Carlo Fossati, Allestire una mostra

Carlo Fossati

Allestire una mostra

e altre attività felicemente inutili e/static e blank fra il 1999 e il 2018

© 2022 Carlo Fossati edizione curata da Carlo Fossati realizzazione Pinco Pallino L’editore, esperite le pratiche per acquisire tutti i diritti relativi al corredo iconografico dell’opera rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito. tutti i diritti riservati

sommario

Allestire una mostra

1 2 3 4 5

Perché un libro. Entrare nell’opera dove si parla anche di giardini racchiusi, di perotino il grande e di certe case di los angeles in cui si dormiva all’aperto

Gli spazi espositivi. Due luoghi dove entra copiosa la luce del giorno, e par d’essere dentro e fuori nello stesso tempo

Lo spazio espositivo, un organismo vivente dove si parla anche di cubi bianchi, di bill dilworth e di un terrazzo

Una storia senza fine in cui si parla di una o sconfinata, di un’opera segreta e del verso di un insetto invisibile

Lo spazio espositivo come luogo dove qualcosa accade (o potrebbe accadere) una mostra del 2001 che fu molto amata, allestita proprio lì, al 1° piano di via parma 31, interno cortile

6 7 8 9

Andare nello spazio espositivo senza sapere prima cosa ci aspetta qui si parla anche di oum kalsoum, e si rievocano varie apparizioni, a cui assistettero molte persone

Il tempo nello spazio espositivo

ovvero: andare a vedere una mostra per perdercisi dentro dimenticando il mondo là fuori

Cosa fare e come nello spazio espositivo /i dove si parla di feltro e ottone, dei semi di calicanto e di un tondino di ferro lungo circa due metri

Mostre che non stanno ferme e cambiano forma nel tempo /i nella primavera dell’anno 2000 molte cose succedono in via parma 31, anche di notte

10

Muoversi attraverso lo spazio espositivo /i

attraversare spazio e tempo, fra luce e buio, passando per tokyo e la siberia, senza muoversi da via reggio 27

11 Mostre che escono dallo spazio espositivo /i

andare là dove una vecchia signora e un bambino parlano nel buio

12 13 14

Un breve elenco di gesti memorabili

dove si parla di lucernari e pavimenti, di tazze rotte e bottiglie senza fondo

Il boredom (o: la vitalità del nulla)

quando uno spazio espositivo viene abbandonato a sé stesso, e la noia sembra prendere il sopravvento

Lo spazio espositivo come luogo dell’apparizione improvvisa e inaspettata /i

di statue che vengono sorprese dai visitatori increduli mentre si librano in volo nello spazio espositivo

15

Cosa può succedere nello spazio espositivo, prima e dopo l’inaugurazione di una mostra ovvero: in tempi complicati meglio adottare metodi semplici, cercando di trarne il massimo vantaggio

16 17 18 19 20

Lo spazio espositivo come luogo illimitato

storie di acqua, aria, terra e fuoco, camminando con occhi e orecchi aperti

Mostre che non stanno ferme e cambiano forma nel tempo /ii

qualcosa di vivo, arrivato da lontano, la sua crescita è inarrestabile, finché un giorno se ne andrà

Cosa fare e come nello spazio espositivo /ii

colori, profumi e suoni riempiono lo sguardo del visitatore dovunque lo volga

Abitare lo spazio espositivo (o: lo spazio espositivo come casa) /i

di luoghi avvolti nell’ombra, silenziosi o risonanti, e di persone che si addormentano dopo essersi sdraiate su un’opera d’arte

Errando

come arrivare da qualche parte perdendo la strada che si stava percorrendo verso un’altra meta

21

Cosa fare e come nello spazio espositivo /iii

disegnare con gli occhi chiusi, portare il cielo nello spazio espositivo e tracciare mappe per perdersi

22 Mostre che si nascondono alla vista, o si vedono soltanto dopo la chiusura

su altre voci provenienti da stanze buie, e su come alzare le braccia, spiare, accalorarsi, ma in silenzio, senza farsi troppo notare

