casablanca

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S t o r i e

d a l l e

L’inchiesta /

c i t t à

una donna

L’ultimo partigiano / la Memoria

d i

f r o n t i e r a

mafiosa agg

ANNO VII NUM.24

aprile‐maggio 2012

ressiva e vio

lenta

Giorgiana Masi / uccisa per colpire il movimento femminista?

Gianni Lannes Ettore Zanca Allegra Stefania Mazzone Dora Bonifacio Santina Sconza Adriana Laudani Rino Giacalone Franco Lo Re Amalia Fulvio Vassallo Antonella Serafini Norma Ferrara Alberto Rotondo Antonio Tozzi Umberto Santino


CASABLANCA N.24/ aprile – maggio 2012/ SOMMARIO

4 – Stefania Mazzone Donne … Fotografie 9 – La Passione dell’impegno Dora Bonifacio 11 – Ettore Zanca Perché ti amo 12 - Santina Sconza Partigiano Smit 15 – Graziella Proto La Siciliana Maria Di Carlo 20 - Pio La Torre Adriana Laudani 23 – Umberto Santino Peppino Impastato 25 - Mauro Rostagno Rino Giacalone 27 – Fulvio Vassallo Respingimenti egiziani 30 - Omicidio Marconi Gianni Lannes 34 – Graziella Proto Margherita Passalacqua 37 – Salemi… Franco Lo Re 41 – Antonio Tozzi Teatro Garibaldi 42 – In attesa di giudizio Antonella Serafini 44 – Omicidio di Giorgiana Masi Norma Ferrara 47 - Il mondo degli ultimi Alberto Rotondo 49 - Le vignette Gianni Allegra 52 - Nadia Furnari Telejato Abbiamo trasmesso 53- Coppola Editore 54 - “Cronachette” Amalia Bruno 56 - Associazione Antimafie “Rita Atria” Casablanca – Direttore Graziella Proto – protograziella@gmail.com Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org/casablanca Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Riccardo Orioles

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Editoriale - mensile

Volevamo esimerci dalle commemorazioni La realtà supera la fantasia. Pensavamo di ricordare Francesca Morvillo in modo diverso, e prima di inserire il pezzo, una sua lettera immaginaria al marito, ci siamo posti centomila domande. Abbiamo avuto un milione di dubbi. Sarà capita? Come potrebbe essere interpretata? Volevamo esimerci dalle commemorazioni tradizionali, siamo stati travolti dalla realtà. La tragedia di Brindisi alla scuola Francesca Morvillo. Impensabile! Incredibile! Nessun commento. Tanto dolore. Tanto sgomento per i nostri ragazzini a scuola. I massimi sistemi, i teoremi, li lasciamo agli altri. Terrorismo? Mafia? Terrorismo mafioso? Ognuno faccia la propria parte. Il proprio dovere. Abbandoni lo schermo e le prime pagine. Distraggono. Necessitano attenzioni, presenza, persone, strumenti. Questo paese è già molto pressato. Su questo numero abbiamo voluto affrontare i vari modi dell’esser partigiani, ma una ragazzina, Melissa, ancora non aveva avuto il tempo di deciderlo, a quell’età, l’allegria e la leggerezza dovrebbero essere l’unico obiettivo. L’unico diritto. Il diritto alla vita. La sola partigianeria. *** Questi due mesi dall’altro numero sono stati densi di avvenimenti. Tutti importanti. Tutti da segnalare. Tuttavia i nostri mezzi non sono all’altezza di seguire tutto. Ce ne

scusiamo. Bisogna selezionare. Scegliere. Evidenziare. Se non altro per manifestare da quale parte stare. Sicuramente stiamo dalla parte degli operai in via crucis, gli esodati, i disoccupati, i precari, le donne di Temini Imererse simbolo della lotta degli operai Fiat in difesa del posto di lavoro e contro la chiusura degli stabilimenti. Dalla parte di coloro che, di lavoro muoiono. *** C’è bisogno d’informazione vera. Approfondimento sul territorio soprattutto per l’informazione antimafiosa. Tuttavia, questo settore, è quasi totalmente sulle spalle delle piccole testate e televisioni. Avete pochi mezzi? Sembra dire il governo e i grossi gruppi editoriali, bene vi togliamo anche questi. E l’informazione sul territorio? E la democrazia? Vaff…. direbbe qualcuno, ma questo qualcuno come i grossi nomi del giornalismo se ne fregano. Telejato, la piccola televisione di Pino Maniaci e la sua famiglia, sta per chiudere. E’ il loro unico lavoro. Resteranno in mezzo alla strada. Telejato rappresenta tutti noi. “Siamo tutti Telejato” e non siamo d’accordo sul come vengono assegnate le frequenze. I piccoli vanno tutelati. Si chiama Democrazia. Chi di dovere, dovrebbe ricordarlo ogni tanto invece di dare solo numeri. Dietro

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ogni numero ci sono persone. La loro vita. Le loro dignità, le loro sofferenze, i loro diritti. Non si può usare solo il numero del dovere e dell’Europa vuole e dice. L’Europa dice anche che la nostra informazione è fra gli ultimi posti al mondo. Telejato assieme a tante altre piccole testate, per l’impegno e il coraggio che ci mette nel raccontare i fatti, dovrebbero essere patrimonio collettivo. Invece sono lottati. Ufficialmente e in modo sotterraneo. Santoro per fare un esempio, anziché dare visibilità ai figli dei mafiosi, dovrebbe mettere i riflettori su questo settore. Non solo lui. L’Europa dice. Dice anche che in Italia il lavoro è remunerato poco, non esiste uno stato sociale adeguato, non ci sono servizi a sufficienza, gli stipendi in generale ma operai e insegnanti in particolare sono da fame e che solo da noi esistono persone con pensioni di oltre quaranta mila euro.

VERGOGNA


Palestina Genocidio Culturale

Le Giovani Donne del movimento 15 marzo Palestinese

Restano UMANE Stefania Mazzone Docente di Storia della filosofia Università di Catania Gerta Human Reports

Il potere di Hamas, Autorità Palestinese, Israele. La violazione della IV Convenzione di Ginevra. Le violazioni da parte dell’esercito israeliano. Dall’ottobre 2000 al giugno 2008, 658 studenti sono stati uccisi, 4852 feriti di cui 3607 minorenni e 738 imprigionati. Tra i docenti, trentasette sono stati uccisi, cinquantacinque feriti e 190 detenuti. Durante l’operazione militare Piombo Fuso (dicembre 2008 – gennaio 2009) l’aviazione israeliana ha bombardato gravemente duecentoottanta scuole/asili e sedici edifici universitari. Sono stati uccisi 164 studenti e dodici docenti. Gli ostacoli alla libertà di spostamento per gli studenti e i docenti scoraggiano, di fatto, l’anelito all’istruzione, alla conoscenza e alla formazione. La discriminazione degli studenti arabi da parte di università israeliane, denunciati anche da organizzazioni israeliane per i diritti umani. Il ruolo delle giovani donne della primavera araba nella lotta contro l’arroganza del potere. Insieme ad un gruppo di docenti universitari e ricercatori italiani particolarmente sensibili alla situazione universitaria e scolastica del popolo palestinese, (sia nei territori occupati Gaza e Cisgiordania, sia all’interno dello Stato israeliano, in particolare in Galilea, dove vivono oltre un milione di “arabiisraeliani”), ho partecipato ad un’esperienza di insegnamento e di incontro con la forze e l’intelligenza della nuova generazione di studenti palestinesi. Insieme abbiamo denunciato le gravi violazioni del diritto all’istruzione, della libertà di insegnamento e della libertà di pensiero del popolo palestinese. Poiché l’Italia nel 2009 è diventata primo partner europeo nella ricerca scientifica e tecnologica dello Stato di Israele, responsabile delle violazioni di cui sopra, si rende necessario che la comunità accademica italiana prenda

coscienza delle discriminazioni in atto. Il livello culturale e scientifico nelle 11 università palestinesi è stato fortemente condizionato dall’occupazione e dalle restrizioni alla mobilità di docenti e studenti, in violazione della IV Convenzione di Ginevra. Dopo la chiusura di scuole e università palestinesi da parte del governo israeliano durante la Prima Intifada (1987-93), gli accordi di Oslo hanno consentito la creazione di un Ministero dell’Istruzione dell’Autorità Nazionale Palestinese, ampiamente finanziato allo scopo di controllare l’ordine pubblico interno, ma le violazioni da parte dell’esercito israeliano sono continuate. In termini di perdita di vite umane, dall’ottobre 2000 al giugno 2008, 658 studenti sono stati uccisi, 4852 feriti (di cui 3607 minorenni) e 738 imprigionati. Tra i docenti, 37 sono stati uccisi, 55 feriti e 190 detenuti.

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Nello stesso periodo il danno totale alle università (edifici, attrezzature ecc.) a causa delle invasioni israeliane ammonta a 7.888.133 USD, mentre per le scuole il danno è di 2.298.389 USD. Tutto questo comporta una bassa percentuale di studenti iscritti e una scarsa presenza di docenti. A Gaza, in particolare, la situazione è drammatica: il 50% degli studenti è assente e lo è anche il 40% dei docenti. Qui durante l’operazione militare Piombo Fuso (dicembre 2008 – gennaio 2009) l’aviazione israeliana ha bombardato, distruggendo o danneggiando gravemente, 280 scuole/asili e 16 edifici universitari. In pochi giorni sono stati uccisi 164 studenti e 12 docenti. La privazione della libertà di movimento di studenti e docenti palestinesi è inoltre una violazione del diritto allo studio e all’attività accademica. I check-point militari che costellano la Cisgiordania


Palestina Genocidio Culturale rendono difficile raggiungere scuole e università, e nei periodi in cui si svolgono esami scolastici e universitari i

di JCall, un’organizzazione transazionale di Ebrei contro le politiche dello Stato di Israele. Un movimento, quello del 15

controlli si fanno particolarmente severi. A Gaza invece è l’assedio a impedire l’entrata e l’uscita dalla striscia di docenti palestinesi che volessero svolgere attività di ricerca presso università estere, di docenti stranieri che volessero visitare le università di Gaza, e degli oltre 1000 studenti che ogni anno fanno domanda per studiare all’estero. E non dovrebbero essere dimenticati i casi di discriminazione degli studenti arabi da parte di università israeliane, ampiamente denunciati da rappresentanze studentesche e sindacati di docenti palestinesi ma anche da organizzazioni israeliane per i diritti umani. Più generalmente, le principali istituzioni accademiche israeliane non hanno assunto una posizione critica o neutrale nel conflitto e rivendicano anzi il sostegno della ricerca scientifica alle istituzioni governative e militari israeliane, giungendo persino a tollerare il riconoscimento dello status di “centro universitario” al College di Ariel, situato in un insediamento illegale nei territori occupati.

marzo, costretto alla clandestinità e alla repressione violenta da parte di Hamas nel territorio di Gaza. Ho incontrato giovani studenti alla testa di un movimento che, da Gaza a Ramallah, mette in discussione intanto il potere politico, militare, economico, di Hamas e di Fatah, in nome della parola d’ordine di un unico stato di diritto in cui ogni individuo sia considerato libero ed eguale nei diritti e nei doveri. Citano Thoreau, mi abbracciano in quanto ebrea e anarchica, impegnati nella loro terra ad una non facile lotta all’antisemitismo, il loro leader a Ramallah, Fadi Quran, è laureato in fisica alla Stanford University e ha rinunciato ad un sicuro e brillante futuro negli States per continuare la lotta contro il triplice potere che assassina la libertà del suo popolo: Hamas, Fatah, il Governo dello Stato di Israele. Arrestato per una azione di disobbedienza civile a Hebron, città fantasma, in cui vige l’apartheid del marciapiede e della carreggiata, voluto da Israele e dall’Autorità palestinese, oggi Fadi continua la sua lotta insieme alla straordinaria forza delle militanti palestinesi. Disseminate per le Università della Cisgiordania, alle donne il

IL RUOLO DELLE DONNE In Palestina, però, la primavera araba è stata Occidentale e filo-anarchica, rappresentata dal movimento studentesco del “15 Marzo”, come i loro alleati israeliani, sempre più numerosi insieme ai disertori dell’esercito, gli attivisti di “Anarchici contro il Muro” e ai militanti

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compito di discutere, organizzare, interpretare le azioni contro l’arroganza del potere e in sostegno alla strabiliante quantità di giovani studenti arrestati, ancora una volta, da Hamas, Autorità Palestinese, Israele. Sono ragazze determinate, colte, con l’unico obiettivo di emanciparsi, insieme agli uomini, dalle insidie del potere che lì, come nel mondo, colpisce sostanzialmente il diritto allo studio, secondo un vero e proprio progetto di genocidio culturale in atto a livello globale. A queste donne il compito di liberare il Medio Oriente, a queste donne il compito di incarnare un concetto di emancipazione e liberazione femminile divenuto per le nuove generazioni di ragazze europee forse addirittura incomprensibile, arretrate come sono nel riconoscimento della eguaglianza in mascolinità e non in differenza, indifferenti al potere emancipatore dello studio e della conoscenza, dimentiche di un sapere femminile che ha generato e curato l’umanità intera dal suo nascere. Vittorio Arrigoni aveva seguito e sostenuto questo movimento sul nascere, denunciando la criminale repressione di Hamas delle manifestazioni del 15 marzo a Gaza. Vittorio Arrigoni è morto esattamente un mese dopo, il 15 aprile, per mano di militanti di una frangia di Hamas. Le donne e gli uomini palestinesi restano umani.


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Una giovane magistrata e la sua passione civile e professionale

La Passione delle donne Dora Bonifacio Una giovane magistrata fa un resoconto sulla sua passione civile e professionale. Le date e i momenti del pugno allo stomaco e il tuffo al cuore. La momentanea angoscia che si trasforma in coraggio e determinazione. Un susseguirsi di flash per spiegare ciò che le ha fatto amare la magistratura. Il ricordo di Giuseppe Fava e della sua rivista I Siciliani,Pio La Torre,il generale Dalla Chiesa e tante altre vittime della mafia. Il concorso per la magistratura con Francesca Morvillo Falcone conclusosi proprio quel 23 maggio del 92. Poche ore dopo la notizia della strage. Chissà quante volte li hanno messi così…di fila. Una fila lunghissima. Una linea rossa. Rossa come il sangue ma anche rossa come la passione. La mia fila “personale” inizia cosi. Pio La Torre: 30.4.1982; Carlo Alberto Dalla Chiesa: 2.9.1982; Giangiacomo Ciaccio Montalto :26 gennaio 1983; Rocco Chinnici 29 luglio 1983; Giuseppe Fava, 5 gennaio 1984; Strage di Pizzolungo: 2 aprile 1985 ( autobomba contro Carlo Palermo); Peppe Montana: 28 luglio 1985; Ninni Cassarà: 6 agosto 1985; Antonino Saetta e il figlio Stefano: 25 settembre 1988; Mauro Rostagno: 26 settembre 1988; Rosario Livatino: 21 settembre 1990; Antonino Scopelliti : 9 agosto 1991;. Libero Grassi : 29 agosto 1991: Giovanni Falcone e Francesca Morvillo: 23 maggio 1992; Paolo Borsellino: 19 luglio 1992 …

Flash La mia vita di liceale, già segnata dalla violenza delle stragi fasciste impunite e da quella delle Brigate Rosse, si apriva all’università. Primo anno di Giurisprudenza: 1982. Era gennaio. Ricordo quel teatro gremito. Un teatro sulla via Roma a Palermo (dove anni dopo Santoro avrebbe trasmesso una famosa puntata di Samarcanda). Un teatro gremito. Anche di tanti giovani. Le parole che rimbombano. Tuonano, per quanta passione hanno dentro.

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“Quattro punti” (“quatttrro” alla palermitana)… “La Mafia. La Pace. Lo Sviluppo. La Sicilia…. Per liberare la Sicilia dal potere mafioso. Per la pace e il disarmo. Per lo sviluppo economico e sociale del Mezzogiorno. Per il rinnovamento democratico della Sicilia…”. Era la voce di Pio La Torre, ritornato in una Sicilia, infuocata contro i missili della Nato a Comiso. E poi quella mattina. La notizia si sparse veloce da Palermo a Catania. Vidi la macchina crivellata di colpi. Una “festa del 1° Maggio” tristissima. Le elezioni regionali vicine e la certezza che neanche quel brutale assassinio ne avrebbe cambiato l’esito.


Una giovane magistrata e la sua passione civile e professionale

Poi di nuovo la speranza. La speranza in un Carabiniere. Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Un uomo dello Stato. Ma anche un uomo libero, uno che parlava chiaro e sapeva dove: “Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, è questa davvero una svolta storica. È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia Occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo” E poi di nuovo colpi che crivellano. Crivellano la passione… Il buio che ritorna. Mi rivedo vicino a Parigi, giovane ragazza “alla pari” che non voleva dimenticare il “francese” studiato per anni. Una bellissima pineta ai margini di una cittadina, dove portavo il “mio” Germain a giocare e mangiare il “giacciolo” (lui la “ghi” proprio non riusciva a pronunciarla). E quella voce che esce dalla radio del chiosco “Palerme comme Beyrouth. Une bombe placée à l'intérieur d'une voiture a explosé devant la maison du juge Rocco Chinnici, le tuant, avec ses gardes du corps et le portier de l'immeuble ". Quell’esplosione che rimbomba nella mia testa. Voglio fare il magistrato. E ancora speranza. Un giornale sconosciuto,

“I Siciliani” diretto da un uomo orgoglioso e caparbio. Che parla in bianco e nero in una città grigia. Vidi il suo volto durante un’intervista a Giorgio Bocca: Giuseppe Fava. Parlava dei “Cavalieri del Lavoro”, degli intrecci tra mafia/politica/appalti.

E poi un’altra notte. Una mattina che vuole risvegliarsi nell’ultimo giorno di festa e invece arriva una telefonata. Ieri sera hanno ucciso Giuseppe Fava il direttore de “I Siciliani”. E Catania si scopre mafiosa. Non tutta Catania. I mafiosi, i conniventi, i ciechi si svegliano con un “Pecorelli” di casa nostra, uno che ricattava la gente per bene. Come hanno potuto? Come glielo hanno permesso? E la rabbia sale. Sale ancora. Rileggere avidamente quel giornale pieno di squarci di verità su una città che non vuole capire, non vuole vedere, non vuole denunciare e, da troppo tempo, non vuole combattere, è balsamico. E la scia continua. L’autobomba contro Carlo Palermo, l’uccisione di Peppe Montana (un figlio di questa città), di Ninni Cassarà. Altri giudici: Antonino Saetta, Rosario Livatino, Antonino Scopelliti. Altri giornalisti: Mauro Rostagno. Un imprenditore: Libero Grassi. Falcone al Ministero. Il dubbio della resa. Come si può combattere la Mafia dai palazzi del potere. Il potere di uno Stato lontano, incapace e… spesso colluso. Lui tentava di spiegarlo. Ma molti di noi non capivano.

Finisco l’esame e il 23 maggio parto per Bologna per andare a trovare un pezzo della mia famiglia. Il telegiornale dell’una è uno shock per tutti. Capaci. La scia continua…e anche la passione. Il volto di Paolo Borsellino. Il suo saluto all’amico è anche il suo saluto a noi. L’uomo che dovrebbe essere il più protetto dell’Universo è lasciato solo, con la sua misera scorta. Quante volte ho pensato che avremmo dovuto scortarlo noi tutti. Proteggerlo come l’ultimo baluardo, stringerci intorno a lui a migliaia, seguendolo passo passo. Non potevamo sapere che invece lo Stato “trattava”…. Eppure dovevamo essere più saggi. Il male di questa nostra Sicilia, orgogliosa ma impotente, è la delega. I puri delegano i puri, i corrotti delegano i corrotti. Ma nessuno che prende in mano “l’ascia di guerra”. Nessuno che alza la testa e dice: “IO”.

IO devo combattere la mafia. IO devo proteggere chi la combatte.

Un altro barlume di speranza arriva dalla conferma da parte della Cassazione delle condanne al primo maxiprocesso alla Mafia. E poi l’uccisione di Salvo Lima. Il 20 maggio del 1992 parto per il concorso di magistratura, che supererò. Lei, Francesca Morvillo, è in commissione. La prima mattina mi avvicino: “mi scusi dottoressa, io dovrei solo fumare e non voglio intasare la fila per i bagni, dove magari qualcuno aspetta di andare davvero”. Il suo sguardo dolce: “vedremo che si può fare”. L’indomani una saletta viene riservata ai fumatori sempre sotto la stretta vigilanza dei carabinieri che controllano che non parliamo tra noi candidati. Chissà, forse le tante sigarette di Falcone mentre lavorava l’aiutano a capire.

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IO devo accusare chi non lo fa. IO devo essere libero, sempre. IO devo votare gli onesti. IO devo urlare: BASTA!


Solo il desiderio di immaginare una donna innamorata…

Perché ti amo Lettera Immaginaria di

Francesca Morvillo Ettore Zanca Lettera immaginaria di Francesca a Giovanni . Nessuna presunzione, solo il desiderio di immaginare una donna innamorata che pensa al suo innamorato. Una fantasia per ricordarla come una donna e non solo come un magistrato. Un ventitré maggio diverso, dolce, gentile, umano. Femminile. Solo un’immaginazione. Timida. Rispettosa. Riguardosa. Una cosa fatta in punta di piedi, solo per ricordare e sentirli vicini come persone a noi care.

Non me lo hai mai chiesto, non me lo chiederai mai. Non a parole. I tuoi gesti e quell’aria protettiva rivelano un amore che non ti appartiene in dolcezze inutili, ma in comportamenti quotidiani. Io lo so che mi ami e tu lo sai che ti amo. E non me lo chiedi. Lo sai che ti amo perché hai un profondo senso del dovere, saldo come una scogliera, ma hai anche un sorriso che diventa il mare ondivago e malinconico che quella scogliera la lambisce. Ti amo perché so quanto ti costa il sacrificio che credi di imporre pure a me. Ti amo perché a volte anche nel momento più difficile della tua vita e del tuo mestiere, non mi hai mai negato un sorriso. Ti amo perché so quanto costa far valere legalità e diritto, forse perché faccio il tuo stesso mestiere. Ti amo perché so quanto tieni alle poche persone

che ami davvero, la tua Ti amo perché nessun’altra donna scorta, i tuoi amici, tanto avrebbe preso quello che mi hai detto tu che quando ti allontani e io come il più grande gesto d’amore verso resto sola con loro, a volte una nuova vita. E per questo ti ringrazio gli vorrei dire di non Giovanni. combattere la mafia con lo Quando parlammo di bambini, mi dicesti stesso accanimento con cui di no. Ricordo ancora le parole: "Non la combatti tu. generiamo orfani". Ti amo perché forse, Ti amo perché da quando grazie a te adesso ci piange una persona sto con te non vedo il di meno, ma se ci fosse stato, nostro confine tra pericolo e vita figlio avrebbe pianto più forte di tutti gli quotidiana, lo stesso che altri e io, anche dove siamo adesso non forse c’è tra sogni e incubi. avrei sopportato il suo dolore, come Ti amo perché con me qualsiasi madre che ha un cuore. diventi un bambino, tanto che ti sei dichiarato a mio fratello come Sempre tua. Francesca un ragazzino, o quando davanti ai tuoi amici più cari hai fatto vedere che mi davi un bacio perché non ci credevano che stavamo insieme. La mafia non è affatto invincibile; è un Ti amo perché fatto umano e come tutti i fatti umani ha mi fanno ridere un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, quelli che nella bisogna rendersi conto che si può vincere quotidianità più grigia non pretendendo l'eroismo da inermi vedono cittadini, ma impegnando in questa l’amore come battaglia tutte le forze migliori delle una fatica, e istituzioni noi allora? Ti amo perché devo dividerti con il tuo senso del dovere e dello stato. E perché noi due siamo una cosa simbiotica, infatti da quando non ci siamo più è difficile trovare foto pubbliche con me da sola.

