fondamento nella valenza teologica espressa da sant’Agostino, suo referente e maestro per eccellenza del Sermo humilis. Nel De praedestinatione sanctorum Agostino condensa il significato del sermo humilis in due termini: utilia et apta. Con utilia intende il rispetto e l’amore che si devono a Dio e alla Parola di Dio, con apta il rispetto e l’amore che si devono all’uomo. Secondo Agostino, pertanto, la verità deve essere posta “con delicatezza”, suaviter, perché si deve adeguare sia alla natura stessa della verità, che è «amorosa e soave salvezza», sia tanto più alle possibilità di ricezione dell’uditore perché questi la possa ricevere. In questa prospettiva s’intesse l’opera di Luciani e il suaviter diviene significativamente ricorrente negli scritti proprio in quanto riflesso dell’animus stesso dell’autore nei confronti dei suoi interlocutori, come disposizione verso di essi. La sua ripresa, infatti, si configura quale chiave di scrittura ma anche criterioguida dei suoi riferimenti: quelli che, a partire da Agostino, hanno meglio realizzato nella predicazione il porsi all’interlocutore “con soavità”. Primo fra tutti Francesco di Sales, padre della spiritualità moderna e patrono dei giornalisti, il quale, facendo anche sapienter et leniter uso della penna, è modello congeniale a Luciani. Sapienter et leniter che egli non di rado intesse con la finezza dell’humor e con l’hilaritas, quella che Agostino ritiene componente necessaria della catechesi e che Tommaso d’Aquino raccomanda come «eutrapelia». In definitiva si può dire che l’asserto terenziano: «Homo sum, humani nihil a me alienum puto» (nulla di ciò che è umano mi è estraneo) e quello agostiniano: «Inde quippe animus pascitur unde laetatur» (nutre l’anima solo ciò che la rallegra) sono le ragioni ultime di un linguaggio che abbraccia ed è comprensivo del mondo e degli uomini, che è con essi dialogante e da essi è comprensibile; comprensivo e comprensibile, utilia et apta, perché sermo humilis è anche caritas e lieta novella, nell’accezione agostiniana. Si tratta pertanto di un percorso dal quale emerge limpidamente la consapevolezza di vivere anche il gesto linguistico come atto creativo, sorretto dal desiderio di recuperare incisività al linguaggio pastorale. Secondo quindi la deliberata scelta teologica di un linguaggio conversevole e accessibile di quel sermo humilis canonizzato da sant’Agostino, le quattro udienze generali sull’umiltà, la fede, la speranza e la carità tenute in Vaticano durante il pontificato, restano un esempio preclaro di quanto fosse efficace l’oralità lucianea alla luce del Vangelo, nel solco del

Concilio Vaticano II, coniugando nova et vetera in felice e geniale sintesi. Sulla base di Agostino l’insegnamento che viene dal sermo di Papa Luciani è dunque questo: esso è, e non potrebbe non essere, un atto d’amore, verso Dio e verso gli uomini. E se Francesco di Sales proclamato dottore della Chiesa «è stato le veritable réfomateur de la chaire chrétienne», il vero riformatore dell’insegnamento cristiano perchè: «universis Christis fidelibus iter ad eum facile commonstravit» (perché ha mostrato facile, come accessibile a tutti la via verso Cristo), lo stesso può riferirsi a Luciani. È nel solco segnato di questi riformatori che pertanto va collocato e riconsiderato lo spessore della sua opera e la valenza storica del suo pontificato. Solco nel quale certamente Giovanni Paolo I si staglia come erede di una conciliazione di cristianità e umanesimo che abbraccia la funzione del Papa, come egli stesso afferma nel suo radiomessaggio del 27 agosto del 1978 citando Ignazio d’Antiochia: «La funzione del Papa è quella che presiede alla carità universale, operando sempre per la reciproca conoscenza, da uomini a uomini».

Appunti per una conferenza sul rapporto tra fede e teologia.


MARTINO ZAGONEL

Vicario generale della diocesi di Vittorio Veneto

(1959 - 1970)

A Vittorio Veneto nel solco del concilio A

ppena designato vostro Vescovo, ho pensato che il Signore venisse attuando anche con me un suo vecchio sistema: certe cose, scriverle non sul bronzo o sul marmo, ma addirittura sulla polvere, affinché, se la scrittura resta, non scompaginata o dispersa dal vento, risulti chiaro che il merito è tutto e solo di Dio. Io sono polvere; la insigne dignità episcopale e la Diocesi di Vittorio Veneto sono le belle cose che Dio s’è degnato scrivere su me; se un po’ di bene verrà fuori da questa scrittura, è chiaro fin da adesso che sarà tutto merito della grazia e della misericordia del Signore». Così Albino Luciani, da poco consacrato vescovo, si esprimeva nella prima lettera alla diocesi di Vittorio Veneto. Pochi giorni dopo, l’11 gennaio 1959 al suo ingresso in diocesi, la sua figura sembrava dare forma concreta a queste parole: davanti a una grande folla di gente, si presentava un uomo dalla corporatura modesta e mingherlina, con voce flebile, in atteggiamento dimesso, con sorriso schietto e disarmato.

«

Scorci del castello di San Martino, residenza del vescovo di Vittorio Veneto.

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PAPA LUCIANI

L’immagine della polvere richiamava anche il motivo ispiratore del suo episcopato, sintetizzato nello stemma da un’unica parola: Humilitas. Il vescovo Albino cercherà di commentarla in mille modi, con riferimenti a testi biblici e a maestri di vita. La parola tuttavia trovò il suo più bel commento nella stessa vita quotidiana del pastore che la prese ad ispirazione. «Sono un convertito dal Concilio Vaticano II» era solito dire il vescovo Luciani. Il Concilio Vaticano II, indetto il 25 gennaio 1959, lo coinvolse fin dal principio del suo ministero. Egli si diede premura di coinvolgere tutta la diocesi nella preparazione allo storico evento. Lo fece invitando alla preghiera, dando informazioni dettagliate sul Concilio e raccomandando un vero interessamento da parte di tutti. Una volta iniziato, Luciani vi partecipò a tutte le sedute, coinvolgendosi in modo appassionato nel dibattito dei temi teologici e pastorali via via emergenti. Di questi volle informare la sua diocesi, mantenendosi con essa in una costante



A VITTORIO VENETO NEL SOLCO DEL CONCILIO

conversazione, attraverso una corrispondenza dal Concilio. Sono lettere di varia importanza e consistenza. Don Nilo Faldon, studioso della storia diocesana vittoriese, ha scritto: «Sembrò che mons. Luciani adoperasse a Vittorio Veneto l’accelleratore per spronare tutti al rinnovamento voluto dai tempi e dal Concilio». I temi più ricorrenti e approfonditi sono quelli sulla liturgia, sulla specifica vocazione dei laici nella Chiesa, sul ministero presbiterale e la libertà religiosa. Il suo governo pastorale si è improntato al Concilio e si può dunque dire che il Concilio ha segnato l’impronta del suo ministero particolare. Immagine ufficiale del nuovo vescovo di Vittorio Veneto.

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La prossimità del vescovo sul modello di Cristo Il vescovo svolse due visite pastorali alle 170 parrocchie della diocesi. La prima dal 10 ottobre 1959 al 1° novembre 1963, la seconda dal 2 giugno 1964 fino alla fine del suo mandato. Già dalla segnalazione di queste date risulta chiaramente come il vescovo avesse scelto di vivere costantemente in contatto con le parrocchie della sua diocesi. Si può dire che egli fu in permanente visita pastorale. Nella lettera di indizione della prima visita, Luciani ne offre la motivazione. Prende a modello Gesù che andava per città e villaggi; e descrive le tappe ideali del suo


A VITTORIO VENETO NEL SOLCO DEL CONCILIO

prossimo peregrinare: i fanciulli, il tempio, gli ammalati, i defunti. Si ripromette di avere una particolare attenzione ai suoi più stretti collaboratori. Nella lettera di indizione della prima visita pastorale così scrive: «Si legge nella Sacra Scrittura che “Gesù andava per città e per villaggi” (Lc. 8,1); che San Pietro, capo della Chiesa, “visitava tutti i fedeli” (Atti 9,33); che San Paolo era sempre in viaggio passando e ripassando in mezzo alle comunità cristiane. Rappresentanti di Cristo e successori degli apostoli, i vescovi devono fare come essi: il loro posto è in mezzo ai fedeli. San Martino di Tour, San Carlo Borromeo, San Francesco di Sales, a forza di percorrerla in lungo e in largo, conoscevano la loro diocesi in tutti i minimi buchi e il cardinale Ferrari era detto affettuosamente dai suoi diocesani “il moto perpetuo” per il continuo visitare le parrocchie. Le tappe ideali della visita s’ispirano a quelle che furono le tappe del peregrinare di Cristo». Per ogni parrocchia visitata il vescovo Albino fece una breve relazione rivolta al parroco. Sono relazioni che segnalano il positivo, sostengono lo sforzo e la fatica apostolica, e indicano alcune semplici mete cui traguardare. In quasi tutte le relazioni il vescovo richiama la necessità di aver cura del catechismo e insiste molto sulla utilità che nasca in ogni parrocchia il gruppo di catechiste cui dedicare mezzi ed energie per una sempre più adeguata formazione cristiana dei fanciulli. Suggerisce poi, lì dove la singola parrocchia fosse insufficiente a questo scopo, di unire le forze tra parrocchie. Fu soprattutto durante le visite alle parrocchie che il vescovo Albino non si

Atto di nomina di Albino Luciani a Vescovo di Vittorio Veneto.

Visita pastorale a una parrocchia della diocesi.


A VITTORIO VENETO NEL SOLCO DEL CONCILIO

risparmiava nell’esercitare la sua arte di catechista. Egli si faceva capire da tutti, dalla gente comune e dai dotti, dai piccoli e dagli adulti. Sapeva tradurre le verità più alte e i ragionamenti più difficili in esempi lampanti, in battute spiritose, con agganci immediati all’esperienza della vita quotidiana. Il suo dire, pur essendo un monologo, prendeva il respiro di un vero dialogo con gli auditori, tanta era la corresponsione e l’intensità comunicativa. D’altronde, egli stesso, al termine del suo episcopato nella diocesi vittoriese, nel discorso di congedo del 1° febbraio 1970, ebbe a dire: «Mi sono sempre sforzato di essere, in questi undici anni, il postino di Dio. Vi ho sempre esortato ad essere innamorati di Dio, a leggerne le lettere, a mettere in pratica quanto vi chiede».

Bolla pontificia per la nomina a vescovo di Vittorio Veneto.

L’impegno per il rinnovamento, i laici e la missione «Il Concilio ricorda spesso ai vescovi i loro doveri. Eccone, ad esempio uno, che traduco da uno schema non ancora votato: “I vescovi di tutto il mondo, presi uno ad uno oppure adunati in Conferenza, non devono mai dimenticare che essi sono stati consacrati per la salvezza di tutto il mondo e poi una determinata diocesi”. Cosa posso fare – cosa soprattutto possiamo fare nella nostra diocesi per la anime del mondo intero?», scrive Luciani sulla rivista diocesana «L’Azione» il 17 ottobre 1964. L’impegno per un risveglio missionario dei sacerdoti e dei laici fu una costante del suo servizio episcopale. Ogni anno, in occasione della giornata missionaria e, in

seguito, anche all’inizio della quaresima, richiamava tutta la diocesi alla missione. Lo faceva con uno stile inconfondibile, facendo sentire la missione come priorità: «La Chiesa è casa nostra, siamo noi, ci deve interessare immensamente!». L’esperienza del Concilio mise il vescovo Luciani a stretto contatto con la situazione di Chiese estremamente bisognose di personale apostolico. Luciani fu sensibile soprattutto agli appelli di due vescovi, mons. Andrea Makarakiza, vescovo di Ngozi in Burundi e mons. Giuseppe Dalvit, vescovo di San Mateus in Brasile e volle coinvolgere tutta la Chiesa vittoriese nel concreto servizio missionario inviando personale apostolico alle due diocesi continuando tuttavia a sollecitare la generosità di tante famiglie e giovani a disporsi a dare la propria vita al servizio del Vangelo. Nell’agosto 1967 Luciani intraprese un viaggio di quindici giorni in Burundi. Ne fece una relazione scritta, ricca di dettagli e di riflessioni sulla vita e la cultura africane e sulla evangelizzazione. L’incoraggiamento alla missionarietà era rivolto ai laici alla luce del rinnovamento conciliare: «Oggi i laici sono venuti a conoscere la parte importante che svolgevano i semplici fedeli nei primi secoli della Chiesa, si sentono a disagio col paternalismo sacerdotale introdotto. Stanno prendendo coscienza di essere in qualche modo sacerdoti… e vogliono meno clericalismo e meno giuridismo, che è il sistema freddo di parlare solo e sempre di poteri, di diritti, di accentuare le distanze. Sì, i poteri ci sono, nei vescovi e nei sacerdoti, ma vanno esercitati in


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Serravalle (Vittorio Veneto): la Loggia e piazza Flaminio.

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A VITTORIO VENETO NEL SOLCO DEL CONCILIO

modo che risultino un servizio, con garbo, una delicatezza, un rispetto e una dedizione, che faccia bene al cuore oltre che all’anima, senza irritare o ferire nessuno» («L’Azione», 10 ottobre 1094). L’impegno missionario è inoltre da considerarsi strettamente unito all’attenzione per la promozione umana. Su questo argomento ritornava spesso, all’inizio della quaresima, rilanciando e motivando l’iniziativa dell’episcopato triveneto “Un pane per amore di Dio”. Questa priorità è ben presente anche nel suo ultimo saluto alla diocesi, il 2 febbraio 1970: «Vedete di praticare ancora l’amore fattivo per i poverissimi del terzo mondo. Ricordate: I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza (Paolo VI). Costruendo il villaggio in India, le scuole e l’ospedale a Kuntega, la diocesi di Vittorio Veneto ha fatto qualcosa. È soltanto una goccia, mentre occorrerebbe un mare, d’accordo. Ma almeno si afferma il principio, si mettono le basi, e si spronano i giovani all’ideale di cristiana e universale fraternità. Continuiamo su questa linea». Sacerdoti e dialogo con le realtà sociali Ripercorrendo il lungo elenco degli interventi pastorali del vescovo Luciani, si colgono alcune insistenze e preferenze. La giornata del seminario e delle vocazioni era l’occasione propizia sia per sensibilizzare sia per chiedere l’impegno della preghiera per le vocazioni. Il seminario e il futuro del presbiterio diocesano stava al centro dei suoi pensieri e preoccupazioni. Pur godendo, al suo arrivo, di un seminario minore e maggiore molto numerosi, Luciani visse il dramma del calo delle vocazioni. Affrontò il problema con realismo, puntando soprattutto alla formazione sia dei seminaristi sia dei Agenda con appunti autografi per una riflessione sull’architettura del Concilio.

presbiteri. Si impegnò personalmente nella formazione permanente del clero, attraverso lettere, incontri, tre giorni e toccando gli argomenti più vari: la famiglia e il laicato, la teologia conciliare, la liturgia, la dottrina sociale della chiesa. Ebbe una particolare sensibilità al tema della cultura cristiana e delle comunicazioni sociali. Sostenne apertamente la stampa cattolica, il settimanale diocesano e il quotidiano cattolico. Si prodigò con intelligenza e generosità nel sostenere l’impegno sociale dei laici in un particolare momento della storia del territorio che vedeva il passaggio dal mondo rurale all’industrializzazione. Ebbe una particolare sensibilità e presenza verso il mondo del lavoro. Dal 13 al 15 giugno 1959 promosse una tre giorni di aggiornamento pastorale per il clero sui problemi dei rurali, degli operai e degli emigranti. Ebbe contatti intensi con il mondo del lavoro e visitò gli operai nelle loro fabbriche, interessandosi ai loro problemi; le aspirazioni e le angustie dei lavoratori e delle loro famiglie divennero anche le sue. Sapeva richiamare i suoi preti sull’importanza della dottrina sociale della Chiesa: «La Dottrina sociale della Chiesa fa parte del Catechismo, è Catechismo aggiornato. E il Catechismo bisogna conoscerlo, farlo conoscere e, soprattutto, cercare di metterlo in pratica». «Ho rimpianto per quello che io non sono stato capace di fare. C’era da attuare con prudenza ed energia il Concilio prima in me, poi nei sacerdoti, poi nel popolo e nelle istituzioni. La buona volontà, lo sforzo da parte mia c’è stato, ma ne sono venuti solo degli schizzi, degli abbozzi e anche questi non sempre soddisfacenti. Quanto resta ancora da fare!». Queste le parole con le quali salutò la terra vittoriese. Sono parole di un umile che ha dato tutto se stesso per il Vangelo.


