Casablanca

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EdizioniLeSiciliane

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f r o n t i e r a marzo 2012

ANNO VII NUM.22

E N N O D Donne che si ribellano. Inseguono la libertà, un sogno, l’amore vero. L’amore che non uccide. L’amore più forte della paura. Sanno che vanno incontro alla morte, ma spesso non hanno alternativa

ESCLUSIVA: APPELLO DALLA GRECIA INTERVISTA a ROSARIA CAPACCHIONE Foto di Letizia Battaglia ‐ Lidia Menapace Nando dalla Chiesa


CASABLANCA N.23/ MARZO 2012/ SOMMARIO

4 - Letizia Battaglia Fotografie… Donne 7 - 8 marzo sotto la crisi Lidia Menapace 8 - Francesca Chirico Violenza sulle donne... 10 - Antonella Serafini Balla, balla, ballerina 12 - Rosita Rijtano ROSARIA giornalista di frontiera 14 - La siciliana ANNA PUGLISI Graziella Proto 16 - Rosa Maria Di Natale GABRIELLA Antiracket 18 - Inchiesta mafia Graziella Proto 21 - Valentina Ersilia Matrascia Gli sfigati si raccontano 23 - Ordinaria amministrazione Alessio Di Florio 24 - Franco Lo Re SGARBI 28 - Appello dalla Grecia (esclusivo) Natasha Merkouri 30 - Nando Dalla Chiesa LIBERA manifestazione nazionale 32 - DANILO DOLCI Lorenzo Barbera 35 - Amalia Bruno Vignette Vignette Gianni Allegra

Casablanca – Direttore Graziella Proto – proto.graziella@gmail.com Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org/casablanca Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Riccardo Orioles

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Editoriale

Giustizia, abusi, politica e diritti umani “A chi lo ha ucciso spaccherò il petto con le mie mani e mangerò il cuore …” urlò disperata Leoluchina Sorisi, fidanzata di Placido Rizzotto, sindacalista socialista rapito ed ucciso dalla mafia corleonese. Era 1948 il giovane combatteva a fianco dei contadini e li incitava a ribellarsi al grande latifondo in mano ai mafiosi capeggiati dal giovane Luciano Liggio. Tuttavia, il giorno che arrestarono don Lucianuzzo, indicato quale assassino di Placido Rizzotto, lo trovarono nella casa di Leoluchina, nel suo letto, accudito e curato proprio da lei. Leoluchina non era solo la fidanzata di Placido, ne condivideva la passione, credeva nelle stesse cose, combatteva la stessa battaglia. Mentre Placido faceva i comizi e denunciava le malefatte e gli scippi di Luciano Liggio ai contadini, lei teneva in alto la bandiera rossa e la faceva sventolare. Che cosa fa cambiare idea a una donna innamorata e combattiva? Cos’è che la fece passare dall’altra parte della barricata? *** Quando il branco la violentò Anna Maria aveva appena tredici anni, sognava l’amore, sperava nel futuro. Loro erano famelici e violenti. Lei piccola e sola. Impaurita. Per tre lunghissimi anni. “Domani porta pure tua sorella” le dissero una sera. Questo no pensò la piccola. Non l’avrebbe permesso. Arrivò il coraggio. La denuncia. Una splendida avvocata. Giorni durissimi. Le donne dei suoi carnefici giovanissime e meno, la guardano con spregio. Nell’aula del tribunale di Cinquefrondi, la piccola famiglia è scrutata minacciosamente dall’esercito di parenti che sostiene

gli stupratori. Come fosse lei la colpevole. Assieme alla sua avvocata, Anna Maria, a questo punto non si ferma più. Non si arrende. Sei dei suoi stupratori, sono stati condannati, ma il paese intero le è contro. Quelle persone di genere femminile, mogli, figlie, madri, delle belve che hanno fatto violenza ad Anna Maria, che guardano i loro uomini come se avessero fatto chissà quale impresa meravigliosa, grandiosa, splendida; che ai loro compagni in catene mandano baci e mostrano i piccolissimi figli, una di appena tre mesi, come fossero trofei; incipriate e agghindate come stessero andando in discoteca e non in aula di tribunale, ecco quelle lì, cosa hanno in comune con la giovane Anna Maria? E il magistrato che nei confronti di due stupratori con le catene e relative compagne si ammanta di un’umanità commovente - che stona all’interno di quell’aula – che significa? Nel frattempo, in un’altra città, in altro tribunale, una sentenza ci fa sapere che se lo stupro è collettivo, ai componenti del branco si applica una riduzione. Come si suole dire sconto comitiva. *** Alcune donne in questo periodo occupano e svolgono un ruolo di rilevante importanza politica e sociale. Una consuetudine poco praticata qui in Italia. Personalmente non mi sento particolarmente vicina a nessuna di loro, ma mi rendo conto della circostanza straordinaria. Tre donne in tre ministeri strategici. Elsa

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Fornero al ministero del lavoro, Paola Severino al ministero della giustizia e Anna Maria Cancellieri al ministero degli interni. Inoltre, da posizioni contrapposte, altre due donne, guidano due eserciti avversi: Emma Marcegaglia presiede l’Associazione Nazionale degli industriali, Susanna Camusso è a capo della CGIL. Orgoglio di genere ? Orgogliose lo vorremmo essere. Invece, l’amarezza e la delusione serpeggia ovunque. Il clima è terribilmente teso, avanza la normalizzazione soprattutto nella recrudescenza delle violenze alle donne. L'offensiva conservatrice contro i diritti di tutti, ma, delle donne in particolare, è trasversale a tutti i poteri. Tutti i presupposti. Tutte le filosofie e le non ideologie. Le donne sono diventate più ricattabili. Le retribuzioni degli italiani medi sono molto sotto della media europea, ci dicono, le italiane, guadagnano ancora meno. Troppo poco. In tempi di depressione poi le donne, è risaputo, pagano un prezzo più alto. Siano crisi economiche e lavorative. Di meriti e talenti. O di valori come oggi. Alle nostre donne autorevoli, ministre, segretarie o presidenti, diciamo, non guardate solo gli obiettivi a lunga scadenza. Non siate solo tecniche. Asservite alle “logiche”, alle questioni di principio, alle false esigenze europee. Al credo del mercato. Alla legge della precarizzazione. Al divieto sacrale. Siate donne, cioè libere, competenti, sensibili, coraggiose. Vorremo essere orgogliose di voi.


Letizia Battaglia / Le Donne

Donne: Letizia Battaglia

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Letizia Battaglia / Le Donne

Suicidate da ‘ndrangheta e camorra, assassinate dalla mafia, maltrattate dai famigliari, aggredite per strada, uccise perché si odiano, disubbidiscono, lasciano o si “amano troppo”… La violenza sulle donne è in una fase di recrudescenza e normalizzazione.

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8 marzo della Crisi o nella Crisi? / Fiori di Mimosa

8 Marzo della

Crisi o nella Crisi? Fiori di Mimosa

Lidia Menapace La concezione parassitaria del genere femminile, la valutazione mercantile del corpo delle donne hanno dilagato insopportabilmente e hanno coagulato un senso di orrore, rabbia e rifiuto che non si cancella. Intanto cene, regali, mimose. Una ricorrenza politica che stinge sempre più. Che cosa ha trasmesso il femminismo degli anni settanta? Che cosa è rimasto? Che cosa era utile? Quali i passi da non cancellare?

Ogni anno -si può dire - torna l'otto marzo - anche con un che di affliggente, ripetitivo, celebrativo. E sembra portare con sé uno stigma di lamento, rivendicazione, pretesa. Insomma un qualcosa di luttuoso, che viene mitigato con i fiori di mimosa, le cene comuni, gli omaggi cavallereschi: i presidenti delle assemblee fanno arrivare un mazzo di fiori sui banchi occupati dalle sempre scarse donne parlamentari. Di anno in anno stinge un po' la qualità politica della ricorrenza, anche perché non si può dire davvero che i bilanci che si possono fare siano esaltanti. E' vero che la coscienza di sé tra le donne cresce, si radica, si consolida, sembra diventare qualcosa che non si cancella: ma è ugualmente vero che questo livello di coscienza appartiene al genere femminile, non scalfisce l'altro genere. E' uscito allo scoperto il fastidio, la tristezza, la protesta per tutto ciò con "Se non ora, quando?". Tutta la volgarità tradizionalista, la concezione parassitaria del genere femminile, la valutazione mercantile del corpo delle donne hanno

dilagato insopportabilmente e hanno coagulato un senso di orrore rabbia e rifiuto che non si cancella. Ma la destra che con Berlusconi metteva in scena, lanciava, usava i modi di rappresentazione delle donne ( che hanno trovato denuncia convincente da parte di Lorella Zanardo), insieme, produceva una novella brutalità (lo ha notato di recente in una accorata intervista televisiva Dacia Maraini) , che si manifesta nel bullismo delle ragazze (fino a prendere parte a violenze di gruppo anche verso altre ragazze?), a pratiche di sesso estremo fino al rischio di morte e alla violenza sessuale maschile di vendetta per l'abbandono o il tradimento, fino al diffuso femminicidio. Il quadro è fosco, ma non lo evoco con alcun compiacimento granguignolesco. Intendo solo sottolineare che nella sua turpitudine tutto ciò significa e rivela anche che le donne costituiscono davvero ora un soggetto politico di pieno rilievo, che si compone col contesto vigente, prende i colori della cronaca, le parole della protesta, le

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movenze dell'agire politico in modo autonomo e quasi senza rendersene conto. E' una novità rilevante: ma non si fa strada, non suscita risposte né attenzione, e forse proprio perché il femminismo degli anni Settanta ha ormai trasmesso un linguaggio in forma di moneta di scambio facile. Tanto mi disturba ora sentire donne e anche uomini dire: "Parto da me", "e dove vai?" mi viene sempre da chiedere, dato che da un bel po' siamo partite da noi, ma sembra che ci siamo perse nelle nebbie. Forse perché non abbiamo mai contato il tempo del nostro andare? Ben venga perciò il grido di Snoq: "se non ora, quando? " "ADESSO" gridiamo all'unisono. Ma la domanda persino angosciosa è : "CON CHI?". Qui si svela la miseria del presente e il bisogno di teoria politica. Sto studiando l'economia della riproduzione (biologica, domestica e sociale) e mi pare una buona direzione, in un tempo di crisi che stimola, e insieme alle donne (e agli uomini) che non cancellano il segno dei passi che ci siamo lasciati alle spalle.


Ribelle e Sola / Donne in cerca di guai

Ribelle e Sola Donne in cerca di guai Disubbidisci? Io ti suicido Francesca Chirico Donne che si ribellano. Per inseguire la libertà, un sogno, l’amore vero. L’amore che non uccide. L’amore più forte della paura. Sanno che vanno incontro alla morte, ma spesso non hanno alternativa. Non vogliono fare con i loro figli gli errori che hanno subito dalle loro madri. Sono sole con il loro tormento. Se non lo fossero forse nessuno si sognerebbe di “suicidarle”. In Calabria la ‘ndrangheta per punirle, le fa bere una bella dose di acido muriatico. Oppure, immerge direttamente la donna dentro un bagno di acido muriatico, così non resta nemmeno l’odore di quella donna indisciplinata che non vuole più ubbidire. REGGIO CALABRIA – Il nuovo fronte della lotta alla ‘ndrangheta? Il focolare domestico. Un fronte interno che si è aperto negli ultimi anni nel cuore stesso del potere criminale calabrese e sta minando lo spazio da cui la “famigliacosca” trae nutrimento di regole e legittimazione. In alcune case di ‘ndrangheta, sempre più spesso, quello spazio sta rimanendo vuoto. Le donne, che lo governano e tengono vivo, sono andate vie. Dietro l’amore vero, dietro un sogno di liberazione, dietro il desiderio di sparigliare il destino e di scriverne uno diverso per i propri figli. Storie di ribellione, come tante brecce nel muro. Inattese. Anche perché, la ‘ndrangheta ha sempre vantato l’assenza di pentiti, sedenti e convertiti fra le sue fila. A Rosarno, il paese in cui Maria Rosa Bellocco è stata assassinata dalla sua stessa famiglia l’1 settembre 1977, assieme al figlio di nove anni e al marito che non aveva avuto il coraggio di punirne il tradimento; il paese in cui Annunziata Pesce è stata ammazzata nel 1981 da zii e fratelli per la relazione con un carabiniere, le donne della famiglie di ‘ndrangheta hanno imparato prima a tacere che a parlare. Hanno imparato, soprattutto, che se

un fratello o un padre si avvicina e ti dice “Vieni con me”, potrebbe avere una pistola dietro la schiena e un pezzo di campagna pronto per seppellirti. E però anche a Rosarno, e nelle case di ‘ndrangheta, certe cose sono più forti della paura: la vita, i figli, l’amore. La collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce, il 23 agosto 2011, lo spiega bene ai magistrati della Dda di Reggio Calabria: “Ho espresso la mia volontà di iniziare questo percorso, spinta dall’amore di madre e dal desiderio di poter avere anche io una vita migliore, lontano dall’ambiente in cui siamo nati e cresciuti. Ero e sono convinta che sia la scelta giusta, dal momento che per scelte di vita di familiari e congiunti, siamo sempre stati segnati da una vita piena di sofferenza e difficoltà e soprattutto mancanza di coraggio per paura delle conseguenze (…) Ho capito l’importanza della motivazione per cui ho collaborato: il futuro dei bambini e l’amore per un uomo che mi ama per quello che sono e non per il cognome che porto”. Ha trentuno anni, si è sposata che ne aveva quattordici ed è madre di tre figli. Nell’aprile 2010

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l’hanno arrestata nella maxi-operazione “All Inside” contro la storica cosca Pesce di Rosarno, accusandola di avere ricoperto il ruolo di postina tra il padre in galera (il boss Salvatore Pesce arrestato nel 2005) e gli affiliati a piede libero. Qualche mese dopo Giuseppina ha avviato la sua collaborazione e, dopo una tormentata fase di ripensamento legata alle pressioni esercitate dai familiari, si appresta a testimoniare nel processo che vede alla sbarra, di fronte al Tribunale di Palmi, i boss e gli affiliati della cosca Pesce. Ha trentuno anni, si è sposata che ne aveva quattordici ed è madre di tre figli anche Maria Concetta Cacciola che di Giusy Pesce è pure cugina. Concetta Cacciola, però, ruota attorno all’altra storica cosca di Rosarno, i Bellocco. Alla madre, prima di partire nel maggio 2011 per la località protetta, scrive parole semplici. “Mi sono resa conto che in fondo sono sola, sola con tutti e tutto, non volevo il lusso, non volevo i soldi... era la serenità l’amore, che si prova, quando fai un sacrificio ma avere le soddisfazioni, a me la vita non ha dato nulla che solo dolore, e la cosa più bella sono i miei figli che li porterò nel mio cuore, li lascio con dolore,


