Made in italy libro - il libro

Made in Italy I.I.S.”EINSTEIN-NEBBIA” Loreto (AN)

Made in Italy I.I.S.”EINSTEIN-NEBBIA” Loreto(AN)

(capitolo uno) INTRODUZIONE

Il programma ministeriale “Made in Italy”e il progetto “Youth health, the italian food way” Il progetto “Youth health, the Italian food way” nasce nell’ambito del Programma ministeriale “Made in Italy. Un modello educativo”, che si prefigge di accompagnare la scuola italiana nella comprensione del “Made in Italy”, ricercandone le radici storiche, economiche, culturali e territoriali.

Alla base vi è la necessità di rendere visibile anche quello che solitamente dei prodotti non si riesce a percepire in modo immediato, vale a dire la storia, le relazioni, le tradizioni, e che permette una conoscenza piena della cultura italiana nel suo complesso. Questo processo conoscitivo favorisce il senso di appar tenenza e familiarità e, di conseguenza, il desiderio di tutela e valorizzazione del “Made in Italy”. A tal proposito, si sono volute proporre iniziative in grado di ricostruire e mettere in luce le radici culturali del territorio attraverso l’enogastronomia, i prodotti agroalimentari e la loro valorizzazione, al fine di diffondere nei giovani e nelle loro famiglie i principi di una sana alimentazione, attraverso la riscoperta delle tipicità, delle tradizioni e la ricerca e la progettazione di buone pratiche alimentari.

Il progetto, nell’ottica di potenziare il dialogo tra le scuole, ha coinvolto diversi par tner : l’I.I.S. “Einstein-Nebbia” di Loreto, l’I.I.S. “Salvati-Pieralisi” di Pianello di Monterober to, l’I.C. “Solari” di Loreto e l’Enfap Marche. Le attività svolte hanno riguardato l’approfondimento della capacità di orientare le produzioni agricole e alimentari, valorizzando e rispettando il paesaggio e la tradizione; la messa a sistema della diversità facendola diventare una risorsa imprescindibile; l’educazione a un’adeguata alimentazione per favorire sani stili di vita; la valorizzazione della conoscenza delle tradizioni alimentari, come espressioni culturali di natura etica, sociale ed etnica; la proposta di un nuovo approccio allo studio: l’enogastronomia è stata rivisitata in relazione alla storia, alla geografia, alla cultura, agli usi e alle tradizioni, che ne hanno determinato la tipicità territoriale. I punti cardine del progetto sono stati i seguenti: Territorio, Tradizione, Tipicità, Trasparenza, Tracciabilità.

Gli studenti della scuola capofila, ovvero dell’Istituto “Einstein-Nebbia”, si sono occupati di progettare le fasi di trasformazione alimentare tipiche della gastro5

nomia; inoltre, hanno analizzato le caratteristiche nutrizionali di alcuni dei prodotti utilizzati in cucina. I ragazzi dell’Istituto Agrario “Salvati” hanno definito le tipicità agroalimentari, analizzando l’intero processo di trasformazione dei prodotti, secondo i principi di trasparenza e tracciabilità. Gli studenti dell’Istituto comprensivo “Solari” sono stati coinvolti in una ricerca delle ricette tipiche dell’Ottocento e nella preparazione di alcuni alimenti, in modo da poter comprendere i principi di un’alimentazione sana e genuina, par tendo dalle materie prime, fino ad arrivare al prodotto finito.

Nel corso del progetto, il 17 maggio 2016, si è tenuto un primo evento molto significativo: una conferenza in cui alcuni esper ti di enogastronomia hanno parlato del valore del “Made in Italy” relativamente all’alimentazione. A conclusione del seminario, è stato organizzato un pranzo preparato con i prodotti coltivati dall’Istituto Agrario e cucinato dagli studenti dell’Alberghiero. Il giorno precedente all’evento, i ragazzi della scuola media hanno preparato, insieme ad alcuni studenti del “Nebbia”, crostate e dolci.

Il percorso ha avuto come filo conduttore l’Ottocento, secolo in cui le tradizioni millenarie della cultura contadina non avevano ancora subito i cambiamenti dovuti al crescente processo di industrializzazione, che ha interessato il secondo dopoguerra. La riscoper ta e lo studio di alcuni illustri personaggi marchigiani, Antonio Nebbia, Giacomo Leopardi e Gioacchino Rossini, hanno rappresentato l’occasione per mettere in luce e approfondire il legame che unisce cultura ed enogastronomia.

A conclusione del progetto, il 25 novembre 2016, nella stupenda cornice di Villa “Salvati”, si è tenuto il Gran Galà “Le Marche romantiche”, una serata in stile ottocentesco, allietata da un banchetto preparato con le ricette della tradizione e rallegrata da musiche e balli d’epoca.

6

(capitolo due) IL TERRITORIO

La Regione Marche: caratteristiche storico-geografiche, ambientali e culturali La conoscenza del territorio è fondamentale per comprendere come talune tradizioni e tipicità si siano sviluppate nel corso dei secoli, in relazione alle caratteristiche ambientali, storiche e culturali di una precisa area. Nel caso della regione Marche, la varietà dei prodotti tipici in ambito enogastronomico è stata determinata dalle molteplici sfaccettature che riguardano il paesaggio, la cultura, le tradizioni e l’ar te di questo luogo definito, non a caso, da Guido Piovene “l’unica regione al plurale”. Le Marche, il cui nome deriva dal termine germanico “Mark”, usato per indicare le zone di confine con il Sacro Romano Impero, nascono in effetti dall’unione di diverse realtà territoriali, come la Marca Superiore o Camerinese, la Marca Anconetana, la Marca Fermana, il Ducato di Urbino e il Principato di Pesaro, unificate da un comune processo storico.