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Il vescovo Luciani e il crack del 1962

ell’estate del 1962, mentre si preparava al prossimo Concilio, il vescovo Luciani si trovò nel vortice di uno scandalo che scosse la sua diocesi: fu il momento più difficile dell’episcopato vittoriese. Nella ricostruzione postbellica, i predecessori avevano eretto nuove parrocchie, ristrutturato il seminario e avevano annesso alla residenza vescovile una Casa per esercizi spirituali. L’esposizione debitoria si era fatta tale da togliere il sonno. I nodi vennero al pettine quando due sacerdoti – uno addetto all’ufficio amministrativo e l’altro rinomato arciprete – si lasciarono coinvolgere in un intrigo finanziario, ordito da un faccendiere, che aveva creato una “banca segreta” e prometteva facili guadagni, impiegando i crediti in speculazioni. I due sacerdoti gli affidarono fondi ecclesiastici e denari ricevuti da persone ignare. Quando emisero assegni scoperti, gli istituti di credito chiesero chiarimenti, scoperchiando la pentola in ebollizione. Il 17 giugno il faccendiere, pressato dai creditori, si suicidò. Scoppiò lo scandalo, sul quale la stampa rimestò una campagna feroce. Anche la giustizia fece il suo corso. Luciani prese su di sé la situazione ed agì con giustizia e ferma determinazione. Dallo studio delle carte l’esposizione della diocesi ammontava a 387 milioni di lire, oggi stimabili in 4,7 milioni di euro. Con l’autorizzazione della Santa Sede, Luciani accese nuovi mutui, alienò immobili, tassò gli enti diocesani, organizzò una colletta tra il clero; il resto lo fecero alcuni facoltosi benefattori. Luciani ebbe a dire: «…la Chiesa di Vittorio Veneto, per prima colpita da questa grave evenienza, si assumerà le sue responsabilità. A costo di dover alienare i vasi sacri, noi faremo fino in fondo il nostro dovere, risarcendo coloro che dimostreranno di essere stati danneggiati, a cominciare dai più bisognosi». A parte qualche voce fuori dal coro, la decisione e la fermezza adottate suscitarono nei più ammirazione e rispetto. D.F. Palazzo Sarcinelli. Costruito nella metà del 1500 da Giovanni e Martino Sarcinelli. Vi dimorò Lavinia Vecellio, figlia del pittore Tiziano Vecellio, sposa di Cornelio Sarcinelli.


MAURO VELATI

(1970 - 1978)

Dottore di ricerca in storia religiosa, collaboratore per la Positio di Giovanni Paolo I.

il PAtriArcA aLBino Luciani a Venezia A

lbino Luciani arriva a Venezia nel 1970 dopo anni di esperienza nella diocesi di Vittorio Veneto. È un passaggio importante ad una diocesi che contava allora 432.000 abitanti e che aveva un profilo del tutto diverso rispetto a quella di provenienza. Da una parte la montagna del Cadore, dall’altra una moderna città industriale, molto viva dal punto di vista culturale. Era stato scelto dopo la canonica indagine della Congregazione dei Vescovi, raccogliendo l’apprezzamento dei vertici dell’episcopato italiano. Sul foglio di udienza presentato a Paolo VI una mano aveva scritto «Tanto lodato da Papa Giovanni». Luciani è apprezzato per essere un vescovo del tutto fedele alla Chiesa ma

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aperto alle novità dei tempi. Ai veneziani si presenta rimarcando il senso del limite personale ma insieme la fiducia nell’aiuto di Dio: «Dio, infatti, certe cose grandi ama talvolta scriverle non sul bronzo o sul marmo, ma addirittura sulla polvere, affinché se la scrittura resta, non scompaginata o dispersa dal vento, risulti chiaro che il merito è tutto e solo di Dio. Sono io la polvere: l’ufficio di patriarca e la diocesi di Venezia sono le grandi cose unite alla polvere». Vuole apparire come il pastore di una Chiesa lontana dai fasti e dalle pomposità ma piuttosto attenta alla condizione degli uomini comuni. Per questo tra i primi atti a Venezia sono le visite alle carceri della Giudecca e all’ospedale dei SS. Giovanni e Paolo.


IL PATRIARCA ALBINO LUCIANI A VENEZIA

La realtà della diocesi veneziana non era facile con un clero che in quegli anni raggiungeva il numero massimo nell’arco del secolo (281 preti secolari e 321 religiosi) e una realtà delle parrocchie a volte difficile. Dalle 74 del 1950 erano diventate 121 e si evidenziavano ormai realtà molto diverse. Una cosa erano le realtà operaie dei quartieri dormitorio, altra le vecchie ma prestigiose parrocchie del centro lagunare, con gli abitanti sempre più anziani. Lo stile feriale Nell’ottobre del 1970 il patriarca comincia la prima visita pastorale alla diocesi, connotata da uno stile da lui stesso definito “feriale”. Luciani vuole incontrare queste realtà nella quotidianità della loro vita. Per questo rinunciando al questionario canonico e alla preparazione del previsitatore si reca nelle parrocchie nel fine settimana incontrando i gruppi e celebrando la messa domenicale con la comunità. Al termine della visita comunica al parroco le sue impressioni, valorizzando tutti gli aspetti positivi e qualche volta segnalando, con delicatezza, i problemi riscontrati. La realtà delle parrocchie è in questi anni


Venezia Piazza San Marco, Basilica di San Marco e Torre dell’Orologio con i due Mori. 5 marzo 1973, il Patriarca Luciani riceve il berretto cardinalizio da Papa Paolo VI.

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Il Patriarca Albino Luciani con Paolo VI in Piazza San Marco a Venezia 16 settembre 1972. Papa Paolo VI dona la propria stola al Patriarca Albino Luciani, Venezia 16 settembre 1972.

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Venezia, Palazzo Patriarcale, Il Ritratto del Patriarca Albino Luciani,

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in movimento. L’ansia di rinnovamento innescata dal Vati-cano II aveva prodotto una miriade di esperienze a livello locale che in qualche modo sconvolgevano l’assetto tradizionale dei rapporti tra i parroci e i fedeli. Il Patriarca osserva queste realtà ma spesso è costretto a rimarcare la necessità di non allontanarsi dalla tradizione. Resta perplesso di fronte alle forme di spontaneismo che spesso emergevano in queste realtà, con audaci innovazioni sia a livello liturgico che pastorale. La situazione della diocesi veneziana che il Patriarca Luciani assume non era dissimile da quella di altre grandi diocesi italiane. Nei primi anni Settanta le istanze di rinnovamento sollevate dal Vaticano II si erano intrecciate alle rivendicazioni democratiche e partecipative della contestazione del Sessantotto, producendo nella chiesa gravi lacerazioni

che troveranno il punto più alto negli anni 1974-75 intorno alla questione del referendum abrogativo della legge sul divorzio. In quel frangente Luciani si trova a prendere misure disciplinari contro i gruppi della contestazione che anche a Venezia erano molto attivi nel laicato e nel presbiterio di Venezia. È noto l’episodio della Comunità di San Trovaso, legata alla FUCI diocesana e sciolta di autorità per le prese di posizione a favore del no all’abrogazione, nel maggio 1974. Allo stesso modo il Patriarca si era trovato a sorvegliare l’attività di alcuni sacerdoti e teologi del seminario di Venezia troppo disinvolti nella ricerca in campo biblico e teologico. Un riferimento al di là del contesto veneto Da patriarca la figura di Luciani assume un


IL PATRIARCA ALBINO LUCIANI A VENEZIA

rilievo importante anche al di là del contesto veneto. Nel febbraio 1970, essendo stato eletto presidente della Conferenza episcopale regionale del Triveneto, diventa di diritto membro del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana. Nel giugno del 1972 diventa poi vicepresidente della Conferenza assumendo responsabilità sempre più grandi nel contesto della Chiesa italiana. Nella sua ritrosia aveva chiesto ad alcuni confratelli vescovi di non votarlo ma non era stato accontentato. Evidentemente la sua figura aveva cominciato ad imporsi per le doti di equilibrio e di moderazione. D’altra parte la sua attività di pubblicista, piuttosto insolita per un vescovo, ne amplificava l’impatto sul cattolicesimo italiano. Dal 1971 aveva cominciato la sua collaborazione con la “rivista dei Cappuccini” di Padova (“Il messaggero di Sant’Antonio”) scrivendo una serie di articoli che, nella forma di lettera a personaggi conosciuti, toccavano i temi dell’attualità. Nel 1973 viene creato da Paolo VI cardinale divenendo consultore della Congregazione per la dottrina della fede e di quella per il Culto divino. Ma è probabilmente nella partecipazione ai Sinodi dei vescovi tenuti durante il decennio che emerge il contributo originale di Luciani. Al Sinodo del 1971 che aveva due temi distinti (il sacerdozio ministeriale e la giustizia nel mondo) il Patriarca interviene facendosi portavoce della proposta di mons. Carraro, vescovo di Verona, per un impegno di

1970, il Patriarca Albino Luciani in Piazza San Marco con l’acqua alta.

Palazzo patriarcale sala Tintoretto.


IL PATRIARCA ALBINO LUCIANI A VENEZIA

tutte le diocesi a versare l’1% delle entrate annuali per progetti di aiuto al Terzo mondo. Già messa in atto dai vescovi veneti non viene invece fatta propria dal Sinodo. Più legata alla personale visione di Luciani è invece l’idea di inserire tra i tradizionali “precetti” della Chiesa un comando sulla solidarietà internazionale. Si tratta di un tentativo originale di mettere insieme la tradizione con le istanze della nuova sensibilità conciliare. Nel 1974 al Sinodo sul tema dell’evangelizzazione nel mondo contemporaneo Luciani prende invece la parola per contestare alcune interpretazioni critiche sulla “pesantezza” delle strutture e istituzioni ecclesiastiche ma soprattutto le letture di natura socio-politica del tema biblico della liberazione. È un richiamo ricorrente nel suo magistero episcopale e segna la distanza da una parte del mondo cattolico italiano, molto sensibile al dialogo con la cultura marxista. L’utilizzo di categorie politiche gli appare un modo per limitare la ricchezza del messaggio

religioso di cui la Chiesa è portatrice. Nella ricezione del Vaticano II L’accumularsi di impegni e di cariche ai vari livelli del ministero porta però Luciani nel 1975 alle dimissioni da vicepresidente della Conferenza episcopale italiana, pur continuando a partecipare ai lavori del Consiglio permanente. La sua intenzione è quella di concentrarsi nella cura della diocesi che restava attraversata da conflitti tra le diverse anime del clero e del laicato. L’anno precedente aveva anche chiesto alla Santa Sede la nomina di un vescovo ausiliare ma non si era riusciti a trovare un accordo sui nomi e il suo desiderio restò senza risposta. In questa seconda fase del suo ministero il patriarca avvia un percorso di rinnovamento della diocesi, imperniato sull’idea di una maggiore collegialità e sull’applicazione delle indicazioni della Chiesa italiana sulla ricezione del Vaticano


IL PATRIARCA ALBINO LUCIANI A VENEZIA

II. Nel 1976 comincia una seconda fase di visite pastorali, durante la quale il patriarca incoraggia le comunità alla creazione dei consigli pastorali parrocchiali. Nel 1977, dopo una lunga preparazione, viene creata la Caritas diocesana come espressione della vicinanza della chiesa di Venezia ai poveri e agli emarginati. In numerosi interventi Luciani appoggia la rivitalizzazione dell’azione cattolica e il protagonismo dei laici. È anche il periodo in cui si sviluppa un forte dibattito tra i vescovi italiani sulla presenza dei nuovi movimenti ecclesiali e il patriarca non manca di prendere posizione. Vi sono però anche questioni strutturali da affrontare e di questo si discute in un’assemblea del consiglio presbiterale nel novembre 1976, destinata tra l’altro a trovare soluzioni per la fine delle tensioni interne alla diocesi. Emerge in questo contesto la proposta della creazione della figura dei “vicari episcopali” destinata a declinare in senso collegiale la guida della diocesi.

Punta Dogana e Chiesa della Madonna della Salute


IL PATRIARCA ALBINO LUCIANI A VENEZIA

Piazza San Marco con la celebre biblioteca Marciana.

Nel luglio 1978 il Patriarca comunica l’intenzione di nominare tre sacerdoti nel ruolo di vicari ma in quel momento la parabola di Luciani a Venezia era ormai finita, con il Conclave alle porte. Si era discusso alcuni mesi prima anche della creazione di un Consiglio dei laici a livello diocesano ma l’intero progetto di riforma si sarebbe interrotto per l’elezione del Patriarca al Soglio pontificio. L’apertura del conclave nel settembre 1978 vedeva Luciani come una figura conosciuta ed autorevole nel panorama

del collegio cardinalizio. Il viaggio in Brasile del 1976 e i contatti con alcuni vescovi brasiliani lo avevano tra l’altro fatto conoscere e stimare nel continente sudamericano. La sua esperienza a Venezia ne aveva provato le forze e il carattere, nell’impegno a contrastare una situazione conflittuale. L’esito del Conclave è noto. Ancora una volta Luciani accetta il gravoso compito che gli viene affidato confermando la sua fedeltà alla Chiesa e al suo servizio.



IL PATRIARCA ALBINO LUCIANI A VENEZIA

Basilica di S. Marco Cripta


Chiesa del Redentore


STEFANIA FALASCA

Albino luciAni e lA FondAzione GiorGio cini «

A

Isola di San Giorgio.

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PAPA LUCIANI

vevo promesso nello scorso giugno che sarei stato presente nella Basilica di San Giorgio per il primo anniversario della scomparsa del senatore Vittorio Cini. L’avrei ricordato in quell’occasione: avrei detto che in lui avevo sempre ammirato con la cultura, che lo distingueva nel parlare e che aveva fatto di lui un grande mecenate, la gentilezza dell’animo, la capacità introspettiva ed anche il fine sentire cristiano. Il Signore mi ha chiamato per altra strada e non mi è possibile mantenere la promessa.

Ho pregato di sostituirmi per la cerimonia mons. Loris Capovilla che, con Papa Giovanni, ha visto nascere la Fondazione Cini, e ha conosciuto personalmente il compianto Senatore». La lettera, firmata dal Sommo Pontefice Giovanni Paolo I e indirizzata a Bruno Visentini, allora presidente della Fondazione, è datata 7 settembre 1978. È questo l’ultimo attestato del profondo legame di Albino Luciani con la Fondazione Cini e della intensa consuetudine che egli ebbe con il suo fondatore.