Ribelle e Sola / Donne in cerca di guai un dolore, che nessuno mi ricompensa”. La invita pure a non ripetere con i figli gli stessi errori fatti con lei: “Di un’unica cosa ti supplico, non fare l’errore mio…a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a 13 anni sposata per avere un po’ di libertà credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo, e tu lo sai. Ti supplico non fare l’errore a loro che hai fatto con me… dagli i suoi spazi”. Di spazi fuori e dentro la sua casa di Rosarno Maria Concetta Cacciola, moglie di un detenuto condannato per associazione mafiosa, ne poteva avere solo su internet: in chat aveva conosciuto un uomo e al telefono si era innamorata. Virtuale, d’accordo, ma sempre tradimento. Le lettere anonime spedite al padre, cognato del boss Gregorio Bellocco, nel giugno 2010 per segnalare l’ammaccatura all’onore di famiglia avevano scatenato una rappresaglia brutale, di calci e pugni. Padre e fratello le fratturano una costola e le impediscono di recarsi in ospedale. La curerà in casa un medico compiacente. E’ da questo inferno che Cetta Cacciola decide di uscire rivolgendosi ai carabinieri di Rosarno. Parla di bunker, omicidi, traffici di droga e parte per una località protetta. Ma non resiste. Cetta torna sui suoi passi, pur non ignorando ciò che può attenderla. “Tutti me lo dicono, renditi conto di quello che ti aspetta, perché ormai lo hai fatto, il passo lo hai fatto, una cosa e un'altra ti dicono che ti perdonano però che so nel cuore … Te lo dicono in questo momento e poi tra un po' di tempo ti fanno…”, ragiona al telefono con la sua migliore amica. Il 10 agosto è di nuovo a Rosarno. Il dodici agosto le fanno registrare un audio presso lo studio di un avvocato per smentire tutte le dichiarazioni rese ai magistrati: le fanno dire che era arrabbiata, che era depressa, che ora è felice e vuole essere lasciata in pace. Il venti agosto si attacca a una bottiglietta rossa piena di acido muriatico. La trovano

agonizzante sul pavimento bagnato del bagno. Dall’inferno ha deciso di andare via definitivamente. Suo padre, sua madre e suo fratello sono stati arrestati nel mese scorso per maltrattamenti in famiglia. Per i parenti soffriva di “depressionepsichica” anche la 38enne Tita Buccafusca e per sottolineare che le parole della donna non potevano avere alcun valore si erano presentati con tanto di certificati medici alla caserma dei carabinieri di Limbadi, nel Vibonese. Il quattordici marzo 2011 Santa Buccafusca, per tutti Tita, moglie del boss Pantaleone Mancuso (“Luni Scarpuni”) è negli uffici della Dda di Catanzaro con il figlio di due anni in braccio. Ha deciso di parlare, ma nella località segreta in cui viene condotta subito dopo le prime dichiarazioni resiste pochissimo. Poi il ritorno a casa. Un ricovero nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Polistena e il sedici aprile 2011, la scelta atroce di “rivolgersi” all’acido muriatico. Come Cetta Cacciola e come aveva fatto il quindici dicembre 2010, in un contesto assai diverso, anche Orsola Fallara, 44enne dirigente del settore Finanze e Tributi del Comune Reggio Calabria, travolta dal peso dello scandalo per l’allegra gestione finanziaria del “modello Reggio” di Peppe Scopelliti.

Acido. Che entra bruciando e spazzando via la vita da ogni cellula. La 35enne di Petilia Policastro Lea Garofalo la notte del ventiquattro novembre 2010 ce l’hanno immersa dentro. A Monza, nel magazzino in località San Fruttuoso dove, sostengono i magistrati milanesi, sarebbe stata torturata, uccisa e sciolta nell’acido non ne è rimasto neppure l’odore da far annusare ai cani. “Sarà che la storia si ripete o che la genetica non cambia, ho ripetuto e sto ripetendo passo dopo passo quello che nella mia famiglia è già successo. E sa qual è la cosa peggiore? La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi aspetta. La morte. ”aveva scritto Lea nell’aprile 2009 al presidente della Repubblica. “Oggi e

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dopo tutti i precedenti – aveva aggiunto mi chiedo ancora come ho potuto anche solo pensare che in Italia possa realmente esistere qualcosa di simile alla giustizia”. Sembra darle ragione il processo in corso a Milano contro l’ex marito Carlo Cosco, accusato di averla sequestrata e uccisa con la complicità di Giuseppe Cosco, Vito Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino, Carmine Venturino, tutti calabresi e tutti legati alla 'ndrangheta. Un processo che non vede però contestata agli imputati l’aggravante mafiosa. Lea sarebbe stata sciolta in 50 litri di acido per problemi di coppia e non per avere raccontato ai magistrati dei traffici di droga e degli omicidi del marito e dei cognati. L’ultimo schiaffo.


Bella de papà te faccio adottà

Balla, balla, ballerina Bella de papà te faccio adottà Antonella Serafini I nonni a te non comprano niente perché sei cattiva, a me comprano le pellicce e i gioielli. Per lei non c’era niente di più’ bello che ascoltare musica e seguirne i ritmi. E questo sogno le dava la forza di sopportare tutto. Storia di una bambina adulta, maltrattata e rifiutata, dal padre naturale prima e dalla madre adottiva dopo. Deprivata, molestata, picchiata… ma lei volteggiava.

“Bella de papà" disse alla sua piccolina. Erano ancora dentro al Tribunale, una nuova famiglia stava adottando Tamira, la sua piccola figlia perché, lui era un papà incapace di crescerla . “Bella de papà - insisteva - vuoi stare con me? Si? Peccato, non puoi più farlo perché sei stata adottata”.

denutrite, pidocchi tra i capelli. Indigenza si dice con una sola parola, vanno a vivere dai nonni. Tutte tranne lei, Tamira, che di lì a poco sarà adottata da tre estranei. Un grosso trauma. Non che con il padre naturale andasse bene. L’alcolismo lo portava ad aggressività durezze e violenze quotidiane, e poi quelle parole al

Che una mamma fosse importante Tamira l’ha sempre saputo. Fin da piccolissima, quando la sua è morta. Aveva solo due anni. Le hanno raccontato di una mamma e un papà molto affiatati. Una famiglia felice, fino all’incidente in moto che costò la vita a sua madre. Tutti i ricordi sulla madre, incluso il funerale, Tamira li ha perché le sono stati raccontati. Le hanno riferito che piangeva davanti alla bara perché’ capiva che dentro c’era sua madre, anche se nessuno le aveva detto niente. Troppo piccola. Appena due anni di vita, ma, già sapeva l’importanza della mamma. Il suo amore. Il suo odore. Le sue coccole. Le rimaneva il papà. La morte della moglie ha portato il padre all’alcolismo e di conseguenza a un carattere negligente e violento con tutte le figlie. Le bambine, tenute dal papà, vivono in condizioni di estremo disagio, sporche e

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tribunale “ bella de papà vò sta con me? Si? Peccato, non puoi più farlo perché sei stata adottata”. Parole indelebili che ancora oggi, pur essendo una donna nuova le risuonano nella testa.

Tamira, fu adottata da tre persone Sì, tre, perché la madre adottiva era divorziata, e non potendo avere in adozione una figlia, chiese ai propri genitori di fare da prestanome. I nonni adottivi erano così ufficialmente i genitori, ma solo sulla carta. Lo sport preferito della mamma, era parlare male della madre naturale e picchiare con forza la bambina. Ogni pretesto era buono. Giocava sul letto e giù botte, briciola sul pavimento, e giù botte. Una volta addirittura per maggiore comodità si mise cavalcioni su Tamira e le tirava i capelli sbattendole la faccia a terra con violenza, costringendola poi, a non andare a scuola per evidenti segni di contusioni sul volto. Era come se la bambina servisse a dimostrare quanto fosse migliore la sua madre adottiva. Frasi del tipo “a te i nonni non comprano niente perché sei cattiva, a me comprano le pellicce e l’oro” non erano comprensibili per una bambina, ma erano pane quotidiano. Per lavorare, lasciavano la bambina sola in casa e quando calava il sole, per paura del buio Tamira accendeva tutte le luci. E anche


Bella de papà te faccio adottà quello era motivo di percosse. Nonostante tutto, la piccola aveva un chiodo fisso che scacciava tutti i brutti pensieri: lei voleva imparare a ballare. Niente c’era di più bello per lei che ascoltare musica e seguirne i ritmi. Era questo sogno che le dava la forza di sopportare tutto. Per farla interagire con altri bambini e perché si rifiutava di mangiare, la bambina fu mandata in un istituto di suore, ma nemmeno a scuola la condizione di violenza, fisica e psicologica cambiava molto. Farsi la pipì addosso e dover rimanere in piedi con le mutandine bagnate in testa davanti a tutti, oggi sarebbe da prima pagina di cronaca per i maltrattamenti ai minori, ma prima, quarantacinque anni fa, circa, era considerato normale. Educativo, quasi. Così come, era educativo per l’epoca lo svegliarsi alle cinque del mattino. Tuttavia, tutte queste cose contavano poco, perché Tamia aveva un idolo: Carla Fracci. La imitava davanti alla tv, simulava un tutù utilizzando buste di plastica e cercava di imitare la postura da ballerina. Tamira sapeva che nel suo futuro c’era la danza. Sopportava tutto, anche il fatto che la madre adottiva la dimenticava in istituto quando invece doveva tornare a casa, e assisteva ai lavori di cucito delle suore, vedendo gli orpelli, le perline, e continuava a immaginare la danza, i costumi. La scuola era un tormento, non riusciva a concentrarsi, a studiare, percosse quotidiane, ematomi visibili e nessuno che si fosse mai interessato. L’unica volta che riesce a studiare una poesia a memoria, per la festa del papà. Chiede di essere interrogata, comincia la poesia “tu, papà, giovane e forte... ” e la suora scoppia a ridere rimarcando che in realtà suo padre è vecchio ed ha l’età di un nonno. Uno smacco dietro l’altro.

primo ragazzo, oggi attuale marito, con cui Tamira ha messo su una famiglia. La prima figlia a diciotto anni. Doveva andare tutto bene. Problemi? Solo economici. Lui aveva un lavoro che di regolare aveva solamente la fatica, perché spesso saltavano gli stipendi. Per fortuna le difficoltà erano solo economiche. Soffrire la fame a volte non era solo un modo di dire. Ma non fu mai accantonato il pensiero di ballare. Dopo la terza bambina, ormai adulta, un’amica le fa conoscere il mondo della danza orientale. A lla giovane mamma sembrava tardi per cominciare, ma lo vide come un segno del destino. E’ cominciato così, in maniera amatoriale, un percorso artistico durato anni. Per evitare di incidere sullo stipendio del marito, Tamira ha deciso mantenersi la danza con un altro lavoro. Entra in una cooperativa di pulizie, e si alza tutti i giorni alle quattro di mattina, per poi continuare a coltivare il suo

Un giorno di ritorno a casa, un’assistente sociale le comunica che sarebbe andata in un nuovo istituto, un collegio dove sarebbe rimasta fino alla maggiore età. La madre adottiva aveva trovato un compagno e non serviva più la sua compagnia. In quattro anni di permanenza in collegio, Tamira ha visto la madre adottiva solo un paio di volte. Si mangiava poco e male, punizioni restrittive, non si usciva mai se non in gruppi e con assistenti, quanto bastava per far dimenticare a Tamira le molestie ricevute da due uomini di cui uno era sacerdote quando era ancora una bambina. Episodi rimossi e tornati alla memoria solo molto tempo dopo, quando ha trovato un po’ di serenità con il suo

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sogno. Una volta nell’ambiente, il suo carattere solare e sempre proiettato al futuro, le consente di incontrare molte persone simili a lei con le stesse passioni e umanamente speciali, con cui Tamira ha messo su un gruppo che quest’anno si è esibito anche in un festival internazionale. Ora Tamira ha due scuole in cui insegna, fa uno spettacolo dietro l’altro, il suo primo fan è il marito. Le sue allieve sperano di poter diventare un giorno come lei per quello che trasmette, per i sorrisi che elargisce. Ma nessuno sa che dietro quei sorrisi ci sono pianti, c’e’ sofferenza, c’e’ amarezza, sacrificio. Oggi Tamira è nonna, ma continua a fare spettacoli. Grazie ai sogni è ringiovanita, ha molti progetti per il futuro, perché sa che la sua vita è cominciata da poco.


Rosaria Capatosta / Intervista a Rosaria Capacchione

Rosaria Capatosta Intervista a Rosaria Capacchione. Rosita Rijtano Voleva fare il medico invece fa la lotta alla camorra. Le minacce alla “zoccola ragazzina” arrivarono presto: lettere; telefonate; c’era perfino un piano per “sopprimerla”, Da diversi anni vive sotto scorta. “Sono una cronista, svolgo solo la mia professione” È un po’ fastidioso però si sopravvive…”, dice con aria di sufficienza, interrompendo qualsiasi futuro pensiero sull’argomento. Francesco Bidognetti e Antonio Iovine tanto per fare due nomi, in pubblico l’accusarono d’influenzare la Corte d’Appello con i suoi articoli. Rigorosi, precisi, taglienti. Armi pericolosissime.

Non è difficile immaginarla china sul microscopio. A esaminare provette con la stessa perizia che dedica ai fatti. Da ragazza Rosaria Capacchione sognava di diventare medico. Il giornalismo? Solo uno dei tanti interessi. “In realtà volevo fare la ricercatrice. Mi piacevano molto la microbiologia e la genetica”, spiega con aria nostalgica. Oggi è una delle migliori croniste di giudiziaria che lavorano nel nostro paese. Nel 2010 la rivista americana Newsweek l’ha inserita nella lista delle grandi donne d’Italia. Al fianco del premio Nobel Rita Levi Montalcini. Piccola soddisfazione per chi sperava nella carriera da studiosa. La rigorosità scientifica però non l’ha mai tradita. Anzi. È diventata un’ossessione. “Il motivo che si cela dietro il fatto lo devo trovare. Costi quel che costi. E le risposte ufficiali non mi bastano mai”, chiosa. Alla carta stampata è arrivata per caso: “Mio padre aveva una quota di partecipazione in un piccolo giornale. L’idea di lavorarci mi piaceva e volevo provare. Poi non sono più andata via”. Il suo non è stato un colpo di fulmine ma un grande amore. Di quelli che maturano con il tempo e durano tutta la vita. A folgorarla inizialmente è la macchina, più che la scrittura: trascorre notti intere in tipografia,

titola e impagina. Capacità che le apre le porte di tutti i giornali: “Vivevo a Latina e trovai lavoro in un piccolo settimanale sportivo. Un giorno il direttore mi propose di accompagnarlo in stamperia. Andai”. Da quel momento in poi chiesero solo di lei, la napoletana. “Mandateci la picciridda”, era l’ordine. Aveva solo vent’anni, eppure nessuno riusciva a

starle dietro. “Chiudevo il giornale in un’ora anziché in un giorno. E poi ciò che non ho mai superato è l’emozione di portare a casa la notte il giornale che sarà in edicola il giorno dopo. È come se tu sapessi qualcosa prima degli altri”. Le

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storie arrivarono solo dopo. È domenica pomeriggio e la redazione de "Il Mattino" brulica di giornalisti. Al terzo piano di Via Chiatamone numero 6, Rosaria trascorre buona parte dei pomeriggi. Arriva dopo ora di pranzo e va via quando è buio. Dalla sua stanza esce solo per prendere il caffè e fumare. “Amo profondamente la mia terra ma non al punto di considerarla l’unico luogo al mondo dove potrei vivere”, confessa bevendo d’un fiato il terzo espresso. “Rimango qui perché ho il mio lavoro. Però mi piacerebbe vedere il mondo per poterlo raccontare. È con lo stesso spirito che cerco di parlare della mia terra: come se la vedessi da esterna”. Anche se in realtà Caserta la conosce benissimo. Nessuno meglio di lei ha documentato le zone d’ombra dell’amministrazione comunale; la radicata collusione con la camorra; gli affari dietro la gestione dell’emergenza rifiuti. Evitando qualsiasi riguardo per il potere. Le minacce alla “zoccola ragazzina” arrivano presto: lettere; telefonate; e c’era perfino un piano per “sopprimerla”, come rivelato nel ’96 dal pentito Dario De Simone. Poi Spartacus: il processo alla mafia più importante degli ultimi quindici anni con 113 accusati e 500 testimoni; una


Rosaria Capatosta / Intervista a Rosaria Capacchione doccia scozzese per la criminalità locale, gestita dal clan dei Casalesi. Rosaria lo segue, spulciando carte e sentenze. Senza mai stancarsi. “Sono una cronista, svolgo solo la mia professione”, ribatte escludendo ogni appello quando si accenna alla sua lotta contro la camorra. “Se ciò coincide con l’impegno sociale, vuol dire che c’è qualcosa che non va nel nostro mestiere; che qualcuno non fa il proprio dovere”.

guerra, si alleano. All’interno dei confini italiani i Casalesi hanno ottimi legami con la ‘ndrangheta. Mentre all’estero i rapporti sono stabili con la mafia dell’est: Romania, Albania e Russia. Di recente il pentito Vargas ha parlato di un collegamento con Al Qaeda. La connessione esiste ed è anche documentata da tempo. Ma non è un'unione ideologica, bensì d’interessi.