23

Abitare lo spazio espositivo (o: lo spazio espositivo come casa) /ii

24

Lo spazio espositivo come luogo dell’apparizione improvvisa e inaspettata /ii

stanze silenziose, deserte ma anche affollate, dove ascoltare e guardare il paesaggio fuori e quello dentro

mostre che scompaiono dopo l’inaugurazione, altre in cui qualcuno spegne la luce prima di entrare in azione e qualcun altro appoggia l’orecchio al muro per vedere

25

Mostre che non stanno ferme e cambiano forma nel tempo /iii

26

Altrove, ad esempio nel bosco, lungo il fiume

27

Abitare lo spazio espositivo (o: lo spazio espositivo come casa) /iii

28

Mostre che escono dallo spazio espositivo /ii

29

Allestire opere diverse in un unico luogo

30 31

il luogo era deserto e vuoto, nessuno venne senza portare un fiore, tutti se ne andarono a mani vuote dove accaddero molte cose, e nessuna lasciò traccia di sé il festeggiato non era potuto venire, ma tutti i convenuti sentirono la sua presenza

di quel che si può vedere, o pensare, camminando attraverso il cielo fra due stanze della stessa casa dove si parla anche di stazioni ferroviarie e di riprese cinematografiche affollate, del falso mr. robertson e di montagne in autunno

Muoversi attraverso lo spazio espositivo /ii

su come visitare una mostra può anche essere un esercizio impegnativo, ma appagante

Invitare qualcuno nello spazio espositivo

dove si parla anche di strade di montagna, coperchi di pentole e ruscelli rilucenti nel bosco

32 33 34 35

On the waterfront

un lungo viaggio verso est, fino al mare, per trovare il silenzio fra diecimila rumori

Mostre che non stanno ferme e cambiano forma nel tempo /iv

il caso di una mostra che attraversò l’oceano (e altri casi simili), oppure: mai due volte la stessa cosa

Mostre che escono dallo spazio espositivo /iii

guardare, e vedersi, con gli occhi di una mosca, oppure, quando splende il sole, andare in cerca di uccelli invisibili, guidati dalle loro voci

Il visitatore

dove si parla anche di una certa signora grassa molto attenta e autorevole

Perché un’immagine Appendice Indice dei nomi Cronologia

allestire una mostra

4 Una storia senza fine

Nella primavera del 2018 lavorammo a lungo, e faticosamente, per liberare lo spazio di via Parma 31 entro il 30 giugno, data di cessazione del contratto di affitto, che avevo deciso da tempo di non rinnovare. Ero stato lì per molti anni, in massima parte coincidenti con la storia di e/static, che venne fondato, come “spazio per l’arte del tempo presente”, fra la fine del 1998 e l’inizio del 19991. Molte cose si erano accumulate nel corso del tempo, tante da smentire ogni previsione sulla durata dei lavori di sgombero, e avvicinandosi quella data si poteva sempre meglio vedere lo spazio come era all’inizio, prima della prima mostra di e/static, nel 1999, perfino prima, nella primavera del 1994, quando erano finiti i lavori di ristrutturazione2, i muri erano stati appena dipinti di bianco, il pavimento, da poco ricoperto con una resina color grigio-azzurro, quasi risplendeva; e alle finestre non erano ancora state messe le grandi tende che sarebbero poi rimaste lì a lungo, fino alla primavera dello scorso anno, l’ultima prima di andarmene da lì. Ora le tende non c’erano più, le avevamo tolte da tempo, e lo spazio era tornato vuoto come all’inizio. Così già da qualche mese pensavo a cosa si sarebbe potuto fare prima di 1 Nell’aprile di quell’anno, infatti, lì venne allestita la prima mostra [v. Cosa fare e come nello spazio espositivo /i], alla quale seguirono molte altre, quasi senza soluzione di continuità fino alla metà del 2006. Dopodiché l’attività si sarebbe svolta quasi esclusivamente in via Reggio 27, con qualche eccezione.