ALBINO LUCIANI E LA FONDAZIONE GIORGIO CINI

Lo rilevava lo stesso presidente Visentini l’indomani dell’elevazione al Soglio di Pietro del patriarca Luciani, in occasione della seduta straordinaria del Consiglio della Fondazione del 1° settembre 1978. Occasione nella quale egli non mancò di sottolineare come per la seconda volta, nel corso di vent’anni, veniva eletto papa il patriarca di Venezia, ma anche come i programmi di lavoro della Fondazione, svolti in quegli ultimi anni secondo gli indirizzi di promozione civile e culturale ispirati alla tradizione umanistica e cristiana voluti dal fondatore e dallo statuto, erano stati stabiliti «in sedute del Consiglio generale alle quali aveva partecipato e dato il suo alto apporto il cardinale Albino Luciani». «Sedeva assiduo, intento e discretissimo,» ha rilevato ancora il filologo e critico letterario Vittore Branca registrando la sua presenza a San Giorgio. La documentazione, conservata presso l’Archivio della Fondazione e presso l’Archivio storico del patriarcato di Venezia, ci offre ampia testimonianza dello stretto e affettuosissimo rapporto che Papa Luciani ebbe con l’isola di San Giorgio e la sua istituzione. Negli anni in cui, dal 1970 al 1978, egli sedette sulla Cattedra di San Marco, la sua presenza fu caratterizzata dalla totale sintonica adesione agli

ideali della Fondazione, ideali che erano pienamente connaturali alla personalità di Luciani. Sensibilissimo ed arguto, profondo cultore d’arte, scrittore ed oratore tinctus litteris, dotato di quel fine humor di stile anglosassone e di goldoniana memoria, «egli seppe coniugare sempre nelle sue parole» come ebbe ad evidenziare lo storico Gabriele De Rosa, «amore di ricerca scientifica e amore di verità insieme, con la sollecitudine dell’uomo di cultura e del pastore». Pertanto non meraviglia come già all’inizio del suo ministero episcopale a Venezia, colui che fu anche l’autore di Illustrissimi, ringraziò la Provvidenza che, disponendo fosse patriarca di Venezia, gli consentiva anche di essere membro d’ufficio della Fondazione. Il 27 aprile 1970, partecipando per la prima volta alla riunione del Consiglio generale, così si espresse: «L’altro giorno il conte Cini ha avuto la bontà di accompagnarmi a visitare il complesso intero di San Giorgio in Isola. Non c’ero mai stato. Ne sono tornato via con un’idea veramente grandiosa di quello che è stato fatto qui. Io non ricordo più in quale articolo di Diego Valeri ho trovato che questo nostro poeta (almeno di adozione) diceva dell’Isola di San Giorgio: “È un naviglio quell’isola, immobile, fatto di terra, di

Venezia, Isola di San Giorgio, di fronte al bacino di San Marco con la Basilica opera di Andrea Palladio.


ALBINO LUCIANI E LA FONDAZIONE GIORGIO CINI

pietre, di mattoni di begli alberi frondosi e di genio umano”. Guardando le fotografie qui esposte, si rileva però che quest’isola nel passato era veramente scaduta, ridotta, eccetto la chiesa, un ammasso di rovine e di abbandono. A vedere quello che invece è oggi, dal lato architettonico, dal lato artistico e delle dinamicissime opere, è una cosa veramente meravigliosa. (…) Ma per me è stata soprattutto interessante la terza istituzione dell’Isola: il grande Centro di Cultura e Civiltà. Ho avuto l’impressione di fare, direi, quasi un bagno in quella che si può dire “romania” veneziana, perché veramente qui è raccolto un patrimonio di ricchezze veneziane, artistiche e storiche. Come Bisanzio una volta, si può dire che Venezia è stata veramente capace di mantenere in passato nell’Adriatico e in gran parte del Mediterraneo quello che è lo sviluppo della latinità, e oggi chi vuol vedere ciò che ha fatto Venezia, qui bisogna che venga. Dicevo all’egregio professor Branca: “Qui succede il contrario di quello che avviene di solito nel mondo della cultura: non è più lo studioso che viaggia da una biblioteca all’altra, qui, invece, sono le biblioteche che hanno viaggiato e si sono raccolte per la comodità dello studioso”». Negli anni del suo patriarcato a Venezia, Luciani vide pienamente realizzarsi nelle iniziative e nelle istituzioni promossi dalla Fondazione, ormai famosa in tutto il mondo della cultura, il sogno di una ricerca nello studio del passato degli elementi di comprensione del presente e di sempre più larghe intese culturali fra i popoli, il sogno che era stato di Giovanni XXIII e di Paolo VI. Ma le affinità elettive che lo legarono ad essa, s’intrecciano indissolubilmente con quelle del suo primo ispiratore, con l’uomo Vittorio Cini, che dei tempi aveva saputo capire, interpretare e far vivere ciò che ha una validità profonda e duratura. Non bisogna dimenticare che negli ultimi anni del patriarcato di Luciani venne sancito, per volere di Cini, di trasmettere al patriarca protempore di Venezia, i compiti che egli aveva riservato a sè stesso come fondatore. Il 5 aprile 1971 Albino Luciani, Vittorio Cini e Vittore Branca, ricevuti da Paolo VI, fecero omaggio al Papa del prestigioso volume sui tesori di San Marco, in occasione dei vent’anni della Fondazione. «Fu un incontro tra amici dalle comuni aspirazioni» ricorda

nelle sue memorie don Mario Senigaglia, allora segretario del patriarca Luciani. Purtroppo la scarsità della corrispondenza esistente non consente di tracciare appieno il profilo del fraterno legame che unì il patriarca Luciani al conte Cini; bastano, tuttavia, le parole con le quali il patriarca lo salutò il giorno del suo funerale nel settembre del 1977 per coglierne tutta l’intensità: «A me Vittorio Cini guardava più come a un figlio. Mi minacciava, scherzando, col dito, mi rimproverava: “Lei non mi chiede mai nulla”; “lei non sa quanto bene le voglia”; “lei lavora troppo”. Devo confessare che mi piaceva riscontrare in lui un caso in cui l’intelligenza e la cultura aiutavano la fede, invece che ostacolarla. Vedere come alla raffinatezza sorridente e garbatamente ironica del gentiluomo, soggiacesse una vera e profonda umiltà. Quando ieri appresi la sua morte mi sono sentito un po’ orfano, non mi vergogno a dirlo. Ed è con cuore di figlio che prego il Signore affinchè lo riceva presto nel suo Paradiso». Proprio di questo legame parlava un anno dopo da pontefice con Vittore Branca. Era il 7 settembre 1978 e ricevendolo, con la familiarità di sempre, nello studio del suo appartamento in Vaticano, a lui confidava: «Bisognerebbe che la cultura sapesse infondere nell’umanità quel supplemento d’anima che solo può assicurare la salvezza a questo nostro mondo straziato e tormentato». Mancavano pochi giorni all’appuntamento culturale della Fondazione dedicato a “L’umanesimo di Tolstoj”.«Parlammo anche di questo convegno» scrive Branca «e mi disse: “Come avrei desiderato sentire qualcosa da marxisti, da laici e da cattolici, da critici letterari, da filologi e da filosofi, da narratori e da poeti, su questo che è stato uno dei grandi autori della mia giovinezza. La sua fine a Astapovo è stata una ricerca in avanti o una fuga dalla vita? Nel suo vangelo c’era ancora Cristo o soprattutto Tolstoj?”». Sono parole che tracciano indelebile il segno ancora di quel “supplemento d’anima” con il quale avrebbe continuato ad accompagnare il divenire della Fondazione e la comprensione del presente adoperandosi nel generare sempre più larghe e aperte intese culturali fra i popoli.


IL PATRIARCA E LA FONDAZIONE GIORGIO CINI

Il patriarcaBacino Albinodi San Marco Luciani in visita alla Fondazione, accompagnato da Vittorio Cini. Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Istituto di Storia dell’Arte.

PAPA LUCIANI

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STEFANIA FALASCA

(25-26 agosto 1978)

iL concLaVe:

un consenso unanime

N

Lettera del Cardinale Albino Luciani alla sorella Antonia prima di entrare in Conclave.

umerose volte si è scritto «per la prima volta» a proposito del Conclave dell’agosto 1978, che elesse il successore di Paolo VI. È stato il primo Conclave da cui vennero esclusi i cardinali ultraottuagenari. Il primo nel quale si applicò la nuova normativa promulgata da Paolo VI nel 1975, che con la sede vacante azzerava il governo curiale, lasciando al successore la piena libertà nella scelta dei collaboratori. Il primo che si svolse in un’accentuata esposizione mediatica dei conclavisti, mentre i media non lesinavano nel pubblicare profili di candidati e auspici di fedeli, intellettuali, giornalisti e perfino note riservate della diplomazia. Per la prima volta venne concesso ai capi-delegazione del Corpo diplomatico accreditato e a una rappresentanza dei giornalisti di visitare il recinto del Conclave; per la prima volta i Servizi segreti militari italiani collaborarono all’isolamento elettromagnetico degli spazi del Conclave. Ma soprattutto è stato questo il primo Conclave dopo la conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II. E l’elezione del patriarca di Venezia Albino Luciani significò la volontà di progredire nell’attuazione degli orientamenti. Al Conclave parteciparono centoundici cardinali, su centoquindici aventi diritto. Per quasi tutti i porporati si trattava della prima esperienza di Conclave. La partecipazione ai recenti eventi conciliari e sinodali li aveva abituati al confronto e alla discussione, come mai era accaduto nei decenni precedenti: non parevano quindi disposti a sbrigare un’elezione formale, a gestire solo un “cambio della guardia”. Inoltre l’eredità di Paolo VI risultava complessa, sia nell’ambito intra-ecclesiastico, sia nel

dialogo ecumenico, sia nel confronto con gli scenari internazionali che interpellavano la Chiesa cattolica: il conflitto in Medio Oriente, la Ostpolitik, la fame nel mondo. Anche la situazione politica italiana dava motivi di inquietudine, soprattutto dopo il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, vicenda che aveva stremato l’anziano papa Montini; all’inizio dell’estate si era inoltre avuta l’approvazione della legge sull’aborto. La successione a Paolo VI appariva non facile. Il nome del patriarca di Venezia non circolava nelle rassegne giornalistiche e nei prognostici pre-Conclave; come fece osservare l’allora presidente Giulio Andreotti, il nome di Albino Luciani non figurava nemmeno nelle quotazioni dei bookmakers di Londra. Tuttavia, in un’intervista rilasciata nell’agosto 1978, nel corso delle quattordici Congregazioni generali, il cardinale brasiliano Aloisio Lorscheider, vice-presidente del Conferenza episcopale latinoamericana, aveva tracciato un ritratto del possibile candidato, che risultò prossimo a quello incarnato dal patriarca di Venezia. Lorschieder – che di Luciani apprezzava la «prontezza nell’afferrare le questioni e vederne con sicurezza il fondo» – nell’intervista pre-Conclave aveva delineato in sintesi il profilo di quello che avrebbe dovuto essere il nuovo papa: «Prima di tutto un buon padre spirituale, un buon pastore, come lo era stato Gesù, che svolga il proprio ministero con pazienza e disponibilità al dialogo… dovrebbe essere sensibile ai problemi sociali… deve rispettare e incoraggiare la collegialità dei vescovi… non dovrebbe tentare di imporre ai non cristiani soluzioni cristiane». Caratteristiche precisò in seguito - che esprimevano gli orientamenti


IL CONCLAVE: UN CONSENSO UNANIME

del collegio cardinalizio, alla ricerca di «un papa che fosse innanzitutto un buon pastore». Negli incontri informali dei porporati, soprattutto tra quelli extraeuropei, si era creato progressivamente consenso attorno alla figura del patriarca di Venezia. Certamente, come osservava lo storico Gabriele De Rosa, quella di Luciani «non è stata una scelta improvvisa, scelta nata nelle poche ore del Conclave o nel giro di rapide intese e di incontri romani: essa è arrivata come frutto di più lontana e attenta riflessione, forse già prima della scomparsa di Paolo VI; quanto a dire che i canali dell’informazione giornalistica, e non solo giornalistica, erano già fuori strada». Il cardinale Jean Villot, primus ex episcoporum ordine, alle 9.30 di sabato 25 agosto, presiedeva nella Basilica Vaticana la Missa pro eligendo Papa. Nell’omelia evidenziò l’inedita rappresentatività del Sacro Collegio. Nel pomeriggio i porporati entrarono in Conclave. Alle 19.00, con il rituale «Extra omnes», venne dichiarata la chiusura esterna del Conclave. Già nel terzo scrutinio si sfiorò l’elezione, mentre la maggioranza richiesta venne abbondantemente superata al quarto scrutinio, con numero di suffragi che – dall’insieme di quanto trapelato – potrebbe variare da 89 a 101 voti. «Un regale tre quarti», secondo un’espressione attribuita al cardinale belga Léon-Joseph Suenens, una «votazione plebiscitaria», «un’elezione che ha quasi il sapore dell’acclamazione». Lo stesso Giovanni Paolo II nel primo anniversario dell’elezione di Luciani al Soglio di Pietro, attestava lo straordinario fenomeno che era stata quell’elezione durata poco più di un giorno, dove «i cardinali avevano smentito le previsioni della vigilia, quando circolava voce che il Conclave, per dare una successione a Paolo VI, avrebbe incontrato difficoltà e conosciuto battute di arresto». Dopo un Conclave durato soltanto ventisei ore, Albino Luciani veniva eletto come il 263° Vescovo di Roma. Il cardinale Jean Villot, camerlengo e primo tra i cardinali vescovi, pose a Luciani la

rituale domanda: «Acceptasne electionem de te canonice factam in Summum Pontificem?». Dopo l’accettazione - ricorda il cardinale Pericle Felici egli «assunse un aspetto calmo, tranquillo, sereno; l’atteggiamento suo abituale». Il cardinale Eduardo Francisco Pironio, nella cattedrale di Vittorio Veneto, il 25 febbraio 1979, ricordava in un’omelia inedita quell’esatto momento: «Ero proprio di fronte a lui e lo guardavo; ed eravamo tutti i cardinali in attesa del suo “sì” al Cristo, al Signore; un “sì” alla Chiesa come servitore; un “sì” all’umanità come pastore buono. Io l’ho visto con una serenità profonda, che proveniva proprio da una interiorità che non si improvvisa. Un uomo veramente contemplativo, un uomo di preghiera, un uomo di continua comunione con il Signore. Questo gli dava

27 agosto 1978: il neoeletto Papa celebra con il collegio dei Cardinali.

26 agosto 1978. La prima apparizione alla loggia della Basilica Vaticana.


IL CONCLAVE: UN CONSENSO UNANIME

3 settembre 1978. Celebrazione per l’inizio del Pontificato.

molta serenità e fiducia». Il camerlengo Villot chiese nuovamente al neoeletto: «Quo nomine vis vocari?». Rispose: «Vocabor Ioannes Paulus», doppio nome che comparve per la prima volta nella storia della Chiesa, nel doppio segno del «rinnovamento coraggioso, nella inconcussa fedeltà», secondo quanto egli stesso disse l’indomani nell’Angelus del 27 agosto, giustificando questa inedita scelta. Ferma restando la riservatezza sugli eventi, alcuni protagonisti di quella giornata riconobbero pubblicamente la rapida convergenza raggiunta nel Conclave. Se il gesuita Miguel Arranz – specialista di liturgia bizantina e docente al Pontificio Istituto Orientale e al Collegio Russicum – riportava il compiacimento del cardinale Johannes Willebrands, allora presidente del Segretariato per l’unione dei cristiani, che all’indomani dell’elezione aveva esclamato: «È stato lo Spirito Santo! Lo Spirito Santo!», il cardinale di Milano Giovanni Colombo, già l’indomani dell’elezione, sottolineava che «le motivazioni più profonde e più vere della sorprendente unità emersa nel Conclave si trovavano anzitutto nella

comune mentalità ecclesiale dei centoundici elettori». Nei giorni successivi anche i cardinali elettori – «salva sempre la rigorosa disciplina del segreto» – diedero rilievo alla convergenza raggiunta e alla «prospettiva eminentemente ecclesiale e non politica che aveva animato la loro azione fino a guidarli a un consenso rapido e, come qualcuno disse, quasi moralmente plebiscitario». In una dichiarazione riportata da “La Civiltà cattolica”, il cardinale argentino, Raúl Francisco Primatesta, faceva notare a riguardo che «una volta entrati nell’ordine mentale del Conclave, fu subito chiaro a molti che toccava a lui diventare papa. Fu una convergenza spontanea. Non ci fu bisogno di particolari valutazioni o compromessi sul suo nome. Il suo valore riconosciuto era tutto nella sua personalità… Quello della semplicità e della vicinanza al popolo. Continuando quella linea che era stata introdotta con più forza da papa Roncalli». Sempre il cardinale Lorscheider – a cui lo stesso Giovanni Paolo I rivelò di aver indirizzato il proprio voto in Conclave – affermava che «proprio questa


IL CONCLAVE: UN CONSENSO UNANIME

unanimità rivelò che non era un papa programmato per un determinato progetto politico. Con l’elezione di Luciani erano saltati gli schieramenti tra conservatori e progressisti, proprio per quelle caratteristiche e per la particolare fisionomia di Luciani, incentrata sull’essenziale». Anche una nota riservata del Dipartimento di Stato statunitense sottolineava come nella rapida elezione emergeva il desiderio del Collegio dei cardinali di dimostrare unità e nella scelta del doppio nome la continuità con le linee del Concilio Vaticano II. Nel sottolineare l’inedito binomio, il vescovo di Belluno Gioacchino Muccin – che di Luciani aveva conoscenza approfondita e lo aveva candidato all’ episcopato – evidenziava un motivo basilare che emerge «dall’eccezionale periodo vissuto dalla Chiesa nel ventennio 1958-1978», e che «comprendeva l’annuncio, la preparazione, la celebrazione e l’applicazione del Concilio ecumenico Vaticano II»: «Giovanni XXIII e Paolo VI erano state le colonne portanti di tanta opera. Colonne che potevano

apparire staccate tra loro, quasi un’architettura monca, incompleta: anzi con linee contraddittorie. E tali furono giudicate da alcuni. Luciani conosceva questo dissidio e dissenso serpeggiante da anni in seno alla stessa Chiesa. Ne soffriva e lo giudicava offensivo della verità e nemico dell’unità e della pace della Chiesa e del mondo. Con la scelta del “binomio: Giovanni Paolo” Albino Luciani ha eretto l’arco di congiunzione sotto il quale in piena armonia si delineano con le proprie personali caratteristiche i due Papi, le loro opere, le loro deliberazioni, rispondenti ad un disegno che è di Dio. Per me tale scelta è una delle espressioni non rare dell’intuito geniale con cui il Papa bellunese scioglieva il nodo delle situazioni e dei problemi difficili nella Chiesa». Con la scelta di Albino Luciani il Collegio, in definitiva, si era posto nel deciso orientamento incarnato dallo stesso neo-eletto: quello di portare avanti la Chiesa sulle tre principali direttive scaturite dal Concilio Vaticano II nella fedeltà al Vangelo: la povertà della Chiesa, la collegialità, la ricerca dell’unità.