Lei invece il suo lavoro lo fa bene. Degli imputati riesce a conoscere tutto, tanto da fare paura. “Francesco Bidognetti e Antonio Iovine mi accusarono in pubblico d’influenzare la Corte d’Appello con i miei articoli. Volevano farmi fuori”, ricorda. Lo sguardo diventa acuto, difficile da penetrare. Quasi impossibile fargli domande. È lei a dettare legge durante l’intervista. Argomento particolarmente delicato: la scorta imposta quattro anni fa che la segue sempre e ovunque. Pentita? “No, mai. È un po’ fastidioso però si sopravvive…”, dice con aria di sufficienza. Chissà se lo pensa davvero.

Vargas ha parlato anche di un accordo per uccidere il procuratore Federico De Raho. Lei ha dei timori?

Dopo l’arresto di Zagaria, quale futuro per i Casalesi?

Che cosa vuol dire parlare di terzo livello in Campania?

La struttura del clan – com’è raccontata nel processo Spartacus - era cambiata già prima. Più che la cattura del latitante, a creare problemi è stata la morte per infarto del cognato, Franco Zagaria: la mente imprenditoriale. Credo però che la famiglia continui a essere molto forte e a controllare settori economici strategici.

Non credo all’esistenza di compartimenti stagni. Penso che di volta in volta ci siano stati degli accordi. Giunti anche a terzi o quarti livelli: apparati di sicurezza, lobby e consorterie, più che partiti politici. A mio parere - come in Sicilia - lo Stato ha tacitamente voluto delegare alla mafia degli affari, la tutela dell’ordine pubblico. Accordo che è stato palese durante la gestione dell’emergenza rifiuti.

C’è qualcuno cerca di approfittare della situazione? I figli di Schiavone stanno creando parecchi problemi. Vorrebbero assumere il comando ma sono arroganti, violenti e cocainomani. Lontani dalle logiche di Zagaria, il cui modello è Provenzano. Quindi molto più orientato a una mafia di tipo imprenditoriale ed economico. Quali sono i nuovi affari? Non si fanno mancare niente: il gioco; il commercio di autovetture di lusso; gli stabilimenti balneari. Quello che vuoi. Le alleanze con le altre mafie, in Italia e all’estero. In genere le grandi mafie non si fanno la

Parto dal principio che se sono nata, prima o poi devo anche morire. Personalmente non ho mai avuto paura di Zagaria. Credo che se un giorno decidesse la mia morte, nessuno sarebbe in grado di fermarlo. Quindi è inutile pensarci. A farmi paura sono i figli di Schiavone: ragazzi senza una visione strategica della criminalità che sono in grado di compiere anche un omicidio dimostrativo.

La situazione migliorata?

è

Non abbiamo ancora smesso di produrre immondizia. Quindi dovremmo anche trovare dove metterla. Non ho ancora capito come hanno deciso di smaltire i rifiuti. E l’idea di trasportarli altrove, per inquinare altri paesi e far morire altri al nostro posto, la trovo ipocrita, egoistica e scandalosa. Perciò credo che per un

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periodo l’inceneritore serva.

Perché nell’inceneritore sì e nelle discariche no? Nel trasporto dei rifiuti no? Anzi. Più passaggi intermedi ci sono, più è rischioso. Con l’inceneritore il pericolo si dimezzerebbe. Secondo possibile?

lei

il

cambiamento

è

Forse la crisi ci farà bene. Se sapremo come sfruttarla. Qual è il ruolo delle donne nella lotta contro la camorra? Esistono centinaia di piccole storie di vita quotidiana. Persone che hanno reagito al “sistema” e che sono fondamentalmente donne. Perché poi il perpetuarsi del potere mafioso passa tutto attraverso le madri, le famiglie. Il cambiamento parte dall’educazione. Che cosa giornalista?

pensi

debba

fare

un

Raccontare. Un giornalista non può fare altro. Quando vuole fare qualcosa in più, sbaglia.


Anna Puglisi / La commendatora antimafiosa

Anna La

Commendatora

Graziella Proto Perché è importante la storia di Anna Puglisi? Perché dentro la sua ci sono storie di donne meravigliose, coraggiose, speciali. Storie che lei ha raccontato. Storie che si sono incrociate con la sua, il suo impegno e la sua generosità.

Ci presentammo con i nostri inviti all’ingresso del Quirinale. Non sapevamo cosa fare e come comportarci. Dopo vari

controlli, seguendo gli altri, perché mi vergognavo a chiedere informazioni, entriamo nella sala riservata al pubblico. Il posto di Umberto si trovò immediatamente, quello della signora Anna Puglisi non esisteva. Un disagio incredibile. Io non sapevo cosa fare. Che cosa pensare. La signora che cercava fra i posti anche lei era in difficoltà. Leggeva e rileggeva i fogli a sua disposizione … no, Anna Puglisi nella lista dei nomi non c’era proprio. Poi a qualcuno viene in mente di guardare un altro elenco, ” signora lei è una persona importante, non va tra il pubblico”. Che vuol dire? Guardo Umberto in cerca di aiuto, ma, la signora mi esorta a seguirla. Io da sola. Lasciare Umberto da solo … attimi incredibili, ero titubante, ma la

signora con gentilezza e altrettanta decisione mi condusse via. Le “persone importanti”, quelle da premiare erano separate dal pubblico. Sette in tutto. Erano elegantissimi, e lo stesso tutto il pubblico. Noi c’eravamo presentati con molta semplicità. Non avevamo portato nemmeno una macchina fotografica. L’ansia mi terrorizzava, ma poi cominciammo a fare conoscenza fra noi e ridevamo scherzando della situazione. Ero molto emozionata. Poi finalmente toccò a me. ”il presidente Giorgio Napolitano ha conferito ad Anna Puglisi, l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana con la seguente motivazione: con i suoi studi e la sua attività di raccolta di testimonianza di vita, svolta soprattutto attraverso il Centro Siciliano di Documentazione, intitolato a Giuseppe Impastato, ha valorizzato il contributo delle donne nella mobilitazione antimafia” Bello. Importante. Gratificante! Lei sorride e minimizza. ”mi fa piacere per la motivazione, perché fa riferimento al lavoro che ho fatto”. Poi riprende fiato e aggiunge che nemmeno lei sa spiegarsi certe cose, tante risatine per nascondere il disagio. (di che?) Poi quasi a volersi giustificare inizia a raccontare e ad

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argomentare sul come sia potuto accadere.

Umile e semplice Anna! “Nel 2007 ricorreva il sessantesimo anno della strage di Portella delle Ginestre. Con altre associazioni invitammo il Presidente Napolitano per le celebrazioni, lui non poteva venire, però, ci fece sapere, che da lì a poco sarebbe venuto a Palermo al giardino della memoria di Ciaculli per la giornata della memoria. Avrebbero messo un albero anche per Peppino quindi il nostro Centro avrebbe partecipato. Quando Umberto andò a salutare, il Presidente e sua moglie, a lui, regalò i libri suoi, alla signora Clio (Napolitano) regalò i miei. Dopo un anno mi telefonano dalla Presidenza della Repubblica e mi chiedono dei dati personali. Ma perché chiedo.. le faremo sapere. Dopo qualche tempo una altra telefonata. Il Presidente mi dice la voce all’altro capo del filo ha deciso di nominarla commendatore della Repubblica. Al più presto riceverà l’invito per venire al Quirinale. “Ma può venire mio marito?”.

*** “Figli? Non ne abbiamo voluti. Una scelta. Non mi sentivo di assumermi la responsabilità di fare figli. Non mi sentivo la forza di portare avanti la maternità. Era un fatto personale, non ci costruirei molto … Fra me e Umberto abbiamo un esercito di nipoti. So che ho fatto bene”. Alta ed esile. Calma ed equilibrata. Anna Puglisi continua - “Volevo essere utile in qualche modo, ma, non era assolutamente una spinta del mio essere cattolica .Se non ci fosse stato Umberto, avrei continuato nel mio impegno sociale, così come facevo prima di conoscerlo, ma non sarei stata


Anna Puglisi / La commendatora antimafiosa impegnata in modo così totalizzante. Tutta la vita. Tutta la giornata. Assolutamente no. Però ho accettato questa avventura, ho accettato di farne parte e la porto avanti, anche se sono stanca” .Una grande dichiarazione d’amore per Umberto, suo marito. Autorevole, diligente, rigorosa. Potresti pensare che è scontrosa, ma non hai il tempo di formulare il pensiero perché il suo sorriso dolce e accattivante ti disarma. Tuttavia, non facciamoci fuorviare, Anna Puglisi, sposata Santino, sa il fatto suo, e se vuole, sa essere molto tagliente. Difendere una sua opinione, raggiungere un suo obbiettivo con grinta e passione. Penultima di sei figli, viene da una famiglia borghese. Suo padre avvocato la mamma figlia di un noto commerciante. Ciononostante, vivono come tutti, un dopo guerra fatto di miseria “ … mangiavamo cose incredibili … quando, assieme a mia sorella, passavamo davanti ad una pasticceria ci giravamo dall’altra parte, per evitare l’acquolina in bocca … I vestiti che si passavano dal più grande al più piccolo. Si giocava con i giocattoli che c’erano in casa, cose che venivano dalla mamma o dalla zia …”. Una profonda dignità Il padre più che severo era “scantuso”, si preoccupava per tutto, quindi non permetteva nulla. Nemmeno la gita parrocchiale. Una famiglia tutta chiesa e casa. Tuttavia Anna e sua sorella s’impegnano nel sociale. Adolescente a scuola è brava, ma non secchiona, “ … non è che fossi una grande cima”. Lo stesso anche all’università e si laurea in matematica. Il rigore. “Non volevo insegnare .Volevo fare altro. Ero sicura”. Nel 1964, subito dopo la laurea la prima uscita dalla famiglia. Si trasferisce a Milano e si dedica ai primi cervelli elettronici. Lontani parenti materni che vivono a Milano la accolgono. Tuttavia, la mamma piangeva perché desiderava che lei ritornasse a casa. Il grosso passo del distacco l’aveva fatto, l'esperienza per quanto dolorosa aveva prodotto i suoi frutti, si sente più autonoma e così si decide a fare un colloquio all’università di Palermo, dove assumerà l’incarico di assistente del professor Gulotta un socialista molto conosciuto e molto attivo. In tutto l’ambiente universitario, c’era molto fermento politico, con Mario Mineo segue seminari ed iniziative. Dibattiti e assemblee. La passione politica. Il terremoto nella valle del Belice nell’estate del 1968 ha provocato un

enorme disastro. C’è tanto da lavorare. C’è bisogno di tutto. Anna fa doposcuola ai ragazzini del campo di Salaparuta, gestito da un gesuita “Grazie al parrino, io cattolica, cominciai ad avere dubbi sulla mia fede”. A poco a poco si avvicina al Manifesto che, da giornale dissidente del PCI è diventato un vero partito. “Incontro Umberto. – arrossisce, è imbarazzata quando dice velocemente ci siamo innamorati”. Non si separeranno più. S’iscrive al Manifesto, inizia la vera militanza di base. Lavora nel quartiere zen 1 dove, dopo il terremoto le famiglie del centro storico hanno occupato in massa gli alloggi popolari. Il rione era un disastro, non c’era nulla. Nemmeno l’acqua. ”… abbiamo fatto un comitato e aperto un ambulatorio medico, con lotta continua facevamo assemblee di scala”. Nel frattempo Anna ed Umberto decidono di sposarsi. Velocemente. Cerimonia ovviamente civile. “Ci sposammo in un posto orribile, una delegazione del quartiere Uditore subito dopo il CEP. Non lo rifarei mai più. Uno squallore … Gli addetti non capivano nulla. Quando andai per ritirare il certificato di matrimonio mi risposero il parroco non l’ha portato. Il parroco?” Il tempo passa fra un impegno e l’altro, nel 1975 all’interno del Manifesto ci furono i primi problemi Anna e Santino decidono di uscirne. Ne seguì un periodo senza impegno politico. Si fa altro. Per esempio si lavora per far nascere il Centro Siciliano di Documentazione.

L’assassinio di Peppino Impastato “L’impegno antimafia? È venuto da sé. Spontaneo. Non l’ho cercato. Vicino a me c’era Umberto, studiava questi problemi da anni anche dentro il manifesto. Sulla scia di Mario Mineo mi sono trovata accanto a lui ed ho proseguito”. Quando assassinarono Peppino Impastato, andammo al funerale. L’indomani era previsto il comizio di Peppino per la chiusura della campagna elettorale, ” questi ragazzi saranno soli è giusto andare pensammo, contro l’opinione di alcuni del centro ,andammo. Solo noi due”. Usa quasi sempre il plurale. Non dice mai ho fatto. Ho pensato. Un rifiuto del protagonismo? Del personalismo? “Nei giorni successivi al funerale, si recarono spesso a trovare i compagni di radio aut, “ Conoscemmo Felicia Impastato la madre di Peppino che poi deciderà di costituirsi parte civile,

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cominciammo un lungo rapporto e questo grande impegno per Peppino. Giravamo tantissimo. Iniziative, convegni, progetti, la prima manifestazione nazionale contro la mafia nel 79.Un successo, duemila persone intervenuti da tutta Italia … Ma che vi è venuto in mente di organizzare la manifestazione Nazionale contro la mafia?ci disse qualcuno degli intervenuti, però erano venuti ”. Nel frattempo il Centro Siciliano di documentazione era stato intestato a Peppino Impastato, che continuava a essere uno sconosciuto ai più, un terrorista che aveva deciso di morire, insomma, se l’era cercata. Ma Anna, suo marito e tutto il gruppo del centro rifiutano tale ipotesi continuano la loro strada, anche quando questo impegno “ ci portò all’ isolamento. Stavamo dalla parte del terrorista, così com’era definito Peppino dalla maggior parte della gente e dalla stampa. Comprese le nostre famiglie. Qualche socio del centro andò via. Tuttavia, nel 1986 abbiamo fatto riaprire le inchieste, con la pubblicazione dell’intervista alla signora Impastato e il dossier ‘notissimi ignoti ‘. Dopo il depistaggio, l’inchiesta l’aveva presa in mano il giudice Rocco Chinnici che, ” fino alla sua uccisione ci ha aiutato a fare seminari molto importanti.” Col passare del tempo, una parte della sua casa è diventata la sede del Centro Siciliano di Documentazione Peppino Impastato un vero e proprio archivio biblioteca aperto a tutti per consultare, studiare. Pile e pile di libri. Documenti. Pubblicazioni. Per Anna una fatica incredibile. Anche perché studia, ricerca, partecipa alla nascita di associazioni e comitati, scrive. Pubblica libri. Con Antonia Cascio, elabora il primo testo sul rapporto donne e mafia. Seguiranno storie e biografie di donne che si erano costituite parti civili in processi di mafia; di donne che denunciano i loro violentatori, gli assassini di mariti, figli, padri. Le storie di donne meravigliose quali Felicia Bartolotta Impastato, Michela Buscemi, Piera Lo Verso, saranno lette e conosciute da tanti. “La storia della signora Benigno non la potei pubblicare per ragioni di sicurezza. L’abbiamo aiutato nel processo su Leoluca Bagarella e Salvatore Rinella. Il processo si svolgeva in aula molto piccola, a stretto contatto con gli imputati. Bagarella e la sua fidanzata Vincenzina - una gran bella ragazza - si scioglievano guardandosi negli occhi. Vincenzina era diversa delle solite donne del boss, si è uccisa quando ha saputo della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso. Vincenzina non aveva avuto figli “.