2 Per poco più di quattro anni usai lo spazio come studio, finché decisi, all’inizio dell’estate 1998, di farlo diventare uno spazio espositivo, creando e/static.

lasciarlo, e il progressivo ritornare al suo stato primitivo era uno stimolo potente a immaginare qualcosa; direi anzi, ripensandoci, che tutto avvenne da sé, in un certo senso, quasi inintenzionalmente, come se lo spazio stesso ci imponesse di fare quel che poi si fece. Ci sarebbe stato un ultimo allestimento, fatto con pochissime cose, una delle quali sarebbe stata sicuramente il secret work di Terry Fox, realizzato utilizzando le teste di certe grosse viti (ce ne erano in tutto sedici) che spuntavano dal muro lungo: era già lì, dall’epoca della sua mostra, nel 2002 [� 18] e ci sarebbe rimasta anche dopo la mia definitiva partenza. Avevo avuto già da tempo una risposta positiva da Giovanni Anselmo, che avrebbe fatto qualcosa per l’occasione, e avrei messo anche una piccola opera sonora di Julius, prestatami da un collezionista.

Ma il vero protagonista – me ne resi conto ben presto – sarebbe stato lo spazio stesso, nella sua ultima apparizione in quella forma, a prima vista vuoto per chiunque ci entrasse nel giorno dell’inaugurazione, con quasi nulla alle pareti e il pavimento assolutamente spoglio di qualsiasi elemento aggiunto, disponibile soltanto ad accogliere la presenza mobile ed effimera dei visitatori. Trovandomi in Francia nell’aprile di quell’anno, un giorno improvvisamente decisi (o forse, piuttosto, capii) come sarebbe stata, nei particolari, la mostra e quale il titolo, e che sarebbe stata aperta al pubblico per un solo giorno, il 21 giugno, solstizio d’estate, quando la luce naturale, sempre così presente in quello spazio grazie alle cinque grandi finestre e ai tre lucernari sul tetto [� 3], avrebbe avuto la massima durata. Qualche giorno prima diedi la disdetta all’azienda fornitrice dell’energia elettrica, così non sarebbe neppure stato possibile accendere le lampade, anche volendolo fare. Allora la luce del sole si sarebbe davvero

impadronita dello spazio, senza rivali, e l’assenza di un impianto elettrico attivo eliminava comunque qualsiasi, pur minimo, rumore di fondo dovuto alla presenza immanente dell’energia (che ne produce sempre uno, sia pure lieve, anche quando niente viene fatto funzionare). Ciò che avrebbe dato ancora più spazio a qualsiasi suono o rumore proveniente, come la luce, dall’esterno, divenendo ancor più chiaramente udibile stando lì dentro. Tutti questi elementi (insieme, magari, al terribile caldo di quel giorno – c’erano più di 38° lì dentro) contribuirono, io credo, a creare una situazione affatto unica, che venne percepita come tale da molti dei presenti, da alcuni in modo particolare. Lo spazio era come se non avesse più muri, la luce abbacinante (soprattutto nel primo pomeriggio, poco prima dell’apertura ufficiale) dominava incontrastata, e il piccolo disegno di Anselmo, un particolare di INFINITO (contiguamente alla circonferenza minore della O) – ‘catturato’ su un foglio bianco infilato fra due pannelli di plexiglas delle sue stesse dimensioni posto verso il centro della parete in fondo, un po’ più in alto di come generalmente vengono affissi disegni, quadri o fotografie – si perdeva nel bianco della parete e pareva dilatarsi, da lì sconfinando ben oltre i muri, il soffitto, il pavimento, realmente espandendosi all’infinito.