DAVIDE FIOCCO

(26 agosto - 28 settembre 1978)

Le priorità di gioVanni paoLo i VescoVo di roma

23 settembre 1978: Giovanni Paolo I prende possesso della Basilica Lateranense, cattedrale di Roma.

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PAPA LUCIANI

Il programma del Papa Chi era veramente Albino Luciani nel Palazzo Apostolico? Un testimone diretto fu il cardinale Giuseppe Caprio, che all’epoca era Sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato. Egli rilevava che «i giorni seguenti l’elezione furono pieni d’impegni, molti dei quali abbastanza gravosi, ma il Papa li accettò e li assolse tutti con calma, padronanza e con tanta naturalezza da far pensare che vi fosse stato lungamente preparato». «Su quali vie avrebbe camminato è invece difficile dirlo», faceva invece osservare a vent’anni dalla sua morte l’allora presidente del Conferenza latinoamericana il cardinale Aloisio Lorscheider. «Ma – replicava – possiamo basarci su quanto aveva

già mostrato. Il tratto che avrebbe caratterizzato il suo pontificato sarebbe stato senza dubbio quello della “simplicitas” evangelica. Nel suo discorso programmatico – proseguiva il cardinale brasiliano – Luciani dichiarò esplicitamente di voler essere fedele alla grande disciplina della Chiesa che risale alle fonti della fede. Quindi un parlare semplice, pochi discorsi brevi e alla portata di tutti. Avrebbe poi privilegiato l’attenzione alla diocesi di Roma e al tempo stesso avrebbe favorito la collegialità coinvolgendo concretamente i vescovi e i cardinali nel governo pastorale. Avrebbe certamente tenuto presente la predilezione della Chiesa per i poveri. E più volte ricordò di essere stato impressionato da quel punto del catechismo dove si dice che la frode al salario degli operai è un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio. Per Luciani questo era il criterio per giudicare le questioni economiche e politiche di qui i suoi giudizi, anche molto duri, sul capitalismo e lo sfruttamento del terzo mondo». L’attualità di queste linee sembreranno persino sorprendente a una pubblicistica stereotipata, che vi scopre le impressionanti analogie con il magistero di papa Francesco. A cominciare da quest’immagine di Chiesa povera, forte e misericordiosa, prossima ai vicini e ai lontani, da vivere con sobrietà e umiltà, capacità di ascolto e di dialogo. Prima di tutto, Vescovo di Roma Un aspetto solitamente poco sottolineato è che Luciani mostrò di sentire fortemente la sua nuova missione come capo della diocesi di Roma. Nel blocco per appunti usato durante il pontificato aveva scritto: «Ho desiderato incontrarmi al più presto con voi, cari sacerdoti di Roma, per porgervi il mio saluto»: l’incontro avvenne giovedì 7 settembre e vide la presenza di oltre duemila sacerdoti operanti nell’Urbe. All’inizio dell’udienza il cardinal vicario Ugo Poletti rivolse il saluto al Papa. Il quale, «con confidenza da fratello a fratello», riprese il tema, già accennato nel radiomessaggio del 27 agosto, della «grande disciplina» della Chiesa, rapportandola con la «piccola disciplina, che si limita all’osservanza puramente esterna e formale di norme giuridiche». La conversazione abbonda di riferimenti letterari, da dom Chautard al Curato d’Ars, da san Francesco di Sales al Concilio Vaticano II, da sant’Agostino


PAPA LUCIANI

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23 settembre 1978. Giovanni Paolo I in qualitĂ di Vescovo di Roma risponde al saluto del sindaco Carlo Giulio Argan.

30 agosto 1978: Giovanni Paolo I con il card. Aloisio Lorscheider.


LE PRIORITÀ DI GIOVANNI PAOLO I VESCOVO DI ROMA

fino a san Gregorio Magno, laddove l’antico Papa sentenziava che il pastore d’anime deve dialogare con Dio senza dimenticare gli uomini, e dialogare con gli uomini senza dimenticare Dio. Il ritratto pastorale delineato da papa Gregorio nella “Regula pastoralis” era per papa Luciani un modello cui molte volte si era riferito in passato e che venne ripreso durante il pontificato in tre occasioni – nell’Angelus del 3 settembre, in questa circostanza e all’insediamento sulla Cathedra romana – quasi a dire che era il modello in cui lui si riconosceva. Ribadì che «il Papa in tanto acquista autorità su tutta la Chiesa in quanto è vescovo di Roma, successore cioè, in questa città, di Pietro». Nella chiusa riprese le parole del patriarca Sarto nel suo ingresso a Venezia, così come aveva fatto nell’ingresso a Vittorio Veneto e in quello a Venezia: «Mi sia permesso aggiungere una sola cosa: per me è legge di Dio che non si possa fare del bene a qualcuno, se prima non gli si vuole bene. Per questo, S. Pio X, entrando patriarca a Venezia, aveva esclamato in S. Marco: “Cosa sarebbe di me, Veneziani, se io non vi amassi?”. E ai romani io dico qualcosa di simile: posso assicurarvi che vi amo, che desidero solo entrare al vostro servizio e mettere a disposizione di tutti le mie povere forze, quel poco che ho e che sono». Pastore secondo il Concilio Dunque il vescovo di Roma è anche capo della «Chiesa che presiede alla carità delle Chiese». Ed ecco che nel corso di un pur breve pontificato troviamo essenzialmente le priorità e i tratti di un pontefice che, incarnando il dettato conciliare, ne diviene apostolo facendo progredire la Chiesa lungo la dorsale di quelle che sono le strade maestre indicate dal Concilio: la risalita alle fonti del Vangelo e una

rinnovata missionarietà, il servizio nella povertà, il dialogo con la contemporaneità, la ricerca dell’unità con i fratelli ortodossi, mostrato nell’incontro con il metropolita russo Nikodim; il dialogo interreligioso, la ricerca della pace, e la collegialità episcopale. Collegialità episcopale Gli storici e i teologi inoltre hanno intravisto nel portamento e negli interventi del Giovanni Paolo I l’intento di sottolineare nell’ufficio papale innanzitutto la specifica dimensione pastorale. Questo si espresse nel sottolineare il legame che intercorre tra il vescovo di Roma e gli altri vescovi, lasciando prevedere l’intenzione di rafforzare l’esercizio della collegialità episcopale. Il tema gli era caro fin dal 7 ottobre 1963 quando, all’inizio della seconda sessione del Concilio Vaticano II, il giovane vescovo di Vittorio Veneto aveva presentato le sue “animadversiones” scritte sulla collegialità episcopale. Ancora nel settembre 1972, annunciando l’imminente visita di Paolo VI a Venezia, il patriarca Luciani aveva sottolineato il ruolo del Papa come quello del «legame che unisce. Attorno a lui si stringono tutti i vescovi cattolici come a fratello maggiore, munito di speciali poteri sulla Chiesa universale»; osservò come non esista il collegio episcopale senza il papa e come si possa separare il papa dal collegio. Alla vigilia della sua elezione, citando Avito di Vienne, scriveva: «Se il vescovo di Roma è messo in discussione, non è il vescovo, ma l’episcopato intero che vacilla». Insomma, nel suo magistero episcopale la corretta polarità tra l’unità del ministero petrino e la collegialità dell’episcopato è ben delineata. E così, nel radiomessaggio del 27 agosto all’indomani dell’elezione, evidenziò la collegialità del ministero

28 settembre 1978: Giovanni Paolo I riceve il card. Bernardin Gantin, padre Roger Heckel e padre Henri de Riedmatten.


LE PRIORITÀ DI GIOVANNI PAOLO I VESCOVO DI ROMA

episcopale. Precisando la dottrina di “Lumen Gentium” sulla collegialità episcopale in cui «sia il papa che il collegio episcopale sono di diritto divino e organi permanenti della Chiesa», richiamava la necessità della struttura gerarchica della Chiesa. Passando dai principi alla concretezza, se prima aveva sempre manifestato attenzione ai preti e ai colleghi ammalati, scopriamo che da Papa immediatamente spostò l’attenzione ai cardinali anziani, almeno nelle intenzioni. Infatti sulla prima pagina del blocco di appunti usato dal Papa durante il pontificato sono annotati, sotto la voce «Visita cardinali anziani», i nomi del card. Alfredo Ottaviani, ex prefetto del Sant’Uffizio; del card. Alberto di Jorio, pro-presidente della pontificia Commissione per la Città del Vaticano; nelle pagine successive compaiono i nomi del card. Pericle Felici, prefetto della Segnatura Apostolica, del card. Stefan Wyszyski, arcivescovo di Varsavia, e un terzo nome illeggibile. Nella prima udienza generale, evidenziando la presenza di vescovi e cardinali, il Papa precisò: «Io sono soltanto il loro fratello maggiore»; al termine della seconda e della terza udienza generale – come certificano gli archivi fotografici e le cineteche – chiamò attorno a sé i vescovi presenti per impartire insieme la benedizione. Anche nelle due visite “ad limina apostolorum” che Giovanni Paolo I ricevette nel corso del pontificato confermano la sua “fraternità” episcopale. La prima avvenne giovedì 21 settembre, quando vennero ricevuti i vescovi appartenenti alla XII regione pastorale degli Stati Uniti d’America. A loro si aggregarono altri vescovi statunitensi che si trovavano a Roma per un corso di aggiornamento teologico-pastorale. A mons. Cornelius Michael Power, arcivescovo di Portland, spettò porgere il rituale saluto al Papa. E questi, rivolgendosi in inglese ai presenti, disse di aver attentamente esaminato gli insegnamenti di Paolo VI all’episcopato degli Stati Uniti e, facendoli propri, trattò della famiglia cristiana come tema di primaria importanza nell’attuale contesto sociale ed ecclesiale. Richiamandosi al dovere del suo ufficio di «confermare i fratelli» vescovi, rivolse raccomandazioni circa la pastorale. Concetto centrale dell’allocuzione fu considerare la famiglia cristiana, sulla scia degli insegnamenti conciliari, come «Chiesa Blocco per gli appunti utilizzato da Giovanni Paolo I durante il pontificato. Al primo posto la «visita ai cardinali anziani».

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PAPA LUCIANI

domestica», che si costruisce nella preghiera e nella spiritualità. In questa udienza, per la prima volta dopo un discorso ufficiale, il Papa invitava i presuli a rivolgergli domande, i quali rimasero stupiti per la novità. Uno di loro gli chiese una testimonianza sulla sua esperienza pastorale a Vittorio Veneto e Venezia. Appoggiandosi come interprete a mons. Anthony Francis Mestice, vescovo ausiliare di New York, il Papa parlò di quanto richiesto e concluse: «Per noi vescovi, vale più l’incontro personale con la gente, che i nostri grandi discorsi». Parole che furono accolte con un applauso dai presenti. Ma è soprattutto incisivo quanto disse al Sacro Collegio nell’udienza del 30 agosto: «I vescovi devono pensare anche alla Chiesa universale. Parecchi di voi siete presidenti di Conferenze episcopali, dietro voi vedo i vostri vescovi, le Conferenze, che nel clima instaurato dal Concilio devono dare forte appoggio al Papa… dalle stesse diocesi lontane può venir qualche aiuto alla stessa Roma. Ecco, questo è vero, però oggi c’è un gran bisogno che il mondo ci veda uniti… Abbiate pietà del povero papa nuovo, che veramente non aspettava di salire a questo posto. Cercate di aiutarlo e cerchiamo insieme di dare al mondo spettacolo di unità, anche sacrificando qualche cosa alle volte; ma noi avremmo tutto da perdere se il mondo non ci vede saldamente uniti».In conclusione, l’ecclesiologia lucianea si collocava nella ferma e corretta “medietas” tra l’istanza collegiale e quella primaziale. Pare francamente azzardata l’ipotesi di certa pubblicistica per cui Luciani avrebbe immaginato un nuovo consiglio elettivo di vescovi «per la soluzione dei problemi di carattere straordinario»: infatti l’istituto sinodale era già stato avviato e consolidato da Paolo VI! Nondimeno nei primi discorsi del pontificato è forte il richiamo alla collegialità episcopale, che lasciava presagire una riforma della Curia romana come organismo di servizio alla comunione tra i vescovi e non come struttura “super episcopos”. La stessa infallibilità del Papa, capo e membro del collegio episcopale, nel magistero di papa Luciani non risulta mai separata dalla Chiesa, ma è servizio di tutela alla comunione ecclesiale e all’unità nella fede e nella dottrina.


Il Papa saluta la folla all’Angelus del 27 agosto 1978.

26 agosto 1978. Dopo la prima benedizione “Urbi et orbi”.