A Catania l’antiracket è donna

A Catania l’antiracket è

Donna Gabriella e le donne dell’antiracket Rosa Maria di Natale CATANIA E’ donna. Gentile. Risoluta. Ha sessantacinque anni. E’ impegnata con tenacia nell’antiraket . Vandalismi, minacce, richieste pressanti, Gabriella Guerini e il marito Leonardo Sicuro li avevano subiti e da soli, facevano la guerra ai mafiosi per proteggere la loro azienda già dal 1982. Nel capoluogo etneo il primo gruppo che intraprese la battaglia per sostenere le imprese che subivano richieste e vessazioni era formato da sole donne. Non tutte erano coinvolte in casi di estorsione, ma erano spinte da un forte senso civico e dall’idea che il racket andava combattuto sempre e comunque. Donne che anziché regalarsi al partito di turno, hanno preferito lavorare per cambiare la città. Oggi all’interno dell’associazione gli uomini sono la maggioranza. A Catania nonostante tutto e seppure lentamente, le denunce crescono.

Quando ancora l’antiracket non esisteva e i siciliani avevano il terrore di pronunciare la parola “pizzo”, Gabriella Guerini e il marito Leonardo Sicuro facevano la guerra ai mafiosi per proteggere la loro azienda di ricambistica per la frantumazione di inerti. Subivano di tutto già dal 1982: vandalismi, minacce, richieste pressanti. La guerra al pizzo la facevano da soli, senza il conforto di una parola o di un’associazione. Ma soprattutto, senza mai pagare il pizzo e subendo tutti quei danni materiali e morali che ogni imprenditore vittima della mafia ancora oggi subisce. E, particolare di non poco conto, senza poter contare su un qualunque risarcimento in denaro da parte dello Stato. Poi la signora Gabriella, ora sessantacinque anni, bresciana di nascita ma catanese di adozione, decise che l’esempio di Tano Grasso a Capo d’Orlando, imprenditore simbolo della lotta alla mafia e presidente onorario del Fai (oggi Federazione delle associazioni

Antiracket) andava seguito con una vera e propria militanza. Iniziò per lei una lunga esperienza che oggi compie vent’anni. Gabriella Guerini è solo una delle tante donne che a Catania aprirono un varco generazionale, storico, civico, di notevole importanza. E’ strano che i media nazionali negli anni del “boom” dell’anti mafia ( quei duri ma speranzo si anni Novanta, quando sembrava che la Sicilia fosse davvero pronta alla svolta definitiva) non si siano mai accorti

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quanto alcune signore che lavoravano sin da allora nel chiuso delle loro stanze, senza regalarsi al partito di turno, abbiano influito positivamente. E non in una città qualunque, ma nella Catania che ancora oggi subisce danni indicibili dalla mafia dei colletti bianchi. Quella mafia che continua vivere e fare proseliti ai piedi dell’Etna. Insieme a Gabriella che oggi presiede l’ASAAE , l’Associazione antiracket antiusura etnea, (www. asaae.it ed esiste pure un’aggiornatissima pagina Facebook “Asaae liberarsi dal racket”) , con otto processi conclusi in tre anni a favore degli imprenditori che hanno denunciato i loro aguzzini, alcuni dei quali condannati sia in primo che in secondo grado, ci sono state e molte ci sono ancora- donne pronte a dedicare la maggior parte del loro tempo libero alla lotta contro le estorsioni e l’usura, altro male antico di difficile soluzione. Un esempio di energia e testardaggine che ha coinvolto decine e decine di volontari catanesi, più certi che dedicare il


A Catania l’antiracket è donna loro tempo all’associazionismo a tutela degli imprenditori taglieggiati fosse doveroso. Tutte rose e fiori? Certo che no. “Oggi le associazioni antiracket sono molto partecipate dalle donne, anche se gli uomini, alla fine, sono sempre in numero maggiore – spiega la Guerini, sorridendo.Ma Catania è stato un caso molto particolare. Nel ’91 iniziammo con Adriana Guarnaccia, Linda Russo, Margherita Scuderi, Pia Giulia Nucci. Allora l’impegno da parte di molte iniziò non tanto perché tutti fossero sottoposte, come nel mio caso, ad estorsione, ma per un forte senso civico. E per l’idea che il racket andava combattuto sempre e comunque”. All’inizio Gabriella ha lavorato presso l’Asaec, l’associazione antiestorsione di Catania “Libero grassi”, per poi concentrare le sue energie con lo “Sportello antiusura” della Confesercenti, e oggi invece presiede l’Asaae, con 85 iscritti e tanti progetti da mandare avanti. Qui tra le donne più attive ci sono anche Maria Luisa Barrera e Samantha Viva, commercialista la prima, giornalista la seconda, e Rosaria Nociforo. Ma molte altre donne, di varie sigle , ASAAE compresa, fanno parte del circuito rosa dell’antiracket rappresentando le singole realtà di riferimento in seno al FAI. Ma cos’è cambiato in questi vent’anni

nell’associazionismo dell’antiracket? “Diciamo che molte delle associazioni hanno perso il punto di vista iniziale- dice Gabriella- ossia lo scopo per il quale siamo nati, che è quello di aiutare le persone a denunciare, e seguirle in tutto l’iter per poter accedere ai benefici delle leggi. E, quello che è più importante, sostenere la loro speranza fino a quando ci sarà il processo. Sino a quando potranno ricominciare a lavorare. E questo è molto difficile. In effetti, i tempi della giustizia sono molto lenti, soprattutto nell’ambito dei casi d’usura. Possono essere anche superiori ai tre anni”. C’è però la voglia di interagire con le istituzioni e la giustizia. Gabriella Guerini racconta l’ottimo lavoro di squadra dentro l’associazione “Libera” e la richiesta di organizzare un tavolo tecnico col nuovo Procuratore della Repubblica, Giovanni Salvi. “Chiediamo aiuto a più livelli. Purtroppo non è detto che chi denuncia sia sempre mosso da nobili intenzioni. Qualche volta lo si fa per i soldi e per la sospensione dei termini. Anche per questo gli inquirenti ci devono aiutare… “. Come vi finanziate?

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“Prima la Regione ci dava diecimila euro. Ce li facevamo bastare per gli spostamenti e per pagare i periti. Oggi nessuna ci dà nulla, siamo seguiti da professionisti che ci credono… ” E Catania come risponde? “Questa città è diversa da molti altri grossi centri del meridione, Palermo compresa. Lì, ad esempio, sono usciti fuori processi importanti, di grande valenza. Se si dimenticasse lo spirito egoistico dell’“Io sono meglio di te”, andrebbe molto meglio. Ma credo molto nell’unità delle sigle e stiamo lavorando in questo senso. Però è ben tenere presente un dato importante: a Catania le denunce , seppure lentamente, crescono”.


L’onore di fare il padrino / il boss che NON voleva fare “scruscio”

L’onore del padrino Il boss che NON voleva fare SCRUSCIO Graziella Proto A novembre scorso, Calogero Battista Passalacqua storico uomo d'onore di “Cosa Nostra” palermitana e capo della famiglia di Carini, è stato arrestato assieme alla figlia Margherita, elemento di spicco del clan. Si trovava agli arresti domiciliari nella sua casa di Carini dal 2007, aveva perso il potere, i suoi erano ai margini. I Pipitone, grandi alleati dei Lo Piccolo e Giuseppe Pecoraro sopranominato " u cagnuleddu" hanno comandato il paese e ci tentano ancora dall’interno del carcere. Dalla sua abitazione il vecchio capo richiama a sé i suoi uomini e ricostruisce il gruppo, arricchito dalla personalità della figlia Margherita. Durante la sua assenza, i suoi uomini sono rimasti a guardare o hanno fatto piccole cose. Compreso Giuseppe, Passalacqua figlio del boss. Adesso comandano loro e bisogna dimostrarlo ma, a un passo da una nuova guerra di mafia, il quindici novembre, affiliati, fiancheggiatori e collusi, sono stati arrestati.

.

La famiglia mafiosa di Carini La famiglia di Carini, da sempre, fa capo del mandamento di San Lorenzo – Tommaso Natale, uno dei più estesi e potenti di “cosa nostra” palermitana. Esercita la sua influenza oltre che sulla parte nord-occidentale del territorio metropolitano di Palermo, anche sulle famiglie dei comuni di Capaci, Isola delle Femmine, Carini, Villa Grazia di Carini, Sferracavallo, Tommaso Natale e Partanna Mondello. E’ caratterizzata dalla presenza di numerosi intrecci familiari. Esponenti di spicco della famiglia carinese, i fratelli Pipitone (Vincenzo, Angelo Antonio e Giovan Battista), Salvatore Gallina e Calogero Battista Passalacqua. I fratelli Pipitone, lo raccontò Tommaso Buscetta, e lo confermò anche la sentenza ordinanza del cosiddetto Maxiprocesso, erano ritenuti responsabili del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso in concorso con Bernardo Provenzano (capo della famiglia mafiosa di Corleone), il fratello Salvatore Provenzano, Procopio Di Maggio , Giuseppe Lipari Gaspare Pulizzi, collaboratore di giustizia, dal sedici gennaio 2008 ha raccontato che il ruolo dei Pipitone in seno a Cosa Nostra e nella famiglia di Carini è cresciuto grazie all'egemonia di Salvatore Lo Piccolo che ,basava il suo potere e la sua forza sulla fedeltà di Vincenzo Pipitone e il giovane Antonino Pipitone figlio di Angelo Antonino.

“questa volta lo sbaglio di dieci anni fa non si deve fare, non si fa questa volta lo sbaglio, se la cosa deve continuare.... appena …. dice eheh....subito....se no magari... gli si stringe il collo, perché questi appena hanno un po’ di largo... è fatta..”. “. li dobbiamo fare piangere!”.sbuffano alcuni picciotti del clan Passalacqua, soprattutto fra i più giovani, durante una telefonata intercettata dagli inquirenti. Un propellente pericolosissimo

che attende solo una scintilla per scatenare la faida. Ma, Calogero battista Passalacqua, boss della omonima famiglia di Carini, li tiene quieti. Cerca di fargli capire che gli affari si devono finire senza fare “scrusciu”. In sordina. Senza far ricorso alle armi. Possibilmente. Insomma, senza dare nell’occhio. Una strategia, nuova per i più giovani, in verità molto antica.

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Da sempre vicino ai “Corleonesi”, Calogero Passalacqua detto “Battista i Santi” sin dai tempi del Maxiprocesso è considerato elemento di spicco nell’organizzazione di Cosa Nostra palermitana. I primi rapporti giudiziari redatti sul suo conto risalgono agli anni 70 e lo fotografano come storico reggente della famiglia mafiosa di Carini. Territorio che abbandona per scappare e


L’onore di fare il padrino / il boss che NON voleva fare “scruscio” nascondersi. Una latitanza interrotta nel 1997, perché catturato dai Carabinieri a Chianciano . Insieme a lui suoi numerosi fiancheggiatori che ne favorivano l’irreperibilità. Della sua assenza, sul territorio ne beneficiano i fratelli Pipitone, Angelo Antonino, Giovan Battista e Vincenzo, e infine, quando loro finiscono in galera, i giovanissimi rimasti ancora liberi: Gaspare Pulizzi, oggi collaboratore, Ferdinando Gallina e Pipitone Antonino, figlio di Angelo Antonino. Fra i vari gregari, Giuseppe Passalacqua figlio di Calogero Gio’ Battista e Pecoraro Giuseppe “ u cagnuleddu”che farà una scalata rapidissima fra i Pipitone. Dieci anni di reclusione, poi, Battista Passalacqua per motivi di salute ottiene gli arresti domiciliari e torna nel “suo territorio”. Era la fine del novembre 2007. Una buona occasione per lui e i suoi fedelissimi. Gli amici. Fra i tanti, Domenico Raccuglia della zona di Partinico che lo aiuta per tornare al comando della famiglia. “Battista i Santi” richiama a sé i suoi fedelissimi che, nell’ultimo decennio, dopo averne favorito la latitanza, hanno trovato lavoro lontano dalla Sicilia o, tornati a Carini, si sono tenuti fuori da Cosa Nostra e, comincia la riorganizzazione. INDAGINI DIFFICOLTOSE Recluso nella sua casa, Battista i Santi è circondato da affetto e rispetto. Conosce tutti e sa tutto di tutti. Mantiene rapporti. Riceve visite. L’anzianità, la lunga militanza nelle fila di “Cosa nostra”, la sua storia personale, il carisma da padrino, gli crea fedeltà e stima. Gode della protezione di una cortina quasi impenetrabile. Dalla sua casa situata nel cuore di Carini ha il totale controllo di quanto avviene all’esterno delle mura domestiche, grazie alla complicità del vicinato, soggetti che pur non potendo definire mafiosi o criminali di sicuro gli permettono di controllare meticolosamente il quartiere dove vive. Avvicinarsi a quell’abitazione senza essere notati, era quasi impossibile, persino i bambini, sembra siano stati addestrati a guardarsi dagli “sbirri” mentre giocano in strada. Rendendo così le indagini a suo carico molto difficoltose. Fra i più fedeli, Grigoli Gianfranco arrestato a Montepulciano perché favoriva la sua latitanza e che è rientrato in Sicilia per ubbidire al capo. C’è dell’altro, l’abitazione di Grigoli ha un ingresso che comunica con

l’abitazione dei Passalacqua . Una bella situazione per non dare nell’occhio. Il fedele Grigoli, spesse volte è stato notato mentre accoglieva all’esterno dell’edificio, o a volte addirittura accompagnare con la sua macchina, soggetti che secondo gli inquirenti sono molto vicini al reggente che da lui si recavano per le” riunioni” nella casaprigione. Da lì, secondo gli investigatori, il reggente, decide gli indirizzi che l’organizzazione criminale deve perseguire e risolve personalmente, la gestione del potere economico, cioè l’economia dell’intero paese. Inoltre, come un vero padrino, interviene per risolvere controversie, offrire raccomandazioni, ascoltare tutti quelli che lo richiedano. Invia messaggi che scrive e spesso consegna la figlia Margherita. In alcuni casi è stato visto che i messaggi sarebbero brevi scambi di battute fra Passalacqua affacciato al balcone della propria abitazione, e soggetti che si fermavano lungo la strada a breve distanza. Poche parole appena sillabate. Oppure un bigliettino appallottolato. “Patriarca mafioso” Per gli inquirenti ci si troverebbe di fronte ad un vecchio tipo di patriarca. Un “capo-famiglia” molto distante dai Lo Piccolo padre e figlio, soprattutto nell’esercizio e nella concezione del potere mafioso. Perciò, quando loro, i vari Pipitone e Pecoraro finiscono in galera e lui riprende il controllo del territorio, cambia subito alcune cose. Il pizzo sistematico che a cadenza periodica

Peggio, origina malumore e dissenso. Allora le piccole attività commerciali o quelle appena avviate non devono pagare il pizzo, perché non si deve aggiungere alle già gravose difficoltà economiche anche il peso delle richieste estorsive. Il pizzo deve essere imposto alle grosse imprese, capaci di sostenere anche la famiglia mafiosa. Inoltre, i titolari di imprese o di appalti ricadenti sul territorio della locale famiglia mafiosa sono tenuti ad assumere soggetti imposti dalla congrega locale. L’impiego di un gregario ha un duplice aspetto, garantisce autonomia economica agli affiliati e permette il controllo del territorio. Impiegati, operai e soprattutto guardiani notturni. Gli inquirenti hanno accertato che, molte ditte, che assumono il guardiano imposto, nelle ore notturne si avvalgono di servizi di vigilanza e che nel territorio in esame, le assunzioni e licenziamenti sono eseguiti secondo le indicazioni impartite dal vertice della famiglia mafiosa. Un ufficio di collocamento. Una morsa criminale potente. Ovviamente non è solo questo. Molti membri della famiglia tramite parenti, amici, prestanome, false società, sono proprietari di numerose aziende economiche nella zone e fuori. Oltre alla droga, che si compra dal pescivendolo e che è tenuta dalle mogli, appalti, servizi, concessioni… C’è dell’altro ancora. Ciò che fa si che questa famiglia apparentemente, per i più, poco importante rispetto ai gruppi mafiosi che costruiscono intere città all’altro capo del mondo, logisticamente oltre che geograficamente, ricade nel mandamento mafioso di San Lorenzo - Tommaso Natale che tiene sotto scacco buona parte di Palermo e provincia. Cioè la famiglia di Carini è un elemento strategico nelle logiche e nelle alleanze. GIO’ L’AMERICANO

pagavano i commercianti, gli artigiani e i piccoli imprenditori, era solo vessazione esercitata nei confronti di chi produce.