La Regione è principalmente occupata da territorio collinare e montuoso e, in misura minore, da pianure. I suggestivi rilievi, tipici della catena degli Appennini, digradano dolcemente fino ad assumere l’aspetto di sinuose colline, che scendono armoniosamente verso il litorale costiero, caratterizzato da spiagge sabbiose o ghiaiose, intervallate dalle coste alte e frastagliate del promontorio del Cònero. Tutta la regione è attraversata perpendicolarmente da fiumi che, attraverso i secoli, hanno formato delle splendide valli, in cui l’uomo si è insediato per dare impulso ad attività produttive sia agricole che ar tigianali e industriali. Il paesaggio è caratterizzato dalla mancanza di grandi centri urbani e dalla presenza, invece, di città di medie dimensioni e di piccoli borghi di impianto medievale, arroccati sulle colline. L’ambiente rurale e montano è costellato di case coloniche e di piccoli appezzamenti di terreno, che rievocano la vita e le tradizioni del passato e la fatica secolare della lavorazione del suolo, necessaria per coltivare i pendii collinari. La costa invece ha subito un maggiore sviluppo industriale e le molte cittadine affacciate sul mare sono diventate impor tanti stazioni balneari e luoghi di for te attrazione turistica.

Per molti secoli, l’economia marchigiana si è basata essenzialmente sull’agricoltura, improntata principalmente sul rappor to mezzadrile mentre, soltanto nel secondo dopoguerra, l’industria ha acquisito un peso impor tante. Oggi, 9

nonostante la limitata potenzialità dell’agricoltura marchigiana, dovuta alla scarsa fer tilità del terreno e alla difficile conformazione del territorio, si sono sviluppate aree colturali specializzate nelle pianure costiere e nelle valli del Metauro, dell’Esino, del Tronto e dell’Aso. Le principali produzioni riguardano il frumento, in prevalenza grano duro, il girasole, la barbabietola da zucchero, gli or taggi, come cavolfiori e finocchi, la frutta, in par ticolare le susine, la viticoltura e l’olivicoltura. L’allevamento di tipo industriale non è molto diffuso. La pesca invece è un’attività molto sviluppata e i suoi centri più impor tanti sono Ancona, Civitanova Marche, Por to San Giorgio e, soprattutto, San Benedetto del Tronto, uno dei maggiori por ti pescherecci italiani.

Nelle Marche la cultura e l’ar te hanno avuto un ruolo molto rilevante in passato, testimoniato oggi dalla presenza di oltre duecento musei, sparsi su tutto il territorio, e più di cento teatri, di cui settantuno storici. Attualmente la Regione è sede di manifestazioni di pregio, come il “Rossini Opera Festival”, che si tiene ogni anno a Pesaro, dedicato al celebre compositore nativo del luogo; la stagione lirica dello Sferisterio di Macerata, che ogni estate ospita opere molto impor tanti; le giornate di studio leopardiane, che si tengono ogni anno a Recanati, città natia di Giacomo Leopardi, cui par tecipano esper ti da ogni par te del mondo. La Regione è sede anche di università di antica fondazione, come gli atenei di Camerino, Macerata, Urbino e Ancona. Molte sono le aree archeologiche picene e romane, tra le quali si citano quelle ubicate a Urbisaglia, Sassoferrato, Cupra Marittima, Falerone, Fossombrone, San Severino Marche e Castelleone di Suasa; interessanti resti romani sono presenti nella città di Ancona, che custodisce anche tracce del villaggio piceno e della fondazione greca del sec. IV a. C. Le numerose chiese e abbazie sparse su tutto il territorio regionale sono la testimonianza di quanto sia stata fiorente l’ar te romanica, caratterizzata da influenze lombarde e bizantine; splendidi esempi sono il Duomo di San Ciriaco ad Ancona, il Duomo di Osimo, le chiese di San Claudio al Chienti a Corridonia e di Santa Maria a Piè di Chienti a Montecosaro e le stupende abbazie cistercensi di Santa Maria in Castagnola, a Chiaravalle, e di Chiaravalle di Fiastra, nei dintorni di Urbisaglia. L’espressione più alta della cultura rinascimentale marchigiana è il Palazzo Ducale di Urbino, il cui centro 10

storico, nel 1998, è stato dichiarato dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità.

In questa splendida città vi lavorarono grandissimi ar tisti, come Piero della Francesca, Melozzo da Forlì, Francesco di Giorgio Mar tini, che influenzarono la formazione di due importanti ar tisti marchigiani: Bramante e Raffaello. Lo sviluppo della cultura rinascimentale nelle Marche ebbe anche un impor tante riflesso sulla costruzione della Basilica della Santa Casa di Loreto, da secoli impor tante meta di pellegrinaggio poiché, secondo la tradizione cristiana, custodisce la casa di Maria di Nazareth.