Guardando in quella direzione, appena entrati nello spazio, era a malapena udibile, appena dietro le spalle, proveniente da destra, il flebile verso di un insetto, probabilmente un grillo, o una cavalletta, che emanava quasi incessantemente dal fragile e bruciacchiato speaker di carta posto, in precario equilibrio, su un piccolo cubetto di marmo bianco, tutto ciò – ovvero l’opera di Julius, zykada (small disaster) – appoggiato su una mensola bianca fissata alla parete obliqua opposta a quella del disegno di An-

selmo. Ed era probabilmente un fatto del tutto casuale, per qualcuno fra i visitatori, accorgersi, dopo le altre due, di una terza opera, di Terry Fox, posta in alto sul lungo muro perpendicolare a quello del disegno di Anselmo, di fronte alle finestre. Quei pochi dovevano aguzzare lo sguardo per riuscire a scorgere le piccole lettere scritte a matita, l - a - m - a - g - i - q - u - e - e - t - u - d - e 3 , operazione resa ancor più difficile dalla luce fortissima, che obbligava a strizzare le palpebre, e al caldo insopportabile, che convinse più d’uno fra gli astanti a rifugiarsi nell’ombra relativamente fresca dell’androne a pianterreno.

C’erano lì quel giorno tre opere quasi invisibili, una delle quali, quella di Julius, anche (appena) udibile, un’altra, di Anselmo, lontanissima, sul muro di fondo (circa 15 metri fra le due), la terza, il secret work di Fox, da cercare sul muro di sinistra, dove pure si trovava dal 2002. Ma c’era anche una quarta opera, quella più appariscente e più vasta, che ospitava al suo interno, nel suo stesso corpo, tutte le altre: lo spazio espositivo stesso, visto per l’ultima volta prima di ‘sparire’. E l’opera di Anselmo laggiù espandeva all’infinito il muro su cui era allestita, lo sfondava, anche, uscendo idealmente dallo spazio e quasi facendolo dissolvere.

Dopo quel giorno – 21 giugno 2018, solstizio d’estate – e/static è andata oltre, lontano, lasciando la sua culla una volta per sempre. Per l’ultima volta lo spazio, non soltanto ha fatto sentire la sua presenza, come sempre, ma è diventato a tutti gli effetti uno dei protagonisti della mostra, forse il maggiore.

3 Estratto dalla poesia di Arthur Rimbaud Ô saisons, ô châteaux, contenuta nella raccolta “Illuminations”, del 1886

6 Andare nello spazio espositivo senza sapere prima cosa ci aspetta I would prefer never knowing when you are going to hear something, when you are going to see something.

MORTON FELDMAN, da The Future of Local Music, 1985

Il titolo di questo capitolo è apparentemente (ma anche volutamente) alquanto banale. Non per chi sa che molto spesso, o quasi sempre, si va in un luogo – una galleria, un museo, un cinema o un teatro – sapendo già cosa a cosa assisteremo (così come molti acquistano un libro soltanto dopo averne letto una recensione positiva). Siamo circondati da zelanti informatori che, instancabili, ci dicono sempre tutto prima: cosa succederà, quindi cosa vedremo o udremo, quanto durerà, eccetera. La stessa cosa vale, sempre più, anche per i viaggi in luoghi ‘esotici’ – ormai sempre meno tali – ampiamente anticipati nel pensiero e come previssuti.

Ma le cose potrebbero avvenire, e in un tempo che appare lontanissimo spesso avvenivano, ben diversamente. Per quanto riguarda, nello specifico, una performance, sia pure non ‘artistica’ (ovvero, al di fuori dell’ambito dell’arte visiva), penso ai mitici concerti pubblici della prodigiosa cantante egiziana Umm Kulthum (o Oum Kalsoum, fra le tante diverse traslitterazioni del suo nome nelle varie lingue), che radunavano folle immense di veri suoi adoratori, e la cui durata non poteva essere stabilita in anticipo, variando fra un minimo di un’ora, un’ora e mezza, fino a quattro o cinque ore, se non di più. Lei stessa non sapeva mai bene cosa avrebbe cantato, scegliendo sul momento questa o quella canzone (grazie ovviamente a musicisti di eccelsa leva-

tura, in grado di assecondarla senza problemi) e prolungandola estemporaneamente, a seconda del grado di pathos che si veniva a creare fra lei e il pubblico1. Esiste una rara intervista alla cantante in cui lei dichiara non soltanto di non voler anticipare mai, neppure a sé stessa, cosa farà sul palco, quali canzoni canterà, ma anche di nutrire ogni volta un timore, un senso di ansia e di incertezza, come fosse ogni volta la prima volta – sorprendendo l’intervistatrice, che le fa notare come ciò appaia incredibile, dato lo sconfinato amore nutrito per lei dal popolo arabo. Purtroppo, cose del genere accadono ormai sempre più raramente, sono anzi addirittura temute, nell’era della pianificazione e dell’omogeneizzazione dei gusti, artatamente condizionati e orientati.