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Fra gli arrestati, nell’operazione dei carabinieri contro la cosca Passalacqua c’è un personaggio alquanto singolare. Non fa parte ma partecipa. E’ esterno ma conosce le cose dall’interno. Esige “rispetto”. Pretende di essere “riconosciuto” Mafioso? No! Nell’ambiente mafioso è conosciuto come Giò l’americano perché in passato ha vissuto parecchi anni negli Stati Uniti dove ha gestito numerose attività commerciali soprattutto pizzerie. In paese lo conoscono come sensale di affari immobiliari. Inoltra si dedica e


L’onore di fare il padrino / il boss che NON voleva fare “scruscio” amministra gli affari e gli immobili del genero che vive negli USA. Per raggiungere i suoi obiettivi non disdegna fare ricorso alle misure forti. Giò l’americano che mostra di conoscere le vicende delle famiglie mafiose di Carini e che agisce secondo un codice, è considerato punto di riferimento. Uno capace di portare la pace tra le fazioni opposte evitando l’intervento delle forze dell’ordine. Una che parla con tutti, gli uni e gli altri. Per telefono e di persona. Sa che lo ascolteranno. Un mediatore, dunque. Per vocazione e parentela. E’lo zio acquisito di Giuseppe Pecoraro “ u cagnuleddu”; è cugino acquisito di Battista Passalacqua. Esponente di spicco della famiglia Pipitone il primo, capo della omonima famiglia il secondo. Lo zio Giò è molto legato alla nipote Antonella Buffa sposata con Pecoraro, in carcere per diversi provvedimenti fra i quali appartenenza a cosa nostra . Per lui lo zio ha delicatezze, comprensione generosità. Manda e riceve messaggi. Desidererebbe andare a trovarlo in carcere. Insomma gli sta molto vicino. Ascolta e conforta sua nipote quando ritorna dai

colloqui in carcere. Per lei è il suo punto di riferimento. Un rapporto oltre all’affetto, di fiducia reciproca. Un rapporto non molto dissimile da quello che c'è fra Giò e il cugino battista Passalacqua. Le due mogli sono cugine di primo grado, le famiglie si vogliono bene si frequentano. Sono disponibili da entrambi le parti. Perciò può capitare c ed è venuto fuori dalle intercettazioni che, Giò Evola riceva una telefonata dalla moglie che lo informa di aver ricevutola telefonata di sua cugina Maria Passalacqua che lo invita a passare da casa sua perché deve consegnargli qualcosa. Il tono della conversazione era quantomeno sospetto, soprattutto perché la signora Evola suggeriva al marito di passare dall’abitazione dei cugini nella serata “con lo scuro…”. Fare delle ipotesi non è poi così difficile. Tuttavia, ciò che emerge con chiarezza dalle indagini è che Giò Evola, pur essendo legato a Battista i Santi da affetto, rispetto e complicità, in realtà si muove ed opera come espressione delle posizioni del gruppo Pecoraro, quindi dei Pipitone. Una situazione imbarazzante

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forse, ma non per lui. Giò Evola oltre ad essere punto di riferimento delle famiglie mafiose di Carini mantiene rapporti con quelle Americane. L’intercettazione di una telefonata fra Vito Caruso il pescivendolo ed Evola può essere esemplificativa. Durante la conversazione, Giò gli comunica di essere stato contattato da Giò Gambino ( il famoso esponente della mafia americana ) direttamente dagli Stati Uniti. Gli avrebbe chiesto notizie sul conto dello stesso Caruso Vito, attuale convivente di Antonina Vincenza Gambino - sua figlia. Mentre Vito Caruso si affatica a spiegargli che tutto va bene, che lo deve tranquillizzare, Giò comunque lo ammonisce dal comportarsi in maniera irresponsabile ed immorale, perché ha garantito personalmente circa la sua serietà. Una persona perbene!


Aspirante Precario Giornalista

Aspirante Precario

Giornalista Contro la monotonia moderna PROTEST…. Sfigato, presfigato postsfigato.

Valentina Ersilia Matrascia La mobilità e il desiderio di accettare nuove sfide, devono essere una scelta e non la sola condizione possibile di lavorare. Chiara, Claudia, Enzo, Raffaella aspiranti operatori dell’informazione - storie diverse - sogni e difficoltà comuni si confrontano. Ragazzi di una generazione che fa i conti con la crisi e con politiche di welfare inesistenti o quasi. Con un tasso di disoccupazione dei giovani tra diciotto e ventinove anni, che ammonta al 18,6%, almeno undici punti percentuali al di sopra di quello complessivo. Flessibilità e mobilità, antidoti contro la monotonia dell'uomo moderno? Ragazzi a confronto.

Chiacchierata fra aspiranti giornalisti: diversamente occupati CHIARA "Non mi sento sfigata. Mi sento sconfortata, perché il mio paese non mi dà la possibilità di fare quello che voglio e di farlo in modo dignitoso, cioè uno stipendio che possa essere definito tale. Lavoro e anche tanto, ma non sono pagata. Faccio quello che mi piace fare, quello che sogno da sempre: la giornalista. Al momento sono all'estero e personalmente continuo a sognare l'Italia, ogni notte. Perché per quanto sia bello stare in Canada, per quanto sia sicuramente un'esperienza importante e formativa, non è questo il mio Paese. Voglio fare la giornalista in Italia. Nel MIO paese. Perché voglio fornire un buon servizio alla MIA comunità. Sarò un'illusa, ma credo ancora che il giornalismo sia al servizio della società e che possa risollevarla dal buco nero in cui si è schiantata". Chiara, neo laureata a pieni voti con una tesi sul precariato giornalistico, a esser

definita sfigata proprio non ci sta. E con lei, nemmeno Enzo, Claudia, Raffaella, Claudia B. e Claudia P. Neo laureati o laureandi in Editoria e giornalismo, con un sogno nel cassetto: diventare giornalisti o editori in Italia e il desiderio che quanto hanno studiato possa essere utile a se stessi e agli altri. Storie diverse ma sogni e difficoltà comuni. Ritratto spietato di una generazione che fa i conti con la crisi e con politiche di welfare da decenni totalmente inesistenti o quasi. Sfigati, così li hanno definiti nelle scorse settimane il neo vice-ministro del Welfare, Michel Martone e il deputato del Pdl, Giorgio Clelio Stracquadanio. Sfigato chi a ventotto anni non ha ancora raggiunto il traguardo della laurea, per il primo; chi guadagna 500 euro al mese, per il secondo. Da bamboccioni a mammoni, per i giovani italiani il posto fisso diventa sempre più utopia.

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Flessibilità, precariato e difficile accesso al mercato del lavoro sono un cocktail esplosivo. E intanto, stando ai dati Istat, nei primi tre mesi del 2011, l'occupazione giovanile ha subito una flessione del 2,5% (circa ottanta mila unità). Il tasso di disoccupazione dei giovani tra diciotto e ventinove anni, infatti, ammonta al 18,6%, almeno undici punti percentuali al di sopra di quello complessivo. Si arriva al 31% nella fascia di età 15-24 anni, seconda solo alla Spagna. Flessibilità e mobilità, antidoti contro la monotonia dell'uomo moderno. E se laureandoti a venticinque anni sei fuori dai giochi perché senza esperienza, se ti laurei a ventotto o ventinove anni la situazione, di certo, non migliora. RAFFAELLA "La dichiarazione del vice-ministro mi ha toccato nel profondo, perché a ventinove anni non ho un lavoro, né stabile né


Aspirante Precario Giornalista remunerativo e solo a giugno di quest'anno otterrò la laurea specialistica. Eppure non mi sento una sfigata, almeno non nei termini intesi da Martone", spiega Raffaella. "In tutto questo tempo, però, non sono stata certo con le mani in mano. Ho sempre lavorato, in nero, ovviamente. La lista di lavori assurdi che ho fatto non può neanche essere inserita nel curriculum. Mi sento sfigata perché tutto mi fa sembrare che ogni scelta fatta per il mio futuro da quindici anni a questa parte non sia stata inutile ma stupida, una specie di suicidio lavorativo: Studiare tanto e non aver ottenuto nulla. Così, nei momenti peggiori, mi sento sull'orlo del fallimento e per questo motivo non mi sento di definire qualcuno sfigato. Credo che ognuno cerchi di fare il meglio secondo le proprie possibilità". “L’impatto con il mondo del lavoro, anche un paio di mesi dopo il conseguimento del sospirato pezzo di carta, non è dei più felici”. Un frontale contro un muro di cemento, lo definisce Raffaella che, in attesa di trovare qualcosa di più affine ai suoi studi e ai suoi interessi, collabora gratuitamente con due siti - "per cercare il più possibile di fare curriculum" –aggiunge speranzosa - di trovare un lavoro, qualsiasi, per iniziare, che mi dia modo di vivere la mia vita". "Conosco giovani laureati che si affacciano al post laurea consegnando il proprio curriculum ovunque - dai call center alle catene fast-food - e spesso, al contrario di quanto afferma Stracquadanio, guadagnando anche molto meno di cinquecento euro. Perciò, credo, che il problema dell’Italia in generale non sia neanche più la versatilità (un tempo ancora di salvezza) ma la mancanza proprio di posti di lavoro e ancora peggio la mancanza di meritocrazia, tanto decantata dall’onorevole. Insomma, la fila dei raccomandati va sempre più veloce, mentre quella dei meritevoli resta immobile". ENZO "Da sei mesi cerco lavoro e mando CV da laureando - spiega Enzo che punta il dito sulla formazione - in sei mesi, però, avrò ricevuto tre o quattro risposte. In due casi complimenti che magari mettono prima di buon umore, ma poi tristezza. Il problema di fondo è che la crisi è un dato di fatto. Il lavoro non è tanto ma credo che il vero punto debole della nostra generazione sia la formazione: la nostra preparazione accademica non è ritagliata su misura per le necessità di un'azienda. Un corso nozionistico, che non ti fa utilizzare i software utilizzati all'interno di una casa editrice, ad esempio, non ti forma a livello

professionale. Deve essere tutto strutturato in funzione delle aziende". "Come può un ventinovenne mettersi in gioco se in alcune offerte, anche pubbliche, il limite massimo è di ventotto anni? Non è forse che non si ha una limpida visione della realtà odierna? D'altronde a ventinove anni, non m'identifico certo nella definizione di sfigato. Di postsfigato, forse. Qualcosa di buono verrà. Eppure il giorno delle dichiarazioni di Martone, piansi tutto il giorno. A tratti, imprecai e provai rabbia, ma non toccai libro: non riuscivo a concentrarmi. E poi la notte, con gli occhi sbarrati, non c'era nessun Martone a dirmi: Dormi, andrà tutto bene, hai sempre dato tutto e troverai la tua strada". Discussione Non lasciano scampo le parole di Claudia B. che tracciano il ritratto di una generazione condannata di certo a non annoiarsi per la monotonia del posto fisso, tutt'altro. "Non siamo più nei magnifici anni '80, bisogna guardare in faccia la realtà: il posto fisso, oggi, non esiste. Questo non vuol dire, però, creare, come è stato fatto, un esercito di precari", le fa eco in modo risoluto Chiara e con lei anche Claudia P.. "Non sopporto sentire top manager da stipendi mensili che per altri sono annui (lordi) dire che bisogna accettare nuove sfide e non fossilizzarsi. È insopportabile il tentativo di far passare per scarsa ambizione la necessità di mantenere una famiglia o il desiderio di farsene una, di avere qualche piccola certezza, di poter per esempio comprarsi un pc, magari a rate. Tutti salteremmo volentieri da un lavoro all'altro se solo avessimo il paracadute di una piccola certezza e non parlo davvero di 30mila e passa euro al mese di stipendio. Credo che la flessibilità sia una dote che chiunque, da sempre, deve avere, nel lavoro e nella vita e oggi più che mai. La mobilità e il desiderio di accettare nuove sfide, però, devono essere una scelta e non la sola condizione possibile di lavorare". Se entrare nel mondo del lavoro, non è facile, il giornalismo e l'editoria sembrano ancora più irraggiungibili. Il giornalismo, di fatto, "non è considerato un lavoro ma un mondo in cui spendi tempo e collaborazioni per essere un

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disoccupato creativo. È un ruolo particolare, anche un po' bizzarro", racconta con amara ironia Claudia B. "Scrivi di cassintegrati, di disoccupati, di crisi locale e globale, il tutto ovviamente in maniera completamente gratuita. È una solitudine occupazionale, o meglio diversamente occupazionale, che mortifica totalmente la coscienza personale, cinque anni di studi universitari, e la voglia di costruirsi un futuro grazie alle proprie forze. Io personalmente lavoro, come ho sempre fatto anche quando studiavo, in maniera stagionale come commessa, ma, continuo ad inseguire la mia grande passione, quella del giornalismo come professione. Passione che per me significa anche essere impegnati eticamente. Senza troppi perché, servendo solo il principio che per me scrivere è il mestiere più bello del mondo". *** Inevitabile la rabbia per una classe politica che sembra aver perso di vista gli artefici del presente e del futuro del Paese, accecata dai suoi limiti più meschini: il desiderio di non perdere le prossime elezioni di non scontentare il potentato economico. Obiettivi a lungo termine inesistenti, totale incapacità di comunicare un qualsiasi ideale di futuro.