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Smit, il Partigiano siculo

Smit il Partigiano Siculo Santina Sconza Le scarpe con le suole di sughero per attraversare le montagne piene di neve … freddo, fame, disagi, paure. Torture. I racconti dei nostri partigiani “morti per la libertà”; storia, poesia, epica, epopea. I siciliani che decisero di prendere la strada della clandestinità per lottare contro il fascismo furono moltissimi. Per lo più si trasferirono al nord. Alla fine della guerra alcuni riuscirono a ritornare nei loro paesi d’origine, altri no. Fra coloro che persero la vita nella guerra di liberazione: Graziella Giuffrida e Salvatrice Benincasa. torturate e uccise una a Genova l’altra a Monza. Fra i fortunati che riuscirono a ritornare Salvatore Militti, il partigiano Smit. Un arzillo anziano classe 1922 con tanta voglia di raccontarsi. Sembra uno scugnizzo napoletano. Piccolo e sottile di statura, agile e svelto come un gatto, gli occhi vivaci e trasparenti, sempre sorridente. Salvatore Militti non sembra un novantenne. Come se avesse trascorso una vita agevole, senza problemi. In realtà non è così, Salvatore inizia ad avere problemi fin dalla nascita. A tre mesi dalla nascita, nel 1922 a Lentini in provincia di Siracusa viene abbandonato dal padre e vive nella casa dei nonni materni, famiglia numerosissima e patriarcale. A undici anni fa l’apprendista fabbro, l’anno dopo fa il meccanico e ripara i motori per il sollevamento dell’acqua dai pozzi artesiani. La passione per la meccanica lo accompagnerà fino ai nostri giorni, nella cantina della sua casa c’è ancora una officina da fabbro dove si dedica a piccoli lavori. Nel ‘40 prende il diploma scuola di avviamento professionale, l’anno successivo vince il

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concorso nelle Ferrovie dello Stato e il 12 luglio del ‘41 inizia il suo servizio a Catania. Il 22 aprile del ‘42 riceve la cartolina militare per prestare servizio militare in marina, alla visita militare a Siracusa, a causa di una punta di ernia inquinale, viene trasferito nei ruoli di terra e prende servizio a Cuneo nel 33° Reggimento di Fanteria. Assegnato all’ufficio matricola, batte a macchina il modulo M.43 per i militari che vanno a visita di controllo all’ospedale militare di Alessandria. “L’otto settembre 1943 ero andato al cinema, durante l’intervallo alcuni commilitoni annunciavano a tutti i presenti la fine della guerra. Nessuno ci crede la proiezione continua, dopo alcuni minuti suona l’allarme e più voci ci invitano a correre in caserma. Rientrati, ascoltiamo il messaggio del Maresciallo Badoglio alla nazione che annuncia l’armistizio. Per alcuni giorni aspettiamo degli ordini che non arrivarono, così tutti decidemmo di lasciare Cuneo per poter tornare ognuno alla propria casa, ma l’Italia era spezzata e per me era impossibile


Smit, il Partigiano siculo raggiungere la Sicilia. Mi ritrovai con tre emiliani tra cui Sergio Camparini e un romano, che essendo munito di patente, si reca in un deposito di auto e riesce a portar via una Millecento nuova di zecca. Con quell’auto ci avviammo verso Roma passando per l’Emilia, durante il percorso attraversammo il greto di ben cinque fiumi e nell’ultimo il Taro, essendo più ricco di acqua rimanemmo in panne, fummo costretti a spingere la macchina fuori dal fiume con tutte le nostre forze. Sulla via Emilia ci imbattemmo in posto di blocco tedesco, i militari armati di palette e mitra fermavano i mezzi pesanti, impauriti svoltammo su una strada laterale ma ci trovammo ad attraversare un campo pieno di tedeschi che sui prati si godevano un tranquillo riposo. Superato questo pericolo, ed essendo nelle vicinanze di Campagnola Emilia paese di Sergio, decidemmo di abbandonare l’auto e proseguire a piedi, durante il tragitto giungemmo presso una famiglia che conosceva il padre di Sergio, qui ci offrirono una cena calda e un posto dove dormire. Il giorno dopo ci prestarono una bicicletta per raggiungere a Campagnola Emilia la cascina di Sergio, dove fui accolto come un figlio ed avendo il padre un podere a mezzadria, mi fermai con loro a lavorare i campi”. Poco dopo la nuova Repubblica Sociale di Salò pubblicò un bando con il quale ordinava che tutti gli sbandati dovevano registrarsi nei comuni dove risiedevano, perché non sarebbero più stati richiamati alle armi. “ I primi di marzo del ‘44, invece i repubblichini richiamano alle armi le classi del ’22 e del ’23, a seguito dei nuovi ordini dovevamo recarci giornalmente in caserma per l’appello; ogni giorno qualcuno mancava e l’addetto alla chiamata alla fine diceva: quelli che non hanno risposto andranno subito sotto processo. In quei giorni, valutando che il regime fascista stava per essere sconfitto e la Sicilia era stata liberata, avevo contattato il Comitato Nazionale di Liberazione per poter disertare e recarmi in montagna per far parte delle formazioni partigiane”. Da quel giorno comincia avventura da partigiano?

la

tua

“Si! Abbiamo atteso l’ordine del CNL, il 17 marzo ci viene comunicato di non presentarci all’appello e di aspettare alla periferia di Reggio Emilia. Quella sera ci ritrovammo in sette. Calata la notte, si

presentò la nostra prima staffetta che ci accompagnò per la pianura fino alle prime colline, sfuggendo ai posti di blocco. Qui ci prese sotto la sua protezione Brenno, antifascista da lunga data. La marcia fu faticosa, i monti che sembravano vicini e coperti di neve in realtà erano sempre più lontani, le nostre scarpe con le suole di sughero non erano adatte ai percorsi di montagna, presto si sfondarono furono momenti di scoraggiamento, qualcuno pensava che forse sarebbe stato meglio tornare indietro. Nel posto convenuto non trovammo la nostra terza staffetta, allora Brenno ci lasciò in un bosco, e dovette tornare indietro per chiedere spiegazioni. Improvvisamente ecco che incontriamo la 7° Brigata Garibaldi comandata da Eros (Didimo Ferrari) reduce da uno scontro a fuoco con i fascisti. Eros aveva una lunga militanza antifascista, aveva già fatto dodici anni tra galera e confino. Eros era un vero comandante, quando si accorse che avevo le scarpe rotte mi disse: Ti do le mie”. Cosa successe dopo? “La nostra postazione fu una chiesa sul monte Ventasso. Al comando di Eros attaccammo una caserma di fascisti per procurarci armi, munizioni, vettovaglie e divise, dopo una breve sparatoria, i fascisti si arresero. Poi il distaccamento cui appartenevo si divise ed io passai al gruppo partigiano “Don Pasquino” al comando di William (Villa Massimiliano). Si dormiva di giorno e di notte si entrava in azione. Attaccavamo le caserme dei Carabinieri e dei fascisti presenti sul territorio. Una notte abbiamo anche attaccato e messo fuori uso una fabbrica di tannino, dove si produceva una vernice che esportata in Germania era utilizzata per gli aerei e carri armati”. Attaccavate le caserme dei carabinieri, qual era la loro reazione? “Ora ti racconto un episodio particolare

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– dice dopo aver riflettuto per un attimo - Una sera attaccammo una caserma di Carabinieri comandata da un sergente calabrese. L’ufficiale, accetta di dialogare con William, e gli consiglia di non tentare di espugnare la caserma, perché è ben difesa e minata, poi, con fare enigmatico dice: preferisci dieci oggi o venti domani. William capisce al volo e decide di ritirarsi. Il sergente si vantò con i suoi superiori della brillante vittoria contro i partigiani e la caserma fu rafforzata con una mitragliatrice. Alcune settimane dopo tornamm o e la mitragliat rice fu nostra. In altre incursion i incontra mmo dei carabinie ri amici di alcuni partigiani e facilment e li persuademmo a passare con noi”. Avete avuto scontri solo con i fascisti o anche con i tedeschi? “Una volta catturammo anche un capitano medico tedesco, Buck. Era il 17 giugno 1944. Vi racconto com’è andata, il nostro comandante William, il commissario Gallo e altri due compagni, si recarono a Traversetolo per procurarsi


Smit, il Partigiano siculo del cibo e riuscirono a farsi dare un grosso carico di grano. Nel frattempo si accorsero della presenza di un’auto tedesca, do ve alla guida c’era un capitano medico delle SS, la prontezza dei partigiani non diede tempo al capitano di difendersi, né di fuggire e fu catturato. Il nostro comandante felice per gli obiettivi raggiunti, ordinò di ritornare con le due macchine al rifugio. La presenza delle macchine ci fece sospettare un attacco tedesco, per cui velocemente ci appostammo per un agguato. Il tedesco fu sorpreso dalla nostra preparazione militare e ci fece i suoi complimenti. Buck fu tenuto prigioniero e si pensò di scambiarlo con dei partigiani detenuti a Reggio. Parlava bene l’italiano e per passare il tempo gli procurammo alcune riviste, lui ci diceva: Voi italiani avete troppe chiese e poche scuole”. Come avete proceduto per lo scambio? “La mediazione fu affidata a un prete. L’accordo prevedeva il rilascio, in zona partigiana, di ventitré prigionieri italiani, muniti di lasciapassare tedesco.

L’accordo fu accettato, e lo scambio ebbe luogo, i prigionieri erano tutti in cattive condizioni di salute e molti avevano subito torture. Il capitano medico, fu trattato così bene, che dopo il rilascio ci avvertiva dei rastrellamenti, facendoci pervenire delle lettere con gli itinerari che i nazifascisti avrebbero percorso. A novembre Una di queste lettere, fu consegnata a un capo distaccamento sassarese, lui la conservò in una tasca dimenticandola. Quando la consegnò al comando, ormai era troppo tardi, nel rastrellamento tedesco, dodici nostri compagni avevano trovato la morte”. Gli episodi di scambio fra partigiani e soldati tedeschi in quel periodo furono moltissimi, a volte con successo, altre no. “A volte le cose non andavano come speravamo. Con grande dolore non riuscimmo nonostante i nostri tentativi a liberare i sette fratelli Cervi che furono fucilati”. Un attimo di commozione poi riprende. “In autunno, come capo squadra, fui trasferito a Corniglio, un tranquillo paese, in cui era stato attrezzato un campo di lancio dove gli inglesi paracadutavano armi, munizioni e altra merce. Quando Radio Londra con messaggi in codice ci avvisava dei lanci di rifornimento, preparavamo delle fascine di legna disposte a forma di V, in attesa di essere accese appena si sentiva il rombo del motore dell’aereo. Un giorno ci lanciarono mille paia di scarpe di pura pelle e mille paia di suole di ricambio. Tra il novembre ‘44 e gennaio ‘45 i tedeschi che avevano sentore della sconfitta,

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scatenarono due grossi rastrellamenti nel parmense, impiegando notevoli forze, nel primo ci furono più di cento morti tra i partigiani, il secondo fu meno drammatico perché i partigiani riuscirono a sganciarsi dall’accerchiamento. Finita questa fase, si fece molto

forte la nostra pressione militare, andavamo a sottrarre i beni nascosti dalle famiglie che si erano arricchite con favori politici. Il 26 aprile del ‘45 ero al comando di un gruppo di venticinque partigiani e ci preparavamo alla conquista di Parma. Giunti alla periferia fummo bersaglio di franchi tiratori. Era una donna che facendo finta di stendere la biancheria, sul balcone di casa tra un capo e l’altro con un fucile ci sparava. La catturammo e la portammo al campo sportivo. Dopo alcuni giorni, liberata la città, in segno di riconoscimento a Parma che ci aveva ospitato ci fu una grande parata cui parteciparono tutti gruppi partigiani”. La guerra era finita, l’Italia era stata liberata “ mi fermai a lavorare nella cascina del mio comandante Lupo (Cesare Cepelli) fino al settembre del ‘46, poi, pressato dalle continue lettere di mia madre, mi lasciai convincere a tornare in Sicilia.Arrivato a Lentini, feci domanda per rientrare in ferrovia, dopo il corso di aiuto macchinista fui assegnato alla guida di una locomotiva. Ho conosciuto Anna Giovanna e il dodici ottobre del ‘49 la sposai”. Grazie capitano Smit *Presidente Provinciale ANPI Catania


Maria Di Carlo: “non accettavo il divieto, la proibizione”

Il maggio fu francese Rivoluzione culturale a Corleone Graziella Proto Maria aveva appena quindici anni e non accettava divieti e proibizioni: il padre la picchia e la chiude in casa, i frati francescani dicono che è indemoniata. Ama il “frocio “ del paese, Nino Gennaro, un appestato da evitare che metteva strane idee in testa ai ragazzi: la libertà, l’uguaglianza, la differenza, la mafia. Uno strano intellettuale. Maria Di Carlo ha capito che è affine a lui. Si batterà per essere se stessa, senza ipocrisie. L’amore per Nino sarà solo uno strumento, uno stimolo in più per realizzare la sua libertà. Una vita costellata da lotte, teatro, impegno sociale e tanto amore. Una vecchia stradina quasi angusta, caratteristica. A un estremo un archetto che unisce i due lati della strada, alla’altro delle vecchie e antiche mura. Fra le case che sembra debbano cadere da un momento all’altro, un palazzotto tardo ottocento apparentemente insignificante, fatiscente appoggiato alle vecchie mura. In questo palazzotto, trenta anni fa circa, è nata una specie di comune formata da dieci giovani che facevano i conti con la precarietà e la sopravvivenza quotidiana. Erano marziani? Erano libertini? Intellettuali strani? Erano persone provenienti da realtà, culture, mestieri differenti. I protagonisti del Teatro Madre, ideato e pensato da Nino Gennaro, un intellettuale siciliano eclettico. Un poeta non allineato, dalla coscienza civile scomoda. Un politico di strada. Attore, regista. Un omosessuale o bisessuale. Qui vive ancora la donna che fu sua compagna di vita e di lotta. La sua discepola prediletta. La sua ispiratrice. Una scala stretta e ripida. Interminabile. Alla sommità della scala s’intravvede un aggrovigliamento immenso e scuro. Si presuppone di capelli. Visto da vicino un

cespuglio nero è fatto di riccioli dispettosi, disordinati, ribelli. Ognuno deciso a non seguire l’altro. Ognuno per la sua strada. Lo strano cespuglio ci attende gioiosamente in cima, all’ingresso dell’ultimo piano. Non ricordo bene l’ingresso, perché subito si passò in uno spazio che non saprei definire. Un piccolo salone? Un vasto corridoio? Poco importa. La luminosità, una luce che arriva dalle vetrate di un terrazzo non particolarmente curato, non pieno di piante esotiche straordinarie o particolari, subito ti colpisce. Il pavimento non è ricoperto dalle solite mattonelle, forse vetro o forse no, ma i raggi che vi arrivano sopra ne riflettono il colore, si mischiano. Quella luce intanto ti avvolge. Ti distrae. Un ambiente bizzarro e accogliente. Affascinante. Anche le altre stanze emanano lo stesso sentire. Spazi suggestivi senza che ci sia qualcosa di particolare. Di costoso. Di pregiato. Anzi la nostra ospite si prodigherà a spiegarci che in quella casa tutto è riciclato. Ogni oggetto, trovato o donato ha una sua storia precisa. Tutto, sembra essersi fermato agli anni settanta. Quella è

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l’atmosfera che si respira. Le librerie metalliche rosse, i poster dei rivoluzionari, le vecchie poltrone trafugate nelle case delle nonne. Ci si trova immersi in un’atmosfera intrigante e coinvolgente. Ci mettiamo nello studio. Una specie di santuario. La poltrona di Nino vicino ai vetri che danno sul terrazzo, l’unica parete non coperta dalle librerie è piena di locandine dei suoi spettacoli, i suoi lavori, sue foto. Quel cespuglio irto, ribelle e selvaggio ha una faccia deliziosa e un nome Maria. Maria Di Carlo è un fiume straripante. Ascoltarla è bello, perché mentre parla, si muove, cammina, ride, gesticola, a volte recita, non per mistificare, ma per passione, partecipazione al ricordo. A diciassette anni divenne famosa perché a Corleone, denunciò il padre che la privava della libertà di frequentare il ragazzo che le piaceva e i frati francescani del rinnovamento per averla sottoposta all’esorcismo. Mentre osserviamo per capirne di più inizia a parlare. “Qui con Nino siamo stati diciotto anni. Abbiamo vissuto nella stessa casa fino alla fine. Non in senso coppia. Negli ultimi anni avevo già


Maria Di Carlo: “non accettavo il divieto, la proibizione” l’attuale compagno, anche lui Nino. La vita di coppia era già finita ma, in realtà non finisce, si trasforma, sfuma in qualcosa di più, di meglio. Lo reputo il mio partner per antonomasia. E’ stata la persona con cui ho condiviso maggiormente il senso di complicità. Quando è morto, avevo trentasei anni. Nel 1980, in questa casa, Nino Gennaro creò il gruppo “Teatro Madre”, dal nome di una sua opera: Una compagnia di non attori, un teatro insolito, povero e senza mezzi. La scena? Piazze, università, case. Tutti luoghi in cui si potevano svolgere dibattiti e momenti di comunicazione. Maria ne è l’interprete. Anche lui recita. COMPAGNA DI VITA E DI LOTTA Nino Gennaro è stato un attivista nella lotta alla mafia per i diritti sociali, per la libertà, per la diversità. Poeta e drammaturgo. Era un bisessuale ed ha vissuto in tempi di forte arretratezza culturale soprattutto nell’entroterra siciliano, a Corleone, feudo di Luciano Liggio. La sua personalità dirompente, poliedrica e pirotecnica affascinava i giovani di Corleone, ne faceva un educatore di strada, ma, agli occhi dei genitori era un frocio pericoloso che plagiava i loro figli. “ L’aspetto eterosessuale era quello predominante. Più profondo. In lui c’era anche l’altra dimensione. Nino non sottaceva, la viveva e basta. Per me era come un punto a suo favore. Nino rispetto agli altri aveva una marcia in più”. Fra il 1974 e il 1975, a Corleone, per i ragazzi la vita è dura. Maria, figlia di medico e studente ginnasiale fa parte dell’azione cattolica, frequenta corsi di teologia, fa catechismo ai piccoli, insomma una signorina di buona famiglia. Partecipa a una specie di rinnovamento religioso gestito dai frati francescani che avevano occupato il vecchio carcere borbonico e lo avevano riadattato. Erano diversi dai nostri preti, vestivano sempre con la stessa tonaca, camminavano estate e inverno con i sandali o a piedi nudi, predicavano la povertà, vivevano della carità della gente. Per i ragazzi erano molto affascinanti. I frati, in quel tempo organizzavano anche il cosiddetto Cursiglio d’importazione spagnola. Era una tre giorni di liturgie, preghiere e

giaculatorie per sposi, per fidanzati, per ragazzi. La ragazza partecipa anche al Cursiglio, ma alla fine, a differenze di tutti gli altri, ne esce diffidente. Tuttavia, ha un bellissimo rapporto con Fra Cristoforo, molto amato dai giovani attratti oltre che dalla sua retorica, dalla sua tonaca piena di pezze. Toppe coloratissime. Nella Corleone di allora Maria teorizza la libertà di costumi, libertà sessuale, sesso prima del matrimonio. Solo teoria, la pratica era diversa. Aveva circa quindici anni, nelle scuole di Corleone le classi miste erano appena nate, in aula prima entravano le femmine e poi i maschi. Rispetto alle altre era un poco più libera. La domenica andava alle baracche, teneva i bimbi dei baraccati per farli

interessante. Aggiungo, che a Corleone i ragazzi eravamo sotto una cappa mortifera insopportabile e che noi volevamo contaminarci. Alla fine, in un crescendo isterico ci infilai il mio discorso tipico dell’epoca, cioè i rapporti prematrimoniali sono una cosa sacro santa e se questo significava essere puttane ebbene sì, io ero felice di essere una puttana. Un putiferio. Questa cosa in pochi minuti fa il giro del paese e all’uscita del cinema mi viene incontro Nino Gennaro cui hanno già raccontato e mi dice che mi vuole conoscere e che mi manderà un suo libro di poesie. Me lo porterà Giovanna una sua amica che diventerà anche mia e che sarà la prima abitante di questa casa. Il titolo del libro è strano e lunghissimo. Folle. “Il Maggio fu francese, rivoluzione culturale meridionale, A ognuno il suo Vietnam, super show per persone intelligentissime, a Luciano Liggio che ha ammazzato Michele Navarra … “ Lo lessi immediatamente. Capivo, non capivo, non so cosa capivo, ma, era una sferzata. Scopro che a Corleone esisteva dell’altro, che c’erano persone molto interessanti che potevo conoscere”. Un’onda oceanica. Non tutti la pensano come Nino. Il padre di Maria va su tutte le furie. Ha una figlia perversa? E poi che figura ci fa con gli altri? Iniziano le repressioni e le punizioni. L’ESORCISMO

partecipare alla messa. “Non avevo alternative. Pensavo che a Corleone non esistesse altro. Ero ignorante perché non passava nulla”. Una situazione intellettuale e culturale soffocante. Anche a scuola una serie di episodi rende il clima pesante. I ragazzi protestano e trasgrediscono?. I genitori si mettono d’accordo per tenerli più repressi. I ragazzi si ribellano Una specie di corpo a corpo per i ragazzi, da un lato con genitori e dall’altro con professori. Succede che a un cineforum proiettano “Romanzo popolare”, alla fine una professoressa attacca il film come scandaloso e pornografico. ” Per la prima volta in vita mia prendo la parola in pubblico. Con la gola strozzata e la voce tremolante faccio un intervento nevrotico in cui sostengo che per me non lo era per niente anzi lo trovavo

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La ragazza è una cattolica praticante, eccentrica, come l’idea che ha della confessione, non pentimento ma confronto. Succede così che durante un confronto-confessione con fra Cristoforo suo padre spirituale, gli dice dell’assemblea e delle sue idee di libertà. “Tu sei fuori strada, mi dice Fra Cristoro, tu non lo puoi fare, è assolutamente sbagliato – per poi aggiungere - Io questa notte ho avuto un incontro col demonio che mi ha buttato giù dal letto tanto che ho dovuto dormire ai piedi del tabernacolo. Adesso in te vedo la personificazione del maligno … ti vuoi sottoporre all’esorcismo. Sei troppo sbagliata figliola” Maria ha visto il film, l’esorcista, cosa le potrebbe accadere? Pensa, al massimo vomito, quindi la curiosità, i quindici anni, il dubbio che forse è sbagliata veramente, anzi indemoniata, la consegna di non parlarne con nessuno, accetta. *** “Cristoforo raduna tutti gli altri ragazzi


Maria Di Carlo: “non accettavo il divieto, la proibizione” in una stanza a pregare, loro non sanno cosa sta succedendo, sanno che c’è bisogno delle loro preghiere. Nell’altra stanza inizia il rito. Il frate mi dice di inginocchiarmi, io mi rifiuto. Comincia a leggere preghiere di San Lorenzo, mostra le ginocchia callose per tutto il tempo in cui sta inginocchiato in preghiere, mi chiede di baciargli forse il cordone o la mano non ricordo perché ridacchiavo, insomma manifestavo tanti segni di non pentimento e disturbanti. Non mi dà l’assoluzione. Alla fine mi vieta categoricamente di parlarne con gli altri. Non ne parlerò. Per circa un anno e mezzo, continuerò a frequentare il gruppo, mi confesserò con altri frati. Non mi daranno l’assoluzione. Mancava il pentimento”. Pentirsi di che? L’INCONTRO CON NINO GENNARO Non c’è dubbio, Nino Gennaro è stato un portatore di innovazione a Corleone. Con un finanziamento dell’allora Psi, aveva creato la sede della Federazione Giovanile Socialista, un posto, dove i ragazzi trovavano di tutto, Bibbia, Reich, Famiglia Cristiana, Manifesto, L’Ora, fumetti, contro l’aborto di classe e tanto altro. A Corleone esisteva una sola libreria, lui metteva a disposizione di chi volesse leggere, tutto quel materiale, per far vedere che non esiste un modo solo di pensare e di vedere le cose. Il suo obiettivo era quello di combattere l’idea di un pensiero unico, di far aprire il paese che era chiuso in se stesso. Un’oasi incontaminabile come sosteneva il preside. La sede della FSG, era un posto in cui si ritrovavano persone che mai si sarebbero potute incontrare; muratori, elettricisti, studenti. Tutti convogliati da Nino, dal suo modo di fare pirotecnico. Era brillante, buffo, divertente. Uno che passava notti intere con giovani operai a parlare di sindacato e diritti. Vivace e affascinante. Non era un grigio e serioso funzionario di partito. Quasi tutti i ragazzi frequentavano la sede FGS di nascosto alle loro famiglie, entravano e uscivano dalla sede come fosse una catacomba. Un periodo di grandi apprendimenti per loro. Riunioni, dibattiti, riflessioni. Non esiste il monopolio del pensiero, tu fatti il tuo. Ed ancora, A Corleone non siamo tutti gregari di Liggio. Maria ne era molto affascinata. Quando il psi gli tolse il finanziamento perché non gli interessava quel tipo di lavoro che non gli portava voti, crearono

il centro di aggregazione popolare Placido Rizzotto. Dove Maria non andò mai perché nel frattempo a casa sua, con suo padre succedeva il cataclisma. “Su suggerimento di Nino nel 1975 abbiamo festeggiato l’8 marzo. Partecipammo in quattro. Io e una mia compagna avevamo scritto un libriccino ciclostilato – Alternativa -in cui raccontavamo della nostra situazione a Corleone, fatta di repressioni e restrizioni. Naturalmente non abbiamo firmato gli articoli con nostri nomi, ma con pseudonimi. I miei mi scoprirono e a casa mi fecero un cazziatone. Cominciarono le botte. Mio fratello che assieme a me frequentava il gruppo, batté subito in ritirata. Mia madre non condivideva mio padre ma, non aveva il coraggio di opporvisi”. Lei non si arrende. “Nino per il paese era il frocio. Era un pervertito, una persona da non frequentare. Da isolare. Una persona proibita. A distanza di tanti anni quando parliamo di quest’argomento con gli

volta partecipai assieme a due mie compagne allo sciopero dei braccianti. Non so il perché o le ragioni, percepivo solo che volevo stare dalla parte dei più deboli e per me in quel momento loro lo erano. Tranne noi tre ragazzine, era una folla di soli uomini. Cosa ricordo? Tante cacche di vacca. Conseguenze? Legnate. Ritiro dalla scuola. Chiuse, isolate a casa. Niente telefono. Per mesi con Nino non ci si vede. Io in pratica sono segregata. Inoltre, mio padre aveva chiesto al preside di non farmi uscire durante l’intervallo. Pianti e disperazione da parte mia che accusai anche il preside di rendersi complice di questa mia situazione famigliare. Ero disperata, ma non mollavo. Buscavo legnate e meditavo vendetta” Per tentare di ammorbidire il padre, la ragazza tenta di parlare con padre Umile, uno dei francescani, ma con il monaco, non si capiscono proprio. La pensa come il genitore, le dice che è sbagliata, che la deve smettere. A questo punto la giovane arrabbiata gli racconta dell’esorcismo minacciando di svergognarli con tutto il mondo. Maria è esasperata. Ha già compiuto diciassette anni. IL VOLANTINO

amici di allora, concordiamo sul fatto che l’omosessualità di Nino, fra noi non veniva fuori perché non era smaccata, non era esibita. Lo sapevamo perché lo dicevano gli altri. In paese sicuramente non era una sua pratica, in ogni modo era una persona molto proibita. Ci si frequentava di nascosto. In un crescendo di repressione i vari padri si coalizzano per non farci vedere più .Insomma ci separano. Non solo. Mio padre per piegarmi mi ritira dalla scuola. Subito i professori intervengono perché ero brava. Ritorno a scuola ma, a ogni piccola cosa mi ritira nuovamente. Ogni occasione era un pretesto per ribadire chi comandava e chi doveva ubbidire. Una