Anche le tradizioni sono molto sentite nelle Marche, tanto che gli usi e i costumi del passato sono rimasi in vita in alcune rievocazioni storiche, come la “Giostra della Quintana” di Ascoli Piceno, la “Corsa alla Spada” di Camerino e la “Disfida del Bracciale” a Treia. Le feste legate al mondo agricolo, invece, sono rappresentative della vita di un tempo, in cui i riti pagani si mescolavano alla sacralità del sentimento cristiano: ancora oggi a Macerata si celebra la “Festa delle Canestrelle”, in cui sfilano in cor teo carri infiorati, per recare in omaggio sacchi e ceste di grano al Santuario della Madonna della Misericordia. Durante il periodo di Carnevale, l’evento più famoso si svolge a Fano, con una grande parata di carri allegorici. Molto suggestivo è anche il Carnevale di Offida, in cui si tiene la sfilata dei “vlurd”, termine dialettale con cui si indicano dei fasci di canne, che vengono accesi al tramonto per poi essere lasciati ardere in un grande falò. Tra le feste religiose, par ticolarmente suggestive sono le processioni del Venerdì Santo, tra cui si segnalano quella che si tiene a Cantiano e la “Bara de Notte” di Por to Recanati. Legata a un fatto miracoloso è la “Festa della Venuta”, celebrata a Loreto nella notte tra il 9 e il 10 dicembre con l’accensione di falò, per ricordare la miracolosa traslazione, per mano degli angeli, della casa di Nazareth. Numerosissime sono le sagre, in cui è possibile degustare alcuni prodotti tipici marchigiani. Anche i canti e le danze popolari, di cui la più tipica è il saltarello, raccontano usi e costumi tipici della Regione, attraverso un ricco reper torio di musiche e canti, come stornelli, dispetti e filastrocche. Un altro aspetto che documenta quanto le tradizioni siano vive nelle Marche, è l’ar tigianato, spesso di antichissima origine, come quello legato alla produzione della car ta di Fabriano, della ceramica 11

di Urbania, dei merletti e pizzi di Offida e della fisarmonica di Castelfidardo.

Data la peculiarità della Regione e delle sue risorse ambientali, paesaggistiche e culturali il turismo è molto sviluppato, soprattutto quello balneare. Tuttavia, negli ultimi anni si sta diffondendo una crescente valorizzazione di alcuni percorsi enogastronomici, in par ticolar modo quelli legati alle produzioni vinicole e alla bellezza delle aziende site nell’entroterra anconetano, maceratese, ascolano e urbinate. Le colline marchigiane sono state il luogo in cui si è sviluppata la cultura contadina, di cui si sono ereditati odori e sapori che si ritrovano nelle specialità culinarie, le quali rievocano la vita e i valori del passato e il gusto antico delle cose genuine. Nei musei della civiltà contadina, oggi allestiti in diverse località, è possibile osservare gli attrezzi dei mestieri tradizionali, come il telaio e il filarello, il biroccio e le prime macchine agricole. Le città d’ar te presentano splendide piazze, sulle quali si affacciano eleganti palazzi signorili, come Piazza del Popolo ad Ascoli Piceno o l’ellittica piazza di San Severino.

Dal punto di vista naturalistico, la Regione presenta scenari suggestivi, come quelli del Parco Nazionale dei Monti Sibillini e del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga; notevoli anche il Monte Carpegna, il Sasso SimoneSimoncello, il Colle San Bar tolo, le coste alte e frastagliate, alternate a spiaggette appar tate e selvagge, del Monte Cònero, e le meravigliose e suggestive Grotte di Frasassi.

12

PRESENTAZIONE DEI PARTNER E DEL LORO RUOLO NEL TERRITORIO L’Istituto d’Istruzione Superiore “Einstein-Nebbia” L’Istituto d’Istruzione Superiore “Einstein-Nebbia” di Loreto è nato dalla fusione tra l’Istituto Alberghiero “A. Nebbia” e l’Istituto Tecnico Commerciale “A. Einstein”, avvenuta nel 2000.

Nel corso del tempo, vista la crescente impor tanza acquisita dalla formazione professionale dei giovani nel settore turistico-alberghiero, l’Istituto ha subito una forte espansione. Per questa ragione, nel 2006 si è avuta l’esigenza di lasciare la sede di via san Francesco per stabilirsi in un edificio di nuova costruzione, con attrezzature alberghiere di ultima generazione, realizzato anche grazie all’impegno della provincia di Ancona. La scuola è stata intitolata ad Antonio Nebbia, noto cuoco marchigiano, autore del manuale di cucina Il Cuoco maceratese, per sottolineare il suo legame con il territorio e le sue tradizioni.

Grazie alla sua crescita esponenziale, l’Istituto ha assunto un ruolo chiave nell’area circostante, tanto da accogliere e servire personaggi illustri, come Papa Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI, giunti a Loreto per visitare il Santuario Mariano.