Quasi insensibilmente, per molti, troppi, la vita sta sempre più perdendo quegli aspetti di imprevedibilità, incertezza, perfino di rischio (sia pure controllato, o relativamente controllabile) che costituivano, un tempo, gli elementi essenziali per poterla vivere con intensità e liberamente, esponendosi indifesi/disarmati e impreparati all’inatteso e al nuovo.

Durante il mese di marzo 2010, tre presentazioni a blank, nel giro di circa tre settimane, segnarono l’esordio del progetto campo volo, che andò avanti, sia pure con cadenza irregolare degli appuntamenti, per quasi due anni e coinvolse in massima parte artisti torinesi o che comunque avevano relazioni strette con 1 Qualcosa di simile si racconta che sia accaduto negli studi di registrazione newyorkesi on cui si tenne la seduta di registrazione di Sad-eyed Lady of the Lowlands, di Bob Dylan, un episodio evocato dal sottoscritto nel testo Pesce Khete, pubblicato su “My heart beat like a hammer”, nel 2018 (ed. leppi lampi labors, Torino).

l’area torinese. Era regolato da poche norme piuttosto rigide: ogni mostra doveva durare per il solo giorno della presentazione, quindi due ore, due ore e mezza al massimo; l’autore doveva essere presente, tassativamente; le opere presentate (spesso si trattava di una sola) dovevano essere del tutto nuove, o quanto meno inedite, e non venivano mai fatte anticipazioni sulle loro caratteristiche, men che meno sarebbero state diffuse immagini in anteprima2. L’idea era quella di attrarre il pubblico puntando soprattutto sulla curiosità, e di attivare quindi la sua attenzione durante la presentazione, sapendo che quella sarebbe stata l’unica occasione disponibile per vedere quel particolare allestimento, dato che sarebbe stato smontato già il giorno dopo. Come si sa, da tempo l’inaugurazione di una mostra viene considerata da molti anche e soprattutto come l’occasione per vedere altre persone convenute. L’attenzione verso le opere è spesso modesta, la distrazione prevale, la concentrazione latita, ed è normale vedere persone che a un certo punto salutano (quando salutano) e se ne vanno dicendo «Tornerò con più calma!». Ciò che poi non avviene quasi mai3. Invece, in ognuno degli appuntamenti di campo 2 La ‘dichiarazione di intenti’ pubblicata sul sito di e/static recitava infatti, “Il pubblico di campo volo assisterà ogni volta a un evento epifanico, unico e irripetibile, confrontandosi con l’autore, la cui presenza sarà osmotica con la stessa presenza dell’opera. Opera che in qualche caso potrebbe nascere sotto gli occhi degli astanti, e verrà comunque sottratta alla loro vista al termine di ogni appuntamento. Campo volo è un’area dai confini incerti, creata a partire da un concetto sfuggente e indicibile, in cui azione e inazione, luce e buio, interno ed esterno tendono a incrociarsi stabilendo associazioni impermanenti”.

3 Peraltro, io sono convinto che sia soprattutto la prima impressione, il primo sguardo rivolto verso qualcosa o qualcuno, a contare, perché non l’abbiamo mai visto prima, e non conoscendolo abbiamo un’occasione (che potrebbe essere l’unica) di vederlo com’è.

volo si poteva percepire un diverso atteggiamento da parte dei visitatori, molto più attenti e concentrati del solito. Sapendo che avrebbero visto qualcosa per la prima volta, e poi forse mai più, tutti cercavano di vedere e ascoltare con grande intensità, quindi, indubbiamente, le mie aspettative furono soddisfatte. Soprattutto la prima volta, con l’intervento di Alis/Filliol, il successo fu davvero notevole, e ciò che avvenne rimane memorabile [� 24].