Ordinaria amministrazione

Ordinaria amministrazione Macché clientelismo e spazzatura Alessio di Florio Nascono come cattedrali nel deserto per il compostaggio e il riciclaggio dei rifiuti e diventano centri per la raccolta voti. Al Civeta – Consorzio Intercomunale di Cupello, si è registrata negli anni la contestata assunzione del figlio del vice sindaco – oggi tra i responsabili di un settore importantissimo nella gestione del consorzio - ed è stato allontanato un consigliere d'amministrazione che si batteva per l’etica e contro la “degenerazione nell’amministrazione della cosa pubblica”. Cupello, piccolo paese a poco meno di un'ora dal confine con il Molise, sulle colline del Vastese, è la sede - sin dalla sua nascita - del Consorzio Intercomunale Del Vastese (CIVETA), che, ospita gli impianti di compostaggio e riciclaggio dei rifiuti. Negli anni scorsi il CIVETA è stato al centro di una gravissima crisi, che l'ha portato ad un passo dalla chiusura a causa della sua gestione politica e amministrativa. Una conduzione finita varie volte anche nel mirino della Regione Abruzzo, che per ben tre volte , nel luglio 2007, dicembre 2008, agosto 2009, ha diffidato il CIVETA "dall’effettuare attività di gestione degli impianti difformemente" da quanto previsto e dovuto. Una grandissima "vacca da mungere"come lo definì nel 2009 Rifondazione Comunista – il consorzio è caratterizzato da una pianta organica nettamente sopra le sue reali necessità e rispondente solo a esigenze clientelari, caratteristica dominante dalla fine della Seconda Guerra Mondiale nel Vastese. Basti pensare a Remo Gaspari, ex ministro DC deceduto da pochi mesi, abruzzese, autoproclamatosi in varie interviste il "re del clientelismo". Facciamo qualche passo indietro. Il ventisei novembre 2005 il direttore generale del CIVETA, l’ingegner Sammartino propone al Consiglio di Amministrazione la richiesta di nuovi inserimenti lavorativi per soddisfare "insopprimibili esigenze". Il consigliere

Angelo Bucciarelli, facendo esplicito riferimento a possibili clientelismi, esprime la propria opposizione a possibili consulenze esterne. Il consigliere Sandro Di Scerni dal canto suo, propone di cercare tra il personale già presente le possibili professionalità richieste dalle esigenze evidenziate da Sammartino e, in mancanza, di rivolgersi a professionisti. Alla fine il Consiglio di Amministrazione sceglie l'istituzione di "itinerari formativi" (ovvero di tirocini). Il cinque luglio 2006 Sammartino attiva il tirocinio previsto. La persona prescelta è Alessandro Pasquale, figlio del vice-sindaco di Cupello, Giulio Pasquale. Il dodici gennaio 2007 il Consiglio di Amministrazione del CIVETA, come primo atto dell'anno, in nome di "attività improcrastinabili e inderogabili la cui non attuazione potrebbe pregiudicare il funzionamento, l’operatività e la gestione del consorzio"assume Alessandro Pasquale, che ormai ha finito il tirocinio. Un "contratto a tempo determinato"per la durata di sei mesi. Il sedici luglio, cioè il giorno della scadenza del contratto, il Consiglio di Amministrazione dà mandato al direttore Sammartino di prorogare il contratto fino alla fine dell'anno. Il direttore esegue immediatamente nella giornata. Il ventiquattro agosto, dopo trentanove giorni, Consiglio di Amministrazione ci ripensa e decide di assumere Alessandro Pasquale con contratto a tempo indeterminato.

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Era necessaria tutta questa messa in scena? Ma, non avevano detto che bisognava evitare i clientelismi? Nello stesso periodo un'altra gravissima vicenda coinvolge il Consiglio di Amministrazione del CIVETA. Nel giugno 2006 il sindaco di Cupello Angelo Pollutri decide di revocare l'incarico di consigliere a Sandro Di Scerni, professionista molto affermato nel campo della gestione dei rifiuti. Un provvedimento quello del sindaco, su cui forti sono stati i dubbi di legittimità. Tuttavia, secondo Pollutri le colpe di Sandro Di Scerni sarebbero state il "venir meno del rapporto di fiducia" e l'aver mancato di "tutelare gli interessi dell’ente" con "comportamenti e prese di posizione ostativi". Donatello D'Arcangelo, segretario provinciale di Rifondazione Comunista, ha rigettato le accuse di Pollutri accusandolo di aver revocato l'incarico perché il consigliere all’interno del consorzio aveva sempre tenuto fede ai principi di eticità della politica, attaccando "l’emergere e il prosperare di tanti gasparini che si credono proprietari dei voti e dei territori che amministrano". Una vicenda “emblematica della degenerazione cui si è giunti nell’amministrazione della cosa pubblica”. Oggi il vice sindaco Giulio Di Pasquale fa parte degli amministratori del Consorzio Civeta.


Sgarbi / Il tramonto di un sogno tra finzioni e realtà

Il tramonto di un sogno tra finzioni e realtà Salemi, primo comune “demafizzato” Franco Lo Re A Salemi gli assessori al Nulla, al Gusto e al Disgusto, ai Sogni, alle Mani in Pasta, alla Creatività, all’Ebbrezza escono di scena. A Salemi non esiste la mafia, ma il museo della mafia. La mafia si anniderebbe in certi settori dell’antimafia ripeteva ossessivamente l’ex sindaco Vittorio Sgarbi il cui primo vicesindaco, era il diretto rappresentante dell’ex deputato democristiano Pino Gianmmarinaro, sul quale la magistratura avrebbe molto da dire.(Casablanca n°19) "Giammarinaro partecipava sempre alle riunioni della giunta municipale di Salemi. Sgarbi dica quello che vuole. Ma questa è la realtà che, tra l'altro, ho raccontato ai magistrati" – dichiara Oliviero Toscani, ex assessore al comune di Salemi.

Sembra tutta uscita dalla penna di Andrea Camilleri questa storia che vede protagonista Vittorio Sgarbi. Gli ingredienti ci sono tutti. Una cittadina siciliana abbarbicata su una ridente collina, situata nel cuore della Valle del Belice. Origini arabo-medievale, e un importante rilievo urbanistico. Il nome che sembra inventato: Salemi, da “Salam” città salubre e sicura, o da “Salem”, luogo di pace. Un Castello federiciano, simile a una aquila appollaiata sulla rocca e adibito subito dal sindaco come luogo per promozioni editoriali, spesso della Bompiani. La presenza trentennale di un ras politico democristiano, Pino Giammarinaro, cresciuto alla corte dei cugini Salvo, eletto deputato regionale con 50mila voti e sponsorizzato, da Giulio Andreotti e noto per essere molto “‘ntisu” negli ambienti della sanità

pubblica trapanese e per avere intessuto rapporti politici trasversali. Un discreto numero di palazzi patrizi e baronali in gran parte, in decadenza o semiabbandonati. Alcuni dei quali

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oggetto di attenzioni e interesse da parte del sindaco e della sua vice sindaca Favuzza. Un quartiere ebraico, la Giudecca all’interno del quale avrebbe dovuto sorgere una Sinagoga. Come pure una grande Moschea sarebbe stata eretta in quello arabo, il Rabato. “Salemi, la Città delle tre religioni”, recitava, infatti, uno dei tanti cartelloni fatti affiggere dal critico d’arte lungo la strada che porta in paese. E così anche le stradine silenziose, la strada mastra con botteghe artigiane, palazzi e case, negozi, una volta pieni di vita e di fervore, che non costituiscono più quel circuito naturale che cingeva, armoniosamente, l'intero abitato, con gemme di monumenti laici e religiosi, abbandonati dall’incuria della politica nazionale e regionale ma anche deturpati dal cattivo gusto dell'uomo, avrebbero dovuto riacquistare vitalità e vigore


Sgarbi / Il tramonto di un sogno tra finzioni e realtà con il cosiddetto progetto delle “Case a 1 euro”. Ma la scommessa più ambiziosa del ferrarese era tutta incisa su un altro sferzante cartello. Quello che avvisava il visitatore di essere arrivato a “Salemi, primo comune demafizzato”. Già. Perché l’affermazione paradossale secondo cui la vera mafia si anniderebbe in certi settori dell’antimafia, è stato il leitmotiv della missione siciliana di Sgarbi. Ripetuto fino all’ossessione. Salemi nota al mondo non più come la città degli esattori Salvo: semmai per essere stata “la prima Capitale d’Italia” ad opera di Garibaldi o perché ad Amedeo di Savoia gli fu conferito il titolo di “Conte di Salemi”. Perciò, la costituzione di un “Museo della Mafia”, intitolato niente di meno che a Sciascia. Erano i primi mesi della sua sindacatura. Il periodo aureo rivoluzionario che il radicale Bellario, assistente di Oliviero Toscano, ebbe l’imprudenza di paragonare addirittura all’impresa fiumana di D’Annunzio. Erano i tempi in cui venivano nominati assessori con un ritmo vertiginoso: al Nulla, al Gusto e al Disgusto, ai Sogni, alle Mani in Pasta, alla Creatività, all’Ebbrezza. *** Sgarbi, quale novello Federico II, in questi bollenti anni ha rivolto lo sguardo oltre i confini, non esitando ad invitare alla sua Corte i personaggi più disparati: il Raìs Gheddafi (“la Libia annetta la Sicilia...” , “il mio Gheddafi sedotto e abbandonato”, lo definirà alla caduta), lo sceicco del Qatar, rabbini. Sognando persino di portare il Dalai Lama nella “sua Città” dove, peraltro, il parlamento del Tibet in esilio, se lo avesse voluto, avrebbe trovato sede e

ospitalità per tutto il tempo che avrebbero ritenuto opportuno. E di conseguenza ecco proclamata Salemi nuovamente “Capitale”, ma stavolta del Tibet, tra lo sbigottimento generale dei cittadini, che un bel mattino si sveglieranno con la città tutta pavesata a festa con bandiere del lontano Paese Orientale. Nel frattempo la composizione della Giunta cambiava continuamente fisionomia, a cominciare dal primo vicesindaco, il dottor Nino Scalisi rappresentante diretto dell’ex deputato democristiano Pino Giammarinaro. Sarà il primo, dopo pochissimi mesi, a gettare la spugna e a denunciare l’incapacità amministrativa di Sgarbi. Sarà l’inizio della rottura dell’Incantesimo. Cui seguiranno noiosi e inconcludenti rimpasti di giunta e l’inizio del turno di Antonella Favuzza come plenipotenziaria del sindaco. Che si dimostrerà, con l’andare del

tempo, sempre meno presente in città e in giunta (le delibere lo stanno a dimostrare). Ma la rottura definitiva del “Grande Sogno” avverrà con l’imprevista e imprevedibile rumorosa e plateale uscita di scena di Oliviero Toscani, Assessore alla Creatività e ai

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Diritti Umani. Si servirà di una testata nazionale il noto fotografo per motivare l’abbandono e la fuga. E lo farà usando una violenza verbale e senza mezzi termini. Dichiarando svanito il “sogno”. Scatenerà reazioni altrettanto violente da parte dell’antico amico Sgarbi, ma, soprattutto l’avvio, si dice, dell’inchiesta giudiziaria denominata “Salus Iniqua” che, oltre a determinare il sequestro di beni per un ammontare di 36 milioni di euro riconducibili direttamente a Pino Giammarinaro o suoi prestanomi, ha anche attivato una commissione prefettizia che per mesi ha lavorato presso il comune di Salemi. I risultati si trovano oggi all’esame del ministero dell’Interno. Le richieste sono di scioglimento di Giunta e Consiglio per “infiltrazione mafiosa”. Non è bastato averla relegata in un Museo, la Mafia, a quanto pare. Sembra essere trascorso un secolo da quando, Sgarbi amava sostenere che “a Salemi esiste una grave azione criminogena e di allarme sociale da parte di un’antimafia che crede in uno stereotipo della mafia”. Mafia che a Salemi, è acclarato, non esiste più”. *** A prestare fede invece all’inchiesta ‘Salus Iniqua’ e al lavoro della commissione prefettizia sembrerebbe tutto il contrario. Persino Vittorio Sgarbi ha dovuto prenderne atto formalizzando in Consiglio Comunale, nel corso di una seduta straordinaria, le dimissioni dalla carica di Sindaco di Salemi. Anche se lo ha fatto adombrando oscure manovre che


Sgarbi / Il tramonto di un sogno tra finzioni e realtà avrebbero indotto gli ispettori prefettizi a “rappresentare un’immagine totalmente distorta e infedele delle realtà politica ed amministrativa di Salemi». Ipotizzando ,“arbitrariamente e mendacemente un vero e proprio condizionamento mafioso di tutta l’attività amministrativa del Comune di Salemi”. Il sillogismo di Sgarbi è semplice e, a suo dire, lapalissiano. Non essendo affatto «occulto» che Pino Giammarinaro, nella funzione dichiarata di Commissario comunale della Democrazia Cristiana, sia stato l’animatore e il sostenitore della sua candidatura a sindaco, avendo vinto le elezioni ed essendo il gruppo politico di Giammarinaro maggioranza in Consiglio comunale con l’elezione di 12 consiglieri, risulta “inaccettabile e in perfetta malafede interpretare e presentare come «regia occulta» la normale attività politica e la dialettica trasparente tra sindaco, assessori e consiglieri comunali di maggioranza. In democrazia le decisioni si prendono anche e inevitabilmente consultando la maggioranza, la quale ha nell’ex parlamentare Pino Giammarinaro non un «regista occulto», ma un referente politico esplicito”. Altrimenti (e qui s’innesca la polemica accesa contro l’ex Pm Massimo Russo) non si capisce come mai l’attenzione degli inquirenti non si è rivolta verso altre operazioni politiche dove sicuramente la presenza di Giammarinaro sarebbe stata determinante. Quale appunto quel famigerato accordo politico consumato a Mazara del Vallo che vedeva la candidata, sponsorizzata dall’attuale assessore regionale alla sanità, appoggiata anche dal politico inquisito salemitano. “Capisco – ha osservato Sgarbi in proposito- il disagio di Massimo Russo, ma ribadisco che la differenza tra la mia posizione e la sua è che io non ho

mai nascosto il mio accordo politico con Giammarinaro”. Insomma, secondo il critico ferrarese, d’indagini ispirate da pregiudizi e non dalla verifica dei fatti, si tratta. Con la perversa conseguenza che “i consiglieri comunali di maggioranza, regolarmente eletti, vengono considerati complici e, per «associati di mafia», pur non essendo Giammarinaro indagato per mafia.” Per poi, infine e quasi a volere segnare i confini, concludere “si processi Giammarinaro , ma non si trasformi la sua attività politica in una interferenza criminale”. "Giammarinaro – ribatte Oliviero Toscani - partecipava sempre alle riunioni della giunta municipale di Salemi. Sgarbi dica quello che vuole. Ma questa è la realtà che, tra l'altro, ho raccontato ai magistrati". Gli ispettori avrebbero tratto le conclusioni che la Giunta, parte del Consiglio comunale e qualche vertice della burocrazia, hanno subito pressioni e influenze nelle decisioni da prendere fuori da ogni contesto di democrazia e confronto. Inoltre, ci sarebbe anche una non tanta velata critica sul numero di consulenze per migliaia di euro, su una serie di decreti ingiuntivi che quotidianamente arrivano sul tavolo del segretario comunale, perché l’amministrazione non riuscirebbe ad onorare le spettanze dei fornitori di beni e servizi. Se si ricorda che all’indomani della nomina della commissione prefettizia Sgarbi aveva dichiarato che “nessun atto della Pubblica Amministrazione è stato determinato dal benché minimo intervento o sollecitazione esterna”, si può capire la sua delusione che certamente l’ha spinto alle sue irrevocabili dimissioni. La relazione dei commissari,