La scuola offre ottimi sbocchi professionali ai giovani che intendono affermarsi in una professione moderna, dinamica e ricca di grandi oppor tunità di lavoro, sia in Italia sia all’estero. Nel triennio sono previsti quattro indirizzi di differente specializzazione: Servizi per l’Enogastronomia, Servizi per l’Enogastronomia, opzione Prodotti dolciari ar tigianali e industriali, Servizi di Sala e di vendita, Servizi per l’Accoglienza turistica. Inoltre, la scuola offre anche l’oppor tunità di frequentare un corso serale, di durata triennale, valido per il conseguimento della qualifica di Cuoco o di Operatore ai servizi di sala e bar e, quindi, del diploma di Tecnico dei servizi ristorativi, cui si accede dopo l’acquisizione della qualifica professionale.

L’Istituto Tecnico Commerciale “A. Einstein” opera da più di 40 anni nel territorio di Loreto. È stata quindi la prima scuola superiore del Comune, nata dalla ferma volontà dei cittadini. Con la riforma dell’Istruzione Tecnica, è diventato 13

Istituto Tecnico Economico “Einstein” e comprende due indirizzi del settore economico: Amministrazione finanza e marketing, avviato nell’anno scolastico 2010-2011, e Turismo, avviato nell’anno successivo.

Il principio basilare dell’Istituto “Einstein-Nebbia” è la valorizzazione della diversità e dell’inclusività, attraverso la realizzazione di progetti per incentivare la piena realizzazione di ciascun allievo. Gli studenti di entrambi gli Istituti hanno avuto occasione di distinguersi in diversi campi, ottenendo ottimi successi in alcuni concorsi di cucina, pasticceria, gare nazionali e internazionali.

L’Istituto organizza, ormai da diversi anni, progetti e scambi con scuole e istituzioni estere, finanziati con borse dell’Unione europea. Attualmente, è l’unico nelle Marche ad aver ottenuto la car ta VET per il progetto Erasmus+ KA1 VET #TwittasticPRO, che garantisce aggiornamento, formazione professionale e sviluppo di imprenditorialità, grazie alla mobilità degli studenti presso prestigiosi partner europei e d’oltremare.

La scuola ha ottenuto e vede riconfermata ogni anno la Certificazione UNI EN ISO 9001:2008, per la progettazione ed erogazione dei servizi d’istruzione superiore, formazione e orientamento degli indirizzi Alberghiero e Commerciale.

L’Istituto d’Istruzione Superiore “Salvati-Pieralisi” Per molti anni l’Istituto professionale “S. Salvati” è stata l’unica scuola professionale per l’agricoltura delle Marche; tutti gli altri Istituti Agrari, infatti, erano di tipo tecnico e, solo recentemente, alcuni di essi hanno attivato dei percorsi professionali.

L’origine dell’Istituto “Salvati”, si deve proprio al nome che lo contraddistingue, Serafino Salvati (1879-1924). I Salvati, famiglia di proprietari terrieri, si stabilirono a Monte Roberto (AN) nel 1750 e fecero realizzare, all’inizio dell’Ottocento, dall’architetto Giuseppe Camporesi, una villa in stile neoclassico, allora chiamata “Casino di villeggiatura”. Da sempre, oltre ad essere la sede originaria della scuola, la villa è anche il simbolo distintivo dell’Istituto, presente quindi nel suo logo, così come sulle etichette dei prodotti alimentari che l’azienda agraria annessa produce. Come dimostrato dalle immagini che adornano gli interni della villa, affreschi e stucchi raffiguranti i prodotti dei campi, i Salvati erano i protagonisti dell’imprenditoria agricola e industriale del luogo. Lo stesso Serafino aveva frequentato la scuola di agrimensura e, non avendo eredi diretti, stilò un testamento nel quale donava i suoi beni, la villa e le terre limitrofe, allo Stato, con la clausola che il governo si impegnasse a fondarvi una scuola per la formazione in agricoltura, con sede nella sua villa di Pianello di Monte Rober to.

Grazie alla “Fondazione Salvati”, che ancora oggi tutela il patrimonio testamentario, nel 1935 par tirono i corsi professionali di durata annuale della Scuola Pratica di Agricoltura. Nel 1960 nacque l’Istituto Professionale di Stato per l’Agricoltura, che inizialmente aveva durata biennale e rilasciava un diploma di qualifica; in seguito vennero attivati anche corsi post-qualifica, finalizzati al conseguimento del diploma di maturità professionale per Agrotecnico. Per favorire la frequenza degli studenti che volevano formarsi in agricoltura, vi erano sparse nella Regione diverse sedi coordinate mentre, per chi intendeva conseguire il diploma quinquennale nella sede centrale di Pianello Vallesina, vi era la possibilità di alloggiare nel convitto annesso. Per un migliore inserimento nel mondo del lavoro, nacque anche l’albo professionale degli Agrotecnici.

Vista la crescente necessità di occuparsi in agricoltura anche del problema 15

ambientale, oltre che di quello produttivo, al nome dell’Istituto si aggiunse successivamente la parola “Ambiente”. Essendo di piccole dimensioni, la scuola perse l’autonomia e venne annessa all’I.P.S.I.A. di Jesi, con cui attualmente forma l’Istituto di Istruzione Superiore “Salvati-Pieralisi”.