La ricerca dell’unità L’incontro ecumenico di Giovanni Paolo I con il Metropolita ortodosso russo Nikodim Il 5 settembre del 1978, durante un incontro con Giovanni Paolo I, moriva improvvisamente il metropolita della Chiesa ortodossa russa Nikodim di Leningrado, una delle personalità più significative della storia dell’ecumenismo. A fare da interprete di russo per il Papa era stato il gesuita Miguel Arranz, rinomato liturgista, già docente a Mosca e Pietroburgo e fino alla sua morte, avvenuta il 16 luglio 2008, al Russicum di Roma, il Pontificio istituto orientale. Nell’intervista qui riportata, che il gesuita concesse al mensile internazionale «30Giorni nella Chiesa e nel mondo» e pubblicata nel numero di giugno del 2006, Arranz descrive quella circostanza evidenziando un’altro aspetto delle priorità in cantiere nel breve pontificato di Luciani: la sensibilità ecumenica del successore di Paolo VI maturata nel Concilio Vaticano II e la volontà di seguirne gli orientamenti nella ricerca dell’unità della Chiesa. Intervista con Miguel Arranz di Stefania Falasca La mattina del 5 settembre 1978 fa moriva improvvisamente tra le braccia di Giovanni Paolo I il metropolita della Chiesa ortodossa russa Nikodim di Leningrado e Novgorod. Aveva solo 49 anni. Con lui moriva una delle personalità più illustri dell’ortodossia ma soprattutto una delle figure più significative della storia dell’ecumenismo. Una sensibilità ecumenica, la sua, che lo aveva portato a stringere i contatti con la Chiesa cattolica e a varcare più volte la soglia del Vaticano per incontrare il Pontefice romano in quello scorcio postconciliare tra gli anni Sessanta e Settanta, quando ecumenismo e politica incrociavano spesso i loro cammini. Ad accompagnare il metropolita Nikodim a quegli incontri e a fare da interprete di russo per il Papa era stato il gesuita spagnolo Miguel Arranz, allora vicerettore del Russicum e che Nikodim non aveva tardato a chiamare in Russia per tenere corsi di teologia presso l’Accademia teologica di San Pietroburgo. Nei suoi ricordi di veterano dell’ecumenismo ormai in pensione, proprio quella stagione postconciliare appare oggi a padre Arranz come una promessa non mantenuta: «Senza proclami, il ruolo del successore di Pietro veniva allora riconosciuto nei fatti dai vescovi d’Oriente. I loro viaggi a Roma erano vere visite ad limina Petri. I regimi li pressavano e loro venivano dal Papa con la fiducia di figli, figli di una Chiesa sorella. Forse il legame del successore di Pietro con i cristiani di quelle terre avrebbe trovato la sua via per affermarsi. Forse era tutta un’illusione, ma il ritorno all’unità in certi momenti sembrava così facile...». Nella galleria personale delle occasioni perdute, dei presagi, di ciò che poteva essere e non è stato, Arranz mette anche le parole che Nikodim disse a Giovanni Paolo I, e che lui stesso tradusse per il Papa, quella mattina del 5 settembre 1978. Luciani stesso accennò in pubblico a quella conversazione. «Due giorni fa» disse il Papa «è morto tra le mie braccia il metropolita Nikodim di Pietroburgo. Io stavo rispondendo al suo indirizzo. Vi assicuro che in vita mia mai avevo sentito parole così belle per la Chiesa come quelle da lui pronunciate. Non posso ripeterle, resta un segreto». Un segreto che l’interprete Arranz conosce. Con lui, per la prima volta, torniamo a calarci dentro la cronaca di quei giorni e di quella tragica mattina. Padre Arranz, lei ebbe modo di incontrare a Roma il metropolita Nikodim subito dopo la morte di Paolo VI? MIGUEL ARRANZ: Sì. Nikodim era venuto a Roma per le esequie di Paolo VI. E dopo aver celebrato nella Basilica di San Pietro un ufficio funebre al quale parteciparono molti rappresentanti della gerarchia della Chiesa cattolica, gli dissi che il generale dei Gesuiti padre Arrupe gli avrebbe offerto ospitalità a Villa Cavalletti a Frascati, dove sarebbe stato suo ospite personale. Nikodim rimase così a Villa Cavalletti per tutto il mese di agosto fino all’elezione del nuovo pontefice. Il metropolita fu dunque presente al momento dell’elezione di Luciani… ARRANZ: No. Non fu presente a quel momento. Venne a Roma il giorno seguente, il 27 agosto, e io lo accompagnai al primo discorso domenicale del nuovo Papa, prima dell’Angelus. Che cosa ricorda di quella circostanza? ARRANZ: Ricordo un piccolo episodio. Stavamo andando verso piazza San Pietro nel momento in cui lungo via della Conciliazione passavano le macchine dei conclavisti che quella notte erano rimasti in Vaticano, e a un certo punto una di queste macchine si fermò proprio davanti a noi. Era quella del cardinale Willebrands, allora presidente del Segretariato per l’unione dei cristiani. Willebrands scese dalla macchina e rivolgendosi al metropolita Nikodim cominciò a esclamare: «È stato lo Spirito Santo! Lo Spirito Santo!…». S’immagini… un uomo razionale, freddo come il ghiaccio come il cardinal Willebrands che esce dalla macchina esclamando a quel modo! Nikodim rimase immobile… Mi guardò con aria interrogativa come per dire: “Mah!…”. Andammo avanti e arrivati in piazza San Pietro ci spingemmo fin quasi sotto il balcone. Quando papa Luciani s’affacciò alla finestra, incominciai a tradurre a Nikodim quello che diceva.


E quali furono i primi commenti del metropolita? ARRANZ: Quando papa Luciani cominciò a dire: «Ieri mattina io sono andato a votare… mai avrei immaginato…», vidi Nikodim sorpreso, molto sorpreso da questo linguaggio decisamente inusuale per un papa. Avevo anche qualche difficoltà a tradurre, a rendere quelle espressioni in russo, e Nikodim attentissimo non faceva che farsi ripetere e chiedere: «Come come?», e a ogni frase di nuovo: «Come come?». Nei due giorni che seguirono volle andare a Torino per venerare la Sacra Sindone. Quando tornò mi chiese di accompagnarlo da Casaroli. Per quale motivo voleva incontrarlo? ARRANZ: Per chiedere un’udienza con il nuovo Pontefice. Monsignor Agostino Casaroli, a quel tempo, era presidente della Commissione per la Russia. Ma era già prevista per il 5 settembre l’udienza delle delegazioni orientali… ARRANZ: Sì. Ma secondo il protocollo si trattava delle usuali visite di omaggio e di congedo che ogni delegazione doveva porgere al nuovo Pontefice dopo la sua intronizzazione. Non erano previsti per quell’occasione colloqui privati con le delegazioni. Il metropolita Nikodim voleva invece parlare con il Papa in forma riservata. Chiedeva un’udienza fuori del protocollo, approfittando dell’incontro con le delegazioni. E insistette molto con Casaroli per avere questa possibilità. Espresse delle motivazioni per questo? ARRANZ: Espresse a Casaroli l’urgenza di questa sua richiesta. E la possibilità gli venne subito accordata? ARRANZ: La conferma di poter parlare con il Papa, Nikodim l’ebbe il giorno dopo l’intronizzazione di Luciani, il giorno 4 settembre, lunedì. Così il 4 settembre Nikodim si trasferì al Collegio Russicum e rimase lì anche la notte, dovendo la mattina seguente recarsi dal Papa... ARRANZ: Esattamente. Ricordo che nel pomeriggio andò a trovare il cardinale Slipyi. Si ritirò poi presto nella sua camera sapendo che il giorno seguente l’aspettava una giornata intensa e importante. Lei lo rivide il giorno dell’udienza… ARRANZ: La partenza dal Russicum per andare all’udienza papale era prevista alle ore 8.20. Quando però al mattino presto arrivai al Collegio, trovai Nikodim sconvolto. Mi disse che non aveva dormito. In casa c’era un caldo afoso… si era sentito affogare. Il suo segretario, l’archimandrita Lev, alle sette gli aveva controllato la pressione. Cominciò subito a prendere nitroglicerina avendo problemi con il cuore. Inoltre durante la notte gli avevano rubato la macchina che era stata messa a sua disposizione per recarsi in Vaticano. Questo fatto lo aveva agitato. Cercai di tranquillizzarlo un po’. Uscendo dal Russicum mi disse: «Padre Miguel, quando una giornata inizia molto male finisce bene…». Difatti… alle 11 non c’era più. Dal Russicum dunque vi siete subito diretti in Vaticano… ARRANZ: Non subito. Dal Russicum siamo andati alla Casa del clero, dove era previsto il raduno delle delegazioni ecclesiastiche che dovevano recarsi all’udienza papale. Nikodim scese con difficoltà dalla macchina. Quando il padre gesuita John Long gli domandò se avesse bisogno di aiuto, chiese solo di non andare troppo in fretta. Ma anche lì ci fu un altro momento che causò scompiglio e preoccupazione. Alle nove il padre Long comunicò alle delegazioni i numeri delle automobili secondo l’ordine con cui dovevano proseguire per il Vaticano. Nikodim, l’archimandrita Lev e io andammo insieme verso la macchina a noi destinata. Pioveva a dirotto. Si fece una certa confusione e il risultato fu che tutti e tre ci ritrovammo in automobili diverse. Nikodim finì in quella che trasportava la delegazione bulgara. S’immagini la sua preoccupazione… Ci avrebbe ritrovato in tempo? Sapendo che aveva quel privilegio di incontrare il Papa per primo… E riusciste poi a ritrovarvi? ARRANZ: Sì, per fortuna. Il momento dell’udienza non era ancora arrivato e così ci condussero in un’aula d’attesa. Ricordo che gli dissi qualcosa a proposito dell’aula che ci accoglieva e dei quadri che vi si trovavano, ma la sua mente evidentemente in quel momento era in altri pensieri. Entrò quindi l’arcivescovo Martin, prefetto della Casa pontificia, per accompagnarci Giovanni Paolo I con il metropolita Nikodim e il cardinale Willebrands, il 5 settembre 1978 nella Sala della biblioteca, dove doveva svolgersi l’udienza. Prima di entrare Nikodim mi consegnò la fiala con la nitroglicerina e mi disse: «La tenga aperta può essere utile». Chi era presente all’incontro? ARRANZ: Il cardinal Willebrands e io. Ci racconti come si svolse… ARRANZ: Giovanni Paolo I entrando andò subito incontro al metropolita, sorridendo. Lo salutò con molta cordialità. Nikodim porse al capo della Chiesa cattolica romana i cordiali saluti da parte del patriarca di Mosca, Pimen, del Sinodo e di tutta la Chiesa ortodossa russa, augurando al nuovo Papa molti anni di pontificato. Gli espresse la grande speranza che i rapporti fraterni fra le due Chiese, iniziati così bene nel tempo del pontificato di Giovanni XXIII e continuati con Paolo VI, potessero proseguire verso una sempre più profonda comprensione reciproca,


Interno della Basilica di San Pietro.



per la comune opera delle due Chiese in favore della pace. Il Papa lo ringraziò per i saluti e gli auguri e chiese al metropolita di trasmettere da parte sua al patriarca Pimen gli auguri di un lavoro fruttuoso per il bene della Chiesa ortodossa russa. Gli disse che aveva sempre seguito con grande interesse la sua attività ecumenica ed espresse anche il desiderio che questa opera venisse continuata. Dopo queste parole si sedettero per un colloquio riservato. Il colloquio privato fu breve? ARRANZ: Durò un quarto d’ora circa. Che cosa disse il metropolita Nikodim a papa Luciani? ARRANZ: Questo non si può dire, è segreto. Ma le sue parole venivano da un sentimento di totale fiducia. Come si va da un padre. Così come lo aveva visto fare con Paolo VI? ARRANZ: Sì. Ricordo anche che parlava a bassa voce a papa Luciani; in certi momenti, anzi, abbassava ancora di più il tono, come per proteggersi da orecchi indiscreti. Voleva che nessuno ascoltasse. E poi che cosa avvenne? ARRANZ: Terminato il colloquio fu invitato a entrare l’archimandrita Lev. Nikodim lo presentò al Papa. Dissi al Santo Padre che Lev studiava a Roma, alla Gregoriana, e che parlava italiano. Il Papa allora, stando in piedi, cominciò con l’archimandrita una conversazione riguardo a suoi studi. Anche Nikodim rimase in piedi accanto a lui. A un certo punto, quando la conversazione con Lev era ormai giunta a conclusione, Nikodim senza dire niente si sedette, e, nel sedersi, si chinò in avanti, in modo composto, elegante, come in un inchino, un grande inchino… tanto che lì per lì mi meravigliai; sapendo quanto lui fosse rispettoso del protocollo, pensai a un gesto di ossequio… Si accasciò ai piedi del Papa. Cercammo di risollevarlo. Anche il Papa si piegò su di lui cercando di sostenerlo. In quel convulso momento papa Luciani non si rese subito conto di cosa stesse succedendo. Gli dissi che soffriva di cuore, mentre l’archimandrita Lev, che era corso fuori a prendere la valigetta delle medicine, tentò di praticargli un’iniezione di cardiotonico senza risultato. Gli occhi di Nikodim erano rimasti un po’ aperti. Mormorai allora al Santo Padre: «Gli dia l’assoluzione…». Il Papa s’inginocchiò e, in latino, gli impartì l’assoluzione. Il medico entrato poco dopo non poté far altro che constatare la morte di Nikodim. E Luciani che cosa disse, cosa fece dopo quel drammatico momento? ARRANZ: Era sconcertato… «Mio Dio, mio Dio, anche questo mi doveva capitare», ripeteva, e al momento rimase veramente smarrito, tanto che, arrivato il medico, mentre Nikodim si trovava disteso per terra, raccolse dal pavimento uno per uno i granuli di nitroglicerina che nel trambusto mi erano caduti a terra. Me li porse sul palmo della mano… Gli dissi: «Santità, non servono più ormai...». Rivide più tardi il Papa? ARRANZ: Il Papa lasciò la biblioteca per andare a ricevere le altre delegazioni che attendevano in fila. Ma dopo che il corpo di Nikodim fu trasferito in un’altra aula, venni nuovamente chiamato a fare da interprete per il saluto della delegazione bulgara. Mi ritrovai così ancora una volta accanto a papa Luciani. Il vescovo bulgaro avrebbe dovuto subito presentare i suoi omaggi, ma l’anziano presule ortodosso e il Papa non riuscirono a dirsi niente. Cominciai allora a leggere il testo del discorso che ero stato incaricato di tradurre in italiano. E continuai a leggere. Mentre piangevano, in silenzio. Tutti e due. Senza dirsi una parola. Le spoglie del metropolita furono traslate quella mattina stessa nella chiesa parrocchiale vaticana di Sant’Anna, che


temporaneamente venne messa a disposizione della Chiesa ortodossa russa… ARRANZ: Sì. Ricordo che c’era una grande folla che premeva per entrare. Nikodim era molto popolare fra i romani. Ebbe modo di rincontrare ancora Giovanni Paolo I nei giorni seguenti? ARRANZ: Due giorni dopo, il 7 settembre, quando accompagnai in udienza papale la delegazione russa giunta a Roma per riportare in patria il corpo del metropolita. La delegazione russa fu ricevuta nella stessa aula dove due giorni prima era morto Nikodim. Prima dell’udienza scambiai qualche parola con monsignor Magee. Mi disse che erano due notti che il Santo Padre non dormiva, che era rimasto profondamente colpito da quella morte. Ai membri della delegazione il Papa raccontò gli ultimi minuti della vita di Nikodim, fece anche accenno alle parole dette. A un certo punto il metropolita Juvenalij, inchinatosi, ritrovò su un tappeto il coperchio della fiala di nitroglicerina che mi doveva essere caduto dalle mani in quei momenti… fece una certa impressione ai presenti. Il metropolita Juvenalij, dopo l’udienza, dichiarò a Radio Vaticana: «Veniamo ora dall’udienza con il papa Giovanni Paolo I. Abbiamo espresso i nostri cordiali sentimenti al nuovo Papa della Chiesa romana cattolica… In particolare abbiamo espresso a Sua Santità la nostra gratitudine per tutto l’amore che ha manifestato nei confronti del metropolita Nikodim, da parte sua e di tutta la Chiesa cattolica». Subito dopo quella morte cominciarono però a diffondersi sospetti. Alcuni russi dissero che Nikodim non era morto, ma aveva scelto di sparire in Vaticano per celare al mondo la sua conversione al credo cattolico. Altri, più tardi, ipotizzarono che il metropolita avrebbe bevuto per sbaglio un caffè avvelenato destinato a Giovanni Paolo I... Lei era al corrente di queste voci? ARRANZ: Ne misero in giro tante, di voci. Secondo altri ancora il vescovo ortodosso avrebbe detto cose che non doveva dire a questo nuovo Papa e un prelato di curia disse anche che da Villa Abamelek, la residenza dell’ambasciata russa da cui si possono vedere le finestre dell’appartamento pontificio, gli agenti del Kgb lo avrebbero colpito a distanza… ARRANZ: Ma quale Villa Abamelek! Tutte fantasie! La salute di Nikodim era seriamente compromessa, da tempo. È noto però che Nikodim non volle mai curarsi in ospedale, lo fece soltanto prima della sua visita a Roma, in Cecoslovacchia, e dopo queste cure le sue condizioni peggiorarono… ARRANZ: Aveva avuto già cinque infarti. Quello che gli stroncò la vita quel giorno era il suo sesto infarto. A distanza di tanti anni da allora, quale impressione le resta di quell’incontro? Avrebbe potuto davvero tracciare la strada verso la piena comunione? ARRANZ: Nikodim non era venuto a dare consigli al Papa. Aveva un forte senso del posto di ognuno nella Chiesa. Nikodim parlò della Chiesa, nel suo insieme, con grande intensità… una visione nuova, papa Luciani non si tirò indietro. Di più, il suo fu un gesto di non paura e al tempo stesso di apertura e semplicità… che un Papa riconoscesse che un non cattolico possa insegnargli qualche cosa e che lo affermasse in quel momento, con quella disarmante spontaneità, anche pubblicamente: «Vi assicuro che in vita mai avevo sentito cose così belle...». Questo è ciò che disse nell’udienza al clero romano del 7 settembre… ARRANZ: Sì. E ribadì di esserne rimasto veramente colpito: «Ortodosso» disse, «ma come ha amato la Chiesa! E credo che abbia sofferto molto per la Chiesa, facendo moltissimo per l’unione». Che cosa più la colpì di quelle parole? ARRANZ: Mi colpì che ripeté per due volte il termine ortodosso… e quell’accento nel ripeterlo… Fu un momento di grazia che passò. Che la Chiesa perse.