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infatti, sostiene il contrario e conferma quello che c’è scritto nel rapporto “Salus Iniqua”, “e cioè che la presenza di Pino Giammarinaro – soprannominato dai suoi amici ‘Pino Manicomio’ – all’interno del Comune di Salemi era garantita da funzionari e politici”. I “fidati” dell’ex onorevole sono indicati in un rapporto dei Carabinieri di Salemi: cominciando dal segretario generale del Comune Vincenzo Barone e dall’ex direttore di ragioneria Gaspare Manzo, passando per diversi assessori e consiglieri comunali. In diverse intercettazioni risulta come Giammarinaro, sebbene privo di ruolo politico e amministrativo ufficiale, venisse quotidianamente consultato sui problemi politici e del Comune. Circostanza che, come abbiamo visto, è stata confermata anche dall’ex assessore e fotografo Oliviero Toscani e anzi indicata come motivo delle sue dimissioni. Dal canto suo Sgarbi, anche nel momento dell’abbandono, ripropone il suo noto teorema secondo il quale il Prefetto di Trapani, Marilisa Magno, il Maresciallo dei Carabinieri della locale stazione, Giovanni Teri e gli investigatori della Questura di Trapani, guidati dal capo della divisione Anticrimine Giuseppe Linares, «per dare forza alle loro indagini su Giammarinaro, attraverso quelle che sono solo ipotesi, suggestioni, ricostruzioni infondate e veri e propri falsi, hanno prospettato un condizionamento di Giammarinaro sull’amministrazione, per consentire poi al Prefetto di chiedere la Commissione di accesso agli atti». E’ la ragione per la quale ha inviato la lettera di dimissioni al Presidente della Regione, al Ministro dell’Interno, all’assessore regionale alle Autonomie locali e al Segretario comunale, «ma non al Prefetto di Trapani che ha dimostrato di agire senza


Sgarbi / Il tramonto di un sogno tra finzioni e realtà autonomia». Una lettera, che è un duro atto di accusa contro Prefettura e pezzi dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia di Stato. Rei a suo dire di avere addirittura congiurato contro di lui per costringerlo “in forza di una regia occulta di funzionari della Prefettura, della Questura e dell’Arma dei Carabinieri, contestualmente denunciati al Ministro dell’Interno” alle dimissioni. Che sono state operative (una delle sue ultime bizzarre trovate?), dopo una settimana, dalle ore 21,00 del 21 febbraio. “Solo per consentire al sindaco di agevolare le operazioni di trasloco di migliaia di libri, cataloghi, oggetti d’arte che aveva raccolto nei suoi uffici del Comune”, è stato detto. Infine, un invito ai dodici consiglieri della maggioranza a seguirlo nelle dimissioni, per dare all’assessore regionale agli Enti Locali la possibilità di inserire il comune di Salemi nella prossima tornata elettorale. Fino al momento in cui scriviamo i consiglieri che hanno aderito al suo appello, si sono arenati a quota dieci. Intanto a maggio si dovrebbe ritornare al voto. Il condizionale è d’obbligo. Potrebbe accadere, infatti, che, scattata la macchina

elettorale, in piena campagna i candidati possano essere bloccati dal tanto temuto pronunciamento del Ministro degli Interni. Potrebbe accadere che, accogliendo la proposta dei commissari prefettizi, il Comune sia sciolto per “infiltrazione mafiosa”. Ha scritto il Giornale “Salemi, da capitale mafiosa per antonomasia per aver dato i natali agli esattori in odore di Cosa Nostra Nino e Ignazio Salvo avrebbe dovuto essere trasformata in un esempio positivo con la cultura, oggi con rabbia e amarezza Vittorio Sgarbi urla: addio Sicilia irredimibile, addio Salemi, torno al Nord.” Evidentemente i famosi cugini Salvo, non avendo gradito di essere stati relegati in un Museo, avranno delegato il loro

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epigono Giammarinaro a rovinare il sogno del ferrarese. L’epilogo grottesco di una storia, iniziata in una serata primaverile romana, secondo i canoni del migliore Camilleri pirandelliano.


Arriva la Democrazia / Solidarietà, complicità, condivisione

Arriva la Democrazia Solidarietà, complicità, condivisione Natasha Merkouri Traduzione di Roberta Buscema

Ci sentiamo umiliati, ma la Grecia è stata il capro espiatorio d’Europa e i greci sono stati stigmatizzati per la loro inerzia. Siamo stati trascinati nel cuore di una crisi sociale come fossimo schiavi, noi, greci, mediterranei, europei. Stiamo lottando. Ce la faremo. Anche questa volta. Una intellettuale greca interpella alcuni suoi colleghi e amici con i quali compone un appello collettivo. Ciò che ci inviano è un coro di voci, ora tristi e tormentate ora ottimiste e costruttive per dire al mondo ci siamo. La dimostrazione? L’agire quotidiano improntato sulla solidarietà, complicità, condivisione. “You, people, can watch while I'm scrubbing these floors And I'm scrubbin' the floors while you're gawking” Pirate Jenny B. Brecht, K. Weill Atene, 5 marzo 2012 Cari tutti, state guardando me che scrivo in una rivista straniera e il mio paese che viene distrutto a livello finanziario e politico. Non appena sono venuti a conoscenza di questa lettera, alcuni dei miei amici hanno risposto alla mia richiesta di collaborazione con collera, altri in maniera pensierosa, altri ancora stoicamente. “L’unico modo per uscire dalla crisi è la prevenzione. Questo è un vero e proprio imperativo per poter apprendere la nostra lingua fino in fondo, prima che gli studenti greci vivano la disillusione del sistema educativo. Se non ci lasceremo incantare di nuovo da parole e bugie, i nostri brontolii muteranno forse in parole di pensiero critico. Potremmo salvarci da noi stessi. Tutto ciò mi fa una tale rabbia.” – Katy Thireou, scrittrice (oggi vive al Cairo, Egitto). “Declino della lingua vuol dire decadenza della civiltà. Nei tempi antichi il

paria era il solo a starsene in disparte, in maniera tale da non far parte di nulla. Noi stiamo proprio là. Siamo stati trascinati nel cuore di una crisi sociale come fossimo schiavi, noi, greci, mediterranei, europei” – Maria Linardi, giornalista. “Lavorare per i propri connazionali non rappresenta un’opportunità di profitto, eccetto che per coloro che governano. Con questo atto fraudolento si approfittano dei guadagni della

collettività. E fingono di ignorare che il denaro giunto da lontano rischia di

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trasformarsi in maledizioni straniere.” – Nikos Stereopoulos, giornalista “Non sono mai stato un evasore fiscale. Ho aiutato i miei allievi ovunque io fossi chiamato a insegnare. Io resto ancora fiducioso. Siamo sopravvissuti alla Seconda guerra mondiale e ad una guerra civile. Ce la faremo anche stavolta.” – Thanos Merkouris, insegnante in pensione Conosciamo tutti le cause dell’erosione, abbiamo preso parte tutti al gioco delle responsabilità e abbiamo detto tutti abbastanza al riguardo. Proviamo vergogna e ci sentiamo umiliati. La Grecia è stata il capro espiatorio d’Europa e i greci sono stati stigmatizzati per la loro inerzia. La Grecia rappresenta una scena del crimine. Dopo il Memorandum II la gente di tutto il mondo segue l’iniziativa “Solidarity for Greece”. Per quanto riguarda il fallimento dell’euro almeno i greci non sono gli unici che devono essere rimproverati. Ciò che bisogna fare adesso è volgerci verso un agire positivo, intraprendente e creativo.


Arriva la Democrazia / Solidarietà, complicità, condivisione Dopo mesi di risentimento, depressione e disperazione, mi sono resa conto che l’elemento fondante del mio paese è ancora pieno di vita. La democrazia è la sana reazione sociale alla patologia sociale; non la violenza, il terrorismo o la repressione, solamente l’azione che nasce dall’istinto di sopravvivenza, dai paradigmi storici, dal comune DNA. E questo è quanto è accaduto fra la popolazione greca nel corso delle ultime settimane. Gli insegnanti avviano classi private gratuite per gli studenti bisognosi; i produttori vendono i loro prodotti direttamente ai consumatori a prezzi davvero convenienti; nei supermercati locali gli acquirenti donano generi alimentari alle famiglie povere. Tre parole: solidarietà, complicità e condivisione. “Il Noos greco (ossia la “mente”) dà vita alla Luce, sotto un cielo chiaro, al di là di ogni pensiero dolente. Attraverso il Caos, esso ricerca l’armonia e prevede istintivamente il futuro. Quante persone riuscirebbero a sopportare quella Verità?”, Anna Stereopoulou, compositrice. Non è una questione di orgoglio. È credere fermamente nella democrazia che ha sempre agito in maniera silenziosa. Ma solo nelle società che in essa si sono formate. Così dunque non importa se noi sfreghiamo il pavimento mentre gli altri ci guardano. Quando finiremo, tutto sarà pulito.

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17 marzo 2012 Giornata della Memoria e dell’Impegno

XXVII Giornata Della Memoria e dell’impegno Nando Dalla Chiesa Libera a Genova, Libera in Liguria. Per festeggiare a Genova la giornata della memoria e dell’impegno del 17 marzo del 2012. E’ una scelta naturale. Un’altra grande e storica città del nord, dopo le esperienze di straordinaria partecipazione di Torino e di Milano. Perché ce lo stanno raccontando i processi, ce lo stanno dicendo ripetutamente le cronache e gli studi: è il nord ormai la vera terra di conquista delle mafie, la vera posta in gioco se si vuole rovesciare la strategia dei clan. Se si vuole decidere di non mettere a loro disposizione –pressoché indifese- le terre più ricche. Se si punta a saldare invece la rivolta delle regioni meridionali, e dei loro giovani in particolare, con una rivolta di tipo nuovo; capace di crescere e mettere radici in quelle che una volta erano le aree “di insediamento non tradizionale” e che tali non sono più se mezzo secolo è in grado di fare “tradizione”. Liguria, Lombardia e Piemonte. Nel nordovest, come anche nel Lazio, le organizzazioni mafiose si stanno scatenando. Non vogliono più gestire spazi residuali, non bastano più loro i tipici interstizi degli affari criminali. Pretendono, perché sentono di averne ormai la forza, di dettare legge, di conquistare il celebre “monopolio del ciclo del cemento”. Vogliono penetrare l’economia legale, dai ristoranti ai centri commerciali alla sanità, ed espandere i business illegali, a partire dallo smaltimento dei rifiuti. Tendono a intensificare i rapporti con la politica, dimostratasi troppo permeabile e “avvicinabile”. Meno che mai, sia chiaro, sono disposte a retrocedere. Non è nella loro natura. Hanno piuttosto dimostrato, soprattutto la ‘ndrangheta, ormai egemone

nel nord, una forte vocazione colonizzatrice. Per questo si apre con ogni evidenza un conflitto dalle grandi implicazioni civili e culturali. Al quale sono chiamati a partecipare, schierandosi con lo Stato di diritto, con la libertà, con

la giustizia, con la trasparenza amministrativa, tutti i cittadini onesti e responsabili, gelosi dei propri diritti costituzionali. In Liguria come in tutto il nord troppi sono stati gli occhi chiusi per quieto vivere, per incapacità di

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comprendere, talora per connivenza. Eppure (e proprio per questo) il comune di Bordighera è stato sciolto per infiltrazioni mafiose, dopo molte e inascoltate denunce di esponenti delle istituzioni e della società civile. E forse non rimarrà il solo. Eppure (e proprio per questo) la provincia di Imperia è stata abbandonata alle pretese dei clan grazie a esponenti delle istituzioni di recente -e per fortuna- rimossi o perseguiti. Eppure (e proprio per questo) informazioni più precise e preoccupanti giungono su attività mafiose nella altre provincie liguri, Genova compresa. Il contributo che Libera intende dare con la sua presenza nazionale sarà dunque come un atto di attenzione e di amore verso questa regione. Una giornata, quella del 17 marzo, che riassuma mesi di sensibilizzazione condotta a contatto quotidiano con gli esponenti più attenti delle istituzioni, con le scuole, le università, i sindacati, il ricco mondo delle associazioni, la chiesa più impegnata, le professioni, quegli imprenditori che apprezzano il nuovo vento che spira in Confindustria, siciliana e non solo. Un atto di attenzione e di amore tanto più dovuto dopo la prova terribile delle alluvioni autunnali, che hanno suscitato in tutta Italia un moto spontaneo di solidarietà verso Genova e verso la Liguria. Mettere la propria esperienza, l’entusiasmo di tanti giovani e la loro domanda di futuro, al servizio della causa della legalità e della giustizia in una terra di grandi tradizioni democratiche. Testimoniare, anche attraverso la presenza di centinaia di familiari di vittime, qual è il costo sociale e umano della mafia, perché tutti prendano coscienza dei prezzi che ogni anno di


17 marzo 2012 Giornata della Memoria e dell’Impegno ritardo può comportare. Tra i genovesi, con i genovesi. Tra i liguri, con i liguri. Ogni giornata della memoria e dell’impegno lascia nella città in cui si svolge un tesoro di relazioni sociali, di sensibilità civile, di coinvolgimento personale e collettivo. Lascia la città ospite più ricca, così come più ricca e responsabile diventa Libera attraverso queste giornate e i rapporti costruiti con città tanto diverse. Che la primavera arrivi e faccia sbocciare una nuova coscienza collettiva contro la mafia. Che lo faccia ovunque, partendo da Genova. Nando dalla Chiesa Presidente Onorario di Libera

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Danilo Dolci: un mondo senza miseria

DANILO DOLCI: Un Gigante che lottò contro la miseria Lorenzo Barbera Danilo Dolci architetto, sociologo, poeta educatore, attivista della non violenza, stato promotore, catalizzatore e ispiratore, di mobilitazioni collettive. Protagonista di azioni individuali che hanno suscitato grande attenzione, simpatia e solidarietà in modo trasversale. Gli scioperi della fame e la azioni non violente per difendere i più deboli, i più poveri e bistrattati. L’indignazione verso le istituzioni che ai bambini poveri non garantivano la sopravvivenza e l’adolescenza. La lotta per la pace e contro la mafia. I ricordi di chi ha vissuto e lottato con Danilo. Avevamo fame, ma eravamo felici ed entusiasti perché stavamo cambiando il mondo. Così ci pareva ascoltando disoccupati, contadini, artigiani, vecchi e ragazzi su come il loro paese potesse arrivare al lavoro e al benessere per tutti, senza più emigrazione. E se riscoprissimo Danilo Dolci?