Con la riforma della scuola superiore, per rispondere al meglio alle esigenze del territorio, sono nate due nuove qualifiche regionali e il diploma quinquennale ha preso la denominazione di Servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. Recentemente, forse per un maggiore interesse verso il settore agricolo, sono aumentate le iscrizioni degli studenti ai corsi e l’Istituto ha realizzato degli ampliamenti con aule e nuovi laboratori, anche in considerazione del fatto che Villa Salvati, dopo i lavori di restauro, non ospita più le aule al suo interno. Tra i laboratori utilizzati per approfondire la preparazione degli studenti verso un’agricoltura moderna, un ruolo importante è quello dell’azienda agraria che si sviluppa intorno alla scuola per una superficie complessiva di circa quaranta ettari.

La scuola si trova nel territorio della media valle dell’Esino. Varie sono le colture attuate nell’azienda dell’Istituto, grazie ai fer tili terreni pianeggianti di fondo valle, come ad esempio cereali, colture or ticole da seme e foraggere, olivo, vite, piante da frutto. Inoltre, grazie alla disponibilità dell’acqua di falda, si coltivano anche prodotti or ticoli freschi per l’industria conserviera e produzioni intercalari tra due colture principali. L’Istituto “Salvati” par tecipa ad alcune manifestazioni sparse sul territorio per valorizzare le produzioni agroalimentari tipiche, far conoscere alle nuove generazioni gli usi e le tradizioni locali, le origini agricole, la storia e la cultura dei nostri paesi.

16

L’istituto Comprensivo “G. Solari” L’Istituto Comprensivo Statale di Loreto nasce nel 2000; esso comprende tre plessi di scuola dell’Infanzia (Beniamino Gigli, F.lli Volpi e S. Francesco), tre plessi di scuola Primaria (Guglielmo Marconi, Giuseppe Verdi e Carlo Collodi) e un plesso di scuola Secondaria di primo grado (Lorenzo Lotto), sede degli uffici di presidenza e segreteria.

Nel 2010 la scuola è stata intitolata al marchese Gianuario Solari (1763 – 1839), personaggio illustre della città e impor tante benefattore: grazie al suo lascito a favore dei giovani lauretani, infatti, è nata la Fondazione Solari, amministrata dal Comune, che assegna ogni anno numerose borse di studio a studenti bisognosi e meritevoli.

Il contesto socio-economico di provenienza degli studenti dell’Istituto, in base ai dati raccolti dell’indice ESCS, è medio. La maggior par te della popolazione è costituita da nuclei familiari in cui lavorano entrambi i genitori: ciò ha ripercussioni impor tanti sulla gestione del tempo da dedicare ai figli, che risulta essere senz’altro limitato. In tale contesto, la scuola considera fondamentale il successo formativo di tutti gli studenti e vuole operare in modo da creare le condizioni più favorevoli all’apprendimento e innalzare i livelli di istruzione, nonché delle competenze. L’insegnamento, inoltre, mira a incrementare la motivazione e favorire il processo di autostima, attraverso una didattica attiva che prediliga lezioni laboratoriali, in cui l’apprendimento sia centrato sull’esperienza.

Tutte le attività appaiono coerenti tra loro e orientate alla sperimentazione e all’innovazione didattica, un “valore aggiunto” che l’Istituzione Scolastica intende fornire nel processo di insegnamento, al fine di favorire l’apprendimento permanente. Anche la scelta di potenziare l’Offer ta formativa relativamente alla competenze linguistiche, ar tistiche e musicali, al pensiero critico e computazionale, intende favorire lo sviluppo personale, la cittadinanza attiva e l’inclusione di tutti gli allievi.

Gli obiettivi individuati contribuiscono non solo al miglioramento dei risultati scolastici, ma anche alla formazione della persona e all’acquisizione delle competenze chiave di cittadinanza, in linea con le raccomandazioni che provengono dal Parlamento e dal Consiglio dell’Unione Europea.

18

L’Enfap Marche Enfap Marche, agenzia formativa di emanazione della U.I.L. Marche, negli ultimi anni ha coperto segmenti sempre maggiori nel panorama della fornitura di servizi, in particolare, nella formazione professionale a livello regionale, strutturandosi su canali di finanziamento, come Fondo Sociale Europeo, Fondi Ministeriali e Fondi paritetici interprofessionali. L’obiettivo, divenuto negli anni principale ispiratore nella progettazione dell’ente, è quello di porre la formazione professionale come leva propulsiva fondamentale del mercato del lavoro. La formazione professionale è intesa da Enfap Marche come struttura portante per l’individuo. La configurazione attuale consente ad Enfap Marche di coprire a 360 gradi tutte le principali attività annesse alla fornitura di servizi, con particolare riferimento alla formazione finanziata, a partire dalla progettazione dei piani, fino alla rendicontazione finanziaria degli stessi. Nell’ultima programmazione settennale comunitaria, Enfap Marche è risultata il primo beneficiario di finanziamenti FSE all’interno della regione, ricevendo sempre un riconoscimento delle spese superiore al 98,5% del rendicontato. A tal proposito si indicano le principali attività realizzate: - Attività diretta di formazione – Progettazione e realizzazione di interventi formativi complessi o sperimentali per giovani in cerca di occupazione, per lavoratori e imprese, attraverso l’utilizzo di risorse regionali, provinciali, statali e del Fondo sociale europeo; collaborazione allo sviluppo di progetti multiregionali e intersettoriali; - Consulenza formativa – Assistenza alla progettazione, gestione e rendicontazione di attività formative per imprese e gruppi di imprese di dimensione regionale e nazionale; elaborazione di progetti di miglioramento aziendale con l’utilizzo di fondi strutturali per la formazione (piani di riorganizzazione, certificazione di qualità); produzione di strumenti didattici e di supporto alla formazione; realizzazione interventi di orientamento al lavoro; - Consulenza sui finanziamenti – Attività di Found Research individuando i canali di finanziamenti per varie attività (Ricerca, Cooperazione, Energia, Sicurezza, Investimenti, ecc.) attraverso l’analisi di bandi a carattere Provinciale, Regionale, Nazionale e Comunitario.