Ma fu straordinario anche l’appuntamento del novembre successivo, con la performance di Giovanni Morbin [� 14]. E considero anche la presentazione del video di Alessandro Quaranta, Mosca / Fly, che chiuse la serie, fra quelle meglio riuscite, per le sue caratteristiche di intervento site-specific molto sottile, e altrettanto leggero [� 28].

Tirando ora le somme, dopo circa sette anni dall’ultima presentazione del ciclo – e nove anni dopo la prima4 – direi che ad essere stimolato, in chiunque raccolse l’informazione e decise di venire a blank, fu soprattutto il desiderio, e anche la speranza, di vivere un’esperienza unica e irripetibile, assistendo a un’apparizione di cui conosceva, oltre al nome dell’artista, soltanto il luogo in cui sarebbe potuta accadere, nient’altro.

4

Questo testo è stato scritto nel 2019.

14 Lo spazio espositivo come luogo dell’apparizione improvvisa e inaspettata /i

La sera del 5 novembre 2010, nello spazio blank di via Reggio 27 ci fu la performance Lid, di Giovanni Morbin, un nuovo episodio della serie di campo volo, inaugurata da Alis/Filliol nella primavera dello stesso anno [� 6, 24]. A partire dalle ore 21 circa, le persone, dopo essere entrate a blank, arrivavano nei pressi di una piccola stanza illuminata e apparentemente vuota, subito dopo averne attraversata un’altra con diverse opere alle pareti. Se si guardava dentro prima di entrare non era possibile vedere nulla, e si seppe poi che qualcuno non ci entrò proprio. Varcando la soglia, qualcun altro avrà gettato un rapido sguardo alle pareti, e vedendole vuote sarà subito uscito. Bisognava alzarlo, lo sguardo, verso il soffitto, per poter vedere, sospesa a poco meno di quattro metri da terra, una figura umana assolutamente immobile, braccia e gambe distese, diritte e ferme, lo sguardo fisso verso qualcosa che nessun altro poteva vedere, oltre il muro che gli stava di fronte (in verità, un angolo acuto fra due muri). Molti riconoscevano Morbin, e un sorriso affiorava spesso sulle labbra di qualche visitatore, ben sapendo dell’attitudine eccentrica e audace del performer, che riesce ogni volta a stupire con le sue azioni e con le sue opere. Altri no, non sapevano chi fosse, e ci fu chi rimase incerto – anche dopo, uscendo dalla stanza – sulla natura dell’apparizione, e soprattutto della figura appesa al soffitto: era vivo? O forse, chissà, si trattava piuttosto di una statua di cera, o magari una di quelle sculture cosiddette iperrealiste in voga negli

anni ’70. Altri, pur percependo la vitalità della figura, si stupivano bensì della sua fissità, e sostavano a lungo ansiosi di cogliere un movimento, un batter di ciglia, il rumore di un respiro, un segno che li rassicurasse. Perché se quello era un essere umano, in carne e ossa, come mai non si muoveva? In che modo riusciva a stare lassù, fermo, come librandosi in un cielo immaginario?

Ci fu poi chi, guardando in alto verso il soffitto, ma stando sulla soglia, accortosi in tempo di quella presenza inquietante, non entrò, e rimase lì per qualche secondo non osando avanzare. E uno dichiarò poi che Giovanni gli era parso davvero «morto» (era qualcuno che lo conosceva molto bene, e non sapeva nulla di questa performance).