Danilo Dolci, sociologo di Trieste, è stato promotore, catalizzatore o ispiratore, a volte anche a sua insaputa, di mobilitazioni collettive, protagonista di azioni individuali che hanno suscitato grande attenzione, simpatia e solidarietà. Tuttavia, spesso, ha provocato anche tanta ostilità dei media, del mondo politico, delle gerarchie ecclesiastiche. Quando, nel 1952, appena arrivato a Trappeto, scoprì che un bambino era morto di fame perché nato con la lingua attaccata al palato, denunciò pubblicamente l’incuria dei medici, del sistema sanitario, e del mondo politico, facendo il suo primo sciopero della fame nella stessa casetta del bambino morto. Un secondo sciopero della fame, sempre a Trappeto, fu contro la pesca di frodo a strascico nel golfo di Castellammare, che distruggeva la fauna ittica e affamava i piccoli pescatori. Nel 1954 scoprì il quartiere Spine Sante di Partinico dove, in casette a pianterreno di sedici metri quadri in terra battuta, vivevano famiglie con sette-otto bambini con genitori disoccupati che vivevano di espedienti e fu un altro sciopero della fame contro l’incuria delle istituzioni e dei benestanti. In seguito studiò Partinico e scoprì che, dall’Unità d’Italia fino al 1954, i partinicesi avevano ricevuto dallo Stato molti più anni di galera che di scuola e pubblicò “Banditi a Partinico”. Nel 1956, durante il lavoro che portò alla pubblicazione di “Inchiesta a Palermo”, Danilo scoprì pezzi di città ultradegradati come “Cortile Cascino” dove le famiglie vivevano in baracchette in mezzo alle macerie dei bombardamenti del 1943. Naturalmente nei confronti di queste denunce pubbliche attraverso scioperi della fame vi fu un crescendo di attenzione dei media e il consolidarsi di schieramenti pro e contro Danilo Negli anni sessanta, compreso il fortissimo intreccio tra mafia, chiesa e potere politico, Danilo mise a fuoco il ruolo che in tutto questo avevano avuto, dal dopoguerra, l’on. Bernardo Mattarella e il senatore Volpe, il primo sempre ministro del governo italiano e il secondo sempre sottosegretario. Contro di loro, dopo averli denunciati alla Commissione Antimafia, realizzò uno sciopero della fame di oltre venti giorni a Castellammare del Golfo, paese di Mattarella che era il “Mamma Santissima” della Provincia di Trapani. Il Cardinale Ruffini, di Palermo, tuonò contro di lui, giurando e spergiurando che Danilo era un bugiardo pagato per denigrare la Sicilia. Il sociologo Danilo interrogava e ascoltava tutti, ne comprendeva i problemi e, quando si trattava di persone svantaggiate, era capace di spendersi totalmente. E’ stato un gigante nella lotta contro la miseria, contro la fame, contro la corruzione, contro il clientelismo; ed è stato un maestro dell’azione non violenta. Un genio nel dare visibilità ai problemi socioeconomici, culturali, etici, politici ed alle azioni che intraprendeva per la loro soluzione. E’ stato anche un lavoratore instancabile, ordinato e meticoloso. Tutti i suoi scritti lo confermano. Tutte queste qualità, negli anni tra il 1950 e il 1960, ne hanno fatto una luminosa bussola sociale, etica, politica e culturale. Migliaia di scienziati, artisti, poeti, filosofi, religiosi, educatori, tecnici e, persino, politici e diplomatici di ogni angolo del pianeta hanno visto in Danilo una possibile guida per la costruzione di un mondo senza miseria, senza guerre, senza violenze di qualsiasi tipo, senza prepotenze e senza discriminazioni politiche, economiche, etniche, religiose, sociali, sessuali, culturali.

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Si trattava di persone che non vedevano nelle forze politiche dell’epoca il sogno, l’opera per la costruzione di un mondo di giustizia, di pace, di solidarietà e partecipazione. Molte di queste persone venivano e si mettevano a disposizione di Danilo per operare in Sicilia, in altre regioni italiane o in qualunque altra zona della terra. Molte di esse hanno dato vita a comitati di sostegno politico ed economico all’attività di Danilo e dei suoi collaboratori che operavano in Sicilia. Tutto ciò spiega la candidatura di Danilo al “Premio Nobel per la Pace” nel 1968 e nel 1969. Nonostante le sue grandissime qualità, però, Danilo Dolci non riuscì a divenire il collante di quella straordinaria umanità che egli stesso aveva messo in moto. Danilo pensava e agiva da far sognare quando pensava e agiva solo, circondato dalla stima, dal sostegno e dal plauso di tutto questo mondo. Pensare e operare insieme e di concerto con persone capaci di pensare, agire e interagire in modo efficace, produttivo e, spesso, anche innovativo, era per Danilo terribilmente stressante e diventava presto insostenibile. Alla fine degli anni sessanta Danilo decise di concentrare le sue energie sul fronte pedagogico e nella produzione poetica, abbandonando la prima linea della lotta contro la miseria, la disoccupazione, la mafia e la guerra.

“I lavoratori occupati fanno valere le loro ragioni scioperando, in che modo possono far valere le proprie i disoccupati?” domandava Danilo. “Lavorando!” rispondevano i disoccupati. “Quale lavoro si potrebbe fare tutti insieme?”, domandava ancora Danilo. “Aggiustare le trazzere del territorio di Partinico, tutte intransitabili ai carretti dei contadini” convennero i disoccupati. Conobbi Danilo nel 1956, partecipando a una riunione con i disoccupati presso la Camera del Lavoro di Partinico. Partinico era un paesone di 25.000 abitanti di cui la stragrande maggioranza agricoltori, perciò ci vollero diverse riunioni per arrivare alla decisione di riparare la Trazzera Vecchia che era l’arteria agricola più importante. Dopo avere informato tutti i partinicesi, in centinaia, iniziammo a ripararla, armati degli attrezzi di lavoro necessari. La nostra azione fu considerata eversiva da Mario Scelba, allora ministro dell’interno, che decise di impedirla usando come pretesto l’occupazione di suolo pubblico. Arrivarono, perciò, camion e camion di poliziotti ai quali noi rispondemmo con la resistenza passiva a cui Danilo ci aveva istruiti. Gli agenti non usarono contro di noi la violenza grazie alla presenza di molti giornalisti e operatori televisivi che Danilo aveva accuratamente invitato. Essi, perciò, impiegarono diverse ore per riuscire a interrompere il lavoro dei disoccupati. Un centinaio di persone furono portate via con i camion. Venti di esse, Danilo compreso, furono imprigionate. Un mese dopo, il processo per direttissima che Piero Calamandrei, avvocato difensore di Danilo, definì “processo all’articolo 4”. Avevo vent’anni e grazie Danilo, scoprii di essere completamente libero, anche da me stesso, e mi dedicai ai problemi di tutti, alla partecipazione di tutti e alla piena occupazione. Nel 1956, mentre Danilo intervistava i palermitani dei quartieri popolari, con altri giovani mi dedicavo, ai bambini di Spine

Sante allora il quartiere più povero di Partinico. Case piccole, tutte a pianterreno, con pavimenti in terra battuta, erano regolarmente abitate da famiglie numerose. Genitori completamente analfabeti, senza lavoro, vivevano di espedienti a limite della legalità come chiedere o rubare frutta e verdura nelle campagne, aiutare nei traslochi, fare il borseggio in città. Tanti bambini, infatti, avevano il padre in carcere.

La piena occupazione Nel 1957 realizzammo un’inchiesta in dieci comuni della Sicilia Occidentale per scoprire com’era possibile perseguire la piena occupazione mobilitando le risorse locali, i saperi e i saper fare degli abitanti. Io e altri due giovani ci occupammo di Corleone, Campofiorito e Bisacquino. Di nostro non avevamo una lira. Alloggiavamo in una locanda di Bisacquino, tutti e tre in una stanza, andavamo a piedi da un paese all’altro. Danilo ci raggiungeva un giorno la settimana e, ogni volta ci lasciava cento lire che spendevamo interamente per comprare pomodori e cipolle che costavano solo cinque o sei lire il chilo. Per il resto integravamo con torzoli di cardi, cicoria e altre verdure selvatiche. Avevamo fame, ma eravamo felici ed entusiasti perché stavamo cambiando il mondo. Così ci pareva ascoltando disoccupati, contadini, artigiani, vecchi e ragazzi. Grazie a questo lavoro Danilo osò organizzare a Palermo il convegno “Una politica per la Piena Occupazione”, cui parteciparono economisti, sociologi, scrittori, artisti, politici italiani ed europei. L’Unione Sovietica assegnò a Danilo il premio Lenin per la Pace, sedici milioni di lire, che Danilo ed io andammo, in treno, a ritirare presso la sede romana della Banca d’Italia. Dopo alcuni giorni di discussione con altri volontari si decise di creare al “Centro studi e iniziative per la piena occupazione nella Sicilia Occidentale”,

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con cinque sedi: Partinico, Corleone, Roccamena, Menfi e S. Giovanni Gemini. Consapevoli che i sedici milioni non potevano durare in eterno proponemmo ai nostri amici e simpatizzanti svedesi, svizzeri, inglesi, tedeschi e italiani di farsi carico dei costi delle attività di ciascuno dei cinque centri. Danilo, quindi viaggiò per l’Europa e per l’Italia, assistendo alla nascita dei comitati di sostegno svedese, inglese, svizzero, tedesco, torinese, romano e milanese. In quegli anni, in diversi paesi si realizzavano politiche di piena occupazione: Unione Sovietica, Iugoslavia, Svezia, Israele. Danilo Nel 1958 e nel 959 visitò e studiò questi paesi e invitò loro esperti a partecipare ai nostri seminari sulla pianificazione dal basso. Nel giugno 1960 mi fu assegnata la responsabilità del Centro di Roccamena A fine dicembre si erano costituiti i gruppi sui temi “Diga sul fiume Belice”, “Uscire dalla monocultura del grano”, “Strade intercomunali e agricole”, “Rimboschimento”, “Nucleo urbano” e “Mafia”. Convenimmo che tutti dovevano poter dare il loro contributo, compreso lo “scemo del paese”, e ognuno doveva essere ascoltato da tutti con attenzione per avanzare tutti insieme verso la soluzione del problema. Tutti i gruppi interagivano fra loro. Nei gruppi di lavoro gli analfabeti erano la maggioranza, ma c’erano anche persone che sapevano leggere e scrivere e persino qualche studente universitario, che metteva nero su bianco l’avanzamento del lavoro e le decisioni condivise. Il due aprile 1962 Roccamena fu invasa da migliaia di persone provenienti da tutta la Valle, ma anche da Palermo, Trapani e Agrigento. E, persino, giornalisti e docenti universitari. Fu necessario sistemare all’esterno del cinema diversi altoparlanti perché tutti potessero seguire il dibattito che si svolgeva all’interno del cinema che, pieno come un uovo, tra posti a sedere e in


Danilo Dolci: un mondo senza miseria piedi, riusciva a contenere solo novecento persone. I relatori erano stati espressi dai gruppi di lavoro. Sulla diga espose uno studente d’ingegneria, per il nucleo urbano un barbiere con la quinta elementare. Per un’agricoltura alternativa alla monocoltura del grano svolse una relazione, in perfetta lingua dialettale, Nino Pezzullo, un contadino di sessantacinque anni, totalmente analfabeta, che aveva perfettamente stampato nella sua corteccia cerebrale il territorio di Roccamena antecedente alla Riforma Agraria del 1950, quello attuale e quello futuro. A molti partecipanti fu distribuito il “Piano di sviluppo di Roccamena” ciclostilato. In tutti i comuni della Valle del Belice nacquero i comitati cittadini. Io e Paola, con i nostri bambini di diciotto mesi e tre anni, ogni sera eravamo in un paese diverso, in un’assemblea di Comitato Cittadino. Nella primavera del 1963 ognuno dei venticinque paesi del Belice aveva abbozzato il piano di sviluppo comunale e fu deciso di realizzare, a Roccamena, una settimana di pressione sulle istituzioni nazionali e regionali al fine di creare occupazione e ad arrestare l’emigrazione dei giovani. Danilo Dolci partecipò digiunando in piazza per sette giorni e a lui si unirono diversi obiettori di coscienza e tanti nostri sostenitori italiani e stranieri. Vi parteciparono inoltre i comitati cittadini, quattordici sindaci, tanti consiglieri comunali e tanta popolazione. Decine di giornalisti italiani e stranieri bivaccarono con noi in piazza fermandosi anche la notte. La settimana di pressione si concluse con una marcia di popolo al sito della futura diga, cui parteciparono anche donne e bambini. Dall’indomani Danilo Dolci partecipò anche alla nutrita delegazione che incontrò tutte le autorità regionali e nazionali che avevano titolo per realizzare diga. Tutte le autorità incontrate assunsero puntuali impegni: cominciarono i rilevamenti nel sito della futura diga e fu istituita la commissione parlamentare d’inchiesta sulla mafia. Eravamo perciò ottimisti. Tuttavia, all’inizio del 1965 dovemmo costatare che tutti gli impegni assunti nel 1963 dalle autorità nazionali e regionali erano del tutto fermi: la diga sul Belice perché, dopo il disastro del Vaiont, si scoprì che il sito individuato nel sessantatré era a rischio di frane, tutti gli altri impegni erano disattesi perché erano cambiati i ministri e gli assessori regionali.

Ancora marce, grandi partecipazioni e sostegni nazionali ed estere, nuovo sito per la diga sul fiume Belice, e di nuovo in delegazione, con Danilo con i nuovi ministri e i nuovi assessori regionali tecnici e burocrati. Furono presi impegni per le tappe, i tempi e responsabilità politiche tecniche e burocratiche … Alla fine del 1966 tuttavia, abbiamo constatato

che, mentre la popolazione della valle del Belice aveva fatto molti passi avanti, dandosi programmi, organismi, metodi e strumenti di programmazione partecipata, le istituzioni nazionali sistematicamente disattendevano gli impegni presi nel 1965 nella piazza di Roccamena. E verificammo, ogni giorno di più, la gestione mafiosa e clientelare delle istituzioni e delle risorse pubbliche. E per questa ragione maturò nella Valle del Belice e, grazie a Danilo, anche nella zona di Partinico, il progetto di una Marcia per la Sicilia Occidentale per lo sviluppo, contro la mafia e contro la guerra. La marcia iniziata il cinque marzo del 67, attraversò tutta la Valle del Belice: Partanna, Castelvetrano, Menfi, Santa Margherita Belice, Roccamena, Partinico. Terminò la sera dell’11 marzo a Palermo. Ogni sera, una piazza diversa. Un dibattito sui temi della marcia con tutta la popolazione. A questa marcia hanno partecipato decine di migliaia di persone della Valle del Belice, comprese donne, studenti e bambini, ma anche studenti universitari e docenti di molte università italiane e tanti artisti, economisti, scrittori e poeti europei e d’altri continenti. Dalla Svezia al Cile, al Vietnam e agli Stati Uniti, hanno testimoniato sui travagli dei loro paesi e dei loro popoli, accrescendo la consapevolezza che i comportamenti mafiosi, le prepotenze e le ruberie sono presenti dappertutto e che le buone soluzioni si trovano con il dialogo, le iniziative e le lotte non violente e la partecipazione consapevole delle popolazioni interessate.

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La marcia per la pace Nacque l’idea di una marcia nazionale: la “Marcia dal Nord e dal Sud per la Pace”, partendo l’uno novembre alla stessa ora da Milano e da Palermo per riunirci a Roma, a Piazza San Giovanni, nella mattinata del 30 novembre e marciare insieme fin a piazza Esedra, dove ci sarebbe stata la conclusione. Danilo, nordico, partì da Palermo con i siciliani ed io, siciliano, partii da Milano con i lombardi. Nei circa tre mesi di preparazione ci fu una straordinaria fioritura di gruppi pacifisti in tutte le regioni italiane. In ogni città che raggiungevamo la sera, c’era un palco circondato di popolo sul quale ci accoglieva il comitato cittadino per la pace e dal quale prendevano la parola, non solo i padroni di casa, ma anche i partecipanti alla marcia, con priorità a quelli di altri paesi. In ventotto città il comitato cittadino ha anche provveduto a sfamare ed alloggiare tutti i mille marciatori continui. Il trenta novembre da piazza San Giovanni a Piazza Esedra eravamo centinaia di migliaia. Non avevo mai visto e non ho più visto tanto popolo insieme. Ho lavorato con Danilo dal 1956 al 1969 ed egli è stato determinante per le mie scelte esistenziali. Devo a lui, certamente, la mia dedizione alla qualità delle persone e dei loro rapporti, la mia tensione verso la ricerca sociale, economica, culturale e scientifica e verso la ricerca della verità e delle buone soluzioni ascoltando attentamente e mobilitando gli altri. A lui devo anche il ripudio della mercificazione della mia intelligenza, della mia conoscenza e del mio saper fare, la mia coerenza, la mia costanza, la mia tenacia e la fedeltà alla mia etica. Se non avessi incontrato Danilo non so chi sarei stato e chi sarei oggi.


Amalia / Le Vignette

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