19

(capitolo tre) LE TRADIZIONI

L’ALIMENTAZIONE NELL’OTTOCENTO Il regime alimentare dei ceti popolari Nel XIX secolo l’alimentazione era diversa a seconda del ceto sociale cui si appar teneva: sostanziale era la differenza tra il regime alimentare dei ceti più privilegiati e quello dei ceti popolari.

Nell’Italia settentrionale, così come nelle Marche, il cibo dei contadini era scarso e poco vario e ciò era la causa di una condizione diffusa di sottoalimentazione, con carenze vitaminiche e proteiche. L’alimentazione delle popolazioni più povere, infatti, si basava essenzialmente sul mais che veniva utilizzato, con segale e miglio, anche nella produzione del pane e con il quale si preparava la polenta. Nelle montagne alpine o appenniniche, invece, si mangiava pane di farina di castagne e polenta di castagne o di fave. Nell’Italia centrale e meridionale il pane veniva fatto con i cosiddetti cereali inferiori, come orzo, segale, avena, melica, miglio, e costituiva, accanto a qualche minestra col lardo e a un po’ di verdura, l’alimento principale.

Latte, formaggi e uova, invece, non erano molto presenti nella dieta dei contadini, in quanto destinati alla vendita o al proprietario terriero. La pasta veniva consumata esclusivamente nei centri cittadini più grandi, dove il tenore di vita era più alto. Il riso era prerogativa delle zone di coltivazione e, se il suo consumo preservava dalla pellagra, contribuiva però alla diffusione dello scorbuto, dato che nelle zone circostanti le risaie, a causa del terreno acquitrinoso, non era possibile coltivare verdura o alberi da frutto. L’alimentazione quindi era priva di proteine e vitamine essenziali per preservare da eventuali malattie.

Del resto, nella maggior par te delle famiglie, sia in campagna sia in città, la carne era disponibile soltanto poche volte l’anno, come ad esempio a Pasqua e a Natale. Soltanto dal XX secolo le proteine animali cominciarono a comparire occasionalmente sulle tavole delle persone più abbienti.

Anche l’appor to vitaminico era scarso, dato che gli unici vegetali facilmente reperibili erano i legumi, come fagioli, ceci, lenticchie, fave, mentre le verdure fresche venivano vendute nei mercati, a par te quelle selvatiche raccolte per uso familiare. Le patate, molto diffuse nell’alimentazione di molte popolazioni 23

europee, in Italia non erano molto apprezzate perché suscitavano la diffidenza dei contadini.

Il vino era destinato alla vendita nei centri urbani o all’estero, perciò quello a disposizione nelle campagne era poco o di qualità scadente e, per poterne bere di buono, ci si doveva recare nelle osterie. Questi luoghi rappresentavano un punto di ritrovo e di aggregazione sociale molto impor tante, in quanto unica occasione di svago per i ceti meno privilegiati.

Il ruolo dei legumi In passato i legumi erano alla base dell’alimentazione umana, grazie alla loro capacità di garantire un appor to proteico, facendo fronte alla limitata disponibilità di carne. Essi avevano anche il pregio di conservarsi a lungo, quando ancora non c’erano gli attuali metodi di conservazione alimentare. Non solo i ceti popolari facevano largo consumo di legumi, ma anche l’aristocrazia terriera li apprezzava, soprattutto fagioli bianchi e dell’occhio, ceci, fave e cicerchie. Secondo la tradizione marchigiana, i fagioli venivano prima bolliti, poi insaporiti con trito di cipolla, sedano, lardo e prezzemolo, a cui si univa la salsa di pomodoro; questa base serviva per preparare un’ottima minestra con pasta o crostini di pane. Nei “giorni di grasso” si aggiungevano anche le cotenne o l’osso del prosciutto, insaporendo il tutto con pepe e maggiorana. Anche la minestra di ceci aveva un ruolo impor tante nella gastronomia marchigiana, aromatizzata nei giorni “di magro” con rosmarino, olio d’oliva e aglio, e nei giorni “di grasso” gustata con l’aggiunta di quadrucci di pasta o di costarelle di maiale.

La cicerchia, la cui coltivazione è oggi sopravvissuta grazie a un gruppo di contadini di Serra de’ Conti, località in provincia di Ancona, rappresentava per le popolazioni più povere la garanzia di poter sopravvivere all’inverno e ancora oggi viene gustata in minestra, zuppa o come contorno. Anche la fava è stata alla base dell’alimentazione delle famiglie contadine le quali, timorose di rimanere senza farina dato che, secondo quanto previsto dal contratto di mezzadria metà del raccolto doveva essere consegnato ai padroni, con essa preparavano farina per il pane, pasta, crescia e molte altre pietanze. A volte 24

la farina di fava veniva mescolata con quella ricavata dal grano, ottenendo il “taccone”, un prodotto molto nutriente e buono da gustare.