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“Un giorno mentre stavo per andare a scuola, arriva mio padre con un volantino in mano in cui c’era una vignetta che raffigurava lui a braccetto col preside ed io racchiusa in una gabbia. “Lo sa i che a scuola fanno queste cose?” “ Sì e me ne compiaccio”. Reazione immaginabile. Mi dà una scarica di legnatone e dopo esce da casa. Io eludo la sorveglianza di mia madre. Ed esco a ruota. Vado da una mia vicina e le chiedo di accompagnarmi al commissariato perché voglio denunciare mio padre. La signora si limita a fare giri a vuoto in macchina pensando che io mi distraessi e ci ripensassi. Mi accorgo di ciò e ancora più arrabbiata scendo dalla macchina. Per strada incontro due miei amici, con loro vado al centro Placido Rizzotto e lì, incontro Nino che non vedevo da mesi. Cerca di farmi ragionare, riflettere sulle conseguenze e nel frattempo scrive e disegna qualcosa. Ma io sono su tutte le furie, non voglio sentire ragioni, con i due amici vado al commissariato. Loro sono figli di due marescialli, mi accompagnano e se ne vanno. I loro padri sono sulla stessa lunghezza d’onda del mio e quindi non fanno altro che telefonare a casa mia per rassicurare lui e mia madre, - dottore, non è successo


Maria Di Carlo: “non accettavo il divieto, la proibizione” niente … fra poco la condurranno a casa … - ma dovete verbalizzare - urlo indispettita! Loro non mi davano conto. Arriva la telefonata di un giornalista de L’ORA, Giuseppe Cerasa che dice maresciallo, so che da voi c’è Maria Di Carlo che sta denunciando suo padre cosa sta succedendo? E a questo punto hanno dovuto verbalizzare. Nel frattempo Nino arriva alla scuola, i ragazzi non sono ancora entrati e li avvisa che io ero al commissariato. La lasciamo sola? Volete fare scuola? Bisogna fare un’assemblea. Una professoressa con la sua scolaresca arriva al commissariato per testimoniare a mio favore”. Esce sul giornale. Notizia per telegiornali. L’insegnante avrà problemi penali perché aveva portato i ragazzi in commissariato senza autorizzazione. Maria e Nino diventano protagonisti di trasmissioni radiofoniche e televisive. Roba da prima pagina. Esperti che si confrontavano sul tema. Il paese pieno di giornalisti. “Quando pensai di denunciare mio padre non pensavo ad una vera e propria denuncia, con le conseguenze che ci sono state, pensavo ad una tiratina di orecchie. Invece la situazione mi sfuggì di mano”. Per mesi vive in isolamento fuori paese. Era la plagiata della situazione. “Mi trattavano bene, ma, m’impedivano di campare”.

i mafiosi. Il processo è fissato per la settimana successiva alla chiusura della scuola. Al processo uno dei due legali impronta la difesa sul fatto che Nino Gennaro è omosessuale, quindi un malato, come tale da curare. Anzi, aggiunge l’altro, è bisessuale, quindi un vizioso. Usava droghe. Organizzava orge e festini, ha plagiato una ragazzina diciassettenne, deve essere punito. Il procuratore del Tribunale dei Minori è Giacomo Conte socio fondatore di quello che poi diventerà il Centro Impastato, deciderà che c’è stato abuso di metodi educativi e lesioni. Pertanto sarà il genitore a essere condannato: un mese di reclusione con la conseguente perdita della patria potestà. Un fatto solo simbolico perché dopo una settimana Maria avrebbe compiuto diciotto anni e sarebbe diventata maggiorenne. A casa c’era il lutto. Centinaia di visite in omaggio al capo famiglia. Una specie di cordoglio al padre. Alla ragazza sarà proibito pranzare a tavola con il resto della famiglia. Comunque la giovane Maria si incontra il suo Nino, senza che il padre le dicesse nulla. Non poteva. Tuttavia alla presenza di ospiti, tenterà di lanciarle una bottiglia. Un giorno in pieno centro di Corleone Nino è circondato da un gruppo di giovinastri che tentano di caricarlo in macchina. Comincia ad avere telefonate minatorie. Si trasferisce IL PROCESSO definitivamente a Palermo, dove Tuttavia l’atmosfera era pesante, la stava durante i mesi del processo. situazione grave, specialmente per il Dopo una settimana che ha compiuto dott. Di Carlo. Durante l’istruttoria erano diciotto anni anche Maria, si trasferisce a venuti fuori i lividi dell’ultima legnata. Palermo. Alle perizie seguono le controperizie. “Non c’è nessuna certezza. Cosa farò, Un balletto di perizie. La situazione è dove vivrò, con chi vivrò. Con Nino non incontrollabile. avevamo deciso nulla. Insomma una Era ancora una ragazzina minorenne. Al cosa molto anomala”. Erano diventati processo la parte civile dovrebbero un caso famoso, tutti li cercavano. “Non abbiamo avuto difficoltà che ci ospitassero. Per molto tempo abitammo alla Il dott. Di Carlo invece aveva due avvocati. Vucceria. All’inizio, Due principi del foro. L’avvocato Triolo che anche in questa casa morirà ammazzato a Corleone, l’avv. Campo fummo ospitati, poi, si che difendeva i mafiosi. liberò una stanza e la prendemmo noi. Ci abitava già Giusi essere i genitori, ma il padre era Gennaro, Giovanna ed altri amici , l’accusato e la mamma non lo volle fare. finimmo col restare. Ed è diventata la Quindi non c’era avvocato accusatore. Il nostra casa. Scherzosamente chiamavo dott. Di Carlo invece aveva due Nino fufo, dal 79 questa fu la casa dei avvocati. Due principi del foro. fufi”. L’avvocato Triolo che morirà ammazzato Abbandonò gli studi e lavorò da subito. a Corleone, l’avv. Campo che difendeva

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La giornata tipo di Maria ragazza bene di Corleone, figlia di medico, che era cresciuta con la cameriera prevedeva tanto lavoro. Cameriera, bambinaia, insomma quello che capitava. “I miei mi avrebbero mantenuto anche all’estero, se avessi rinunciato a quel rovina famiglie di Nino. Cosa improponibile e inaccettabile. La rottura con mio padre comunque era iniziata prima che nella mia vita arrivasse Nino. Non sopportavo divieti e proibizioni” Hanno rapporti e contatti con gruppi, centri sociali, associazioni, ovunque c’era materiale umano con cui innestarsi. Erano sempre in giro, ma c’erano anche i momenti di casa scuola, teatro, letture, riflessioni. Senza tv. Si cucinava e si stava assieme. Rimpianti? No. Sono state cose molto sofferte. C’è stato tanto dolore Mia madre per vedermi veniva nel posto, dove io lavoravo di nascosto a mio

padre. Cinque minuti e via. Morirà per questo, e con questo dolore. Per la situazione dell’epoca, non potevo fare che le cose che ho fatto. O ti adagiavi o ti ribellavi. Ne è valsa la pena, ho avuto la possibilità di vivere con Nino, una vita intensa, particolare. Non è stata solo una storia di amore, ho vissuto con Nino a 360 gradi”. LA MALATTIA DI NINO “L’ AIDS è una malattia infamante. Una malattia il cui immaginario è legato a sesso diffuso e uso di droga. Nino non ha mai fatto uso di droghe. All’inizio, quando seppe della sua malattia, andò via da questa casa, non voleva vedere nessuno, non voleva parlare con nessuno. Erano anni in cui di ADS si moriva. Non ci si curava bene o male come ci si cura oggi. Anche noi, tutti quelli che gli stavamo vicino al principio ci lasciammo sopraffare dalla notizia. Poi ci fu un periodo di organizzazione.


Maria Di Carlo: “non accettavo il divieto, la proibizione” Nino avrà un recupero meraviglioso e vivrà questa sua malattia preparandosi tante cose come sempre”. Ha vissuto la malattia e l’attesa della morte in modo collettivo. Nella casa aperta quindi, l’attività e il fermento continua. Attorno a Nino arrivano amici da ogni parte. Chi lavava, chi cucinava, chi gli faceva la rassegna stampa. Nella loro storia d’amore e di politica era prevista una

alla morte, vivendo in modo più intenso possibile. Non chiudendosi. Facendo trasformazione, una evoluzione, ma, non ci poteva essere alcuna rottura. Infatti, continueranno a vivere nella stessa casa, faranno le cose di sempre da soli o assieme agli altri dieci. Teatro, politica, volontariato. Avevano creato associazioni, gruppi culturali, il centro sociale San Saverio, Comitato Cittadino di Informazione e Partecipazione, per dirne solo alcuni. Il

loro rapporto complesso e complicato ora, era una grande, intensa sintonia e complicità. Fino all’ultimo momento. Era il settembre del 1995. Se la giovane Maria non avesse incontrato Nino? “Quando ci siamo conosciuti già eravamo due persone affini. In lui ho riconosciuto l’anima gemella. Non sono una sua creazione”. Brava Maria.

Quando ci siamo conosciuti già eravamo due persone affini. In lui ho riconosciuto l’anima gemella. Non sono una sua creazione

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Pio La Torre: un popolo in marcia

Pio La Torre Un popolo in marcia Adriana Laudani Era un uomo forte e ostinato, mosso da passioni e convinzioni profonde. Un miscuglio di dinamismo, entusiasmo ed energia inesauribile. Infaticabile. Aveva chiesto al partito nazionale di ritornare in Sicilia con un ruolo di massima responsabilità. Creò un movimento di massa capace di fare “marciare” insieme cattolici e comunisti, giovani e vecchi. Un popolo in marcia e finalmente protagonista del suo destino. Un milione di firme contro la base missilistica e la militarizzazione della Sicilia. La campagna contro l’agio e i privilegi degli esattori Salvo e Cambria, i cavalieri del lavoro Costanzo, Rendo e Graci e dei capi mafia Greco. Il sistema di potere politico-affaristico-mafioso. L’impegno per una legge che configurasse il reato di associazione mafiosa e nello stesso tempo colpisse gli immensi patrimoni illegalmente accumulati: La Legge La Torre che sarà convalidata dopo la sua morte. In questi giorni si sono moltiplicate le iniziative di “commemorazione” di Pio La Torre, segretario del P.C.I. siciliano, ucciso il 30 aprile del 1982, solo ventisei giorni dopo la straordinaria manifestazione di Comiso contro l’installazione dei missili Cruise, per la cui riuscita aveva lavorato giorno e notte, senza tregua. Una manifestazione di popolo, pacifica e al tempo stesso combattiva, animata da migliaia di donne e giovani, operai e intellettuali, venuti da ogni parte della Sicilia e dell’Italia per contrastare una scelta che avrebbe trasformato l’Isola, come Lui ripeteva “ossessivamente”, in un’aria militarizzata, sottratta allo sviluppo, aperta ai traffici di armi e droga, porto franco per la mafia e i suoi affari. Aveva chiesto al partito nazionale di ritornare in Sicilia con un ruolo di massima responsabilità. Urgeva dentro di lui il senso di una personale “missione” da compiere: mettere a

servizio della sua terra l’esperienza e le conoscenze accumulate in tanti anni di lavoro nel sindacato, nel partito e nel Parlamento; promuovere e dirigere un processo politico e un movimento di

massa in grado di liberare la Sicilia dalle ipoteche mortali rappresentate dalla mafia e dalla presenza della base missilistica di Comiso. Enrico Berlinguer, stravolto davanti al corpo

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inerme e martoriato di Pio, volle ricordarlo così, non tacendo le incomprensioni e i “sospetti” che pure qualcuno aveva avanzato di fronte alla sua ostinata richiesta di dirigere il partito siciliano in una fase che egli riteneva decisiva per il futuro dei siciliani. Sì, perché era un uomo forte e ostinato, mosso da passioni e convinzioni profonde, dalle quali traeva una energia inesauribile e davvero non comune; che gli consentivano di porre a sé e a tutto il movimento obiettivi politici che altri avrebbero considerato impossibili o addirittura improponibili. Così l’ho conosciuto, appena designato Segretario del Partito siciliano, quando mi chiese di fare parte della sua segreteria, nell’autunno del 1981, ancor prima del Congresso regionale che lo avrebbe formalmente eletto nel gennaio dell’ottantadue.


Pio La Torre: un popolo in marcia UN POPOLO IN MARCIA Bisognava partire subito, diceva, non si poteva perdere un giorno. Le scelte adottate (“cinicamente”) dal Governo nazionale e dal Ministro alla Difesa ai danni della Sicilia erano già operative. La posta in gioco era tale da non consentire a nessuno di ritenere che bastasse una forte opposizione parlamentare per mutare gli orientamenti definiti e gli equilibri politici raggiunti a livello nazionale ed internazionale. Era necessario organizzare un movimento di massa capace di fare “marciare” insieme cattolici e comunisti, giovani e vecchi e di dare voce a un popolo finalmente protagonista del suo destino. La raccolta di un milione di firme sulla petizione contro la base missilistica e la militarizzazione della Sicilia, la formazione dei comitati unitari che in ogni Comune e in ogni Provincia mettessero in piedi iniziative tese a coinvolgere tutte le componenti sane della società civile avevano questo significato. Ogni mattina di buon’ora, dalla sua stanza in Corso Calatafimi, suonava la sveglia telefonica ai segretari di federazione, delle camere del lavoro, delle organizzazioni di massa vicine al partito, chiedendo del numero delle firme raccolte sulla petizione, delle assemblee di quartiere organizzate, dei consigli comunali chiamati a pronunziarsi, delle iniziative avviate. Lotta per la pace e contro la mafia divennero un binomio inscindibile, destinato a segnare quel passaggio della vita regionale che vide Pio La Torre protagonista. Così, mentre si raccoglievano le firme in calce alla petizione contro i missili, attraverso centinaia di assemblee e riunioni, si preparava la manifestazione di Comiso. S’interveniva in modo assai deciso sulla politica regionale, bloccando la legge che avrebbe aumentato a dismisura l’agio degli esattori (i Salvo, i Cambria), contrastando i metodi di assegnazione dei contributi regionali in agricoltura a favore di alcuni Cavalieri del Lavoro (Costanzo, Rendo e Graci) e di alcuni capi mafia (i Greco), denunziando il sistema di aggiudicazione degli appalti (l’affare delle dighe, ecc.). Ma neanche questo era sufficiente per fronteggiare gli attacchi che la mafia e il suo sistema di potere portavano ogni giorno al cuore della convivenza civile. Da qui l’impegno spasmodico del parlamentare Pio La Torre per giungere in tempi brevi all’approvazione di una legge che configurasse il reato di

associazione mafiosa e nello stesso tempo colpisse gli immensi patrimoni illegalmente accumulati e li restituisse alla comunità; dotasse lo Stato di strutture investigative e giudiziarie in grado di contrastare un fenomeno criminale per troppo tempo tacitamente accettato e/o tollerato. Una legge a lungo osteggiata e ritardata, che il Parlamento avrebbe approvato solo dopo l’assassinio del Generale Dalla Chiesa nel settembre di quel terribile 1982 e che tutti noi ricordiamo come “la legge La Torre”. Ebbe in mente ed attuò una strategia complessa, in grado di unire inediti protagonismi individuali e collettivi, di mobilitare forze sociali e politiche di appartenenze diverse, di investire contemporaneamente le principali sedi istituzionali e il corpo della società civile. Anche gli obiettivi che una simile strategia poneva al centro erano molteplici e tali da coinvolgere, allo stesso tempo, ragioni ideali e concreti interessi: la pace, la liberazione dall’oppressione e dalla violenza mafiosa, quali condizioni essenziali per aprire alla Sicilia nuove prospettive di sviluppo e di lavoro, in una terra già allora afflitta da un tasso di disoccupazione assai preoccupante. Un orizzonte di progresso e di benessere attorno al quale motivare e mobilitare tanto le forze del mondo del lavoro che gli imprenditori sani. POLITICA-AFFARI-MAFIA: il suo pallino Alla base della sua visone della lotta sociale e politica, che quel tempo storico richiedeva, vi era una idea molto precisa delle forze e degli interessi da contrastare e da battere. Basti ricordare che Pio La Torre non parlò mai di lotta alla mafia, ma di lotta al sistema di potere politico-affaristico-mafioso; definendo i “delitti eccellenti”, che in quegli anni segnavano di sangue la Sicilia, quali delitti di terrorismo politico-mafioso. E’ utile, per meglio comprendere questo decisivo aspetto della sua personalità politica, rileggere l’intervento che svolse alla Camera dei Deputati subito dopo l’omicidio del Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella: “Noi non dobbiamo dimenticare la storia della Sicilia e dei legami internazionali della mafia

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siciliana che la vicenda Sindona ha riproposto in maniera drammatica. Siamo di fronte ad imperi finanziari, anche fuori della Sicilia, controllati da gruppi mafiosi che operano in Sicilia o da famiglie siculo-americane, non solo nel traffico di stupefacenti o in altri traffici illeciti. E’ noto che il gruppo che fa capo all’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino …. Siamo in presenza di nessi che bisogna saper cogliere.” Ma ancora prima, in occasione dell’omicidio del giudice Cesare Terranova, aveva introdotto una precisa distinzione tra “mafia e sistema di potere mafioso” che è quello composto da “uomini politici e uomini che sono in posizione chiave nel potere in Sicilia”. Era dotato di uno sguardo profondo e impegnato che gli consentiva di cogliere le ragioni non solo dei singoli delitti eccellenti, ma delle comuni ragioni e dei terribili interessi che li avevano

provocati. Una visione che ieri come oggi sembra sfuggire ai più, dedicati a coltivare analisi del fenomeno mafioso assai più comode e riduttive, ma fallimentari nella prospettiva di una seria azione di contrasto. In questa direzione è inevitabile ricordare la propaganda che anche gli ultimi Ministri dell’Interno ci hanno propinato, definendo gli arresti di noti latitanti quali azioni decisive per la vittoria dello Stato sull’organizzazione mafiosa, nel mentre si consentiva che la mafia si aggiudicasse le concessioni nazionali dei giochi e delle scommesse, ovvero che partecipasse attraverso proprie imprese a numerosi lavori per la realizzazione di opere e servizi pubblici. Pio La Torre la pensava diversamente e coerentemente agiva: connettere in modo indissolubile la lotta contro la mafia e ogni forma di illegalità a quella contro l’installazione dei missili a Comiso era


Pio La Torre: un popolo in marcia indispensabile per aggredire il cuore di quel grumo di interessi politici, affaristici e mafiosi che ieri come oggi condizionano la vita economica, sociale e democratica della Sicilia e del Paese. Un sistema illegale e criminale, diceva, può essere contrastato solo da un sistema legale che sa mettere insieme e coordinare le azioni di contrasto mosse dalle istituzioni e dalla società. A noi resta il doveroso riconoscimento della sua straordinaria intelligenza politica che gli consentì, sin dal tempo della prima Commissione parlamentare antimafia, - della quale fu insieme al giudice Terranova protagonista e relatore di minoranza - di analizzare e comprendere il sistema politico-mafioso e le sue azioni terroristiche e criminali; e naturalmente, il riconoscimento di una coerenza e di un coraggio davvero rari in

decennio delle stragi di mafia che sta alle nostre spalle, ma a meglio leggere il presente e ad orientare le scelte che ci attendono. Forse anche questa nuova consapevolezza ha motivato le straordinarie attenzioni che si sono concentrate in occasione del recente trentesimo anniversario della sua morte violenta. I numerosi libri pubblicati, le interessanti trasmissioni televisive realizzate, i dibattiti e le iniziative da più parti promosse, la presenza a Portella delle Ginestre del Segretario Bersani, sembrano avere questo segno positivo. A ciò hanno forse contribuito le recenti “rivelazioni” riguardanti le trattative tra Stato e mafia intervenute attorno agli anni ’90, prima e dopo le stragi che hanno visto l’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino, che tanto scalpore hanno suscitato nell’opinione pubblica nazionale. PATTI E TRATTATIVE? NO GRAZIE

una terra da sempre dedita al trasformismo. Ma anche questo non può e non deve bastarci. Rileggere le parole e le azioni di Pio serve, infatti, non solo ad illuminare e a rendere comprensibile il

Chi nel corso di questi trenta anni ha preso parte alla battaglia contro la mafia sa da sempre, come Pio ci ricordava a volte gridandolo, che la mafia vive di tali accordi, patti e trattative, attraverso cui costruisce e alimenta quel sistema di potere che gli consente di associare a sé e ai suoi interessi pezzi di Stato, di imprenditoria, di politica, di amministrazione e di informazione. Chi come me ha vissuto e vive a Catania non può non ricordare che in quegli stessi anni di tutto questo e non di altro scriveva Pippo Fava su “I Siciliani”, operando una azione di autentico

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disvelamento e di coraggiosa rottura di quel “silenzio stampa” da sempre imposto e praticato in Sicilia. Oggi sappiamo con certezza, anche giudiziaria, che il 5 gennaio del 1984 Pippo Fava fu ucciso dal medesimo sistema di potere politico-mafioso, e che il movente di quel delitto è iscritto nelle stesse ragioni che hanno condotto alla morte Mattarella, Chinnici, Dalla Chiesa e La Torre. Vale, infine, porsi e porre alcune domande: può l’Italia tollerare che i veri mandanti delle stragi e dei delitti eccellenti restino per sempre innominati e impuniti? E il sistema economico accettare, oltre l’imposizione del pizzo, la compenetrazione delle imprese e dei capitali mafiosi nel sistema imprenditoriale del Nord, del Centro e del Sud? Può la Sicilia sperare in un futuro diverso e intraprendere il cammino del cambiamento senza fare i conti con l’attuale sistema di potere politico-mafioso e con i suoi protagonisti? L’alternativa politica e amministrativa a tale sistema quali azioni di rottura e di discontinuità richiede? Per dirla con Pio, dalla capacità di risposta a queste domande dipende la qualità della stessa democrazia per il presente e per il futuro. Del passato conosciamo i prezzi pagati, in termini di arretratezza civile ed economica delle nostre comunità, di opportunità bruciate per le giovani generazioni. Per queste ragioni il suo ricordo alimenta in noi, insieme al rimpianto per averlo perduto, la ferma volontà di non rassegnarci e tantomeno di arrenderci.


Umberto Santino: Peppino Impastato anatomia di un depistaggio

Peppino Impastato l’icona e la realtà Introduzione alla nuova edizione del libro “Peppino Impastato anatomia di un depistaggio”. La relazione della Commissione antimafia del 2000 e altri nuovi contributi.

Umberto Santino A 34 anni dall’assassinio di Peppino Impastato possiamo dire che l’impegno dei familiari, di alcuni compagni di militanza, del Centro a lui intitolato, sia riuscito a ottenere una vittoria completa, definitiva. I mandanti del delitto sono stati condannati, la relazione della Commissione parlamentare antimafia, che ripubblichiamo in questa nuova edizione, ha indicato con nomi e cognomi i responsabili del depistaggio, il film a lui ispirato ha fatto conoscere al grande pubblico la sua figura, proliferano centri, associazioni, comitati che portano il suo nome, eppure ci troviamo dentro una storia tutt’altro che conclusa. Nei primi mesi dell’anno scorso la Procura di Palermo ha riaperto le indagini e dalle notizie che sono circolate sembra che si parta da zero. Si dice spesso che l’Italia è un paese senza memoria ma forse sarebbe più rispondente al vero dire che c’è una memoria selettiva, fatta di cancellazione della realtà e devozione per l’icona. E anche per Peppino Impastato si può fare la stessa considerazione. Si è formata un’icona, soprattutto in seguito al successo del film e ormai i «cento passi» sono diventati la metafora che ha eclissato o emarginato la realtà e la colonna sonora che ha piallato altre voci. Così, nelle iniziative che si susseguono con ritmo incalzante, Peppino è diventato un chierichetto della legalità, un giullare dell’antimafia, il protagonista di piazzate notturne che mai si sarebbe sognato di fare, il fiore nel fango, il Che Guevara della provincia siciliana, altrettanto improbabile come il Che delle magliette. E qualcuno ha ritenuto bene di

cavalcare questa icona e decretare che tutto, o quasi, è dipeso da un film. La recente disavventura con la casa editrice Einaudi e con l’autore del bestseller Gomorra non è frutto del caso. Abbiamo chiesto la rettifica di un’affermazione assolutamente infondata («Un film riapre un processo») e la risposta è stata una lettera intimidatoria della casa editrice e la querela di Saviano a un giornalista di «Liberazione» che aveva ripreso la nostra richiesta. Il libro, Don Vito a Gomorra, in cui ho raccontato questa e altre vicende esemplari del nostro tempo, ha trovato un cordone sanitario. Riproponiamo questo testo, che rappresenta un unicum nella storia dell’Italia repubblicana (non ci sono altri casi di relazioni di una Commissione parlamentare in cui si dica che rappresentanti delle istituzioni hanno depistato le indagini su un delitto politico-mafioso e coperto i responsabili), perché vogliamo continuare la nostra battaglia per la verità. La proposta di chi scrive che quello che è stato fatto per il delitto Impastato venisse fatto per altri eventi, delitti, stragi, su cui non c’è una verità giudiziaria, o è molto parziale, non è stata accolta. Questo testo è stato, e continua ad essere, un fatto eccezionale. Non si è avuto, e tutto lascia prevedere che non si avrà, qualcosa di simile per Portella della Ginestra, per piazza Fontana, per piazza della Loggia a Brescia, per la stazione di Bologna, i grandi buchi neri della storia d’Italia. La domanda con cui concludevo la prefazione alla seconda edizione di questo libro ha avuto risposta negativa. E

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il processo riaperto per la strage di via d’Amelio, dopo le rivelazioni di Spatuzza, pare che debba riscrivere solo parzialmente una sentenza fondata su dichiarazioni che troppo tardivamente sono state ritenute false e depistanti. Con ogni probabilità rimarrà ancora oscuro il ruolo dei «mandanti esterni». Anche le inchieste e i processi in corso sulla «trattativa» fra mafiosi e uomini delle istituzioni sembrano seguire un vecchio copione. Per un verso se ne parla come se fossero fatti nuovi, mentre l’interazione tra mafia e settori delle istituzioni fa parte della storia della mafia e dello Stato italiano e affonda le sue radici in periodi storici precedenti; per un altro sembra che le esigenze dello spettacolo prevalgano su quelle dell’accertamento della verità. La vicenda legata alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, centellinate con un accorto dosaggio mirante a calibrare l’istogramma dell’attenzione mediatica, è esemplare: poche persone, con al centro il padre Vito e un fantomatico uomo dei servizi, avrebbero deciso le sorti del Paese e il rampollo di un uomo di mafia è stato accreditato come il rivelatore della «vera» storia d’Italia. Finché il gioco è diventato troppo evidente e si è cercato di rimediare facendo scattare, almeno per qualche tempo, l’arresto. L’azione dei magistrati, alcuni dei quali hanno sacrificato la vita, è stata e rimane benemerita, l’attacco continuo che hanno subito, negli ultimi, lunghissimi, anni, da Berlusconi è semplicemente vergognoso, ma sulla loro strada possono presentarsi personaggi che più che ad aiutare a ricostruire la verità contribuiscono ad


Umberto Santino: Peppino Impastato anatomia di un depistaggio allontanarla. E questo avviene in un paese in cui depistaggi e complicità si consumano all’interno dei corpi istituzionali. Scarantino, il falso pentito per la strage di via d’Amelio, in buona parte seguiva un canovaccio scritto o dettato da altri. Ed è fin troppo facile addossare tutto sulle spalle di chi non c’è più. La battaglia per la verità riguarda ancora oggi la vicenda di Peppino. Si sono riaperte le indagini sul depistaggio, è stato ascoltato il fratello di Peppino, è stato ascoltato chi scrive, è stata interrogata la casellante del passaggio a livello in servizio la notte del delitto, data per irreperibile per decenni. Nella mia lettera alla Procura, che pubblico assieme a questo scritto, tengo a precisare alcune cose che sembrerebbero ovvie ma evidentemente non lo sono. Bisogna partire da alcuni punti fermi: le condanne dei mandanti (delle persone individuate come esecutori due sono morte, vittime della guerra di mafia, un’altra è viva, e non ho mai capito bene perché non è stata incriminata), questa relazione sul depistaggio. Si parla, si torna a parlare, di neofascisti, di servizi, delle amicizie di Badalamenti con i carabinieri, si rispolvera il vecchio fascicolo dell’assassinio di due carabinieri nella casermetta di Alcamo Marina nel gennaio del 1976, e ora, dopo l’assoluzione di Giuseppe Gulotta, che era stato condannato all’ergastolo in seguito a confessioni strappate con torture, si cerca di far luce su quell’evento, collegandolo con altri delitti, tra cui quello di Peppino. Bene, si indaghi, per quanto è possibile indagare dopo tanti anni, ma la traccia fondamentale è quella già segnata, con risultati che vanno considerati definitivi, anche se sono possibili integrazioni e approfondimenti. La riproposizione di questo testo mi auguro che possa servire a ripercorrere un cammino, con i risultati che si sono ottenuti e i prezzi che sono stati pagati, gli ostacoli che sono stati superati, la protervia di chi non ha mai cessato di pianificare e avallare depistaggi, ma pure l’impegno di chi ha saputo sostenere un difficile sfida, anche quando sembrava che il muro dell’impunità e delle complicità non si sarebbe mai sgretolato. Tutt’altro che un episodio marginale, periferico, ma un esempio di forte significato nel quadro della storia d’Italia. Un ausilio decisivo per chi questa storia vuole continuare, sottraendola alle tentazioni, sempre

robuste, di replicare menzogne e oscurare verità. Umberto Santino

Non si è avuto, e tutto lascia prevedere che non si avrà, qualcosa di simile per Portella della Ginestra, per piazza Fontana, per piazza della Loggia a Brescia, per la stazione di Bologna, i grandi buchi neri della storia d’Italia. La domanda con cui concludevo la prefazione alla seconda edizione di questo libro ha avuto risposta negativa.