STEFANIA FALASCA

«dio è papà,

più ancora è madre» iL «

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papa deLLa misericordia

io è misericordia»; «Dio amore è padre, è madre». «Madre è anche la Chiesa, se è continuatrice di Cristo. Cristo è buono: anche la Chiesa dev’esser buona, dev’esser madre verso di tutti. Nessuno escluso»; «siamo tutti poveri peccatori… ma nessun peccato è troppo grande, nessuno più della misericordia sconfinata del Signore». Sono leit-motiv attualissimi dei quali è costellato il magistero di Papa Luciani, che in calce, nella sua agenda personale del pontificato siglava così l’essere ministri nella Chiesa: «Servi, non padroni della Verità». Albino Luciani aveva infatti assimilato già nella sua formazione sacerdotale quella visione della Chiesa – cara ai Padri del primo millennio – come mysterium lunae: una Chiesa cioè che non brilla di luce propria, ma di luce riflessa; una Chiesa che non è proprietà degli uomini di Chiesa, ma Christi lumen. Ed è, anzitutto, madre. Immagine della natura ecclesiale e dell’agire che le conviene, che aveva irrigato diffusamente i documenti conciliari e che divenne decisiva e feconda nell’iter pastorale di Luciani. Facendosi così apostolo del Concilio – che nell’auspicio di papa Giovanni è stato un «segno della misericordia del Signore sopra la Sua Chiesa» – egli lo aveva incarnato soprattutto nel concepire la prossimità della Chiesa al popolo di Dio, nell’essere propter homines. Prossimità che egli mostrò durante il suo breve, ma intenso pontificato, evidenziandosi particolarmente nel registro linguistico adottato per le allocuzioni e le catechesi nella ricerca della semplicità nelle parole, affinché il messaggio salvifico della misericordia di Dio potesse giungere a tutti. Prossimità, umiltà, semplicità e insistenza sulla misericordia e sulla tenerezza di Dio sono i tratti salienti di un magistero petrino che affonda le sue radici nella genuina Tradizione della Chiesa e che quarant’anni fa, attraverso le parole e gesti di un Papa che in modo inaudito non esitò a definirsi un «povero Cristo», suscitarono attrattiva nel popolo di Dio. E sono gli stessi lineamenti che lo rendono attuale oggi legandolo in filo diretto di continuità con l’attuale Successore di Pietro. Il Servo di Dio Giovanni Paolo I è stato anzitutto testimone dell’amore misericordioso di Dio: è una costante della sua vita, conforme alla sua predicazione. Nella prima omelia pronunciata nel suo paese natale il 6 gennaio 1959 dopo la consacrazione episcopale, Luciani aveva condensato tale costante

testimonianza con un’immagine eloquente: «Io sono il piccolo di una volta, io sono colui che viene dai campi, io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto la dignità episcopale… se qualche cosa mai di bene salterà fuori da tutto questo, sia ben chiaro fin da adesso: è solo frutto della bontà, della grazia, della misericordia del Signore». Il continuo riferimento alla natura del cuore di Dio che è amore, amore che richiama le viscere materne e che ci precede trova oggi accenti peculiari e riscontro speculare in consonanze profonde con la predicazione di papa Francesco. Se il Pontefice argentino non ha conosciuto direttamente il suo predecessore di origini venete, egli ha dimostrato tuttavia di esserne stato attento lettore degli scritti, non solamente elargendo personalmente suggerimenti alla scrivente per la preparazione della tesi di dottorato su Illustrissimi. La sintonia di Papa Bergoglio con Papa Luciani si documenta nel Il nome di Dio è misericordia, testo breve nel quale le citazioni riguardanti la misericordia tratte dai pronunciamenti di Giovanni Paolo I ricorrono ben cinque volte. «L’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia – scandisce Papa Francesco – tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti; nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia». La Chiesa – ripete Francesco – esiste solo come strumento per comunicare agli uomini il disegno misericordioso di Dio. Se non svolge questa funzione, ogni iniziativa ecclesiale finisce per ostacolare e tradire la missione affidata da Cristo agli apostoli». In questa prospettiva si esplicano le affinità elettive con il magistero lucianeo. Per entrambi i Pontefici l’esperienza vissuta del perdono e dell’amore di Dio segna profondamente l’esistenza e la missione. Per entrambi dunque la misericordia è rimessa al centro del messaggio in quanto sostanza stessa del Vangelo, in quanto espressione dell’onnipotenza di Dio, in quanto dinamismo proprio e imparagonabile dell’esperienza cristiana: senza misericordia non c’è cristianesimo, perché tutta la storia della salvezza non è altro che la manifestazione storica dell’amore di Dio per le sue creature. Nel volume Historia salutis. Il buon Samaritano – trascrizione di un corso di esercizi spirituali dettato ai sacerdoti nel 1965 e pubblicato postumo – l’allora vescovo di Vittorio Veneto, con accenti del tutto


«DIO È PAPÀ, PIÙ ANCORA È MADRE» IL PAPA DELLA MISERICORDIA

similari a quelli dell’attuale Pontefice, espresse questo aspetto centrale del messaggio cristiano. Scrive: «La misericordia di Dio è la base. È buono il Signore. Quale sia la bontà del Signore lo dice il Vangelo, dove il Signore si lascia chiamare amico dei pubblicani. Leggete san Luca. E in quale grado sia amico, lo dice lui stesso esponendo qual è la sua logica, il suo sistema di amicizia. Dice: Io sono fatto così, che se ho cento anime e una sola va per le strade storte, lascio le novantanove al sicuro, corro dietro solo a quella e non ho pace finché non la ritrovo e la porto a casa e facciamo una grande festa. In cielo si fa più festa per un solo peccatore che ha fatto penitenza, che non per novantanove giusti che se ne stanno lì tutti quieti. Questo è il mio sistema». «Così – afferma ancora Luciani – sono stati cercati da lui, e trovati e salvati, la samaritana, Maddalena, Zaccheo e il Buon ladrone. Era talmente buono con la povera gente, con i peccatori, che questi si sentivano sollevati, gli erano sempre attorno, pendevano dalle

sue labbra. Tra le critiche e i rimproveri dei farisei, dei dottori della legge che una volta hanno detto ai suoi discepoli: “Questo è troppo”. Gesù ha sentito e ha risposto: Non è troppo. Volete farmi un piacere? Cercate nella Scrittura e trovate quelle parole: misericordiam volo et non sacrificium, e spiegatemele. Non è così che devo fare? Sono un medico: devo andare in cerca di chi, dei sani? No, dei malati. È venuto il Figlio dell’uomo a cercare e a salvare ciò che era perduto. È il mio mestiere, la mia professione, non ho altri mestieri, io». Non meraviglia pertanto che sia negli scritti quanto nella predicazione feriale tutte le parole dei profeti siano lette da Luciani come appello pieno di amorevolezza che ricerca la nostra conversione. E con insistenza non dissimile da quella dell’attuale Pontefice, i confessionali sono indicati costantemente come il luogo dove si può fare esperienza dell’abbraccio di Dio, come sacramento di guarigione. Diverse volte dal canonista gesuita Felice Cappello,

2 settembre 1978: udienza con i familiari.

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Appunti autografi di papa Luciani in preparazione all’ultima udienza generale del 27 settembre, dedicata alla carità.

suo parente e dirimpettaio di confessionale negli anni trascorsi come cappellano ad Agordo, il giovane sacerdote Albino Luciani aveva ascoltato questa raccomandazione: «Sermo brevis et rudis. Nei pareri e nelle decisioni tuttavia non si usi mai la severità. Il Signore non la vuole. Si dia sempre la soluzione che permetta alle anime di respirare». È l’insegnamento dei grandi santi confessori. Quanto poi la vicinanza di questo profondo conoscitore della dottrina ferma e dei saldi principi, che al confessionale affidava tutto alla grazia di Dio, abbia lasciato un’impronta nel futuro Giovanni Paolo I, e quanto quel periodo sia stato importante per la sua formazione, lo dirà egli stesso, due mesi prima di salire al soglio di Pietro. Il 29 giugno 1978, l’ultima volta che egli fece ritorno ad Agordo, durante l’omelia nella chiesa che lo aveva visto cappellano, ricordando quegli anni come i più intensi per il molto tempo passato in confessionale egli ribadì ciò che più frequentemente aveva ripetuto da allora: «Come sbagliano, come sbagliano quelli che non sperano! Giuda ha fatto un grosso sproprosito, poveretto, il giorno in cui vendette Cristo per trenta denari, ma ne ha fatto uno molto più grosso quando pensò che il suo peccato fosse troppo grande per essere perdonato. Nessun peccato è troppo grande, nessuno! Nessuno più della Sua sconfinata misericordia!». Sul modello del “confessore di Roma”, il gesuita padre Felice Cappello e ancor prima di san Leopoldo

Mandic, dal quale era stato confessato negli anni giovanili in seminario, Luciani aveva dunque più volte richiamato ai fedeli: «Nessun peccato è troppo grande: una miseria finita, per quanto enorme, potrà sempre essere coperta da una misericordia infinita. E non è mai troppo tardi… E non deve spaventare un eventuale passato burrascoso. Le burrasche, che furono male nel passato, diventano bene nel presente se spingono a rimediare, a cambiare; diventano gioiello, se donate a Dio per procurargli la consolazione di perdonarle». Se pertanto il motivo della viscerale tenerezza di Dio venne espresso in tutta la sua originale pienezza nella prima omelia tenuta a Venezia, dove il Servo di Dio aveva affermato: «Dio è madre e tale madre, nei nostri confronti, che mai, a nessun patto, dimenticherà il frutto del proprio seno (cf. Is 49,15)», il medesimo motivo torna nella celebre espressione pronunciata all’Angelus domenicale del 10 settembre 1978: «Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra ci sia notte. È papà, più ancora è madre»; esprimendo così il paterno amore materno di Dio, che è stato orizzonte della sua riflessione nel suo trentennale insegnamento della teologia dogmatica. Nell’ultima udienza generale sulla carità, il 27 settembre, Giovanni Paolo I ha ripreso e sintetizzato tutto il suo magistero. I passaggi sull’amore di Dio e


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sull’amore del prossimo sono anche i più eloquenti di un indirizzo stesso di riforma della Chiesa, che nel breve spazio del suo pontificato può dirsi compiuta come “riforma dell’amore”. Riprendendo il De Trinitate di sant’Agostino egli spiegava che i due comandamenti non possono sussistere l’uno senza l’altro, perché l’amore del prossimo praticato con la radicalità richiesta da Gesù non è possibile senza la forza che proviene dall’amore di Dio: «Qui, come Gesù vengono congiunti i due amori: amor di Dio, amor del prossimo. I francesi dicono: Ceux-ci sont des frères jumeaux, sono come gemelli questi amori, vanno insieme. Dio ha voluto così. Alla fine saremo giudicati su questi. Gesù ha detto quali sono le domande che ci farà: Avevo fame nella persona dei miei fratelli più piccoli, mi ha dai dato da mangiare? Ero ammalato, prigioniero sei venuto a visitarmi? Queste sono le domande. E qui dovremo dare le risposte». Luciani si sofferma sulle opere di misericordia corporali e spirituali che la Chiesa riprende dalla Bibbia. «Non sono complete, bisognerebbe aggiornale – commenta in udienza – Oggi non si tratta più solo di questo o quell’individuo, sono interi popoli che hanno fame» e citando la Populorum Progressio di Paolo VI chiama a rispondere a questo «grido d’angoscia, con amore al proprio fratello». «Sono parole gravi – afferma ancora a braccio, senza che il suo pronunciamento sia poi riportato nel testo ufficiale – alla luce di

queste parole non solo le nazioni, ma anche tutti noi, specialmente noi di Chiesa dobbiamo chiederci: Abbiamo veramente compiuto il precetto di Gesù che ha detto: “Ama il prossimo tuo come te stesso?”». L’amore del prossimo e il perdono sono infine anche al centro dell’ultimo Angelus del 24 settembre che prende spunto dalla cronaca di atti violenza, compiuti in quei giorni in Italia. «La regola d’oro» viene qui espressa in tutta la sua valenza e attuale urgenza da Luciani: «La regola d’oro di Cristo è stata: non fare agli altri quello che non vuoi fatto a te. Fare agli altri quello che vuoi fatto a te. “Impara da me che sono mite e umile di cuore”. E lui ha dato l’esempio. Messo in croce, non solo ha perdonato ai suoi crocefissori, ma li ha scusati. Ha detto: “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Questo è cristianesimo, questi sarebbero sentimenti che messi in pratica aiuterebbero tanto la società». Con il riferimento alle monache martiri di Compiègnie ha voluto quindi chiudere il suo ultimo Angelus: «L’amore sarà sempre vittorioso, “l’amore può tutto”. Ecco la parola giusta, non la violenza può tutto, ma l’amore può tutto». Il contrappunto trova riscontro nei suoi appunti personali nella richiesta di grazia che «una nuova ondata di amore verso il prossimo pervada questo povero mondo». Le pagine autografe della sua agenda si fermano qui: «Che io vi ami sempre più». Sono in calce le ultime sue parole.