Nei monti Sibillini, i protagonisti erano lenticchie e farro, che rappresentavano un ottimo abbinamento dal punto di vista nutrizionale. Ai confini con l’Umbria invece era presente il legume più selvatico delle Marche: la roveja, una leguminosa oggi dimenticata, molto simile al pisello, ricco di proteine e piacevole al palato.

Le malattie della povertà Fino all’Ottocento l’Italia era un Paese prevalentemente agricolo, molto meno sviluppato rispetto alle altre nazioni europee, e l’alimentazione della maggior par te della popolazione prevedeva poca varietà alimentare. Il cibo era scarso, mentre il lavoro manuale era molto, così come la fatica fisica. Lo stato di salute della popolazione italiana dell’epoca rifletteva le condizioni generali di inadeguata disponibilità alimentare: malnutrizione diffusa, bambini con crescita compromessa, anemie, rachitismo, alta mor talità infantile, menarca anticipato. I pochi alimenti erano anche igienicamente insicuri e le tossinfezioni alimentari erano pur troppo assai ricorrenti.

L’Italia contadina e del nascente proletariato urbano dedicava poca attenzione al cibo: l’impor tante era rispondere alla fame. Braccianti e operai mangiavano sul posto di lavoro, spesso in piedi, ingurgitando pane o polentone, accompagnati da cipolle e aglio oppure, nei giorni migliori, da sardelle, alici o aringhe.

Anche il pasto casalingo era ugualmente sbrigativo: un unico piatto di cicoria spontanea, insalata o erbe di campo e sul tagliere del tavolo veniva direttamente rovesciato il paiolo della polenta. La frugalità dei pasti era dovuta anche a una concezione dell’esistenza basata sull’umiltà e la modestia di ispirazione cristiana.

La scarsa alimentazione era causa di fiacchezza e ciò dava adito all’idea, nel mondo borghese, dell’apaticità, dell’indolenza e della lentezza dei contadini che, in realtà, non erano svogliati, ma deboli a causa della malnutrizione. D’altro canto, i borghesi agli occhi dei contadini erano coloro che avevano abbondanza di soldi e, quindi, di cibo e che potevano permettersi di mangiare, non solo pane bianco, carne e vino, ma anche zucchero, cacao e caffè.

La differenza nell’alimentazione non era solo regionale o sociale, ma anche di genere. Soprattutto nel mondo rurale le femmine erano in condizione di subalternità alimentare rispetto ai maschi, considerati gli unici in grado di lavorare e quindi di procacciare la sussistenza per tutti. Simbolicamente, le donne giovani quasi mai sedevano a tavola, sia che fossero madri, mogli o figlie; esse mangiavano in piedi col piatto in mano, raccogliendo ciò che rimaneva. Nemmeno durante la gestazione o l’allattamento le donne assumevano calorie e proteine a sufficienza e, per questo motivo, la mor talità perinatale e infantile era elevata.

La malnutrizione o le scarse condizioni igieniche erano causa di malattie che affliggevano il cosiddetto “quar to stato”, tra cui la malaria, la pellagra, il tifo petecchiale, il colera, l’alcolismo e la tubercolosi.

La pellagra, termine derivante dal lombardo “pelle agra”, nel corso di tutto l’Ottocento infierì sulla maggior par te della popolazione rurale dell’Italia settentrionale, in particolare della Pianura padana. Per secoli la causa di questa malattia era stata attribuita a un’infezione del granturco o comunque alla presenza di una tossina. Dalla seconda metà del XIX secolo, invece, si iniziò a 26

notare che la sua diffusione era strettamente connessa al consumo di polenta: la prima indagine sanitaria dell’Italia unita, por tò alla luce ben centomila persone affette dalla pellagra, di cui la maggior par te viveva tra Veneto, Lombardia ed Emilia, zone in cui il consumo di granturco era molto alto. La vera causa della malattia, cioè la malnutrizione, venne individuata da un medico di origine ungherese, Joseph Goldberger, e soltanto anni più tardi si comprese che era dovuta più precisamente alla mancanza della vitamina PP. La malattia diminuì con il diffondersi di una dieta più varia, anche se in Italia continuò a mietere vittime, fino a che non migliorarono le condizioni di vita degli agricoltori. La pellagra è presente ancora oggi in alcune zone del mondo, come in Africa, in Sudamerica e in India, dove le popolazioni si nutrono in par ticolare e quasi esclusivamente di farina di sorgo.

Nell’Ottocento, a causa delle carestie e delle scarse condizioni igieniche, era molto diffuso anche il tifo petecchiale, una malattia esantematica di tipo contagioso trasmessa dai pidocchi, che si propagava soprattutto nelle stagioni invernali e intermedie, quando il clima non favoriva la pulizia personale. I pidocchi si riproducevano con facilità nei vestiti sporchi e la malattia si diffondeva negli ambienti chiusi e affollati. Dopo un periodo di incubazione, che andava dai 5 ai 15 giorni, iniziavano a comparire le petecchie, accompagnate da febbre elevata, che poteva por tare alla mor te per collasso cardiaco. L’epidemia esplose, in par ticolare, nei periodi in cui le popolazioni delle campagne si trasferirono in modo massiccio nelle città, alimentata anche dalle carestie.