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Tutti sapevano che “la mafia a Trapani non c’era”

Profumo di Zagara e tanfo di morte Rino Giacalone Tutti sapevano che “la mafia a Trapani non c’era” e Rostagno invece ne parlava, sempre, sempre, sempre. Una grande camurria. Don Francesco Messina Denaro, allora a capo della cupola, non lo sopportava proprio. Lo disse pure a Provenzano, da cui riceveva visite nella propria casa. Anche Siino – come Brusca e Milazzo, racconta ai giudici che a volere la morte di Rostagno è stato don Ciccio Messina Denaro. I poliziotti volevano mettere sotto indagine la mafia, ma, presto si trovarono fuori. Le testimonianze in Corte di Assise del generale Montanti e il luogotenente Cannas, alquanto sconcertanti, inverosimili … surreali … disonorevoli. Bisognava dimostrare che a Trapani la mafia non c’era? L’odore degli aranci e un ordine di morte. La terra di Sicilia sporcata dalla violenza mafiosa. Era il 1988 e quell’odore che solo i nostri agrumi sanno dare era quello che inondava il terreno di un mafioso, fratello di mafioso, genero di un patriarca della mafia, cognato di un sanguinario assassino. Il terreno in questione era quello di Castelvetrano di proprietà di Filippo Guttadauro, fratello del medico Giuseppe, il colletto bianco che era a capo del mandamento mafioso di Brancaccio a Palermo, il medico intercettato a fare da ponte tra Cosa nostra e la politica. Filippo Guttadauro è anche qualcosa di più, ha sposato Rosalia una delle figlie del patriarca della mafia belicina, Rosalia è figlia di Francesco Messina Denaro, il “campiere con il bisturi”, si occupava di terreni e latifondi don Ciccio Messina Denaro e lo faceva così con tanta precisione e scrupolo da meritare il riconoscimento di sapere bene usare il “bisturi”, perché lui sapeva come “incidere” il territorio, marcandolo con l’impronta mafiosa. Filippo Guttadauro perciò è il cognato di Matteo Messina Denaro il boss che è oggi certamente il capo della mafia trapanese, il mafioso che poco più che

ventenne si vantava già che da solo con i suoi delitti poteva riempire un cimitero, oggi con le stesse mani, rimaste sporche di tanto sangue, gestisce dalla latitanza che dura da diciannove anni vere e proprie holding, imprese e casseforti. ROSTAGNO? UNA CAMURRIA In quel terreno di Castelvetrano in mezzo al profumo degli aranci nel 1988 ad Angelo Siino - che non era solo il titolare di una concessionaria d’auto a Palermo o il pilota di rally amico dei migliori rampolli della borghesia di mezza Sicilia, ma era, soprattutto, il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina - don Ciccio Messina Denaro comunicò che Mauro Rostagno era arrivato al capolinea, doveva cioè morire. Siino ha raccontato di quell’odore degli aranci e del tanfo della morte nell’aula bunker del carcere di San Giuliano a Trapani dove per alcune udienze si è trasferita la Corte di Assise che sta processando i presunti mandante ed esecutore del delitto di Mauro Rostagno, Vincenzo Virga e Vito Mazzara. Se Francesco Messina Denaro fosse ancora vivo, è morto nel 1998, ci sarebbe stato anche lui imputato in questo dibattimento, perché, le dichiarazioni di

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Siino, come altri collaboratori di giustizia, come Giovanni Brusca e Francesco Milazzo, riconducono la morte di Rostagno al volere di don Ciccio Messina Denaro: era una “camurria” Rostagno, così dicevano di lui i boss. Ogni giorno dalla tv, Rtc, dove si è ritrovato a lavorare dopo che da qualche anno era arrivato a Trapani, parlava sempre di una cosa, mafia, mafia e mafia, e questa cosa i boss non potevano permetterla, loro che dai politici, da altri giornalisti, dai professionisti avevano ottenuto ben altra attenzione. In quel 1988 “la mafia a Trapani non c’era” e Rostagno invece ne parlava, sempre. E don Ciccio Messina Denaro non ne poteva più, lui era il capo della cupola provinciale, ed era il mafioso che periodicamente riceveva visite importanti nella sua casa di Castelvetrano. Chi era davvero don Ciccio lo svela un racconto, quello fatto da alcuni pentiti che hanno dimostrato di conoscere diversi segreti, come quello che riguarda la frequentazione tra Binnu Provenzano e don Ciccio Messina Denaro. Non era circostanza rara che i due si incontravano, ma non era don Ciccio Messina Denaro ad andare da Binnu a Corleone, ma era semmai questi


Tutti sapevano che “la mafia a Trapani non c’era” a raggiungere Castelvetrano, era già un latitante Provenzano, ma non aveva timore di mettersi alla guida di una Fiat 500 per arrivare nel cuore del Belice e bussare alla porta di casa di don Ciccio Messina Denaro che lo attendeva. Qualche volta seduto sulle ginocchia del padre c’era Matteo, anni dopo oramai cresciuto e diventato anche lui boss, Matteo Messina Denaro nei pizzini inviati a Binnu, e firmati come Alessio, scriveva del suo enorme rispetto, del fatto di avere imparato a comportarsi da

giorni addietro ha spiegato che Matteo Messina Denaro non è il capo della mafia siciliana. Ma non è un capo perché non ne ha stoffa e capacità, non è il capo “perché non esiste più la cupola mafiosa”, quella che quando esisteva veniva governata da Michele Greco, o Totò Riina e poi Bernardo Provenzano. Oggi la mafia siciliana non ha più una cupola ma si è quasi “ndraghetizzata”, ci sono le diverse famiglie che distinte “governano” i territori. E Matteo Messina Denaro “governa” la mafia

Oggi la mafia siciliana non ha più una cupola ma si è quasi “ndraghetizzata”, ci sono le diverse famiglie che distinte “governano” i territori. capo mafia grazie proprio a lui, di immedesimarsi in lui in modo totale, Binnu Provenzano per Matteo Messina Denaro aveva preso il posto del padre morto di crepacuore, da latitante, nel novembre del 1998, a poche ore da un blitz di Polizia che per la prima volta portava in carcere l’altro maschio di casa Messina Denaro, Salvatore, preposto di una agenzia della Banca Sicula, la Banca della famiglia D’Alì. Anni dopo quel rispetto finirà calpestato: quando nell’aprile del 2006 Provenzano venne scovato dalla Polizia nel covo di Corleone, saltò fuori l’archivio di “pizzini” che custodiva, documenti che “tradotti” disvelarono uomini e affari, e a quel punto Matteo non esitò a bollare come uno scimunito Provenzano in un altro “pizzino”, uno di quelli che “Alessio” scriveva a “Svetonio”, ex sindaco del suo paese, Tonino Vaccarino, non sapendo che questi faceva l’informatore dei servizi segreti. “Quel vecchio ci ha rovinati tutti” scriveva Alessio sfogandosi con Svetonio, non sapendo che anche lui stava facendo altrettanto e se il comportamento del Sisde del generale Mori, che aveva assolto VaccarinoSvetonio fosse stato più accorto, informando la Procura di Palermo invece di tenere i pm all’oscuro del loro contatto per quasi cinque anni, poteva anche accadere che quella corrispondenza tanto spavalda poteva portare alla sua completa rovina e all’arresto, ma questo non è purtroppo accaduto. E il boss resta latitante.

trapanese, che non è cosa di poco conto o meno importante rispetto alla stessa cupola regionale. Perché a Trapani, riconosce lo stesso Grasso, resiste lo zoccolo duro della mafia, quella che senza coppole e lupare, ha saputo infiltrarsi, per decenni, senza nemmeno la necessità di tanti camuffamenti, nelle istituzioni, nella economia, nelle imprese, la mafia qui a Trapani aveva una garanzia precisa come ha raccontato il pentito Nino Giuffrè, “a Trapani c’erano i cani attaccati”, non si facevano le indagini, e chi pensava di poterle fare si trovava messo fuori gioco, trasferito o sparato, oppure trasferito e sparato come accadde a Ninni Cassarà, capo della Mobile a Trapani prima e a Palermo dopo. A Trapani la mafia ha pensato di creare un partito per mandare suoi politici in Parlamento, e qui da Trapani è partito l’ordine di non fare più

quando si cominciò a riscrivere quel “patto” con lo Stato che pochi anni dopo avrebbe portato al famoso “papello”. Su questa strada uno come Rostagno non poteva proprio starci

CUPOLA E PARTITI

nulla e semmai di votare Forza Italia come ha raccontato il pentito di Mazara Vincenzo Sinacori che udì dare quell’ordine proprio a Matteo Messina Denaro.

Il capo della Procura Nazionale Antimafia, procuratore Pietro Grasso,

Il processo per l’omicidio di Mauro Rostagno prova proprio come le parole

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di Nino Giuffrè siano fondate. I poliziotti che volevano mettere sotto indagine la mafia presto si trovarono fuori da quelle indagini, ad occuparsene restarono solo i carabinieri. Le testimonianze in Corte di Assise di due tra quelli ritenuti gli investigatori più capaci del tempo, il generale Montanti e il luogotenente Cannas, sono state incredibili. Montanti ha raccontato che abitudine a sovracaricare le cartucce, come quelle trovate sul luogo del delitto, era tipica dei cacciatori, Cannas ha ammesso senza tante vergogne che il verbale di sopralluogo sul luogo dell’omicidio venne trascritto “in bella copia” quando oramai erano trascorsi diversi mesi dal delitto e che per quei mesi aveva lavorato “solo con gli appunti”. Queste per dire delle cose che sono apparse le più

inverosimili. In un contesto dove doveva apparire inverosimile che fosse stata la mafia ad uccidere. Era il 1988 quando la mafia si cominciava a trasformare, quando si cominciò a riscrivere quel “patto” con lo Stato che pochi anni dopo avrebbe portato al famoso “papello”. Su questa strada uno come Rostagno non poteva proprio starci.


Segregazione e respingimenti collettivi verso l’Egitto

Respingimenti Una rassicurante Normalità Fulvio Vassallo La Corte Europea dei diritti dell’Uomo il 23 febbraio del 2012 ha condannato l’Italia per i respingimenti collettivi in Libia. Non sarebbe l’unico caso e l’unica volta. I respingimenti singoli o collettivi continuano ad oltranza. I migranti arrivati alle frontiere italiane dall’Egitto in particolare, sembra non sono quasi mai esistiti. Forse non sono considerate nemmeno persone. Solo numeri per fare statistiche. Tra i migranti egiziani in fuga dal loro paese, esponenti della minoranza cristiana copta, sempre più esposti al rischio di attentati e di persecuzione religiosa. Già l’ACNUR, l’ASGI e la Caritas di Catania, avevano denunciato per esempio che dopo lo sbarco sulle coste della Sicilia orientale del 26 ottobre 2010, sono stati rimpatriati 68 migranti (con un volo diretto a Il Cairo). All’aeroporto di Catania, mentre un agente consolare egiziano effettuava i riconoscimenti, alcuni avvocati attendevano invano che qualcuno presentasse richiesta di protezione internazionale. Nessuno. Una richiesta troppo pericolosa per chi, era stato già identificato dal proprio ufficio consolare? Sì, si può parlare proprio di segregazione, perché agli ultimi egiziani bloccati il due maggio scorso a bordo di un peschereccio, o intercettati mentre su un gommone, condotto da uno scafista, stavano sbarcando nei pressi di Mazara del Vallo, è toccata la reclusione in un campo di calcio, dove era stata allestita una tendopoli-carcere. Quindi dopo ventiquattro ore dall’ingresso nel territorio nazionale, salvo un gruppo di minori condotti in centri di accoglienza, sono stati deportati in Egitto con un volo partito da Palermo alle 5 del mattino del 3 maggio, dopo un riconoscimento sommario da parte di qualche esponente del consolato egiziano, senza alcuna possibilità di essere messi in contatto dalle organizzazioni (OIM, ACNUR) che fanno parte del progetto Praesidum finanziato dal ministero dell’interno proprio per intervenire in questi casi.

Si è appreso dalla radio, dal TG Regione Sicilia delle 7,20 di giovedì 3 maggio, che diverse decine di egiziani, sorpresi il giorno precedente, a bordo di un peschereccio e di un gommone, nelle acque antistanti Mazara del Vallo, erano stati riportati in Egitto.Una operazione di polizia così rapida, tanto da precludere

persino l’intervento dell’OIM e dell’ACNUR, oltre che degli avvocati e dei giudici necessari per la convalida dei provvedimenti, perché, secondo quanto

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riferito dai giornalisti, sulla base di comunicati provenienti evidentemente dal ministero dell’interno, si sarebbe trattato, per tutti, di persone già entrate irregolarmente in Italia, e dunque che avevano subito il riscontro delle impronte digitali ed una identificazione prima di essere espulse. Una giustificazione che sa di menzogna, perché appare ben strano che TUTTI coloro che sono stati ritenuti di maggiore età ( in base ad accertamenti fortemente opinabili), fermati sul peschereccio egiziano che li aveva condotti davanti alla costa di Mazara del Vallo, oppure sul gommone che li stava trasbordando a terra, oltre a non chiedere, neppure uno asilo o protezione umanitaria, fossero persone già identificate ed espulse dall’Italia. Come se in Egitto si fossero dati tutti appuntamento per ritentare il viaggio verso l’Italia, e come se su quel peschereccio si fosse saliti soltanto mostrando il precedente provvedimento di espulsione dall’Italia.


Segregazione e respingimenti collettivi verso l’Egitto Una versione dei fatti che può abbindolare soltanto gli assonnati ascoltatori di un giornale radio del primo mattino, ma che non regge alla prova di fatti, come una serie di episodi precedenti dimostra ampiamente. L’ultimo, un respingimento, verificatosi dopo un altro sbarco di egiziani pochi giorni fa, nei pressi di Licata, poco distante da Agrigento. Anche in quella occasione i migranti erano stati respinti senza rispettare le formalità e le garanzie di difesa previste dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa interna, ribadite in diverse occasioni dalle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e della Corte Europea dei diritti dell’Uomo che il 23 febbraio del 2012 ha condannato l’Italia per i respingimenti collettivi in Libia, per la violazione dell’art. 3 (divieto di trattamenti inumani o degradati) dell’art.13 ( diritto di difesa) e dell’art. 4 del Protocollo IV allegato alla CEDU ( divieto di respingimenti ed espulsioni collettivi). MENZOGNE SISTEMATICHE E PRATICHE ARBITRARIE Adesso, dopo queste condanne, le pratiche di respingimento collettivo verso l’Egitto proseguono, ammantate dall’esaltazione delle operazioni di contrasto dell’immigrazione clandestina, e si registra già, a margine di quest’ultimo episodio, l’arresto di ben quattordici “scafisti egiziani”. Vedremo quanti saranno veramente ritenuti tali alla prova del giudizio in tribunale, e quanti altri invece saranno espulsi perché ritenuti estranei al reato di agevolazione dell’ingresso di clandestini, rigidamente fissato dall’art. 12 del testo Unico sull’immigrazione. C’è dell’altro, il ricorso da parte degli estensori dei comunicati di polizia, a menzogne sistematiche come l’affermazione in base alla quale nessuna delle persone fermate avrebbe richiesto asilo, o addirittura che tutti, si dice tutti, sarebbero stati espulsi con procedure lampo perché già schedati in precedenza dalle autorità di polizia italiane. Tralasciando il piccolo dettaglio che per eseguire un rimpatrio forzato non basta l’identificazione da parte delle autorità italiane, ma occorre una identificazione individuale, e non solo l’assegnazione della nazionalità, da parte delle autorità del paese di provenienza. E queste pratiche arbitrarie di polizia ormai si ripetono sistematicamente, al punto da

ingenerare nell’opinione pubblica il senso comune di una rassicurante normalità, anche se di mezzo ci va il destino di tante persone private di diritti fondamentali, come il diritto di accedere in un territorio per chiedere asilo, o il diritto ad una difesa effettiva ed alla convalida giurisdizionale dei provvedimenti di allontanamento forzato adottati dalla polizia.

Dal 2007, proprio mentre il regime di Moubarak assestava colpi micidiali all’opposizione democratica, centinaia di cittadini egiziani irregolarmente giunti a Lampedusa, o sulle coste della Sicilia sud-orientale, o salvati da mezzi della nostra marina militare e poi condotti a terra, sono stati rimpatriati in Egitto, dopo essere stati trasferiti all’aeroporto di Catania, definito come “scalo tecnico”. Altri rimpatri sommari, che hanno assunto il carattere di veri e propri respingimenti collettivi ai danni di migranti egiziani appena sbarcati, sono stati compiuti dalla Puglia e dalla Calabria. Per anni si è lodato, anche da parte di esponenti del centrosinistra, il “salto di qualità” nella collaborazione tra Italia ed Egitto dopo la chiusura nel 2004 della “rotta di Suez”. Grazie all’intervento diretto in quel paese di unità della guardia di finanza, in operazioni congiunte con le forze militari egiziane che fino al 2009 hanno prodotto come risultato l’arresto e la riconsegna (rendition) alle peggiori polizie di tutto il mondo di migliaia di migranti in fuga dalle guerre e dalle persecuzioni etniche o religiose. RICONSEGNATI AI LORO CARNEFICI Le operazioni di rimpatrio tra Italia ed Egitto, con voli diretti da Catania e adesso anche da Roma e da Palermo verso il Cairo sono state rese possibili, dopo l’intesa sottoscritta nel 2001,una intesa basata sullo scambio tra

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repressione dell’immigrazione irregolare e quote di ingressi legali nei decreti flussi annuali, un accordo che in quel periodo ha funzionato solo sul versante dei rimpatri forzati. Anche in questo caso la politica estera italiana non ha avuto soluzione di continuità con l’avvicendarsi dei diversi governi e ancora oggi i rimpatri sommari verso l’Egitto sono resi praticabili grazie all’Accordo di collaborazione firmato nel gennaio del 2007 dal governo italiano guidato da Prodi, in persona del sottosegretario agli esteri protempore Ugo Intini. Un accordo che, in cambio di qualche migliaio di posti riservati ai lavoratori egiziani nelle quote annuali previste dai decreti flussi, consentiva alle autorità consolari egiziane forme di attribuzione della nazionalità, se non dell’identità personale e dell’età, assai celeri, grazie anche alla collaborazione di funzionari e interpreti egiziani presenti in Italia. Dal 2005, peraltro, tra il governo italiano e quello egiziano esisteva un "Accordo di cooperazione in materia di flussi migratori bilaterali per motivi di lavoro", siglato al Cairo il 28 novembre 2005 dall’allora ministro del lavoro Roberto Maroni. Nel testo dell’accordo si prevedeva che i due governi, al fine di "gestire in modo efficiente i flussi migratori e prevenire la migrazione illegale", s’impegnano a facilitare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoratori migranti da e per l’Egitto. Il governo italiano, dal canto suo, s’impegnava a valutare l’attribuzione di una speciale quota annuale per lavoratori migranti egiziani. Nel protocollo esecutivo allegato all’accordo si leggeva anche che il ministero del Lavoro e delle politiche sociali italiano avrebbero dovuto comunicare all’omologo


Segregazione e respingimenti collettivi verso l’Egitto ministero egiziano i criteri, ai sensi della normativa italiana, per redigere una lista (da pubblicare) di lavoratori egiziani disponibili a svolgere un’attività lavorativa subordinata anche stagionale in Italia. Basta verificare l’andamento dei decreti flussi adottati in questi ultimi anni e i ritardi accumulati, e poi controllare il numero di lavoratori egiziani effettivamente entrati in Italia con un visto di ingresso per ragioni di lavoro, per scoprire quanto questo accordo possa avere “giovato” ai giovani lavoratori egiziani, ancora costretti in gran parte a tentare la via dell’ingresso irregolare, magari evitando la traversata del Mediterraneo, ma spostandosi verso le frontiere orientali dell’Unione Europea. Oggi poi, l’Italia ha bloccato del tutto i decreti flussi annuali e, sia ai migranti economici che ai potenziali richiedenti

asilo, non è rimasta altra possibilità che tentare l’ingresso clandestino. Il proibizionismo dilagante nei confronti delle migrazioni, facile arma ad uso elettorale, ha arricchito quelle organizzazioni di trafficanti che gli stati a parole sostengono di contrastare, mentre è aumentato a dismisura il numero delle vittime dell’immigrazione clandestina. E nessuno ricorda che tra i migranti egiziani in fuga dal loro paese si sono già trovati parecchi esponenti nonostante i numerosi esposti presentati lo scorso anno a seguito degli abusi commessi ai danni dei migranti, ( tra questi di molti minori non accompagnati), a Lampedusa ed in altri luoghi di detenzione informale. Luoghi dai quali le persone, se non sono fuggite, sono state respinte o espulse senza rispettare le garanzie procedurali e sostanziali accordate dalla Costituzione

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italiana, dalle normative comunitarie, direttamente vincolanti nel nostro paese. Uno Stato che nasconde persino i migranti negli stadi, come è successo a Mazara del Vallo, pur di procedere a respingimenti lampo a carattere collettivo. Cadono i dittatori, cambiano i governi, continuano gli abusi ai danni dei migranti irregolari, ormai privati della dignità e dei diritti che andrebbero riconosciuti, comunque e ovunque, a qualsiasi essere umano, come recita l’art.2 del Testo Unico sull’immigrazione n.286 del 1998. Una norma ormai svuotata dalla discrezionalità delle autorità di polizia.


uno scavo giornalistico di chi non si arrende mai…

Mafia Aveva scoperto un giro di truffe Gianni Lannes Francesco Marcone, direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia, aveva scoperto un giro di truffe. E’ stato assassinato diciassette anni fa con due proiettili sparati alla nuca e alle spalle da un killer ignoto ( Casablanca maggio 2007). Per la giustizia italiana è solo un caso archiviato il 10 febbraio 2005. Per la Repubblica Italiana è una medaglia d’oro insignita dal Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, il 31maggio 2005, al Merito Civile e alla memoria: «Funzionario dello Stato, sempre distintosi per la salda preparazione professionale e l’alto rigore morale, costantemente impegnato a garantire il rispetto delle leggi e a contrastare ogni possibile tentativo d’illegalità, veniva barbaramente assassinato nell’androne della propria abitazione in un vile agguato». Nulla più: niente giustizia. Insomma, un caso dimenticato in tutta fretta, anzi volutamente accantonato. Insieme all’avvocato Giorgio Ambrosoli - ammazzato l’11 luglio 1979 con quattro colpi di 357 magnum, ha condiviso la difesa della legalità in cambio della vita. Francesco Marcone, un funzionario dello Stato assassinato diciassette anni fa con due proiettili sparati alla nuca e alle spalle da un killer ignoto che impugnava un revolver, per la giustizia italiana è solo un caso archiviato il 10 febbraio 2005. Per la Repubblica Italiana è una medaglia d’oro insignita dal Capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, il 31maggio 2005, al Merito Civile e alla

memoria: «Funzionario dello Stato, sempre distintosi per la salda preparazione professionale e l’alto rigore morale, costantemente impegnato a garantire il rispetto delle leggi e a contrastare ogni possibile tentativo d’illegalità, veniva barbaramente assassinato nell’androne della propria abitazione in un vile agguato». Nulla più: niente giustizia. Insomma, un caso dimenticato in tutta fretta, anzi volutamente accantonato. Ora, grazie alla tenacia di uno scavo giornalistico di chi non si arrende mai, si apre uno

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spiraglio di verità inspiegabilmente elusa dagli inquirenti. Marcone aveva denunciato alla magistratura speculazioni finanziarie ed edilizie, nonché evasioni fiscali miliardarie, impattando in pratiche maledette: Foar e Sicilsud (su quest’ultima aveva indagato Giovanni Falcone prima di essere massacrato con sua moglie e la sua scorta dall’esplosivo fornito a Cosa Nostra dalla Sacra Corona Unita come hanno stabilito recentissime indagini scientifiche della Polizia di Stato). I responsabili (mandanti ed esecutori materiali) del delitto Marcone, anche a causa di ritardate e anomale indagine giudiziarie insabbiate in un porto delle nebbie - non sono ancora stati individuati. ESECUZIONE MAFIOSA Foggia: 31 marzo 1995. Due spari netti


uno scavo giornalistico di chi non si arrende mai… con proiettili calibro 38: il primo alla nuca a due metri di distanza. Il colpo di grazia alla schiena, con la vittima già stramazzata. Così, in una traversa di Corso Roma, di una città perennemente distratta e sorda. «Alle ore 19.15 circa, ci siamo portati in questa Via F. Figliolia al civico diciassette, ove erano stati segnalati esplosioni di colpi d’arma da fuoco. In loco, una volta all’interno dello stabile, si rinveniva nell’androne d’ingresso, un uomo accasciato ed in posizione bocconi, privo di vita» si legge nell’annotazione di servizio dei sovrintendenti della Polizia di Stato, Angelo Martino e Claudio Rinaldi. «Infatti, il cadavere si presentava disteso posizione bocconi sulle scale, con la parte dx del volto adagiata su di uno scalino e con un evidente foro di entrata di un proiettile alla nuca». E non un colpo qualsiasi: quello di un revolver calibro 38, inciso a croce sulla punta, ed una volta andato a bersaglio, si scamicia e si frantuma, con effetti devastanti. Il Rapporto della polizia scientifica, firmato dal vice ispettore Antonio De Flumeri su incarico del capo della Squadra Mobile Agostino De Paolis, rivela «che il cadavere era stato attinto da due colpi di arma da fuoco: uno, penetrato nella regione occipitale sinistra e fuoriuscito nella regione parietale destra; l’altro penetrato nella regione toracica sinistra (fianco) e fuoriuscito dalla regione destra del collo». La relazione del medico legale, Michele Castriota conferma «Causa di morte: emorragia endocranica per lacerazioni encefaliche ed emopericardio per lacerazioni miocardiche (…) Un proiettile è stato sparato a livello cranico a sinistra in sede occipitale con traiettoria, rispetto al soma della vittima, da dietro in avanti (…) Un proiettile è stato sparato a livello del torace, a sinistra (…)».