Nessuna Rivelazione L’incontro con suor Lucia in un appunto di mons. Mario Senigaglia, ex segretario a Venezia del Patriarca Luciani Dal sabato 9 luglio a lunedì 11 luglio 1977 il patriarca Luciani si recò in pellegrinaggio a Fatima. Era questo uno dei consueti pellegrinaggi che ogni anno venivano organizzati dalla Chiesa veneziana. Ogni anno, infatti, a Venezia, il padre gesuita Leandro Tiveron, che era anche il confessore di Luciani, organizzava un pellegrinaggio in qualche santuario mariano. E quell’anno decise per Fatima. Luciani era già stato a Lourdes diverse volte con l’UNITALSI. A Fatima, invece, non era mai stato. Il padre Tiveron gli propose allora di andare e lui accettò. Così il patriarca si unì alla comitiva di pellegrini, una cinquantina circa. Il 10 luglio visitarono il santuario e parteciparono alla celebrazione eucaristica a Fatima. E il giorno seguente si spostarono a Coimbra, per assistere alla messa nel convento delle suore carmelitane. A proporre la tappa al monastero di clausura di Coimbra fu una nobildonna veneziana, la marchesa Olga Morosini de Cadaval, che aveva legami con il convento. La marchesa de Cadaval era una mia parrocchiana. Abitava a due passi dalla chiesa di Santo Stefano e ogni giorno, al mattino presto, veniva a messa in parrocchia. Così ebbi modo di conoscerla. La nobildonna era sposata a un portoghese, tenutario del sud. Era una donna di elevata cultura e sensibilità ma anche di profonda pietà, e durante le sue permanenze in Portogallo si adoperava come crocerossina al santuario di Fatima, divenendo ben presto anche benefattrice del convento di Coimbra. Lì ebbe modo di conoscere anche suor Lucia, con la quale instaurò uno stretto rapporto di fiducia. Per anni fu sua collaboratrice. Assisteva suor Lucia nelle traduzioni della corrispondenza. Durante la guerra, ebbe per- sino l’incarico di portare personalmente, e spesso a memoria, messaggi a Pio XII e messaggi di questi a suor Lucia. Pacelli conosceva la marchesa fin dagli anni della sua giovinezza. La Cadaval, infatti, aveva frequentato l’università a Roma ed era in buone relazioni con la famiglia del futuro Pontefice. Si trovò così a svolgere anche il ruolo di trait d’union tra suor Lucia e il Papa. Nel 1977 era anziana ormai, avrà avuto più di una settantina di anni. Il patriarca Luciani non la conosceva personalmente, ma l’aveva vista in qualche occasione a Venezia. Fu dunque iniziativa della Cadaval l’idea di far conoscere il patriarca Luciani a suor Lucia, in occasione del pellegrinaggio e lei fu presente all’incontro. L’idea venne in una di quelle mattine, quando, dopo la messa in parrocchia a Santo Stefano, parlando con la Cadaval del pellegrinaggio che era stato organizzato per luglio a Fatima, la marchesa disse: «Se dovesse venire il patriarca, avrei tanto piacere di presentarlo, con l’occa- sione, a suor Lucia». Le risposi: «Se le fa piacere... provi a chiederglielo...». «Guardi però», aggiunsi anche, «che se lei fa presente al patriarca questa possibilità, prima di partire, è probabile che le dica di no». Luciani, infatti, era sempre discreto e restio a queste cose. Attento a non dare mai incomodo a nessuno. E, «di sicuro», dissi alla Cadaval, conoscendolo, «se lei glielo chiede prima, obietterà che staccarsi dai pel- legrini non sarebbe opportuno, che farebbe perdere del tempo... Ma se glielo dice stando lì, all’ultimo, allora... può darsi che alla fine per un saluto accetti». E così organizzò tutto, in accordo col padre Tiveron. L’incontro si svolse come segue. La Cadaval si trovava già al monastero quando arrivarono i pellegrini e aveva informato suor Lucia della presenza del patriarca Luciani. Venuto il momento, al termine della celebrazione eucaristica, disse al patriarca che suor Lucia avrebbe avuto pia- cere di salutarlo. Il patriarca ovviamente non sapeva di questa regia e pensando che l’iniziativa di salutarlo venisse direttamente da suor Lucia, insieme alla priora del convento entrarono in clausura. La Cadaval lo accompagnò da suor Lucia e restò con loro. Visto poi che Luciani riusciva a capire abbastanza bene il portoghese, si fece in disparte, e finito il colloquio lo riaccompagnò dove lo aspettava il segretario don Diego Lorenzi per andare a pranzo con gli altri. Né Luciani (per il quale un tempo lungo poteva essere già mezz’ora) né la Cadaval mi hanno mai rilevato il tempo in cui rimasero in conversazione come qualcosa di eccezionale. So che raggiunse poi gli altri al ristorante e che dopo il pranzo, con la macchina messa a disposizione dalla Cadaval, tornò a Lisbona per poi rientrare a Venezia, dove aveva altri impegni. Al ritorno da quel pellegrinaggio ebbi modo di incontrare il patriarca. Ricordo che entrai nel suo studio e mi disse: «Siediti». Questo significava che era in vena di raccontare. Mi parlò del viaggio, del clima di autentica preghiera e dei gesti di penitenza commoventi che aveva visto a Fatima. Dei pellegrini che avevano fatto un lungo tragitto a piedi nudi sui sassi nella spianada, sotto il sole, e delle pie donne che all’occorenza medicavano, all’arrivo, i piedi di quei pellegrini. Parlammo allora della differenza con Lourdes e poi ancora di queste diverse forme di pietà, e andando avanti nel discorso, a un certo punto, gli chiesi di Coimbra: «So che è stato lì e ha avuto modo anche di incontrare suor Lucia...». E lui: «Sì, sì l’ho vista... Ah! sta benedeta mónega», mi disse, «mi ha preso le mani tra le sue e ha cominciato a parlare... informatissima sui problemi della Chiesa... ste benedete móneghe quando cominciano a parlare poi non la finiscono più...». Mi disse però che delle apparizioni non aveva parlato e che lui le chiese solo qualcosa sulla famosa


“danza del sole”. Poi cambiammo discorso, entrando nelle questioni di Venezia. Prima di chiudere l’argomento gli dissi però, essendo allora direttore di Gente Veneta: «Eminenza, perché non ci fa un pezzo su questo incontro?». E lui: «Va bene, volentieri, lo faccio». Ed è quello che poi ha scritto pubblicato il 23 luglio 1977. Nell’articolo scrisse quello che mi aveva accennato e tutto quello che, a riguardo, aveva in animo di dire. Scrisse, non senza il suo fine e abituale humor, del carattere gioviale, del parlare spedito della piccola suora, che con tanta energia e convinzione insisteva sulla necessità di avere oggi suore, preti e cristiani dalla testa ferma, e dell’interesse appassionato che rivelava, parlando, per tutto ciò che riguardava la Chiesa con i suoi problemi acuti. Scrisse poi che le rivelazioni, anche approvate, non sono articoli di fede, che in merito si può pensare quello che si vuole senza far torto alla propria fede, e concluse con quello che sempre ripeteva riguardo al significato di questi luoghi mariani, e cioè: che apparizioni, non apparizioni, messaggi, non messaggi, i santuari sono lì solo per ricordarci l’insegnamento del Vangelo, che è quello di pregare. Sull’argomento con me poi non ritornò più. E, a dire il vero, neanche a me venne la curiosità di chiedere altro su quell’incontro. Anche se le occasioni, volendo, c’erano. Il 26 di quello stesso mese partimmo insieme per il santuario mariano di Pietralba in Alto Adige, come facevamo ogni anno. E vi restammo fino al 5 agosto. Dieci giorni. Ricordo che trascorremmo quei giorni in serenità, facendo lunghe passeggiate in montagna. Rividi la marchesa de Cadaval a Venezia a settembre, in occasione della Biennale. Mi disse che era rimasta contenta per come era andato il pellegrinaggio. Che suor Lucia era rimasta contenta, e che, parlando con lei, dopo quel colloquio, la suora le disse che trovò il patriarca Luciani una bella persona. Tutto qui. Né altro potrebbe essere rivelato in riflessioni e appunti strettamente personali. Il cardinale Luciani, infatti, a differenza del cardinale Urbani, diari intimi non ne teneva. Non era nel suo carattere, nel suo stile questo genere di scritti. Per capire il suo pensiero e l’atteggiamento anche nei confronti dei fatti di Fatima basta vedere quello che pubblica- mente ha detto e scritto. Dei fatti di Fatima aveva già parlato ampiamente, anche nella ricorrenza del settantesimo anniversario delle apparizioni. Ne ripercorse la storia, l’atteggiamento della Chiesa e l’atteggiamento che i fedeli debbono avere nei confronti di questi fatti. Il suo pensiero era improntato a un’estrema cautela che considerava fuori posto anche chi, accettando le apparizioni come vere, le strumentalizza, piegandole a servire scopi politici o similari, estranei alle apparizioni stesse. Questi scritti dicono del suo modo di misurare e giudicare gli eventi, e anche del suo modo d’essere, di rapportarsi a questi, che è quello di un uomo impermeabile alle suggestioni, estremamente equilibrato, volto all’essenziale e che osserva tutto, non celando anche, a volte, un’ironia fine, acuta, demitizzante. L’anno seguente il pellegrinaggio a Fatima, il patriarca, recandosi in visita a Canale d’Agordo so che ne parlò al fratello. Edoardo riferì le sue impressioni personali subito dopo la morte parlando di un certo turbamento. Il Berto, tuttavia, non sapeva ancora come era andata quella circostanza. E quanto al turbamento non mi stupii pensando che il Patriarca avendo parlato con suor Lucia di problemi della Chiesa, poteva essere tornato, non senza preoccupazione a riflettervi. La Cadaval morì quasi centenaria nel 1997. Vent’anni dopo, dunque, quell’incontro a Coimbra. E fino alla fine rimase lucidissima e attiva. Mai fece allusioni, né mai intuii, dalle sue parole, il minimo accenno a preveggenze, profezie di suor Lucia nei confronti della persona di Luciani. L’anno precedente la morte della Cadaval, nel giugno del 1996, trovandomi a Fatima per gli esercizi spirituali, celebrai anch’io la messa nel convento di Coimbra insieme a un altro sacerdote, e anche a noi, la marchesa, permise di incontrare brevemente suor Lucia. Ci mise persino cortesemente a disposizione la macchina per andare e tornare. Questo per dire dell’amicizia, intercorsa e continuata nel tempo con lei, e di quante occasioni ho avuto, in tutti questi anni dopo la morte di Luciani, per vederla e parlarle, e mai, neppure una volta, mi venne il sospetto di misteriose “rivelazioni profetiche” di suor Lucia al patriarca Luciani.

Luglio 1977: sosta durante il pellegrinaggio a Fatima.

Tratto da: Stefania Falasca, Quell’incontro a Fatima, intervista con Mario Senigaglia, in «30Giorni nella Chiesa e nel mondo», 25 (2007), 1, 72-77.


Nel ricordo dei familiari Con amabile fermezza

di Pia Luciani Ho sempre considerato lo zio Albino come un secondo padre per la sua disponibilità e pazienza, per il suo continuo incoraggiamento di cui mi sentivo gratificata. Sentivo il suo affetto e andavo volentieri a parlare e a consigliarmi con lui. Sapeva vedere i lati positivi delle persone e incoraggiarle. Durante il periodo in cui frequentavo l’università a Roma, credo di non essere mai tornata direttamente a casa senza prima passare dallo zio. Anche dopo la discussione della mia tesi di laurea, la prima tappa era stata in patriarchio a Venezia. Accettavo i suoi inviti, prima al castello di Vittorio Veneto e poi al Palazzo patriarcale di Venezia, perché potevo sempre imparare qualcosa da lui. Aiutava sempre a capire quale era la strada migliore per ogni persona, lasciando spazio ad una libera scelta. Mi piaceva soprattutto il suo modo di insegnare, senza darlo a vedere, parlando di diversi argomenti. Era persona di vasta cultura, amabile e solida e affrontava i problemi e le questioni con molto equilibrio. Aveva un modo positivo di porsi, sapeva apprezzare il bello della natura, dell’arte, dell’amicizia, di un bel film, della musica, anche del sano umorismo. Ricordo ancora la sua risata schietta, mentre assistevamo, l’ultima sera dell’anno, a qualche film di Chaplin, programmato in televisione o ad una delle commedie di Goldoni, che venivano rappresentate nel cortile del Palazzo Ducale, a cui anch’io assistevo, insieme a lui e al segretario don Mario. La mia permanenza a Roma per gli studi universitari coincise con gli anni del Concilio Vaticano II e così potei incontrarlo più di frequente, essendo lui presente per quella circostanza storica. Mi offrì il biglietto per essere presente a due sessioni pubbliche del Concilio, alla cerimonia di chiusura del Concilio stesso ed anche alla celebrazione da parte di Paolo VI della messa nel millennio della conversione della Polonia. Mi diceva: «È un fatto straordinario, di grande portata storica, e di crescita per la Chiesa, e ascoltando ciò che si dice potrai imparare molto». Per lo zio il Concilio è stato un cammino di approfondimento che lo ha portato a rinnovarsi nella fede e si è prodigato nel farne comprendere lo spirito e gli insegnamenti. A me diceva spesso che a Venezia si trovava a stare come in mezzo «a tre Concili», tra sacerdoti che erano nel modo più assoluto attaccati al Vaticano I, altri che andavano decisamente oltre ciò che il Concilio aveva stabilito, e, in ultimo, quelli che erano in sintonia, seguendo in modo corretto le indicazioni del papa. Solitamente era riservato, ma qualche volta a Venezia, nel periodo della contestazione, l’ho sentito esclamare: «Questi benedetti preti del “Vaticano III!”». Non l’ho però mai sentito lamentarsi per il difficile rapporto con alcune persone. Ha accennato una volta a mio padre del rapporto difficile che aveva avuto a Belluno con don Ferdinando Tamis, confidandogli che si chiedeva che cosa gli avesse fatto di male perché questi non gli rivolgesse parola. Lo diceva con dispiacere, senza nessuna acredine. Era attento alle singole persone, si portava a comprendere bene le situazioni in cui veniva a trovarsi o su cui doveva esprimere un parere. Non prendeva mai decisioni affrettate. Era solito studiare bene i problemi, per capire e avere una comprensione profonda delle cose, si documentava e si aggiornava. I suoi scritti erano molto apprezzati. E per la sua finezza e autorevolezza di pensiero godeva della stima dei suoi confratelli nell’episcopato che numerosi passavano in patriarcato. Come pastore agiva confidando senza riserve nell’aiuto di Dio e della Sua Provvidenza e prima di prendere decisioni importanti era solito consultarsi con altri. Non l’ho mai visto scoraggiarsi di fronte alle avversità. Si mostrava sempre sereno e fiducioso. Ricordo che a Vittorio Veneto mi raccontò che nel momento più difficile della vicenda finanziaria, un giorno incontrò imprevista una signora e questa gli consegnò una busta con un’ offerta; quella offerta era la cifra esatta che gli mancava per chiudere i debiti. Lo zio vide in questo episodio un chiaro segno della Provvidenza. È stato sempre estraneo a qualsiasi forma di brama di potere o di carriera. Quando è partito da Venezia per il Conclave, una delle suore mi ha raccontato che lei si era messa a piangere dicendo che non lo avrebbe più rivisto perché lo avrebbero eletto e mi disse che lo zio le rispose: «Ma si può dire di no!». Lo zio però questo non lo avrebbe mai fatto perché da sempre aveva obbedito a quello che gli era stato chiesto. Un giorno mi raccontò che da seminarista pensava che una volta diventato sacerdote sarebbe stato mandato in qualche parrocchia e che avrebbe portato i suoi genitori a stare con lui e mi disse: «Pensavo alla parrocchia di Alleghe, dove il lago e le barche avrebbero potuto far felice la mamma, facendole ricordare il periodo vissuto a Venezia». Ma non poté mai avere questa soddisfazione, perché, dopo i primi incarichi come cappellano, andò professore nel seminario, poi vicario generale, vescovo, patriarca e infine papa. Tutti incarichi di governo. Non fu mai parroco, se non di una diocesi intera e poi del mondo. Ogni volta si trattava di un nuovo passo che non aveva cercato, nonostante fosse consapevole delle sue capacità, ma che accettava con senso di obbedienza, con autentico spirito di servizio e desiderio di fare del bene a tutti, con grande fiducia nella Provvidenza. Per lui quello che contava era il servizio di ognuno nello spirito del Vangelo, che è contrario al sentirsi padroni della verità. Lo vidi per l’ultima volta in Vaticano, non molti giorni prima della sua morte. Avevo concluso il mio annuale corso di aggiornamento presso l’università che avevo frequentato e gli avevo telefonato per salutarlo prima di rientrare a casa. Pranzammo insieme nell’appartamento in Vaticano. Lo trovai bene e amabile come al solito, sereno e deciso nel suo impegno pastorale e ben compreso della responsabilità dei suoi compiti. Ricordo che ad un certo punto, ha interrotto il discorso che stava facendo con me rivolgendosi al secondo segretario don Diego Lorenzi: «Diego, sei andato giù? Hai fatto quello che ti ho chiesto?», lui ha risposto: «Sì, sì, ma non si può» e lo zio ribadì: «Ma come non si può?» «Hanno detto che non è mai stato fatto, perciò non si può fare». Lo zio è rimasto un po’


in silenzio e poi ha detto: «Il fatto che non sia stato mai fatto, non è un buon motivo, non significa che non si possa fare. Domani, per favore, tu andrai giù di nuovo e dirai che devono trovare il modo di farlo. È il Papa che lo vuole e se il Papa lo vuole si deve trovare il modo». Don Diego ha cominciato a riprendere «ma...», lo zio però si è rigirato verso di me ed ha ripreso il discorso interrotto. Non so di che cosa si trattasse, né glielo chiesi. Della sua morte fui avvertita al telefono verso le sei del mattino da don Diego. Noi e il papà subito dopo ci siamo incontrati e abbiamo parlato con suor Vincenza, che con noi è sempre stata premurosa e vicina e ci ha confermato quello che già mi aveva accennato don Diego al telefono, di essere stata lei a vederlo per prima, e questo ci ha rassicurato. Ci disse anche che non c’erano stati problemi, né il giorno precedente, né prima. Suor Vincenza aveva una tale attenzione che le veniva da tanti anni di conoscenza e rispetto dello zio e una confidenza tale con noi da non permettere ombre. Per noi, perciò, da subito non ci sono stati dubbi riguardo la sua morte. Penso che la Curia sia stata poco prudente nel dare informazioni non esatte sul suo rinvenimento, aprendo così la strada alle illazioni. “State tranquilli voi, come sto tranquillo io”