Morbin – che era effettivamente appeso al soffitto – aveva scrupolosamente preparato la sua performance, fabbricando anche un bustino di gesso (rinforzato) che indossò quella sera, insieme a un’imbragatura, e che serviva ad attenuare la pressione del suo stesso peso sul torace, permettendogli anche di respirare agevolmente. Aveva poi individuato i punti del suo corpo, e degli arti, dove inserire degli occhielli – fissati bensì, ovviamente, alla complessa imbragatura – che sarebbero serviti, facendogli passare dentro del robusto filo di ferro, per agganciarsi a nove tasselli saldamente fissati al soffitto. Alcuni membri di del gruppo Diogene1, dopo aver installato nella stanza un trabattello munito di ruote, appesero Morbin al soffitto, agganciandolo ai nove tasselli.

Sarebbero stati loro stessi a intervenire alla fine della performance, circa due ore dopo, rimontando velocemente il trabattello per 1 Il progetto, un’idea originale di Giovanni Morbin, fu curato da me in collaborazione con i ragazzi di Diogene.

Giovanni Morbin durante l’allestimento di Lid, novembre 2010

liberare il performer, ormai giunto al limite della resistenza dopo tanto tempo trascorso in condizioni così difficili, diciamo pure punitive. Lo stesso Giovanni Morbin, come convenuto in anticipo, fece un segno per farci capire che era giunto il momento di farlo scendere da quella scomodissima posizione, lassù contro il soffitto.

Esiste un video che documenta la performance nella sua interezza, girato con una videocamera posta a poca distanza dal punto in cui si trovava Morbin, in modo tale da riprendere le reazioni di tutti coloro che entrarono nella stanza, a naso in sù, osservandolo. Perciò egli non compare nelle immagini, e la sua figura distesa, quasi aderente al soffitto, aveva effettivamente soltanto una funzione strumentale: è il video2 il vero residuo rappresentativo dell’opera, che si può considerare in pratica come realizzata da tutti coloro che, ignari di essere ripresi da una cosiddetta videocamera di vigilanza, vi compaiono. Per una volta, il pubblico convenuto per assistere a una performance annunciata scopriva di essere il vero performer, mentre quello ‘ufficiale’ serviva in pratica per attrarre tutti coloro che, involontariamente e inconsapevolmente, avrebbero preso il suo posto al centro della scena, così come verrà appunto documentato dal video.

2 Quella sera le immagini venivano diffuse in presa diretta da uno schermo allestito nella sala espositiva adiacente, frammisto ad altre opere di una mostra collettiva.

25 Mostre che non stanno ferme e cambiano forma nel tempo /iii

La parte ‘indoor’ della mostra di Akio Suzuki del 2006 [� 34, 16], hana, gliela proposi io stesso dopo aver notato un’immagine dell’opera su un libro/catalogo di qualche anno prima. Era una fotografia in bianco e nero, mi incuriosì, vi si vedeva un vaso di terracotta dalla forma semplicissima, essenziale, appoggiato su una base di legno bianca, a sua volta affatto semplice, priva di qualsiasi orpello. Dal vaso spuntava un ramoscello fiorito, e appresi, leggendo la descrizione dell’opera, che ogni giorno, durante l’intera durata dell’esposizione, il ramoscello sarebbe stato sostituito – probabilmente dal personale del museo – con un altro fiore, fresco. Avevo avuto la sensazione, parlandone con Akio Suzuki e altre persone a lui vicine, che il primo – e unico – allestimento pubblico di hana, nel 1997 in Germania, non lo avesse del tutto soddisfatto. Così, la mia proposta di riallestirla a Torino, dopo tanti anni, dovette suscitare il suo interesse, proprio perché teneva molto all’opera, che considerava un lavoro sonoro, ovvero la rappresentazione visiva di un suono gettato nello spazio. Io avevo in mente una certa idea, e siccome volevo evitare che la mia proposta gli apparisse come un’imposizione, o comunque qualcosa che potesse travisare il senso dell’opera, la rivolsi, in inglese, a Junko Wada, sua ex-moglie, che a quell’epoca continuava a seguirlo, aiutandolo nei rapporti di lavoro al di fuori del Giappone, perché gliene parlasse nella loro lingua. Con mio sollievo (mi ero preparato anche a ricevere un rifiuto) la risposta