Antimafia. Constatazione critica: gli inquirenti non avrebbero verificato gli spostamenti, i contatti e la consistenza patrimoniale del maggior indiziato. Non ci avrebbe pensato neanche il magistrato Antonio Buccaro e neppure il collega Alfredo Viola. Il nuovo tassello è fornito dall’inspiegabile presenza allo Zabara Hotel di Bagheria (Palermo) dal 13 al 21 aprile ‘95 - certificata da una scheda di soggiorno alla questura palermitana appunto del Caruso, all’epoca direttore regionale pugliese delle Entrate, indagato e frettolosamente prosciolto. L’albergo, sede di alcuni summit mafiosi, come documentato dai carabinieri del Ros, era di proprietà della Cogeas srl, ovvero di Michele Aiello, noto imprenditore edile diventato manager della sanità, e prestanome del boss Bernardo Provenzano. Aiello, l’ex re Mida siculo, è stato condannato in via definitiva a 15 anni e sei mesi di reclusione per associazione mafiosa. Il manager della mafia, tuttavia, è stato recentemente scarcerato dalla prigione di Sulmona perché intollerante al menù carcerario, con un provvedimento del tribunale dell’Aquila. ‘Binnu u’ tratturi’, a quel tempo, fu curato nella limitrofa clinica Santa Teresa. Stefano Caruso promosso dallo Stato dopo l’omicidio di Marcone a consigliere ministeriale - era già stato arrestato il tredici luglio 1996 con l’accusa di abusi in atti d’ufficio, rivelazioni di segreti d’ufficio e concorso in evasione fiscale per circa un miliardo di lire, nonché per concorso nell’omicidio Marcone. Ma, se la cavò liscia. Chi aveva incontrato diciassette anni fa il Caruso nell’albergo di Cosa Nostra a Bagheria? Ma soprattutto che ci faceva in loco? Abbiamo provato a chiederlo direttamente all’interessato, senza ottenere risposta. PRATICA MALEDETTA

COSA NOSTRA Adesso un solido indizio, incredibilmente trascurato, a carico del maggior sospettato, ossia Stefano Caruso, potrebbe far riaprire l’inchiesta giudiziaria mai decollata nonostante le schiaccianti evidenze (tra l’altro il sequestro di un revolver calibro 38), magari su diretto interessamento della Procura Nazionale

Francesco Marcone, direttore dell’ufficio del Registro di Foggia, il ventinove marzo ’95, due giorni prima di essere assassinato, elaborò le deduzioni per la causa tributaria - con elusione fiscale di oneri miliardari - che opponeva l’ufficio del Registro a Foar (azienda con sede legale a Salerno e stabilimento a Foggia per la produzione di ghisa sferoidale). In un’intercettazione ambientale della Polizia, Caruso dice che “Foar vuol dire il notaio

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Francesco Paolo Pepe e Casillo”. In questo atto appare l’atto di cessione di immobile strumentale tra la FOAR Srl e la SICILSUD LEASING SPA, con il quale è stata realizzata la cessione di un compendio immobiliare. Questo tipo di operazione è assoggettato all’IVA, alle tasse fisse di Registro, trascrizione e catasto. Da un’attenta analisi sul reale contenuto dell’atto, il direttore Marcone era giunto alla conclusione che l’oggetto del trasferimento era costituito da uno stabilimento per la lavorazione della ghisa. La lavorazione e produzione necessita di una struttura, ovvero l’immobile, ma anche dei relativi macchinari, opportunamente diretti all’attività specifica. Inoltre, dall’atto in questione risulta che il trasferimento comprendeva tutte le accessioni, dipendenze e pertinenze inerenti. A seguito di questa lettura il Marcone chiedeva un supplemento d’imposta, considerando così la cessione non riferita ad una semplice pluralità di beni, ma ad un’azienda tecnicamente organizzata, perciò assoggettabile ad imposta di registro poiché fuori dal campo di approvazione iva. In tale senso andrebbe letto il relativo avviso di liquidazione notificato dall’Ufficio alla FOAR e alla SICILSUD. Oltre a ciò, tenuto conto che andava assoggettato ad imposta di registro il prezzo complessivo dell’operazione, riguardante oltre alla cessione dei beni immobili anche quella dei macchinari ed attrezzature, l’Ufficio estendeva la pretesa d’imposta al corrispettivo derivante dalla fattura di vendita dei macchinari e attrezzature emessa dalla FOAR nei confronti della SICILSUD, notificando ulteriore avviso di liquidazione alla FOAR. Il direttore Marcone aveva prospettato ai suoi diretti superiori una sorta di strategia illegale adottata dalle parti, costituita da alcune operazioni intermedie attraverso le quali si era reso concreto il trasferimento dell’intera azienda di proprietà FOAR alla NUOVA FOAR. Quest’ultima società era stata costituita come un altro contenitore nel quale riversare gli stessi soggetti della FOAR. In altri termini, tale escamotage aveva consentito agli stessi soggetti di realizzare un’azienda avente la medesima consistenza della precedente con un esborso fiscale minimo. Inoltre, la venditrice FOAR aveva reso una dichiarazione Invim nella quale prezzo e valore coincidevano. A tale scopo era stata utilizzata una certificazione del Comune di Foggia, dalla quale risultava che l’intero stabilimento era stato ultimato a ridosso


uno scavo giornalistico di chi non si arrende mai… della vendita: ciò consentiva di indicare come valore iniziale al 2 novembre 1990, data di presunta ultimazione dei lavori, la stessa cifra indicata come prezzo. In tal modo, coincidendo epoca e valori, non risultava alcun incremento e, quindi, nessuna imposta. In realtà, lo stabilimento - unico nel suo genere in Italia - “una sorta di gallina dalle uova d’oro” commenta un noto avvocato - era perfettamente visibile ed operativo da decenni e Marcone aveva accertato presso Ute e Conservatoria dei Registri Immobiliari, che la data di ultimazione dei lavori risaliva al 15 novembre 1973, perciò la data indicata come 2 novembre ’90 si riferiva ad aspetti marginali del complesso industriale e non all’intero corpus. Da ciò scaturì l’accertamento in rettifica del valore iniziale. In più: la pratica edilizia risale al 1972. Un anno cruciale: infatti, un biglietto anonimo recapitato alla famiglia Marcone il ventinove novembre 1998 c’è scritto: “1972 è un foglio di carta da bollo da 2000 quello con la bilancia è una collezionista (rivolgetevi a qualche collezionista)”. L’ultimo atto compiuto da Francesco Marcone in riferimento alla pratica FOAR è la redazione delle corpose controdeduzioni dell’Ufficio ai ricorsi proposti dalle parti, datate 29 marzo 1995, vale a dire due giorni prima della sua morte. Nel primo decreto di archiviazione firmato dal giudice per le indagini preliminari Simonetta D’Alessandro la questione Foar è definita di «eccezionale delicatezza». Come ha sottolineato il provvedimento reso dal gip il sette aprile ’96. L’ultimo atto di Marcone sulla Foar è inequivocabile: «La strategia posta in essere, frutto di menti raffinate ed esperte in giochi di alta finanza ha consentito agli stessi soggetti di trovarsi alla fine con un’azienda che ha la stessa consistenza patrimoniale della precedente, e tutto ciò con un sacrificio fiscale assai contenuto, usufruendo del regime IVA». Il dieci marzo 2001, il Gip Lucia Navazio aveva disposto «che il PM proceda ad ulteriori indagini sui temi innanzi indicati: - tra l’altro «Identificare tutti i componenti degli organi collegiali della FOAR Srl, della NUOVA FOAR srl e della SICIL SUD spa (…) Individuare con precisione la natura dell’atto intercorso tra FOAR e SICILSUD, nonché ruolo svolto in concreto dal notaio. Acquisire notizie della vita societaria della Sicil Sud, come nasce (se proviene da trasformazione di altre società) e dati su tutti i soggetti

coinvolti nella vita di questa. Acquisire esito indagini del procedimento n. 612798 RG mod. 21 per il reato di cui all’art. 479 c.p., nella compravendita della FOAR».

l’Equiter Spa (Fin. Opi Spa), in altre parole il San Paolo Imi, risulta cancellata dal registro delle imprese a far data dal 26 gennaio 2006. Il capitale sociale ammonta a 2.935.008,00 euro.

LA PIOVRA

ECOMAFIE

Il meccanismo truffaldino era ingegnoso: i dirigenti dell’azienda con sede a Palermo, stipulavano contratti con clienti che utilizzavano il denaro erogato per scopi diversi, in altre parole senza acquistare i beni per i quali erano stati richiesti i finanziamenti. E intascavano le tangenti sui prestiti corrisposti. Il raggiro è stato scoperto nel giugno del 1988. E ha portato in galera i dirigenti della finanziaria, con l’accusa di associazione a delinquere, truffa, falso in bilancio e frode fiscale. Il giro di fatturazioni false di aggirava sui cinquanta miliardi di lire. Presidente della società, controllata per il 60 per cento dalla banca San Paolo di Torino e per il 40 per cento dal Banco di Sicilia, è stato dal 1985 sino al trentuno dicembre 1988, Pietro Verzeletti, componente in quel periodo del consiglio d’amministrazione dell’Itituto di credito torinese e soggetto cruciale della finanza rossa. Vicepresidente era Alfredo Spatafora, consigliere di amministrazione del banco di Sicilia. La Sicilsud venne fondata nel 1980. Dietro la Sicilsud Leasing, scoprirono gli inquirenti, si allungava l’ombra di Cosa Nostra. In un rapporto presentato dalla Guardia di Finanza il nove marzo del 1989, emerge, infatti, come a gestire la truffa vi fossero personaggi legati alla mafia. A capo della banda di truffatori c’era il boss Tommaso Marsala, individuo di fiducia della cosca SpatolaInzerillo, ucciso davanti al portone di casa in viale Strasburgo a Palermo, il 4 agosto 1987. Un omicidio sul quale indagò Giovanni Falcone, allora giudice istruttore. Tommaso Marsala era

Se digitate sul motore di ricerca Google, il termine “km 682,700”, internet vi mostra una pagina, dove appaiono due società: Fonderie di Foggia Srl e Blue service Srl (specializzata in “rifiuti industriali e speciali, nonché smaltimento e trattamento”, così recita la pubblicità). Strano caso: le due ditte a responsabilità limitata, ma con ragioni sociali diverse almeno sulla carta, hanno sede operativa nello stesso sito della FOAR Srl. La seconda ditta menzionata (Blue Service Srl) non è iscritta ad alcuna camera di Commercio. Da una ricerca nel ramo rifiuti emerge soltanto la Blu Service Srl con sede a Brendola in provincia di Vicenza, di cui è amministratore unico, tale Gobbo Rigo. Inoltre, dal terminale presso la Camera di Commercio non è autorizzato l’accesso all’assetto societario della Fonderie di Foggia con sede legale a Salerno. Infine, la F.O.A.R. (Fonderie Officine Antonio Romeo) S.R.L., risulta iscritta nella sezione ordinaria il 19 febbraio 1996, ma la data di costituzione risale all’undici gennaio 1971. Presidente del consiglio d’amministrazione è Busachi Tomaso Antonio (nato a Cremona il 30 agosto 1942), nominato il 2 luglio 1992, mentre i consiglieri sono Castagnazzo Matteo Ferruccio (nato a Bovino l’11 febbraio 1945) ed Antonio Viotto (nato a Varazze il 2 agosto 1943). Oggetto sociale: “fusione di ghisa”. In ogni caso nel sito (località Santa Chiara) sono stati sepolti, o meglio maldestramente occultati ingenti quantitativi di rifiuti industriali che affiorano dal suolo. Il caso è stato sottoposto ai carabinieri della compagnia di Foggia, ma a tutt’oggi senza alcun esito. MANI SULLA CITTA’

coinvolto nell’inchiesta sulla strage di via Croce Rossa, avvenuta il sei agosto 1985, dove vennero uccisi il vicequestore di Palermo, Ninni Cassarà e l’agente di scorta Roberto Antiochia. La Sicilsud Leasing - proprietaria

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Non è tutto: ecco altri probabili moventi assassini in cui è invischiato Stefano Caruso. In un rapporto della Digos datato sette marzo 1997 è specificato: «Punto di snodo di entrambe le vicende sembra, allo stato dei fatti, il Caruso. Questi oltre ad essere interessato alla formazione dell’atto costitutivo dell’Immobiliare Mediterranea, cioè, la cessione a fini


uno scavo giornalistico di chi non si arrende mai…

edificatori di un’area di proprietà dei germani Marinari al costruttore Spezzati per sua stessa ammissione, è altresì intervenuto anche nella vicenda della piccola proprietà contadina incontrando i Sarni, che intendevano scavalcare Francesco Marcone. Annotano i pm Buccaro e Viola: «Il Caruso, nella qualità di Direttore regionale delle Entrate per la Regione Puglia, in palese violazione dei principi della legalità, imparzialità e buon andamento della Pubblica Amministrazione, ha assunto il ruolo di super consulente dei fratelli Marinari, dando precise direttive - in palese violazione di legge - sul tipo di atto da redigere per evitare una tassazione rilevante». A Caruso i poliziotti sequestrarono, il 13 luglio ’96, un arsenale di armi e munizioni: «i1 revolver calibro 38, 1 fucile automatico Breda, un fucile automatico calibro 12 Breda, 1 fucile automatico a canne affiancate calibro 12 Bernarelli, 1 pistola automatica calibro 7,65, 1 pistola automatica calibro 6,35 Beretta, 1 fucile monocanna calibro 12 Merlin». Questa armi non sono mai state analizzate. Nel verbale di sommarie informazioni redatto in Questura il primo aprile ’95 alle ore 00.40 si apprende dallo stesso

Caruso

che «L’ultima volta che ho visto il Marcone è stata la sera del giorno 29 marzo. Lo andai a trovare presso il suo ufficio senza alcun motivo, solo per chiacchierare e fare una piccola passeggiata in centro». L’impiegata Di Ciommo ha raccontato agli inquirenti: «un altro episodio che ricordo anche è quello occorso il giovedì 30 marzo 1995, verso le 17.20-17,30. Quel giorno mi recai dal direttore Marcone sempre per esaminare alcune pratiche. Ad un certo punto giunse una telefonata. Disse. “Qui ti fanno tremare, devi aver paura anche di firmare. Io ho sempre detto che Caruso era un tipo sanguigno ma non cattivo, ora le dico che è anche cattivo». Nell’interpellanza parlamentare urgente presentata il ventisei febbraio 1998 (numero 2-00917) da Elio Veltri, è scritto: «Francesco Marcone è l’unico funzionario dello Stato dell’amministrazione finanziaria assassinato dal dopoguerra in poi, perché era rigoroso». E ancora: «L’aspetto più inquietante di tutta la faccenda è il coinvolgimento di dipendenti dell’amministrazione finanziaria, in particolar modo quello dell’ex direttore regionale delle entrate per la Puglia, Stefano Caruso». L’allora sottosegretario di Stato per le Finanze, Fausto Vigevani, aveva contestualmente risposto: «come confermato dalle indagini condotte dalla magistratura che hanno portato all’individuazione di gravi illeciti determinanti evasioni fiscali per circa tre miliardi di lire, in cui sono risultati coinvolti il direttore regionale delle entrate per la Puglia, dottor Caruso, ed imprenditori e professionisti locali». TRUFFA ALLO STATO Con atto registrato il nove luglio 1990, i fratelli Sarni Carmine e Alessandro acquistano a Montenero di Bisaccia in provincia di Campobasso, un appezzamento di terreno di circa 188 ettari, in prossimità dell’autostrada adriatica. I germani invocano i benefici della legge 604 del 1956 per la piccola proprietà contadina e presentano un certificato manomesso dell’Ispettorato provinciale dell’Agricoltura di Foggia, al fine di eludere il pagamento delle tasse pari a un

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miliardo e mezzo di vecchie lire. In un rapporto risalente al diciotto febbraio 1995, siglato dall’allora capitano della Guardia di Finanza, Giacomo Ricchitelli si puntualizza che «Dalle indagini svolte è emerso che sia il certificato provvisorio che quello definitivo sono risultati falsi». La legge dispone che beneficiano delle agevolazioni gli acquirenti che si dedicano abitualmente alla coltivazione della terra. I Sarni nativi di Ascoli Satriano - partendo dalle truffe sulla piccola proprietà contadina hanno costruito in impero economico che sta fagocitando le autostrade italiane con punti vendita e autogrill e supermercati (ad esempio a Sulmona dov’era recluso Aiello, socio di Provenzano). Chi ha fornito i capitali di partenza ai fratelli di Ascoli Satriano? Da una visura camerale risulta che Stefano Caruso è consigliere in affari dei fratelli Sarni. Dove? A Sulmona, precisamente nella società, o meglio nel centro commerciale Il Borgo. Il core business sarniano è legato alle aree di servizio (il secondo gruppo italiano del settore, dopo Autogrill). Ma ad esso si sono affiancate - con la società Finsud Srl - con prepotenza anche l’attività di ristorazione dei centri commerciali e la gestione e lo sviluppo della rete di vendita del comparto oreficeria e gioielleria Follie d’Oro. E infine l’attività immobiliare.


Una svolta? Una evoluzione? Un prodotto del nostro tempo…

Mafia: inchiesta

Margherita Passalacqua… genere - mafiosa Graziella Proto Margherita Passalacqua - indole delinquenziale e spiccato senso dell’appartenenza è la figlia di Calogero Battista Passalacqua - il reggente mafioso di Carini. In base alle intercettazioni ambientali e alle investigazioni giudiziarie, pare sia stata, sin dalla giovane età, compartecipe del percorso delinquenziale familiare, iniziato dal padre decenni addietro e proseguito dal fratello Giuseppe. Assieme al padre Calogero Battista detto “I santi”è stata arrestata per reati di mafia a novembre dell’anno scorso per essere rilasciata poco tempo dopo perché mamma di una neonata di quattro mesi da accudire. Assieme ai genitori, al marito Salvatore Sgroi, Failla Vito, Lo Duca Giacomo e al cugino Frisella Croce, Margherita costituisce il vertice operativo della famiglia mafiosa di Carini, all’interno della quale viene tenuta in grande considerazione non solo perche figlia del “boss” ma soprattutto perché dimostra di avere le qualità per interagire all’interno del sodalizio criminale. Una protagonista assoluta. Un personaggio quindi, che vive di luce propria, la cui durezza e solidità è manifestata soprattutto quando esegue gli ordini impartiti dal padre. Spesso “ordini” decisi insieme. Una durezza che manife-

sta e che impresta al padre quando le sembra che egli tenda verso la pietà e la comprensione. Spesso però (così come si evince da alcune intercettazioni), in apparenza, preferisce fare un passo indietro, ma è solo un espediente per tutelare l’immagine del genitore - padrino. ”…ma io infatti glielo volevo dire subito sì - racconta al padre e alla madre - però dissi aspetta un minuto, prima parlo con mio padre …” . Oppure, “ se io devo decidere sì … le persone non devono capire …” . Potrebbero pensare “arriva e comanda lei, suo padre non passa e non conta più”.

MAFIOSA E COCCA DI PAPÀ! Sfruttando l’esser donna, nella convinzione che le donne in qualche modo siano più tutelate legalmente ed al riparo da coinvolgimenti in fatti delittuosi, Margherita pare essere responsabile della raccolta del pizzo, anzi,qualcuno sostiene che a volte, lei stessa non si esime dal farlo personalmente. Un esempio concreto di mafiosa. “ Donna con i pantaloni”, che siede con merito tra gli uomini che costituiscono il vertice operativo della consorteria mafiosa.