di Lina Petri Nel mese di pontificato il suo comportamento sereno e saggio è rimasto quello di sempre. Nell’incontro con noi familiari, il 2 settembre, ci rassicurò subito dicendo: «Non ho fatto niente per arrivare fin qui. State tranquilli voi come sto tranquillo io». Del resto questo era l’atteggiamento che mostrava abitualmente anche a Venezia, seppure dovette affrontare non pochi problemi nel contesto storico di quegli anni. Tra i tanti episodi che ricordo ne riprendo uno che è per me significativo del suo limpido atteggiamento pastorale. Nell’autunno 1975 passai a salutarlo prima che lui partisse per il viaggio in Brasile. Erano i primi giorni di novembre, uno o due giorni dopo l’uccisione di Pier Paolo Pasolini. Gli telefonò il vescovo di Udine, mons. Alfredo Battisti, per chiedere un consiglio sull’opportunità o meno di celebrarne i funerali religiosi. Le circostanze della morte erano considerate scandalose e a me colpì molto come lo zio valutò la situazione in quei tempi: «La sua condotta di vita lasciamola al giudizio del Signore. Tutti noi, nessuno escluso, abbiamo bisogno della Sua misericordia. Le sue opere artistiche però» mi diceva «parlavano per lui e d’altra parte, in Friuli, da giovane, era stato attaccato alla pratica cristiana, ed era giusto che tornando adesso alla sua terra, la Chiesa lo accogliesse con la sepoltura cristiana». Mi colpì il suo criterio di valutazione che prima di tutto non condannava, ma salvava il buono. Non amava lanciare anatemi. Negli ultimi tempi, quando frequentavo la facoltà di medicina all’università parlò con me più volte anche dell’Humanae Vitae e di quanto era stato difficile per Paolo VI prendere una decisione così impopolare. Mi spiegava che lui aveva studiato molto sull’argomento e aveva sentito e continuava a sentire molte coppie di sposi, che era a conoscenza delle sofferenze e dei problemi di tanti. Diceva che si fidava ed aderiva del tutto alla decisione finale del Papa, ma che bisognava continuare a studiare, a cercare soluzioni anche a livello medico. Parlava di questi argomenti con grande rispetto, ma soprattutto con grande umanità. Mi colpiva in particolare la sua diversità di atteggiamento rispetto all’intransigenza dei tanti “crociati”, sia dell’una che dell’altra sponda. Questo limpido atteggiamento pastorale mi colpiva tante volte nelle cose che mi raccontava. Una volta battezzò in parrocchia il figlio di mia cugina assieme ad altri neonati, uno dei quali figlio di una coppia irregolare. Mi raccontò che c’era imbarazzo e chi mormorava per il fatto che un cardinale battezzasse anche il figlio di una coppia “indegna”. Lui diceva: «Certo, il papà e la mamma non sono per la Chiesa una coppia regolare, ma il figlio non ha colpa e non per questo gli posso io negare la Grazia di Dio. Devo chiedere ai genitori che si impegnino ad educarlo cristianamente e questo lo possono fare, anche nella sofferenza di non essere a posto. Il resto lo lascio alla misericordia di Dio». L’ultimo incontro con lui prima del Conclave lo ebbi a Venezia. Era la sera del 5 agosto 1978 e lui era appena rientrato in patriarcato da alcuni giorni trascorsi agli Alberoni, dove si recava sempre in estate per un po’ di riposo al mare. Verso la fine della cena di quel 5 agosto lo chiamarono al telefono e tornando mi disse di aver avuto notizia che Papa Paolo VI non stava bene. Rimasi a dormire in patriarcato. Al mattino lo zio mi disse di aver saputo da Roma che Paolo VI era peggiorato. Mi salutò con la raccomandazione di pregare per il Papa. Quella fu l’ultima volta che incontrai lo zio Albino da sola. Lo rividi poi nell’udienza ai familiari e negli incontri ufficiali del giorno dopo. E infine fui l’unica della famiglia a vederlo sul letto di morte.


Il 29 settembre mio fratello Roberto mi telefonò da Levico, poco prima delle 7.30 del mattino, dopo che la mamma ebbe la triste notizia della morte dello zio da mia cugina Pia che la chiamava da Canale. Io risiedevo in un collegio dell’Università Cattolica che si trovava presso la Caritas, non lontano dal Vaticano. Una suora del collegio chiamò subito mons. Giovanni Nervo, direttore della Caritas, che abitava nel nostro stesso stabile, e insieme raggiungemmo in autobus il Vaticano. Riuscimmo ad arrivare fino all’appartamento, quando ormai saranno state le 8.15 circa. Padre Magee mi riconobbe e mi fece entrare (la suora e mons. Nervo rimasero fuori), accompagnandomi prima nella cappella, e, poco dopo, nella camera del Papa. Lo zio era disteso sul letto e indossava il suo vestito bianco. Mi dettero una sedia e mi lasciarono ai piedi del letto da sola. Era aperta la porta che comunicava con lo studio (quello della finestra dell’Angelus). Non so dire il tempo che rimasi lì, a me sembrò molto lungo, in realtà forse rimasi una ventina di minuti o poco più. Della stanza ricordo solo che dal punto dove ero seduta vedevo davanti a me sulla sinistra il letto e sulla destra – tra le due finestre ad angolo della stanza – la scrivania, del tutto sgombra da carte o libri: c’erano solo un crocifisso e la fotografia dei miei nonni materni con in braccio mia cugina Pia, la loro prima nipotina. Verso le nove ho sentito nell’altra stanza un po’ di trambusto e di mormorio. Qualcuno mi disse sottovoce che era ora di andare perché era arrivato il Camerlengo e dovevano rivestire lo zio con i paramenti sacri per l’esposizione nella Sala Clementina, e, infatti, entrò in quel momento il card. Villot, costernato e in lacrime. Io sono stata accompagnata in sala da pranzo dalle suore. Qui ho trovato suor Vincenza, una di famiglia per noi. E con lei ho pianto. Soprattutto quando mi ha raccontato che proprio in quei giorni stavano pensando ad una piccola festa per il compleanno dello zio, che sarebbe stato il 17 ottobre, e che lo zio le aveva detto: «So che la Lina è a Roma, dobbiamo invitarla per questa occasione, così impara la strada per venire» (era allora proverbiale in famiglia la mia timidezza…). Suor Vincenza tra i singhiozzi ripeteva: «E pensare che stava bene, di salute si trovava meglio qui a Roma che a Venezia, dove l’umidità non gli giovava. Anche a me diceva sempre: “Suor Vincenza, non è vero che stiamo meglio qui che a Venezia?”». Non ebbi altro tempo di rimanere con lei perché ci fu detto che era ora di scendere ed aspettare che aprissero la Sala Clementina dopo che vi era stata composta la salma. Nella Clementina cominciò l’afflusso dei monsignori di curia. Io ero in un angolo e vicino a me c’era un sacerdote che piangeva a dirotto. Era padre Magee che tra le lacrime mi disse: «Sono stato con lui solo un mese, ma per me è stato come un padre». Mia mamma con mio fratello e mio papà arrivarono quella sera in treno da Trento e alloggiarono nel mio collegio alla Caritas. Una delle sere successive mio zio Berto e mia mamma, con alcuni altri di noi andarono a trovare suor Vincenza all’Istituto Maria Bambina, accanto a piazza San Pietro, dove era momentaneamente alloggiata. Dalla mamma seppi che in quell’in¬contro suor Vincenza li aveva rincuorati, raccontando con sincerità gli ultimi giorni trascorsi nell’appartamento. Era chiaro che nella sua coscienza veniva prima il dovere di dire a noi la verità anche con la confidenza che a trovare lo zio morto era stato chi più gli voleva bene e gli era familiare da anni.

Sabato 2 settembre 1978: l’incontro con i familiari.


Nella memoria dei successori

Giovanni Paolo II …La sua anima si era rivelata tutta, fin dalla prima udienza, quando, parlando del dovere di essere buoni, aveva sottolineato: «Davanti a Dio, la posizione giusta è quella di Abramo, che ha detto: “Sono soltanto polvere e cenere davanti a te, o Signore”. Dobbiamo sentirci piccoli davanti a Dio» (6 settembre, Insegnamenti, p. 49). Troviamo qui la quintessenza dell’insegnamento evangelico, com’è stato proposto da Gesù e compreso dai santi, ai quali il pensiero della paternità di Dio suscita gli echi più profondi dell’anima: pensiamo a un san Francesco d’Assisi, a una santa Teresa di Lisieux. Giovanni Paolo I ha ricordato con insolito vigore l’amore che Dio ha per noi, sue creature, paragonandolo, sulla grande linea del profetismo veterotestamentario, non solo all’amore di un padre, ma alla tenerezza di una madre verso i propri figli: l’ha fatto nell’Angelus del 10 settembre con queste parole che tanto colpirono l’opinione pubblica: «Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. Sappiamo: ha sempre gli occhi aperti su di noi, anche quando sembra che sia notte» (Insegnamenti, p. 61). E nell’udienza generale del 10 settembre: «Dio ha tanta tenerezza verso di noi, più tenerezza di quella che ha una mamma verso i suoi figliuoli, come dice Isaia» (ivi, p. 65; cf. anche udienza generale del 27 settembre; ivi, p. 95). Per questo incrollabile senso di Dio, si comprende come il mio predecessore abbia fatto principale oggetto delle sue catechesi del mercoledì proprio le virtù teologali, che tali sono perché nascono da Dio e di lui sono dono increato e infuso in noi nel battesimo. E sull’insegnamento della carità, la virtù teologale che ha Dio come fonte e principio, come modello e come premio, e che non tramonterà mai più, si è chiusa la pagina terrena di Giovanni Paolo I, o meglio, si è aperta per sempre… Omelia tenuta a Canale d’Agordo il 26 agosto 1979.

Benedetto XVI …Oggi la liturgia ci propone la parabola evangelica dei due figli inviati dal padre a lavorare nella sua vigna. Di questi, uno dice subito sì, ma poi non va; l’altro invece sul momento rifiuta, poi però, pentitosi, asseconda il desiderio paterno. Con questa parabola Gesù ribadisce la sua predilezione per i peccatori che si convertono, e ci insegna che ci vuole umiltà per accogliere il dono della salvezza. Anche San Paolo, nel brano della Lettera ai Filippesi, che quest’oggi meditiamo, ci esorta all’umiltà. «Non fate nulla per rivalità o vanagloria – egli scrive – ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso» (Fil 2, 3). Sono questi gli stessi sentimenti di Cristo, che, spogliatosi della gloria divina per amore nostro, si è fatto uomo e si è abbassato fino a morire crocifisso (cfr. Fil 2,5-8). Il verbo utilizzato – ekenosen – significa letteralmente che Egli “svuotò se stesso” e pone in chiara luce l’umiltà profonda e l’amore infinito di Gesù, il servo umile per eccellenza. Riflettendo su questi testi biblici, ho pensato subito a Papa Giovanni Paolo I, di cui proprio oggi ricorre il trentesimo anniversario della morte. Egli scelse come motto episcopale lo stesso di san Carlo Borromeo: Humilitas. Una parola che sintetizza l’essenziale della vita cristiana e indica l’indispensabile virtù di chi, nella Chiesa, è chiamato al servizio dell’autorità. In una delle quattro udienze generali tenute durante il suo brevissimo pontificato disse tra l’altro, con quel tono familiare che lo contraddistingueva: «Mi limito a raccomandare una virtù tanto cara al Signore, il quale ha detto: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”... Anche se avete


fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili». E osservò: «Invece la tendenza, in noi tutti, è piuttosto al contrario: met- tersi in mostra» (Insegnamenti di Giovanni Paolo I, p. 51-52). L’umiltà può essere considerata il suo testamento spirituale. Grazie proprio a questa virtù, bastarono trentatré giorni perché Papa Luciani entrasse nel cuore della gente. Nei discorsi usava esempi tratti da fatti di vita concreta, dai suoi ricordi di famiglia e dalla saggezza popolare. La sua semplicità era veicolo di un insegnamento solido e ricco, che, grazie al dono di una memoria eccezionale e di una vasta cultura, egli impreziosiva con numerose citazioni di scrittori ecclesiastici e profani. È stato così un impareggiabile catechista, sulle orme di san Pio X, suo conterraneo e predecessore prima sulla Cattedra di San Marco e poi su quella di San Pietro. «Dobbiamo sentirci piccoli davanti a Dio», disse in quella medesima Udienza. E aggiunse: «Non mi vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla mamma: si crede alla mamma, io credo al Signore, a quello che Egli mi ha rivelato» (ivi, p. 49). Queste parole mostrano tutto lo spessore della sua fede. Mentre ringraziamo Dio per averlo donato alla Chiesa e al mondo, facciamo tesoro del suo esempio, impegnandoci a coltivare la sua stessa umiltà, che lo rese capace di parlare a tutti, specialmente ai piccoli e ai cosiddetti lontani… All’Angelus, Palazzo apostolico di Castel Gandolfo, 28 agosto 2008.

Basilica di San Pietro.


Grotte Vaticane.

PAPA LUCIANI

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L’humus montanaro di Albino Luciani di Quirino Bortolato

peccato. E il card. Luciani vi si butta dentro, facendo emergere tutti i sentimenti ed i pensieri del poeta: Arrivato in cima, con non poca fatica, fu tale lo spettacolo panoramico, che si presentò davanti agli occhi ammirati del poeta, che non poté trattenersi dal tirare fuori di tasca le Confessioni di sant’Agostino, che portava sempre con sé. Aprì e volle leggere ai suoi compagni il brano seguente: “Ho interrogato la terra: “Sei tu Dio?” e mi rispose: “Non sono io”. […] né la terra, né il cielo, né quello che è corporale sono il tuo Dio. La loro natura lo dimostra. In una massa la parte è minore del tutto. E tu, tu, o anima, sei la parte migliore, perché tu animi la massa del tuo corpo, dandogli la vita che nessun corpo può dare a un altro corpo. Ora, il tuo Dio per te è anche vita della vita”.

Ph. Valentino Pais Tarsilia

Nella sua formazione sacerdotale, Albino Luciani dedicò una particolare attenzione al mondo della montagna in cui era nato, e da cui aveva avuto origine una sintonia esemplare fra quell’universo naturale e quello della religiosità cattolica. È un sentimento profondo che emerge chiaro nel discorso che recitò il 7 luglio 1974, in occasione del centenario della sezione cadorina del CAI di Auronzo. Dopo essersi dichiarato lieto dell’invito, continuò: Del resto, non è mistero per nessuno che nel 1863, tra i primi a dare il nome al CAI, è stato un santo: san Leonardo Murialdo, torinese, che nel 1864 ripeté brillantemente con suo fratello la scalata al Monviso, la cui cima era stata raggiunta per la prima volta l’anno antecedente da Quintino Sella, uno appunto dei fondatori del CAI. Della sezione del Club alpino di Milano fu invece socio Achille Ratti, con uno “stato di servizio” alpinistico veramente straordinario. Tra le molte imprese del futuro papa, nel settore, fu eccezionale per quei tempi la traversata, da lui compiuta nel 1889, del monte Rosa attraverso il colle Zumstein. I riferimenti alle persone ed ai libri della Chiesa e della letteratura sono sempre presenti in Luciani. In particolare Francesco Petrarca, sul quale si dilunga perché “Per noi italiani un caso antico e classico di turista è il Petrarca che fu anche alpinista e viaggiò il viaggiabile di quei tempi, dentro e fuori d’Italia, «in cerca di cari luoghi, di cari amici, di cari libri»”: Sia il Murialdo che il Ratti, proprio perché alpinisti di razza, a contatto con la grande montagna, seppero elevarsi al grande Iddio. Cosa del resto antica quanto il mondo. Signore, diceva il salmista, “emergono i monti, scendono le valli / al luogo che hai loro assegnato... / fai scaturire le sorgenti nelle valli e scorrono tra i monti... / per i camosci sono le alte montagne, / le rocce sono il rifugio per gli iràci... / Quanto sono grandi, Signore, / le tue opere!” (Sal 104, passim). Sentimenti simili espresse Francesco Petrarca, quando il 26 aprile 1336 scalò il monte Ventoux. La sua lettera al padre Dionigi di San Sepolcro è forse il primo autentico documento storico dell’alpinismo di tutto il mondo. Toccare il pianeta Petrarca e non avventurarvisi era un vero


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