PER CAPIRNE DI PIU’ ( pubblicato su CASABLANCA marzo 2012) Da sempre vicino ai “Corleonesi”, Calogero Passalacqua detto “Battista i Santi” sin dai tempi del Maxiprocesso è considerato elemento di spicco nell’organizzazione di Cosa Nostra palermitana. I primi rapporti giudiziari redatti sul suo conto risalgono agli anni 70 e lo fotografano come storico reggente della famiglia mafiosa di Carini. A novembre scorso, Calogero Battista Passalacqua storico uomo d'onore di “Cosa Nostra” è stato arrestato assieme alla figlia Margherita, elemento di spicco del clan. Si trovava agli arrest i domiciliari nella sua casa di Carini dal 2007. Recluso nella sua casa, Battista i Santi è circondato da affetto e rispetto. Conosce tutti e sa tutto di tutti. Mantiene rapporti. Riceve visite. L’anzianità, la lunga militanza nelle fila di “Cosa nostra”, la sua storia personale, il carisma da padrino, gli crea fedeltà e stima. Gode della protezione di una cortina quasi impenetrabile. Dalla sua casa situata nel cuore di Carini ha il totale controllo di quanto avviene all’esterno delle mura domestiche, grazie alla complicità del vicinato,

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Una svolta? Una evoluzione? Un prodotto del nostro tempo… soggetti che pur non potendo definire mafiosi o criminali di sicuro gli permettono di controllare meticolosamente il quartiere dove vive. Avvicinarsi a quell’abitazione senza essere notati, era quasi impossibile, persino i bambini, sembra siano stati addestrati a guardarsi dagli “sbirri” mentre giocano in strada. Rendendo così le indagini a suo carico molto difficoltose. Fra i più fedeli, Grigoli Gianfranco arrestato a Montepulciano perché favoriva la sua latitanza e che è rientrato in Sicilia per ubbidire al capo. C’è dell’altro, l’abitazione di Grigoli ha un ingresso che comunica con l’abitazione dei Passalacqua . Una bella situazione per non dare nell’occhio. Il fedele Grigoli, spesse volte è stato notato mentre accoglieva all’esterno dell’edificio, o a volte addirittura accompagnare con la sua macchina, soggetti che secondo gli inquirenti sono molto vicini al reggente che da lui si recavano per le” riunioni” nella casa-prigione. Da lì, secondo gli investigatori, il reggente, decide gli indirizzi che l’organizzazione criminale deve perseguire e risolve personalmente, la gestione del potere economico, cioè l’economia dell’intero paese. Inoltre, come un vero padrino, interviene per risolvere controversie, offrire raccomandazioni, ascoltare tutti quelli che lo richiedano. Invia messaggi che scrive e spesso consegna la figlia Margherita. In alcuni casi è stato visto che i messaggi sarebbero brevi scambi di battute fra Passalacqua affacciato al balcone della propria abitazione, e soggetti che si fermavano lungo la strada a breve distanza. Poche parole appena sillabate. Oppure un bigliettino appallottolato. Violenta, aggressiva … persuasiva. Non lo è solo con i nemici, sfrutta queste sue caratteristiche e il suo ruolo anche con il suo avvocato, minacciandolo di fargliela pagare a lui e tutti quelli che ci sono sulla strada per arrivare ai giudici se non concedono il permesso a suo padre agli arresti domiciliare – per partecipare al battesimo della nipotina a cui deve fare da padrino. ( intercettazione ambientale, mentre lo racconta al padre e alla madre) “ … Non ci siamo capiti - dice all’avvocato – allora, tu vai a presentare il permesso e ci metti per iscritto che te ne assumi la responsabilità, tu, con la scorta di altri quarantacinquemila sbirri … cornuti e sbirri … mio padre deve battezzare a mia figlia gli ho detto, mi è bastato che non è venuto al matrimonio mio …” e giù minacce per tutti, giudici compresi. Il battesimo della bimba di Margherita, per la “famiglia”, Passalacqua rappresentava l’occasione di mostrare a tutti che, il clan, capeggiato dal vecchio patriarca era ritornato più forte e compatto di prima. Erano nuovamente in ascesa. Un modo per lanciare messaggi e segnali che facilitassero la gestione del potere. Dunque, l’avvocato con le buone o con le cattive doveva intervenire con i giudici. UNA SVOLTA? UNA EVOLUZIONE? Il boss di Carini è contento di questa fi-

glia, anche perché il figlio Giuseppe è in carcere. E poi diciamolo, Margherita dà più soddisfazioni. E’ più attenta. Non combina cazzate. E’ irruenta quanto basta per intimidire. E’decisa. E’ Presente, adora il padre. Lui, la tiene molto in considerazione e nei casi importanti o urgenti utilizzi la figlia per scrivere e consegnare i “pizzini”. Da donna dà meno nell’occhio ed è considerata più libera nei movimenti. Inoltre, il marito, altro soggetto inserito nella consorteria criminale, all’epoca era sottoposto alla sorveglianza speciale di P.S. Sembrerebbe che il marito di Margherita, Salvatore Sgroi, con precedenti per associazione mafiosa, spaccio e traffico di droga, sia stato ufficialmente affiliato anche per volere della consorte. Dalle risultanze investigative, infatti, emerge che Salvatore Sgroia è una figura che vive all’ombra della moglie, donna dalla forte personalità autoritaria. Passalacqua gestiva i rapporti con l’esterno tramite “suoi ambasciatori”. La figlia e il genero, ovviamente i più fedeli ed affidabili, non si sottraggono ai doveri implicanti la partecipazione attiva alla vita della “famiglia”. E così anche il genero, dalla “sua seconda posizione” convoca incontri, riferisce gli esiti. Margherita invece porta fuori le direttive e i “pizzini” ricevuti dal padre. Parla con i destinatari. Consegna al padre i messaggi ricevuti. Negli ultimi tempi, diffidente e sospettosa di essere spiata all’interno del suo esercizio commercia-

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le, suggerisce di non svolgere incontri nel negozio in quanto dice “pieno pieno”, facendo riferimento ad eventuali microspie. Si affaccia fuori dal negozio per parlare con certe persone. Donna furbissima. Nella famiglia di Carini, le donne. Anche se non affiliate con il rito, partecipano alle attività dei loro uomini come se fosse una cosa normale. E’ una normalità spacciare, contattare, sostituire, intestarsi attività commerciali quando il capo famiglia è in galera. Nascondere e custodire la droga. Scambiarsi gentilezze e cortesie quando vanno a trovare i loro detenuti. Una volta, la moglie del mafioso, detenuto o no, si cercava di occultarsi, per vergogna o riservatezza. Non sbandierava ai quattro venti la situazione. A Carini, le mogli, madri, figlie, affrontano le galere e i reati dei loro congiunti alla luce del sole. Come se fossero stellette da appendere al petto. Come se il carcere fosse un albergo a cinque stelle e il reato, un normale mestiere. Giuseppe Passalacqua, figlio del boss e fratello di Margherita è in galera, un fatto che ha sempre irritato la sorella, secondo la quale non ha saputo gestire la situazione. Se fosse stata informata dice al padre “.. Gli avrei detto, guarda, lasciamo i telefoni qua dentro l’ufficio, andiamocene, chi vuole … (incomprensibile) … Anzi passiamoci, gli diciamo noi, mettimi i vestiti in un sacchetto due tre cambi in un sacchetto”….mettici una coperta”


Una svolta? Una evoluzione? Un prodotto del nostro tempo… Da questa intercettazione, è evidente, che la figlia del capo sa di luoghi ove trovare riparo ed assistenza in caso di latitanza. Conosce i covi utilizzati dalla famiglia. Conosce le persone delegate a

supportare. Mantenere. Nascondere. Vigilare. Una conoscenza che di per se conferma ancora una volta il ruolo attivo di Margherita Passalacqua all’interno della famiglia mafiosa di Carini.

Intercettazione telefonica Margherita racconta al padre le modalità con cui ha richiesto i soldi a tale Angelo. (Decr. nr. 1924/09 NRG NC DDA -877/09 NRI datato 20/04/2009 prog. nr.934)

P: Passalacqua Calogero M: Passalacqua Margerita M:….(omissis)….Angeluzzo, avanti ieri sera è passato davanti al negozio, siccome lui mi aveva detto avanti ieri a fine mese, passò con la macchina, gli ho detto Angelù, il mese è finito ed è iniziato l’altro, dice, ora vediamo, la settimana prossima eh…, mentre camminava, gli ho detto Angelù, questa settimana, nel mentre c’erano persone e se ne andato, macchine e se ne andato, siamo andati a prendere il pane da..da Enzo, e lo trovo fermo là che parlava con quello,Angelù, vieni qua…(incomprensibile)…se tu pensi di prendere per il culo gli ho detto, un cristiano che ha due anni che agli arresti domiciliari, gli ho detto, tu hai sbagliato numero di casa,mi devi portare i soldi di mio padre, ah ma lo sai, i 150 te li posso dare questo mese, 150 il prossimo mese, gli ho detto Angelù, per me te ne puoi andare ad impiccarti, ti fai campare da quel cornuto di tuo suocero, tu questa settimana mi devi portare 300 euro, ti è finita gli ho detto, tu vai a prendere in giro a mio padre… P:…(Incomprensibile)… M:…Gli ho detto, gli dici ad un mese, gli ho detto… P:..No una settimana mi ha detto… M:..Ed io gli ho detto, gli hai detto…(incomprensibile)…ma io ho avuto problemi…, se io ho mio padre abbiamo problemi a te non te lo veniamo a dire, tu non sei figlio di mio padre e se nessuno immischiato con niente, non ti permettere più a prendere in giro a mio padre e mi devi portare i soldi subito, ah…ma sai, 150 questa settimana, ti vai ad impiccare gli ho detto, voglio tutti i soldi questa settimana, perché ti finisco, da femmina e buona ti alzo uno schiaffo ti sconzo …(testuale)…qua… M:…No, gli ho detto, ti finisco,completamente ti smonto,gli ho detto, vai da tuo suocero visto che è tanto persona per bene e te li fai dare da lui e glielo dici che sei un farabutto, a tuo suocero… P:..(incomprensibile)… M:..Diglielo che sei un farabutto…voglio i soldi questa settimana ed appena tu sgarri, gli ho detto ti infilo…(incomprensibile)…da femmina e buona c’è la so a smontarti, gli ho detto, vedi quello che devi fare e me ne sono venuta da te, gli ho dato l’invito a …(incomprensibile)…lui ha preso e se ne andato da Salvo( marito di Margherita) che stava uscendo dal panificio, gli dice c’è ne posso dare 150 la settimana, 150 la prossima…gli dice Angelù,se mia moglie ti ha detto che li vuole questa settimana, perche dice, glieli lascio io a tuo padre, no me li devi venire a lasciare a me, da mio padre tu non ci devi mettere più piede, ci fa…(incomprensibile)…con mio padre non hai più niente da parlarci… P:…(incomprensibile)…. M:…Ti sembra che ti và a finire meglio di qua gli ho detto, non ti va a finire meglio di me… P:…(incomprensibile)…questi per una settimana… M:…E ieri ha portato 200 euro… P:…gli dici questi per una settimana…

“ti vai ad impiccare gli ho detto, voglio tutti i soldi questa settimana, perché ti finisco, da femmina e buona ti alzo uno schiaffo ti sconzo”

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Mafioso? No, un Pirla incandidabile

Mafioso? No, un pirla incandidabile Franco Lo Re Un fondo di settanta ettari confiscati al narcotrafficante mafioso Totò Miceli, uomo fidato del latitante Matteo Messina Denaro, stava per essere assegnato ad un amico dell’onorevole Gianmmarinaro. Ritardi ed altalene. Condizionamenti? Una altra goccia che ha fatto traboccare il vaso. Vittorio Sgarbi è uscito proprio malamente dalla vicenda di Salemi. Secondo il tribunale di Marsala, non è candidabile, ma lui si candida lo stesso a Cefalù. Con l’arroganza e la tracotanza che lo contraddistingue. “Partito della Rivoluzione”. Rivoluzione di che? L’altra lista “Concorso esterno” pare non sia andata in porto per vizi di forma. tutto ciò non è ironico. Non è un gioco. Nessun problema linguistico. Per di più, la mafia è mafia e non si fanno accordi o inciuci con i mafiosi. In sicilia non abbiamo bisogno di personaggi spregiudicati, sempre pronti a fare provocazioni. Vogliamo essere razzisti, perciò, pretendiamo politici seri, competenti, presenti, interessati ai problemi territoriali. “Sgarbi? Non è un mafioso. Come si

occasione per replicare alle accuse

Insinuando

dice a Milano è un pirla”. Ad esprimersi

mossegli. Argomentazioni, per certi

quello che voleva a Salemi, con le sue

così,

di

versi, condivisibili. Ove si pensi che i

richieste di finanziamento, ha chiamato

Vittorio Sgarbi da sindaco di Salemi, fu

personaggi indicati sempre stati presenti

mafia quello che a Lucca avrebbe

il fotografo Oliviero Toscani in una

sulla scena politica cittadina da un

chiamato patto di stabilità. Il suo è un

intervista ad un quotidiano nazionale. Per

trentennio e sempre rimasti indisturbati.

problema linguistico, che rivela un

circa un anno era stato assessore alla

A cominciare appunto dallo stesso Pino

sostanziale razzismo”.

Ma per il

Creatività della giunta del critico ferrarese.

Giammarinaro. Dominus incontrastato

fotografo

infiltrazioni

Aveva convissuto politicamente, e non

per oltre un trentennio nella sanità

c'erano e “non si poteva fare nulla

solo, senza battere ciglio con l’intero

pubblica trapanese . Di riflesso in quella

senza parlare con questo e con quello,

entourage della potente macchina di potere

politica perché detentore di un cospicuo

senza

dell’ex

pacchetto di voti

passare

all'indomani

deputato

Giammarinaro.

delle dimissioni

democristiano

Pino

in grado di fare

“non

milanese

chiedere da

avendo

le

ottenuto

permesso,

un'infernale

senza

macchina

burocratica che è mafia”.

Collaborando in giunta

eleggere deputati regionali e nazionali e

con i suoi fedelissimi: a cominciare dal

consiglieri comunali e provinciali. E

SARO’ IL SINDACO

vicesindaco Nino Scalisi, da sempre e

quindi, ha buon gioco lo showman

DI CEFALU’

notoriamente l’alter ego di Giammarinaro

Sgarbi

certamente

Come sono andate le cose, ormai è noto a

e per finire col di lui cognato Angelo

strumentalmente, che non di mafia si

tutti. Dopo le dimissioni di Sgarbi, c’è

Calistro.

tratta, ma di politica.

stato lo scioglimento del Comune di

Tutto

alla

luce

del

sole,

quando

sostiene,

intendiamoci. Con atti, documenti e

infiltrazioni

subito

Salemi per infiltrazioni mafiose. Fino

filmati.

rinfacciato al suo ex amico tacciandolo

alla sentenza di alcuni giorni emessa dal

addirittura

Tribunale di Marsala che ha dichiarato

Sarebbe stato questo, infatti, il

leitmotive ripetuto da Sgarbi in ogni

mafiose,

Altro che

anche

aveva di

razzismo!

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Mafioso? No, un Pirla incandidabile Vittorio Sgarbi "incandidabile" in vista delle

Presidente della Commissione CRIM (sul

dell’art. 143 della legge 267 del 2000,

prossime

amministrative.

crimine organizzato, la corruzione e il

testo unico sugli enti locali siciliani.

e

indispettita

riciclaggio di denaro) del Parlamento

Quisquiglie e pinzillacchere, direbbe, il

reazione da parte del critico d'arte. Lui non

Europeo. Fra i due, fin dai tempi della

principe De Curtis. Così come poco

ci sta. E si è candidato ugualmente

campagna

ogni

conta se il ministero dell’Interno abbia

occasione è stata buona per innescare una

scritto che “il sindaco ha precise

polemica al calor bianco. “Era ovvio”- ha

responsabilità per ritardi e inerzie

sottolineato

l’Alfano- “ che Vittorio

nell’assegnazione e gestione dei beni

Sgarbi non potesse candidarsi a sindaco

confiscati, formazione degli atti fuori

di Cefalù dopo quanto accaduto a Salemi,

dalle

cittadina abbandonata nelle mani della

determinazione fortemente ostacolata,

elezioni

Suscitando

l’immediata

elettorale

del

2008,

sedi

istituzionali,

libera

mafia da un sindaco assente e con

applicazione di facciata dei protocolli

affermando che “questa è solo la sentenza di

frequentazioni

di legalità”. Si tratta di un duro atto

primo grado e ce ne sono altre tre, l'appello,

Ricordo anche che Sgarbi ha spesso

d’accusa

la cassazione e la Corte di Strasburgo". E

lanciato assurde invettive sull’inesistenza

un’amministrazione controllata da un

così dopo l’avventura consumata sulle

della mafia, affermando che i familiari

ex

amene colline salemitane, il ferrarese,

delle

deputato

invece di risalire lo stivale per ritornare

utilizzando come pretesto per i propri

andreottiano Pino Giammarinaro, come

nelle brumose pianure natie, ha scelto di

interessi”. A cui l’ex sindaco di Salemi ha

dicevamo prima.

restare nell’ospitale terra siciliana in una

subito controbattuto dicendo che

“la

rapporto investigativo del mese di

altrettanto ospitale e ridente cittadina.

Alfano dimentica che l’unico elemento su

maggio dello scorso anno definiva

Stavolta marina.

Approdando sul litorale

cui poggia lo scioglimento di Salemi non è

“puparo e regista nemmeno tanto

della cittadina della Mandralisca, ha scelto

in fatti criminosi ma nelle dichiarazioni di

occulto”

tanto da far chiedere al

di

Carmine

candidarsi

a

sindaco

di

a

vittime

dir

poco

innocenti

ambigue.

la

stessero

in

cui

sorvegliato

si

descrive

speciale.

regionale

della

Dall’ex Dc,

lo

E che il famoso

Cefalù.

un pubblicitario come Oliviero Toscani

questore

Affascinato forse dal “Sorriso di un ignoto

che ha mentito nella sua ignoranza

Tribunale di Trapani l’applicazione di 5

marinaio”, si è presentato capeggiando una

confondendo la giunta con la sala

anni di sorveglianza speciale, e il

formazione politica di sua invenzione,

d’aspetto.”

sequestro di beni per un ammontare di

goliardicamente battezzata “Partito della

ben 30

Esposito,

milioni di euro. Stiamo

Rivoluzione”, promettendo di innalzare ai

RITARDI,INERZIE, ILLEGALITA’,

parlando

della

ormai

vertici del turismo isolano la cittadina

CONDIZIONAMENTI

indagine

“Salus

Iniqua”.

normanna.

Avrebbe

fiancheggiata

da

dovuto una

lista

citatissima Seguì

l’ispezione al Comune di Salemi,

essere

terza

al

Ritornando alle vecchie accuse nei

durata molti mesi: nel corso della quale

milanese.

tutta l’attività amministrativa degli

esterno'”. Ma non se n’è fatto più nulla.

Ignoranti tutti, per Sgarbi. Anche il

ultimi tre anni fu passata al setaccio. Al

Sembra per vizi di forma. E la sentenza di

Tribunale di Marsala.

termine della quale fu prodotta una

Marsala? "Intanto mi candido e se sarò

sentenza è un insieme di menzogne

relazione

eletto, farò il sindaco, poi quando verrà

fondate sull’ignoranza, a partire della

Cancellieri e da

emessa

richiesta

ministro

propria. Un corposo documento in cui

riparleremo". Ha chiosato. E poco importa

Cancellieri a cui è stato arbitrariamente

si sostiene che “l’amministrazione, col

se nei giorni precedenti ci siano state

attribuito

sindaco e vicesindaco, non ha posto

polemiche sulla presenza inquietante di tale

incandidabilità con una sentenza ad

alcun

Giuseppe

personam,

allusivamente

la

denominata

sentenza

''Concorso

definitiva,

ne

confronti

del

fotografo

inesistente di

aver

Perché

del chiesto

la

“la

mia

presentata

argine

al

Ministro

questa infine fatta

al

condizionamento

del

esercitato dall’on. Giammarinaro”. E

pregiudicato per mafia, detto “Oro colato”,

ministro riguardava, per sua stessa

paradossalmente il Ministro sottolinea

famoso imprenditore della zona madonita,

ammissione, il solo consiglio comunale,

che “è il sindaco ad affermare la

originario di San Mauro Castelverde. E

senza nessun riferimento personale.” Si

centralità

poco conta se sulla vicenda sia intervenuta

tratta di una sentenza emessa ai sensi

Giammarinaro, anche a proposito della

Farinella,

cugino

di

un

mentre

la

richiesta

anche Sonia Alfano, eletta recentemente

Casablanca pagina 38

della

figura

di


Mafioso? No, un Pirla incandidabile attribuzione di incarichi e nomine”.

Giammarinaro di partecipare a riunioni di

risulta “ anche lui con interessi nella

Citando un incontro pubblico, presenti il

giunta (quelle che lui invece definisce

sanità e intrattenere rapporti di lavoro

presidente del Consiglio di Salemi Giusy

“sala d’attesa”), senza che la di lui

con Giammarinaro”. Ma gli aspetti di

Asaro e diversi consiglieri comunali. Nel

presenza venisse registrata. Ma registrata

condizionamento

corso del quale Vittorio Sgarbi precisò che

forse da qualche telecamera, diciamo noi.

dell’attività amministrativa sono molto

qualsiasi rivendicazione politica, anche

Risulterebbe inoltre che a casa dell’ex

più ampi e “risultano evidenti in una

relativa a nuove nomine o concernente la

deputato qualche bilancio di previsione del

serie di condotte o procedimenti che

gestione del quotidiano e delle dinamiche

Comune

hanno caratterizzato l’attività dell’ente

comunali, doveva essere discussa con Pino

consigliere comunale fidato.

Giammarinaro.

Una

fonte

oltre

fosse

su

portato

da

un

di

illegalità

locale quali la mancanza di controlli in

che

materia di contributi statali, il mancato

attendibile, anche autorevole circa il “condizionamento”

stato

e

rispetto del protocollo di legalità nelle

QUI COMANDA

l’attività

procedure

GIAMMARINARO

amministrativa della giunta. Le ripetute

d’appalto, dalla diffusa

illegittimità

delle

procedure

noi

amministrative”. Non solo. Dall’atto

di Salemi del resto resero possibile, se non

facilmente avevamo previsto in nostro

ispettivo si evince che anche penetranti

addirittura

sviamento

precedente articolo, una delle cause

condizionamenti ci sono stati nella

dell’attività amministrativa. Nel periodo

scatenanti che ha prodotto il crollo del

complessiva

preso in esame che va dal 2008 al maggio

circo

l’erogazione di contributi economici in

del 2011, è emerso inoltre che “molti

sgarbiano sarebbe stata la mancata

favore

elementi della compagine elettiva e dei

assegnazione di quel famigerato fondo di

associazioni. Le elargizioni sarebbero

dipendenti comunali abbiano precedenti

70 ettari confiscato al narcotrafficante

state concesse con procedure arbitrarie

penali e di polizia, tra l’altro per reati

mafioso Totò Miceli, uomo fidato del

in

concernenti la truffa per il conseguimento

latitante Matteo Messina Denaro. “Una

regolamentazione e di conseguenza

di erogazioni pubbliche, la turbativa

anomala gestione”, viene bollata nella

non

d’asta

relazione. Caratterizzata, si dice, da una

equanimità.

protratta inerzia dell’amministrazione,

che di “tali contributi e per un

Sarebbero emersi elementi sintomatici che

oltre che dalle pressioni esercitate

rilevante

evidenziano una serie di cointeressenze,

dall’onnipresente

beneficiato associazioni o persone

assenze di Sgarbi dal territorio del comune agevolato,

in

lo

appalti nonché

per

reati

associativi di tipo mafioso” .

Ma,

a

conferma

di

quanto

mediatico-amministrativo

Giammarinaro.

Il

vicenda

di

persone

assenza in

concernente

di

linea

giuridiche

una

di

e

qualsiasi

trasparenza

e

Addirittura viene scritto importo

hanno

anche contrapposte (!), tra amministratori

riconducibili

locali, apparato burocratico ed esponenti

contigui ad organizzazioni

della criminalità organizzata. In modo

criminali”(sic). Mentre per

particolare per quanto attiene al vicesindaco

quanto riguarda il sistema di

Antonella Favuzza “legata da stretti vincoli

aggiudicazioni degli appalti

con noti e storici esponenti delle locali

di

famiglie criminali..” che, come si legge in

sebbene

una

Salemi avesse aderito al

nota

dell’Arma

dei

Carabinieri,

nell’esercizio del proprio mandato, “non ha posto

in

essere

alcun

serio

lavori

a

anche

e il

protocollo

di

soggetti

servizi,

Comune di

di

legalità

denominato “Carlo Alberto

effettivo rapporto mette in risalto come quel

Dalla Chiesa”, i contenuti dello stesso

Giammarinaro, ma ha invece perseguito,

fondo

assegnato

non sono stati rispettati dalla giunta

nel corso del proprio mandato, finalità volte

all’associazione di assistenza sanitaria

comunale. Per gli appalti, ad esempio,

ad

interessi

Aias, dopo che Sgarbi aveva chiesto a un

d’importo superiore a 250.000 euro

economici, in ciò coadiuvata da soggetti

assessore: “Pino che ne pensa?”. L’ex

non sono state richieste le informazioni

con precedenti reati associativi e contigui

onorevole

essere

antimafia alla competente prefettura.

alle cosche malavitose”.

d’accordo per questa assegnazione. Il

Stessa lacuna per i lavori di restauro

presidente

del palazzo municipale.

contrasto

ai

incrementare

condizionamenti

i

propri

di

Ma anche il

sindaco Sgarbi avrebbe permesso a Pino

stesse

non

per

essere

poteva

che

dell’Aias,

l’ingegnere Francesco

Lo

infatti, Trovato,

Casablanca pagina 39


Mafioso? No, un Pirla incandidabile come facilmente prevedibile Vittorio Sgarbi resta “incandidabile”. Lo hanno

LE DELEGHE SINDACALI

QUI FINISCE L’AVVENTURA!!!

deciso, alla vigilia della chiusura della Diffusa illegalità anche nelle procedure

campagna elettorale i giudici della prima

Per il governo regionale “qualsiasi

dell’erogazione dei contributi da parte

sezione civile della Corte d'Appello,

intervento

dell’apposita commissione del terremoto.

presieduti da Rocco Camerata Scovazzo,

rappresenterebbe l'esercizio di un potere

Questo organismo

che nel periodo di

al termine della Camera di consiglio”.

non attribuito dalla legge e quindi in

Sgarbi ha concesso, un ammontare di

L'avvocato Girolamo Rubino, legale di

contrasto

3.700.000 euro,deve essere presieduto per

Sgarbi,

costituzionalmente

legge dal sindaco pro-tempore o da un suo

"Ricorreremo in Cassazione!" . La

all'esercizio del diritto di voto . Non è

delegato. E’ su questa figura che gli

polemica è subito divampata. Si dà il

consentito il rinvio per l’incandidabilità

ispettori hanno rivolto la loro attenzione.

caso, infatti, che, a dispetto di tutti, il

di un candidato a sindaco, ne è

In questi tre anni la delega sindacale è

nome di Sgarbi comparirà nella scheda

consentita

stata conferita a diversi soggetti, spesso

con le due liste collegate: “Partito della

candidato rispetto alla competizione

estranei all’amministrazione. Il giudizio

rivoluzione” e “Cefalù cambia” per le

elettorale”. Per Giampaolo Cicconi,

dei commissari è impietoso. Essi sono

elezioni di Cefalù. Cosa che ha fatto

l’avvocato che difende Sgarbi, non ci

stati scelti “senza una verifica di un

andare su tutte le furie persino il

sono dubbi. «Il “mostro giuridico” è

seppur minimo possesso di requisiti di

segretario del Pdl, Angelino Alfano: “Il

stato creato dal legislatore con l’ingresso

professionalità, nei confronti dei quali

grave paradosso che rischia di colpire i

della legge, palesemente incostituzionale,

sono state riscontrate frequentazioni con

cittadini di Cefalù è che essi vedranno

che, allo stato, consente a Sgarbi di

soggetti contigui ad ambienti mafiosi” Ma

sulla scheda elettorale il nome di un

essere ritenuto candidabile in pendenza

il giudizio negativo investe anche alcuni

soggetto

“incandidabile”

del termine per proporre ricorso in

componenti della Commissione rispetto ai

dall’autorità giudiziaria e che, per

Cassazione alle decisioni dei giudici di

quali sarebbero emerse “ripetute situazioni

effetto di questa presenza, avranno

Marsala e di Palermo.” Una cosa a

di conflitto d’interesse e cointeressenza”.

vanificato del tutto il loro voto.”

questo

Sui debiti fuori bilancio infine, dal mese di

Scatenando la replica dell’assessore

L’avventura politica siciliana di Vittorio

luglio 2008, i commissari hanno accertato

regionale Caterina Chinnici secondo

Sgarbi

“una ripetuta serie d’impegni di spesa per

cui,“La normativa in materia elettorale

concludersi qui. A pensarci bene il

forniture di beni e servizi in violazione

prevede il rinvio delle elezioni solamente

patetico epilogo gli era stato vaticinato

delle norme contabili”. Intanto la lunga

per cause di forza maggiore, ossia per

già fin dal giorno in cui mise per la prima

marcia

impedimenti

non

volta piedi a Salemi. Quando si aggirava,

(avrebbe dovuto essere anche Assessore ad

consentono il regolare svolgimento delle

chiome al vento, in una domenica

Agrigento) è continuata per attraccare a

operazioni di voto, quali, per esempio, le

sciroccosa dell’aprile del 2008, per le

Cefalù. Per oltre due settimane, nella città

calamità naturali. Nulla, invece, è

viuzze tortuose della cittadina medievale,

tirrenica si è parlato di una campagna

previsto nell'ipotesi di incandidabilità

in compagnia di una signora che, rapita

elettorale inquinata e si temuta una

dei singoli soggetti''. Una situazione

gli

consultazione che alla fine sarebbe potuta

paradossale e tutta siciliana, che tanto

popolareschi: "Unni viditi muntagni di

risultare inficiata. Il riferimento era alla

piacerebbe

Camilleri.

issu/ chissa è Salemi, passatici arrassu/

sua incandidabilità. E a chi gli rinfacciava

Consentendo a Sgarbi di candidarsi, la

sunnu nimici di lu crucifissu / e amici

tale pericolo non ha esitato ad annunciare

conseguenza più probabile sarà, infatti,

di

un ricorso, all’indomani delle elezioni, nel

la

consultazione

montagne di gesso stateci lontano, non

caso non fosse eletto, proprio “per

elettorale. Lo aveva chiesto il rinvio

sono amici del Crocifisso ma amici di

inquinamento del voto”. Chiudendo un

anche il prefetto di Palermo per evitare

Satanasso).

suo comizio ha gridato in Piazza Duomo,

lo sperpero di pubblico denaro che

ai piedi del Santuario di Gibilmanna, di

deriverà dall’inevitabile ripetersi delle

essere “assolutamente immacolato”. Ma,

elezioni. Tutto inutile.

siciliana

di

Vittorio

Sgarbi

prontamente

nullità

dichiarato

ha

annunciato:

oggettivi

allo

che

scrittore

dell’intera

Casablanca pagina 40

della

con

i

punto sembra

principi

garantiti

l’esclusione

declamava

lu

Regione

ci

Satanassu".

di

sembra

ormai

i

connessi

questo

certa.

destinata

profetici

(Dove

a

versi

vedete


Palermo: teatro Garibaldi occupato…

Teatro Garibaldi Aperto Antonio Tozzi Roma, Catania, Palermo, teatri occupati. Spettacoli e concerti per strada per protesta. La cultura è in ginocchio. Tolgono soldi al settore. Operatori, musicisti, attori, registi, incazzati. A Palermo hanno occupato il teatro Garibaldi, "ristrutturato" ma chiuso. Uno spazio culturale sprecato, privo della funzione e dignità che gli spettano. "Camminiamo nello spazio!" a parlare, o meglio a urlare è Italia, una donna sulla quarantina d'anni. Siamo al Teatro Garibaldi Aperto e questo è il settimo giorno di apertura/occupazione. Sono le tre e

mezzo del pomeriggio e con lei c’è una variegata moltitudine di bambini, i bambini della Magione, una delle piazze più belle di Palermo. Tutto intorno c'è chi sta pulendo la platea, chi sistema il tavolo all'ingresso, chi è davanti al computer su internet per scrivere quanto sta accadendo, chi è alle prese con la programmazione delle serate e chi sta cercando con

i pochi mezzi a disposizione di mettere in sicurezza una porta dalla serratura malandata. Il teatro è vivo, pulsa, si agita. Dario è emozionato, mi dice che i primi giorni sapeva esattamente chi stava facendo cosa, adesso invece non lo sa ed è felice perché le persone cominciano ad attrezzarsi ed ingegnarsi in proprio per migliorare l'habitat comune, un habitat che si estende oltre le mura del teatro ma che nel teatro trova il suo fulcro, il suo apice, il suo simbolo. La mattina ci si confronta in assemblea, il pomeriggio passa tra laboratori teatrali, attività per bambini e tavoli di approfondimento. La sera centinaia di persone si riversano davanti ai cancelli di questo teatro, come dire ci siamo pure noi. Sebbene nessuno sappia quale e quanto lungo sarà il percorso di questa iniziativa la regola è chiara e condivisa da tutti: occupare un teatro, "ristrutturato" e chiuso significa riaprirlo alla cittadinanza ridandogli la funzione e la dignità che gli spettano. Così dentro il teatro non si fuma, non si mangia ed è vietato introdurre alcolici, il palco per esibirsi non lo si guadagna perché si è occupanti o amici degli occupanti ma perché ci si è dedicati ad un'arte e la si può mettere in scena consapevoli di cosa questo significhi. La somma dei singoli non basta a spiegare l'energia che si respira in questo posto, un'energia che nasce da un gruppo varie-

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gato composto da artisti ed attivisti, operatori del sociale e semplici cittadini, studenti e professionisti, gente autoctona e fuorisede, un gruppo che sta prendendo una forma ancora difficile da definire ma chiara in alcuni suoi punti cardine: condivisione e trasparenza. Non a caso il manifesto scritto dal gruppo di ragazzi che ha dato il via all'occupazione, e sottoscritto ad oggi da centinaia e centinaia di persone, chiede ed esige che gli spazi e i soldi pubblici della città siano gestiti in maniera trasparente secondo regole chiare, condivise e condivisibili. Per qualcuno si tratta di un'utopia ma qui al Teatro Garibaldi, nonostante la pressione della gente che vuole di più e delle istituzioni che minacciano denunce e sgombero, si sta cercando di metterla in atto, e non solo in scena.

Nel frattempo a Palermo è stato eletto il sindaco Orlando … Il Teatro Garibaldi può sperare


Ex Carcerato in attesa di giudizio

In attesa di Giudizio Antonella Serafini Come vive un detenuto? Per capirlo bisogna vivere quella condizione, non la si può immaginare. Solo parlarne non rende l’idea. Francesco è finito in carcere perché un camorrista ha fatto il suo nome, “detenuto in attesa di giudizio”, scarcerato per essere risultato estraneo ai fatti. Non è più la stessa persona, ha voluto raccontarci la sua esperienza infelice attraverso la quotidianità carceraria. Non massimi sistemi, ma il fare le cose più semplici per continuare a vivere. Il lento scorrere delle ore di una interminabile giornata. Il rischio concreto di essere catturati dal vortice dall’inutilità definitivamente. “L’ambiente è di circa 10/12 mq compreso l’angolo bagno senza sfiato verso l'esterno. E’posto di fronte alla finestra – racconta Francesco – un piccolo tavolo, due mini comodini, due mini armadietti, un televisore.” Francesco fa una pausa. Poi toccandosi la fronte con un dito aggiunge”- anche questo mini, due brande a mo di letto a castello” . Ma ci vivono i puffi? “No, due persone di corporatura media quando si è fortunati – ci spiega ed aggiunge - “Il bagno è dotato di un lavandino al di sopra del quale, cementato nel muro, c'è il tubo dal quale fuoriesce solo acqua fredda pigiando un bottone temporizzato per dieci secondi. C'è il water ma non c'è la doccia e il bidet, anzi, è disattivato”. Questa pressappoco la pianta strutturale di una cella. Una stanza-tipo dei tanti super condomini in Italia. Ci possono essere delle differenze e attengono, in genere, alle dimensioni delle stanze, al conseguente numero di occupanti, allo stato di conservazione. Case Circondariali o Case di Reclusione. Come fossero grandi condomini, e il parlarne quasi un argomento ameno. Carcere, ti porta già in una altra dimensione “Quando si entra in uno di questi luoghi, avviene uno

stravolgimento della propria esistenza. anche alla propria libertà di potersi Bisogna imparare ad “imparare” un altro autogestire all'interno di questo super stile di vita. In carcere s’impara la condominio. La propria vita è sobrietà: il vivere delle poche cose di cui completamente affidata a chi ti si può disporre. Si scopre il valore delle amministra, a chi ti gestisce, ai poche cose di cui si può disporre e delle regolamenti, che non sono sempre uguali piccole cose alle quali, fuori, tante volte tra un carcere e l'altro. Devi abituarti al non si da il loro giusto peso”. Una banale fatto che esistono orari prestabiliti per tazzina di caffè dentro le anguste celle di andare in doccia, per lavare gli abiti, per un carcere diventa un sogno ripetuto, telefonare ai propri cari e per qualunque infinito. “In carcere si possono usare altra attività esterna alla propria solo bicchieri di plastica.. Si può cella/stanza. E per fare una qualunque di disporre solo di pochi abiti, quelli che queste operazioni occorre chiedere il servono. Non si può accumulare troppo permesso all'agente penitenziario di cibo; è possibile indossare orologi di turno” plastica trasparente; le penne devono essere trasparenti, tipo “Bic”; non è Se poi nasce una necessità che può possibile affiggere poster sul muro; si essere soddisfatta solo esternamente alla può fare la spesa ma solo attraverso un struttura come farsi riparare gli occhiali, catalogo di prodotti Ho trentasette anni, da sette mesi sono recluso, in attesa di fissi a giudizio. Fuori, la mia vita era frenetica, molto impegnata. prezzo Iniziava alle sette del mattino, e terminava alle 21.00, o imposto”. anche dopo. Laureato, libero professionista. Ora, qui, frequento la scuola di Agraria, l'unico corso che c'è, e meno Ma non male che c'è. solo questo, ci sono ben bisogna sperare che ci siano dei altre cose importanti a cui bisogna volontari. In molte carceri non ci sono, o abituarsi. sono insufficienti. I più fortunati, possono contare sull'aiuto dei familiari. “Si, certo. La prima è il dover rinunciare Ogni operazione di vita quotidiana

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Ex Carcerato in attesa di giudizio all'interno di questi luoghi si muove entro questi ferrei e rigidi paletti. E' la restrizione della restrizione. All’interno del carcere, nulla è certo, neanche il compagno di cella, inoltre, bisogna convivere con il risucchio dell’inutilità. Questo perché in quasi tutte le carceri si trascorrono, normalmente, venti ore giornaliere in cella. Le eccezioni sono limitate. Purtroppo le possibilità di lavoro sono risicate ma, soprattutto, in quasi tutti questi luoghi non esistono corsi pratico-professionali o corsi di studio completi che, non solo aiutino a non sentirsi inutili “dentro”, ma, soprattutto, diano la possibilità a tutti di essere utili alla società una volta “fuori. Occorre, quindi, trovare dentro se stessi la forza mentale per non farsi ingoiare dal magma dell’insensibilità, l’ apatia, la pigrizia e l’ indolenza.” Il non vivere.

aggrapparsi per tutto il tempo che gli rimane da passare dentro, a tanti microobiettivi: la scuola, sistemare la branda, lasciata appositamente disfatta prima di andare a scuola, ordinare e pulire la cella, e poi, intorno alle 12,30, mangiare la frutta. “Preparare la frutta, è un'operazione che va fatta lentamente, con pazienza, con calma, utilizzando il coltello di plastica (non è ammesso l'uso di coltelli con lama) sbucciarla e sezionando, delicatamente, il frutto in tante parti”. RUBARE IL TEMPO

Anche il semplice recarsi dalla cella alla sala doccia avviene adagio. I due metri di distanza si trasformano in duecento metri. Perché occorre rubare quanti più minuti possibili al lento scorrere della clessidra. “Fuori, il tempo non basta mai, dentro un carcere ce n'è troppo. Ed è DIARIO DI UN CARCERATO come se il tempo di “dentro” si Francesco in carcere scriveva un diario, appropriasse del tempo di “fuori”. Occorre, ogni giorno, sconfiggere il senso d’inutilità scandito dall'immobilismo del Grazie alla scuola Francesco trascorre tempo di “dentro”. Allora tutto diciassette ore in cella (anziché venti). viene spalmato, distribuito sull’intera giornata, anzi ricco di annotazioni. Di notizie, di sull'intera settimana. Quindi spiega riflessioni. Francesco,se hai la fortuna di aver “ Ho trentasette anni, da sette mesi sono ricevuto due lettere, rispondi solo ad recluso, in attesa di giudizio. Fuori, la una. L'altra la conservi per l'indomani. mia vita era frenetica, molto impegnata. Un libro, anche se vorresti leggerlo tutto Iniziava alle sette del mattino, e d'un fiato, impari a leggerlo a tappe. terminava alle 21.00, o anche dopo. T’inventi un disegno, Laureato, libero professionista. Ora, qui, assisti il tuo compagno frequento la scuola di Agraria, l'unico corso che c'è, e meno male che c'è. Ogni giorno, per tre ore, ritorno indietro nel tempo a quando avevo tredici anni, e mi ritrovo a studiare (nuovamente) i polinomi, la grammatica, le foglie e i fiori. Sorrido a me stesso: scopro in questo luogo, a questa età, quanto sia bello studiare per il piacere di farlo, il desiderio di apprendere e conoscere. Non abbandonate mai gli studi; abbandonatevi alla cascata del sapere, vi sentirete molto ricchi”. Grazie alla scuola Francesco trascorre diciassette ore in cella (anziché venti). Ha capito che se di vuole sopravvivere deve darsi cella nella delle regole. Perciò, ha deciso di preparazione di un cibo, purché si abbia

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la fortuna di andarci d'accordo. Il tutto sempre all'interno di quei pochi, ristretti, metri quadrati. “Il carcere è il luogo in cui devi imparare la pazienza, la calma, la sopportazione, il saper aspettare (ma cosa?). E' anche il luogo della riflessione, dell'analisi introspettiva, dell'interrogarsi, forse anche dell'iniziare a conoscersi. Però attenzione, in prigione tutto è amplificato. E allora sarebbe opportuno potersi confrontare, costantemente, con persone competenti per parlare di se stessi, per scoprirsi, o semplicemente per avere un conforto. Tutti ne abbiamo bisogno, anche fuori, figuriamoci in un posto in cui ci sei tu e la tua mente. Personalmente le mie riflessioni mi hanno portato a pensare questo: non c'è nulla di più triste e pesante del rischiare di non poter recuperare, riavere la possibilità di abbattere inutili barriere che hai creato, anche inconsciamente, pure con persone alle quali sei legato. Barriere apparentemente invisibili che ti hanno inaridito, che non ti hanno fanno manifestare i sentimenti”. Francesco per non impigrirsi in prigione scriveva anche un diario, si abbandonava alle sue malinconie e ai suoi rimpianti “… è triste anche accorgersi di non essere stato veramente vicino a chi ti voleva bene quando ne aveva bisogno, o il non aver avuto il coraggio di chiedere scusa a chi hai fatto del male. Non sprecate anche voi il tempo che vi viene regalato. Non fate come me, non

aspettate il tempo che verrà. Potrebbe non essere più

come prima”.


Il movimento femminista faceva paura

Il delitto di Giorgiana Coincidenza o Strategia? Norma Ferrara Roma: Il 12 maggio del 1977 un proiettile uccide Giorgiana Masi una giovane studentessa durante una manifestazione “non violenta” per gli organizzatori, non per lo Stato che mette in piazza 5000 agenti e tanti infiltrati. In assetto antisommossa. Insomma, tutti ben armati. Dopo 35 anni per quel delitto nessun colpevole. Mentì tutto il parlamento per voce dell'allora ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, costretto poi ad ammettere la presenza di agenti in borghese armati, grazie alle foto dei reporter che quel giorno documentarono una battaglia preparata dallo Stato per riaffermare le sue regole. A pagare fu una giovane donna. Coincidenza? Strategia?

Giorgiana Masi, studentessa diciottenne del liceo Pasteur quel pomeriggio del 12 maggio 1977 saluta i genitori dicendo loro “state tranquilli se le cose si

mettono male, vado via" e dal quartiere monte Mario dove abita si dirige al sit in indetto a piazza Navona dai radicali, nonostante il divieto avvallato dal ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, abile uomo politico della Democrazia

cristiana. Il “no” a manifestazioni in piazza era arrivato dopo la sparatoria del 21 aprile 1977 tra agenti di polizia e manifestanti dell'area di Autonomia Operaia che finì con l'uccisione dell'agente Settimio Passamonti e il ferimento di quattro suoi commilitoni. Dopo questo tragico epilogo Cossiga aveva deciso di usare “il pugno di ferro” contro il movimento. I radicali però ritenevano, a ragione, incostituzionale quel decreto che vietava il diritto di manifestare e per dimostrarlo lo violarono, convocando un sit- in motivato dalla raccolta di firme alla proposta dei referendum abrogativi. In realtà, per ricordare la vittoria del

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referendum sul divorzio, avvenuta tre anni prima. Le donne «… erano la parte più temuta del movimento, avevano raccolto il grido di dolore dei figli, dei mariti, delle madri, dei fratelli. L’avevano fatto loro ed erano pericolose perché erano contro tutti i ruoli, contro il potere, che non era solo quello che era al governo» racconta l’inviato fra “gli ultimi” Tano D’Amico. Lui quel pomeriggio c’era. Ha visto. Fotografato. Registrato. Ricorda. Racconta E’ un pomeriggio primaverile a Roma, lontano dagli spari e dal dolore di quel giorno, il fotoreporter è come un fiume in piena. Inarrestabile e minaccioso perché a differenza di altre frange del movimento non chiede il potere e non rivendica diritti. Uomo libero. LA BATTAGLIA DI PONTE GARIBALDI Giorgiana è una ragazza esile di corporatura e con un bel viso. Di lei i giornali racconteranno che simpatizzava per Lotta Continua, distribuiva il quotidiano a scuola e aveva idee di


Il movimento femminista faceva paura sinistra. Quel giorno scese in piazza con alcune amiche e con il fidanzato, Gianfranco Papino. Ricorda Emma Bonino, leader radicale, due anni dopo durante la presentazione del libro bianco sulla morte di Giorgiana: «Ero chiusa in piazza Navona dalle 13 e non arrivava nessuno. Noi eravamo lì da soli quando ad un certo punto sento sparare da piazza della Cancelleria, faccio per muovermi in quella direzione ma non riesco a passare. Vado allora da piazza Pasquino ed è lì che vedo per la prima volta quel pomeriggio un ragazzo che esce da un bar, con un look che sembrava uno dei movimenti, ho pensato che fosse un autonomo infiltrato, vado per dirgli di abbandonare il bastone che aveva in mano, ma lo vedo fermarsi a parlare con un poliziotto. Così mi guardo intorno e trovo una serie di persone, con pistole, spranghe che non venivano fermati da nessuno; solo allora ho realizzato che erano poliziotti “travestiti” /”infiltrati”». Nonostante gli annunci di un sit-in pacifico, lo Stato schierò forze dell'ordine come stesse andando in guerra. E guerra fu: cinquemila agenti presenti nelle strade del centro storico in assetto antisommossa, in seguito si saprà “rafforzati” da molti altri “infiltrati”. Parlamentari come Mimmo Pinto furono malmenati dalle forze di polizia davanti al Senato. Mentre tutto questo accadeva, più di trecento persone erano “bloccate” a Campo dei Fiori da ore. Rimasero lì sino alle 19.00 circa di sera. In quelle ore Tano D'Amico, fotoreporter “freelance”, segue i ragazzi, scatta ritratti che rimarranno nella storia del movimento. Prova a farsi largo per capire cosa accade, vede la strada verso villa Giulia bloccata. Poi il lungo Tevere. A Largo Argentina è in corso una guerriglia, da ore il lancio di candelotti ha reso irrespirabile l'aria ed è complicato vedere chi hai accanto, in che direzione stai correndo. A Piazza Navona verso le 18.00 del pomeriggio le prime Molotov. Ma, è davanti ponte Garibaldi, nei pressi di Piazza Belli, che due ore dopo si consuma la tragedia, mentre già in Parlamento Pannella (PR), Corvisieri (DP), Ligheri (DC) Pinto (DP), Costa, Giovanardi, Magnani Noya Maria, intervengono a denunciare gli scontri del pomeriggio e l'inadeguatezza del governo.

Mentre parlano i politici, Giorgiana Masi corre da una parte all'altra del ponte. Si trova nei pressi di piazza Belli, quando improvvisa parte una carica di polizia e carabinieri, preceduta da un lancio di lacrimogeni, da via Arenula. Pochi minuti prima tre grosse moto, secondo le testimonianze dell'epoca, arrivarono sul lungotevere degli Anguillara, all'angolo con la piazza verso la quale si sta dirigendo Giorgiana. Sopra ci sono tre vigili in divisa e uno in borghese, quest'ultimo – secondo le testimonianze – scende dalla motocicletta, impugna la pistola e spara ad altezza d'uomo. Poco dopo, vicino a Piazza Sonnino, quasi simultaneamente, cadono a terra: Giorgiana Masi, colpita da un proiettile calibro 22 all'addome e una sua compagna, Elena Ascione, ferita a una gamba. Poco prima era stato ferito alla mano anche un carabiniere, Francesco Ruggero. In un primo tempo gli amici di

Giorgiana che la vedono accasciarsi a terra, pensano che sia caduta correndo, nella folla. Poi si accorgono del sangue, arriva l'ambulanza, ma per la giovane studentessa non c'è più nulla da fare. Al Tg della Rai il ministro dell'Interno, Cossiga, giurerà che in piazza non vi fossero agenti in borghese armati. Passano solo poche ore e sarà smentito dalle foto, caparbiamente scattate, da fotocronisti presenti quel giorno. Quella è una giornata particolare per molti di loro, riuscirono a documentare che lo Stato stava mentendo, sotto gli occhi di tutti, mentre una ragazza moriva a soli diciannove anni per un proiettile sparato, non si sa ancora da chi, dopo trentacinque anni. Cossiga dovette poi

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rettificare e ammettere che c'erano poliziotti in borghese in tutto il centro storico e che erano armati. Tuttavia, l'indagine che scaturì grazie anche a quelle foto culminò in una richiesta di archiviazione, un non luogo a procedere, “perché ignoti i responsabili”. Il delitto di Giorgiana Masi è ancora senza verità e giustizia. UNA RAGIONE DI STATO «Il punto non è come andarono le cose quel pomeriggio – commenta oggi Tano D'Amico – ma cosa accadde dopo. Quel delitto non fu ben visto nemmeno da una parte delle forze dell'ordine. Ebbi modo di capirlo quando alcuni appartenenti a corpi armati, con i quali spesso avevo avuto modo di trovarmi in piazza in altre manifestazioni, mi fermarono per dirmi frasi che alludevano alla scelta di colpire una donna (noi siamo uuuomini – dicevano – è stata uccisa una dddoona). Volevano dirmi, senza farlo esplicitamente qualcosa». Per giorni D'Amico si chiede perché? Cosa significavano quelle parole trascinate, suggerite e ripetute con effetto martellante? Poi una notte capisce. «Chi sparò quel giorno – continua D'Amico – uccise una donna per colpire il movimento femminista, molto pericoloso all'epoca. Mirò con precisione sulle giovani studentesse perché era l'unico modo per essere certi di non colpire un “potenziale” collega». Gli scatti di D'Amico ma anche di altri fotoreporter, uno dei quali lavorava per il Messaggero, avevano documentato in maniera incontrovertibile la presenza di uomini dello Stato “travestiti” da autonomi. Colpire una donna dunque, era l'unico modo per essere certi di non fare una vittima fra i corpi speciali schierati in piazza. Le indagini però stabilirono che il calibro di proiettile che uccise la ragazza non fosse fra quelli in dotazione alle forze dell'ordine. Questo spinse a cercare nel cosiddetto “fuoco amico” i responsabili di quell'assassinio. Ma anche su questo aspetto, D'Amico, racconta un aneddoto significativo e che le successive inchieste non riuscirono ad approfondire. « Tempo dopo la morte di Giogiana un appartenente alle forze dell'ordine, uno molto alto in gradi, mi chiese di incontrarlo. Gli diedi appuntamento nel posto più centrale di Roma, in piazza Santa Maria in Trastevere. Mentre lo attendevo, pensai:


Il movimento femminista faceva paura arriverà in borghese! E invece si presentò nella migliore delle sue uniformi, quasi ad ostentare proprio la sua presenza in quel luogo con me. Non passò inosservato, chiaramente». Il colonnello chiese al fotoreporter se avesse avuto altre notizie sul caso “che tanto gli stava a cuore” (si riferiva al delitto Masi, ndr). «Quando io dissi – riprende D'Amico – che tutto si era fermato sull'origine del proiettile, lui mi rispose: non è compatibile con quelli in dotazione ai reparti ma lo è con quelli utilizzati nei poligoni in cui vengono formati i tiratori scelti». Tano D'Amico, dopo molti anni, sembra rassegnato all'impossibilità di sapere come andarono le cose quel giorno. O meglio ancora, una risposta lui se l'è data. Anche se non è quella della giustizia. «Tutti in questi anni hanno puntato il dito contro Francesco Cossiga, all'epoca ministro dell'Interno. Certo. Ma quel delitto a mio avviso fu un “sacrificio umano” chiesto da qualcuno o da tutti per ribadire la centralità dello Stato e delle sue leggi. Se violando il divieto di manifestare ne

fossero usciti indenni, quelli del movimento, sarebbe stata la prova che era possibile “disobbedire” alle regole dello Stato e questo non faceva comodo a nessuno, dal Pci alla Dc». D'Amico ci racconta un ultimo capitolo di questa storia che riguarda l'ultimo confronto con l'allora ex presidente Cossiga proprio sul caso Masi. Tutto si svolge in Rai, durante la trasmissione “Chi l'ha visto” di Raitre a cura di Federica Sciarelli (compagna di classe di Giorgiana Masi) il 23 maggio del 2005. Quel giorno il fotoreporter venne invitato, insieme ad altri, a parlare di questo delitto. «Fu una puntata complicata, anche perché all'improvviso mi fecero sapere di non aver ritrovato nelle Teche della Rai l'edizione di quel Tg in cui Cossiga mentiva circa la presenza di poliziotti in borghese armati. Io ricordai comunque l'episodio e Cossiga, impossibilitato a partecipare per problemi di salute, telefonò in trasmissione. Lo fece ammettendo di aver mentito – continua D'Amico - ma di averlo fatto con l'appoggio di tutto l'arco

parlamentare, da sinistra a destra. Fece anche nomi molti importanti. Io chiosai, nell'imbarazzo generale: ecco chi sono i responsabili dell'omicidio di Giorgiana Masi». Il movimento femminista, la strategia della tensione, il metodo degli infiltrati nei cortei, un'indagine che nessuno è riuscito a portare avanti. Un misterioso colonnello o comandante, non sappiamo con certezza, che suggerisce elementi a favore della pista interna al corpo armato. Ci sono tutti gli elementi in questa storia per farla rimanere sospesa, senza verità. Lo stesso Cossiga nel 2007 dal Corsera dichiarò di essere una delle cinque persone a conoscenza dei responsabili del delitto della Masi ma di non avere intenzione di rivelarli. Raccontata così, con queste ultime parole, la verità su questo delitto sembra destinato a morire con le persone che la custodiscono. Ma poi prima di congedarsi Tano D'Amico commenta: «Negli anni mi sono convinto che quando una verità rimane a lungo negata non è perché la sanno in pochi ma perché la conoscono in molti».

Così mi guardo intorno e trovo una serie di persone, con pistole, spranghe che non venivano fermati da nessuno; solo allora ho realizzato che erano poliziotti “travestiti” /”infiltrati”.

Lo stesso Cossiga nel 2007 dal Corsera dichiarò di essere una delle cinque persone a conoscenza dei responsabili del delitto della Masi ma di non avere intenzione di rivelarli. Raccontata così, con queste ultime parole, la verità su questo delitto sembra destinato a morire con le persone che la custodiscono.

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Un affresco epico, un linguaggio innovativo, una bella avventura intellettuale

Il mondo degli ultimi Alberto Rotondo Il primo ciak grazie alla generosità dei contadini della bassa bresciana e cremonese che hanno voluto recuperare la memoria collettiva che rischiava di perdersi. Un esempio di come fare cultura e politica in una sezione di Rifondazione Comunista senza risorse. Il 1° maggio solo una occasione politica. La proiezione del mondo degli ultimi? Una possibilità per riflettere su un periodo storico abbastanza recente. Un film che ha subito una serie di denunce assurde e pertanto non ha potuto circolare. Festeggiare il Primo maggio proponendo, in collaborazione con il Cinestudio, la proiezione di una rara pellicola, il Mondo degli ultimi di Gian Butturini, non è, per il Circolo Città Futura, soltanto un doveroso tributo alla storia delle lotte contadine in Italia, attraverso la visione di un documento significativo della produzione cinematografica “impegnata” del nostro Paese. Non si tratta di fornire un’oleografica rappresentazione di un mondo scomparso, quella civiltà contadina uccisa nei suoi valori e nelle sue aspirazioni di liberazione, dall’avvento della civiltà industriale prima e dal trionfo del consumismo disumanizzante poi, ma di testimoniare cosa può e deve significare fare cultura e ricostruire una memoria storica collettiva nel mondo atomizzato e diviso di oggi. Il film narra dell’occupazione, nel secondo dopoguerra, della Cascina di Gussola, un grande latifondo del cremonese, e dell’asprezza della lotta che ne scaturì, con la conseguente repressione delle forze dell’ordine al servizio degli agrari e dei loro interessi. Si tratta di una vera opera collettiva "in

quanto ha dietro ogni scena non solo l'occhio allevato e la cultura cinematografica e figurativa dell'autore, ma anche un corredo di annotazioni, puntualizzazioni, focalizzazioni provenienti da decine e decine di collaboratori inclini a suggerire particolari, correggere battute di dialogo, mettere a fuoco gli accadimenti. E’ un procedimento che deriva dai postulati del neorealismo, ma che anche nei ranghi del cinema neorealista è stato adottato con molta, troppa, circospezione e prudenza”, come nota il critico Mino Argentieri in un saggio dedicato, pochi anni dopo la sua realizzazione, alla straordinaria opera di Butturini. Ciò che rende il film particolarmente interessante, a parte l’esemplarità della storia narrata, non dissimile dalle tante storie di occupazione dei latifondi incolti che hanno avuto come teatro anche la nostra terra di Sicilia nell’immediato dopoguerra, è la straordinarietà delle vicende che ne accompagnarono la produzione e che ne segnarono la ristrettezza della diffusione nei circuiti ufficiali e nelle sale cinematografiche; fu necessario abbattere numerosi ostacoli perché essa finalmente venisse alla luce,

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le difficoltà iniziarono già al momento della pre-produzione, per l’impossibilità di reperire finanziamenti adeguati, e fu solo grazie allo straordinario slancio di generosità dei contadini della Bassa bresciana e cremonese, orgogliosi di partecipare al recupero di una memoria collettiva che rischiava di perdersi nell’oblio, che si riuscì a realizzare il primo ciak. Le difficoltà continuarono durante le riprese, il regista le definì un’esperienza talmente totalizzante da fargli diventare i capelli bianchi; il progetto, in totale


Un affresco epico, un linguaggio innovativo, una bella avventura intellettuale coerenza con l’intento dichiarato di dar vita a un processo di creazione collettiva e di riassunzione di identità da parte di un “universo sociale” che fu protagonista e soggetto di trasformazione nella società italiana degli anni Cinquanta, non poteva essere realizzato semplicemente facendo ricorso alla maestria tecnica degli operatori o alla parzialità ideologica del regista: bisognava infatti che risuonasse nella narrazione l’eco della pluralità dei soggetti che ne prendevano parte. Nota ancora Mino Argentieri: "diversamente da parecchi registi, tenuti nel giusto conto come figli e pardi del neorealismo, Butturini tenta l'inesplorata strada della storiografia capillare e di "base", non contrapponendola polemicamente né a quella accademica, né a quella giornalistica, né a quella connessa in modo organico con le organizzazioni sindacali e politiche della sinistra, ma, traducendola dalla originaria forma orale in linguaggio cinematografico, ne conserva i tratti, la tonalità inconfondibile". Il risultato è unico nel suo genere, distinguendosi non soltanto dai prodotti destinati al più basso consumo commerciale ma anche dai grandi capolavori della cinematografia neorealista italiana, in cui, paradossalmente, l’intento ideologico degli autori di rappresentare la realtà nella sua cruda intensità e contro gli stilemi accademici, finisce spesso per diventare nuovo paradigma per porsi a fondamento ideologico di una nuova cinematografia e di una nuova accademia. L’asprezza del dialetto padano, così inaspettatamente vicino ai suoni gutturali dei contadini delle nostre terre di Sicilia, ci restituisce in forma non mediata il senso di una comunità in cui la solidarietà nella lotta e la speranza di contribuire, dopo la Liberazione dal nazifascismo, all’edificazione di una nuova e diversa società, appare in stridente contrasto con l’incertezza paralizzante che sembra contraddistinguere la contemporaneità. Colpisce il racconto dell’inizio della mobilitazione, dopo che i contadini avevano chiesto al padrone di abbattere i

pioppi maturi per ampliare le superfici da destinare alle colture produttive. C’è un senso dell’utilità sociale del proprio lavoro, in grado di essere messo a frutto, a comune beneficio di tutti e in maniera più efficiente, con una diversa e collettiva organizzazione che evidenziasse il carattere parassitario della rendita e desse corpo a un’autentica innovazione nelle strutture sociali e di governo della produzione. Tornano in mente la mobilitazione dei contadini di Partinico che, sotto la guida saggia e illuminata di Danilo Dolci, all’inerzia delle pubbliche amministrazioni che non stanziavano i fondi per la sistemazione della viabilità rurale, rispondevano imbracciando vanghe e picconi e realizzando da sé quanto veniva negato da un potere cieco e asservito agli interessi delle classi dominanti. Un altro esempio che torna alla memoria

è quello dell’orgoglio operaio dei lavoratori comunisti della Fiat, i quali alla fine dell’occupazione della fabbrica nel cosiddetto “biennio rosso“, a testimonianza del fatto che i lavoratori della Fiat erano quelli che producevano anche senza il padrone, avevano fatto firmare dalla direzione un documento da cui risultava come non un pezzo, non un utensile, non un chilo di materiale fosse venuto a mancare durante l’occupazione. Certo, più di un secolo è passato dal biennio rosso e dalle speranze rivoluzionarie dell’inizio del Novecento, la grande crisi del capitalismo in crisi sta determinando ovunque nel mondo una forte ripresa della conflittualità sociale, tuttavia a volte sembrano prevalere negli

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atteggiamenti e nelle pratiche di chi si vuole attore dell’antagonismo politico e sociale un ribellismo distruttivo e neoluddista che stride enormemente con le vicende esemplari delle lotte contadine e operaie del novecento. Viviamo tempi messianici, per utilizzare la notissima espressione di Walter Benjamin: un’autentica catastrofe sociale si sta abbattendo sulle nostre ex società dell’opulenza, in una misura tale da sfuggire alle capacità di comprensione di chi è vissuto in un mondo che sta mutando velocemente, segnando un peggioramento complessivo delle condizioni materiali di esistenza di milioni di donne e uomini del cosiddetto occidente industrializzato. Sbaglieremmo, tuttavia, se interpretassimo questa fase assumendo una prospettiva rozzamente economicistica, negandoci la possibilità di costruire una risposta collettiva adeguata alla gravità dei processi in corso : una catastrofe sociale è un fatto culturale prima che economico, influenzata naturalmente dalla profondità dei processi di sfruttamento economico, ma determinata nella sua complessità da una miriade di altri fattori che ne costituiscono i caratteri. Allo stesso modo sbaglieremmo se pensassimo che sulla base della sola presenza di interessi economici comuni, come la condivisione del disagio sociale che la crisi è destinata ad aumentare, si possano innescare deterministicamente i detonatori della trasformazione sociale e della rivoluzione. Quello che costituisce una classe, una comunità o un popolo sono i vincoli di solidarietà collettiva che disegnano appartenenze, fondano orgogliose sicurezze e fanno sì che in un dato momento storico ci si ponga come soggetti della trasformazione e del progresso. Ce lo insegna la storia del movimento operaio e i contadini in lotta che Gian Butturini ci presenta, nel Mondo degli ultimi, con i toni di un affresco epico e il linguaggio innovativo di una bella avventura intellettuale.


Le vignette di Gianni Allegra Š

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Telejato… abbiamo trasmesso

Telejato Chiuso per legge Nadia Furnari Chiediamo… Il riconoscimento del ruolo sociale delle TV comunitarie (che adesso vengono escluse dalla possibilità di diventare “operatore di rete”), riservando loro una quota nei piani di assegnazione delle frequenze Revisioni dei criteri per l’assegnazione dell’LCN (Logical Number Channel), che relega le televisioni locali ad un posizionamento fortemente penalizzante. … abbiamo chiesto Pino, quale è la situazione ad oggi? Aspettiamo che il ministero, entro il 20 maggio, ci dia una risposta sulla domanda presentata come operatore di rete e come parte di un consorzio di cinque TV. La presenza di Telejato dentro al consorzio però è una cosa anomala perché non siamo una televisione comunitaria. Al forum di Cinisi hai comunicato che sei diventato fornitore di contenuti… che significa? E’ una cosa tutta per ridere perché Telejato potrebbe fornire contenuti ad altre emittenti. In sostanza potremmo realizzare dei servizi e poi chiedere alle altre emittenti di metterli in onda… E secondo te un’altra emittente metterebbe mai in onda i tuoi servizi? Sicuramente no. Telejato ha 310 querele e sicuramente nessuna emittente rischierebbe cause penali o civili… Si può dire che il riconoscimento di fornitore di contenuti è una grande presa in giro? Certo che si può dire. Tutta le legge, così come concepita, è incostituzionale e iniqua pensata per bloccare le voci scomo-

de delle TV comunitarie. Non ci sono riusciti con la legge bavaglio… ci riusciranno con il passaggio al digitale terrestre. Se entro il 20 maggio non arriva nessuna risposta? Telejato chiude. Così come tutte le televisioni comunitarie (sono circa 250 in tutta Italia). Ma il 20 maggio cosa dovrebbe accadere? Telejato, anche se non ha i requisiti per diventare operatore di rete, ha presentato ugualmente la domanda. Siccome la legge parla anche di eventuali “recuperi” in caso di eventuali frequenze libere… allora diciamo che ci siamo messi in lista di attesa. Ma la lista di attesa vale solo per Telejato o per tutti? No. Vale per tutti. Ricordiamo quale era la proposta del 30% ? Su 10 autorizzazioni che venivano date alle televisioni commerciali il 30% delle televisioni locali commerciali dovrebbe andare alle comunitarie.

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Questa proposta non è passata. Perché? Questa cosa non è neanche approdata alla discussione in parlamento. E’ stata l’ennesima presa per i fondelli da parte della politica (in questo caso del centro sinistra) per cercare di tenere a freno le fibrillazioni delle televisioni comunitarie. Ufficialmente quando si spegnerà Telejato? Lo Switch Off inizierà il 1 giugno. Dal 1 luglio Telejato potrebbe non esserci più. Hai detto più volte che andrai in onda lo stesso. Cosa significa? Significa che il primo numero libero nel telecomando noi accendiamo e poi dovranno essere le forze dell’ordine a spegnerci.

Il 20 maggio è passato. Tutto tace. Ad oggi Telejato… HA TRASMESSO.


E’ uscito il 18 maggio per l’editore Coppola,

VENT’ANNI a cura di Daniela Gambino ed Ettore Zanca. In memoria delle stragi del ’92. Racconti, interviste, testimonianze, impressioni, monologhi teatrali e testi di canzone, per non dimenticare le stragi del ’92 in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e i componenti – uomini e donne – delle scorte. Il diario di una partecipazione emotiva, un ritratto di Palermo e del Paese. Emozioni intime che diventano condivise. “(…) Abbiamo provato a riportare e riportarci alla memoria due stragi del 1992 nel modo più dolce possibile. Come riaprire una ferita per curarla meglio, con più amore. (…) Sono venuti fuori ricordi con la sete di giustizia, la voglia di consegnare un mondo più onesto, l’eredità morale (…) la consapevolezza che non c’è ancora un colpevole certo e non ha pagato del tutto chi dovrebbe pagare…” Dalla quarta di copertina firmata da Ettore Zanca Hanno partecipato alla stesura del libro: Salvatore Coppola, Maria Falcone, Rita Borsellino, Ignazio Arcoleo e Roberto Gueli, Letizia Battaglia, Rachid Berradi, Augusto Cavadi, Luigi Ciotti e Raffaele Sardo, Amelia Crisantino, Gaetano Curreri, Giuseppe Di Piazza, Daniela Gambino, Alfonso Giordano, Maurilio Grasso, Stefano Grasso e Corrado Fortuna, Enzo Guidotto, Sebastiano Gulisano, Ferdinando Imposimato, Pina Maisano Grassi e Chiara Caprì, Antonio Mazzeo, Natya Migliori, Marilena Monti, Carlo Palermo e Denise Fasanelli, Aldo Penna, Pippo Pollina, Enrico Ruggeri, Luca Tescaroli, Ettore Zanca. VENT’ANNI a cura di Daniela Gambino ed Ettore Zanca, immagine di copertina di Gaetano Porcasi,

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Coppola editore pag. 128 - 12,00 € collana Linea emozioni. www.coppolaeditore.com 

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Le “Cronachette” di Amalia Bruno ©

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Le “Cronachette” di Amalia Bruno ©

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In nome del pareggio di bilancio…

In Nome del pareggio di bilancio Associazione Antimafie “Rita Atria” L'Italia è oggi colpita da una gravissima crisi sociale e politica. Dalle macerie di (quasi) vent'anni di berlusconismo e di una classe politica in larga parte asservita fin dalla fine della seconda Guerra Mondiale ai poteri forti, dalla NATO a Confindustria, è emerso un governo antisociale, antioperaio e padronale come il governo del "tecnico" Monti. Un governo che sta realizzando la totale cancellazione dei diritti sociali e civili, a partire dai diritti dei lavoratori con lo smantellamento dello Statuto dei Lavoratori. Non dovrebbe sorprenderci una simile deriva dopo che per la diffusa complicità di tutti noi, persi a goderci i frutti dello "sviluppo economico occidentale", abbiamo lasciato che il nostro arricchimento si allietasse dell'impoverimento sociale ed economico della maggior parte della popolazione umana. Abbiamo lasciato che la logica della globalizzazione del liberismo selvaggio e senza regole sottraesse diritti e dignità ad altri popoli, abbiamo consentito che la depredazione delle risorse naturali di altri Paesi venisse consentita dal nostro silenzioso consenso a regimi di feroce tirannia e di violenze antipopolari. Avremmo forse inconsciamente pensato e sperato che tutto ciò non avrebbe influito sulle nostre condizioni sociali ed economiche, ma era un triste inganno. Il liberismo selvaggio con la detenzione del potere e delle risorse in mano di pochi centri elitari ha infatti necessità assoluta di fondarsi sulla corruzione, sulla clientela e sulla negazione e repressione della sovranità popolare. Ecco perché oggi vengono al pettine i nodi della corruzione e del controllo della nostra sovranità, anzi, una grave limitazione della nostra sovranità in favore degli “amici” americani che non hanno mai rinunciato ad avvalersi anche della mafia e di ambienti contigui e conniventi ad essa: nel 1943 per “liberarci”; negli anni della “guerra fredda” per installare i missili; negli “anni di piombo” per far arre-

trare le conquiste sociali e oggi per costruire strumenti di guerra e, quindi, di morte nella nostra Sicilia, con l’installazione, ad esempio, del MUOS nel bel mezzo della riserva naturale di Niscemi (CL). E inoltre, con l'incalzare di una crisi finanziaria che è frutto esclusivo dell'ideologia capitalista, non potevamo non aspettarci la depredazione dei diritti invocati dalla nostra Costituzione come base della convivenza sociale. Il Governo Monti sta dunque svolgendo egregiamente il proprio compito di servire fedelmente l'ideologia liberista. Possiamo solo chiederci se esistano forme di antagonismo concreto ed efficace, se saremo in grado di riappropriarci di quanto oggi si cerca di rinnegare della nostra Costituzione e di scipparci. Perché di fronte ai tanti usurpatori della sovranità non esistono poi molte scelte possibili. O si ha volontà e si è in grado di contrastarlo o dovremo arrenderci all'impudenza della sua politica antipopolare ed anticostituzionale. Il culmine di questo processo è stato realizzato in queste settimane con l'introduzione nella Costituzione del principio del "pareggio di bilancio" (riforma art. 81). Il pareggio di bilancio è un vulnus e un corpo estraneo nella Costituzione. I suoi principi fondamentali sono enunciati nei primi 12 articoli e poi sviluppati nei successivi. Tali principi sono gli stessi che ispirarono la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e la Carta di San Francisco (dalla quale nacque l'ONU). Sono i diritti umani inviolabili, i diritti civili e personali, il rispetto umano, l'uguaglianza, la cancellazione delle discriminazioni di ogni tipo. Sono diritti e principi che tra loro si armonizzano e, insieme, disegnano un'unica costruzione giuridica. Il pareggio di bilancio è tutt'altro, è un principio contabile, economico, ragionieristico. Ha tutt'altra natura. E, soprattutto, può confliggere e contrastare con gli altri. La ricerca dell'uguaglianza sociale non

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potrà mai confliggere con il rispetto del territorio (anzi, addirittura, già nel 1947, i padri costituenti scrissero paesaggio...). Ma le politiche di uguaglianza possono, eccome, confliggere con politiche di perseguimento del pareggio di bilancio. Davanti alla necessità di scegliere tra le due, in caso di bilancio già in pareggio e la necessità di ulteriori politiche sociali, cosa verrà sacrificato? Già il solo porsi la domanda è un vulnus, è lacerare il tessuto costituzionale. Va sottolineato che è un pareggio truccato: per poter redigere in pareggio il bilancio non vengono conteggiate alcune spese, come i contributi al fondo salva-stati. Secondo vulnus, la partecipazione ad un fondo finanziario viene considerata immensamente più importante dell'uguaglianza sociale e delle politiche di lotta alla discriminazione (tanto per fare due esempi)... Il pareggio di bilancio realizza compiutamente il disegno dei poteri forti che, già prima della promulgazione della Carta Costituzionale il 1° gennaio 1948, tentarono di distruggere l'anelito all'uguaglianza sociale, alla libertà e al rispetto di tutti i cittadini del popolo italiano liberato dal NaziFascismo. Un disegno che, prima di ogni altro, colpisce i lavoratori, gli operai e i più deboli. Non è certamente un caso che tutto sia iniziato a Portella della Ginestra, lì dove il 1° maggio 1947 furono massacrati uomini, donne e bambini che stavano celebrando la Festa dei Lavoratori. A Portella della Ginestra oltre che le vittime umane della strage fu tra le vittime il comma primo dell'articolo 3 della Costituzione: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". L'anticomunismo fu il paravento die-


In nome del pareggio di bilancio… tro il quale i poteri forti giustificarono la ragione e il segreto di Stato. E in nome dell'anticomunismo hanno commesso i peggiori crimini, che vanno dalla non tutela dei diritti fondamentali della Persona Umana alla corruzione, ai rapporti tra potere e mafie fino allo stragismo contro il popolo italiano e i migranti. Chi detiene il potere si è messo al di sopra della legge e si è garantito ogni impunità, svendendo la sovranità popolare al governo americano, superpotenza che poteva garantire ai fedeli servitori carriere fulminee, potere e denaro. Da Portella nacque però anche il fiore di una nuova Resistenza per raggiungere l'obiettivo di vivere in un'Italia dove dare completa attuazione alla Costituzione del 1948, affinché vi siano governi che ispirino la politica interna ed estera alla fedeltà costituzionale. Chi si è messo sopra la legge, chi fa affari con le mafie, chi pensa prima di tutto a carriere fulminee e denaro ha sempre avuto come obiettivo di spazzare via la nuova Resistenza nata a Portella. Hanno ammazzato giornalisti, politici, operai, contadini, studenti, sindacalisti, magistrati, avvocati e tutte le vittime cancellate dall'oblio imposto dal potere, protagonisti della nuova Resistenza nata a Portella. Peppino Impastato è uno di questi nuovi partigiani. La crisi dell'impero americano e del capitalismo ha dato l'avvio all'intensificazione della repressione della nuova Resistenza nata a Portella da parte di chi non vuole rinunciare a potere, poltrona e denaro, al proprio tornaconto personale, che comprende anche - se ha eventualmente commesso crimini - di non avere un qualche fastidioso controllo o indagine, perché si sente sopra la legge e pretende l'impunità. Il Governo Monti è oggi l'esecutore di questa repressione, voluta

dai poteri forti ed economici italiani ed internazionali. In nome delle vittime delle mafie, della corruzione, delle stragi a noi spetta di prendere il testimone e proseguire quotidianamente la Resistenza nata a Portella della Ginestra. In memoria dei nuovi partigiani che ci hanno preceduto e sono stati barbaramente uccisi, lasciandoci il testimone di un impegno che oggi deve camminare sulle nostre gambe. Si resiste e si lotta con determinazione quotidiana anche con proposte di leggi che impegnino la Repubblica ad assolvere il compito assegnato dai Padri costituenti, tra cui rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese così come sancito dall'articolo 3 della Costituzione del 1948. C'è un'ultima non meno triste questione che non possiamo esimerci dal sottolineare: i suicidi dei tanti e troppi piccoli imprenditori che si sono trovati nell'angoscia insostenibile di una vita senza prospettive e senza futuro. Essi sono purtroppo le specchio dell'infame destino che il capitalismo selvaggio riserva ai Cittadini, anche a coloro che ha reso più simili a sé per poter ottenere una egemonia assoluta e senza contrasto: la perdita di senso e di futuro.

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Ma non è un caso che la maggior parte di questi suicidi si registrino tra piccoli imprenditori piuttosto che tra gli operai e gli ultimi, i poveri, delle nostre società. Perché sono i poveri coloro che hanno sempre portato il peso della storia ed hanno saputo convivere con l'impoverimento fino alla miseria e sopravvivere, nonostante tutto, alla espropriazione della loro dignità e del loro futuro. Ed è da loro, dalla loro coscienza di essere portatori di una prole a cui è necessario consegnare un futuro più carico di possibilità e di speranze che si sono viste nascere rivoluzioni di dignità e identità, di Cittadinanza e di Diritti Fondamentali. Se i poveri dell'Africa o dell'Asia avessero tutti scelto di suicidarsi oggi forse il capitalismo avrebbe trionfato senza dover temere rivalse della storia. Ma i poveri che riescono a sopravvivere, nonostante tutto, sono la più feroce testimonianza del vero volto del capitalismo e sono la denuncia vivente delle sue false ed idolatriche ideologie. A tutti diciamo dunque: Resistete, non sopprimete la vostra vita ma fatene strumento di denuncia e luogo di cambiamento. Bisogna assumere dunque la dignità dei poveri perché i potenti non possano cullarsi nella presunzione di poter prevaricare impunemente la dignità delle Persone Umane. Non dobbiamo permettere a noi stessi di essere ancora complici della schiavitù con cui si vorrebbe dominarci e mentre siamo umanamente accanto alle famiglie dei tanti suicidi dobbiamo urlare a tutti ed a noi per primi che resistere è un dovere, per dare un senso alle nostre esistenze. E dobbiamo farlo elaborando strumenti e disegnando percorsi alternativi che non si fermino alla sola denuncia del capitalismo ma facciano intravedere anche le possibilità di sfuggire alla sua violenta protervia ed alla sua fiaba affabulatoria di un benessere diffuso ed alla portata di tutti che, se svanisce, ci lascia sperduti e ci induce ad autoeliminarci. Chi ha idee e competenze è ora che le metta in gioco, perché la Resistenza dal NaziFascismo non è nata con la fine di quei regimi ma quando essi erano in auge, ed ha contribuito enormemente alla loro sconfitta fin dal tempo del loro apparente trionfo. Documento Condiviso da Le Siciliane - Casablanca


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