Molto diffusa e pericolosa era la leptospirosi, nota anche come “febbre da campo”, una malattia infettiva acuta sistemica, causata da batteri presenti nei cibi conservati in condizioni pessime, soprattutto durante le guerre. La malattia veniva trasmessa all’uomo attraverso l’urina di animali domestici e selvatici, tra cui i più comuni erano i roditori, e si diffondeva tra i contadini e i poveri che vivevano nelle città.

Verso la fine del XIX secolo, l’estrema miseria, unita alla difficoltà di sostenere una dieta qualitativamente e quantitativamente valida, causò la diffusione di un altro grave problema: l’alcolismo. Il vino, il cui consumo aveva una lunga tradizione nella penisola, era diventato, specie quello di pessima qualità, appannag27

gio dei ceti popolari più bassi. Era infatti diffusa l’opinione che il vino avesse delle proprietà nutritive in grado di fronteggiare le carenze alimentari, dovute alla scarsa disponibilità di altri alimenti più costosi. Inoltre, alcune categorie di lavoratori, per sostenere lavori molto pesanti, assumevano bevande alcoliche con l’illusione che queste potessero dar loro maggiore forza. Anche alcuni medici erano convinti che gli alcolici potessero fornire le calorie necessarie a svolgere attività lavorative impegnative e che il loro consumo non avrebbe recato danni alla salute. Tuttavia, se il vino era nocivo, la graduale affermazione dei superalcolici fu ben più disastrosa per la salute psicofisica di ampi strati della popolazione. A causa dello oidio, una malattia della vite, che provoca l’arresto della maturazione degli acini, che quindi si deformano e si spaccano, il prezzo del vino aumentò smisuratamente, tanto che divenne un “prodotto di lusso”. Per ovviare a questo problema, si iniziarono a produrre bevande superalcoliche di pessima qualità, ottenute dalla distillazione di patate, segale, barbabietole e cereali, vendute da mercanti senza scrupoli. Gli operai nelle città o nei centri ad alto sviluppo industriale, a causa di orari e turni di lavoro massacranti e di pasti consumati fuori casa, se ne andavano nelle osterie, bevendo alcolici e superalcolici, compromettendo così la loro salute psicofisica.

Il fulcro della casa contadina: la cucina Il fulcro della casa contadina ottocentesca era la cucina, luogo in cui si riuniva la grande famiglia patriarcale. In genere era ampia, buia e, a causa della presenza del caminetto, piuttosto fumosa. Il pavimento era di terra o, in epoca più tarda, di cemento lisciato. L’intonaco era rustico, le pareti il più delle volte erano ricoper te di calce e come pittura si usava un terriccio colorato. Dato che nell’Ottocento iniziò a diffondersi la cultura del risparmio e venne bandito ogni spreco, le cucine vennero organizzate in modo più razionale, grazie all’invenzione delle “cucine economiche”, usate per riscaldare, cucinare, produrre acqua calda e asciugare i panni nella stagione fredda. Erano in ghisa e alimentate a legna o a carbone, con un piano cottura dotato di buchi, da ingrandire o da rimpicciolire, per regolare l’intensità della fiamma, grazie a una struttura fatta a cerchi concentrici. Prima dell’avvento “della cucina economica”, l’ele28

mento più impor tante della cucina era considerato il caminetto: dava calore e serviva per cuocere i cibi; al suo interno infatti vi era fissata una catena, alla quale si poteva appendere una pentola o il paiolo per la polenta. In genere il camino era dotato di due sporgenze sulle quali ci si poteva sedere per riscaldarsi; era anche attorniato da panche che circondavano il tavolo attorno al quale si riuniva la famiglia per la cena. Durante il pasto era comune l’uso di un unico piatto per tutti i commensali, generalmente in legno di castagno, sul quale il cibo veniva scodellato e da cui ciascuno prendeva la sua razione, la por tava verso il bordo e la consumava. L’illuminazione era resa possibile dalle lampade a petrolio. L’arredamento era semplice ed essenziale, con pochi elementi: un tavolo di legno con qualche sedia o panca; una credenza “a muro”, in cui venivano riposte le stoviglie o le bottiglie; una tinozza per lavarsi o per lavare i vestiti, che venivano sbiancati con la cenere; una culla per i bambini; un secchio pieno d’acqua, appeso ad un gancio vicino all’ingresso, per consentire alle persone accaldate dal lavoro in campagna di bere appena rientrate.

Il regime alimentare della borghesia Mentre ampi strati di popolazione vivevano in condizioni di assoluta miseria, il ceto borghese, divenuto protagonista della società a par tire dalla seconda metà dell’Ottocento, si poteva permettere addirittura due pasti principali, sia a mezzogiorno sia alla sera. Il suo regime alimentare era quindi molto ricco e i pranzi erano composti da più por tate: carni bianche e rosse, pesce, pane bianco, frutta e verdura di stagione. La cena era più abbondante del pranzo, con primi asciutti, minestre, fritture, bolliti, arrosti e dolci. Come documentato da una lista della spesa di una famiglia marchigiana risalente al 1875 circa, i benestanti consumavano cibi “ricchi e voluttuari”, come il caviale e il salmone, insieme a cibi considerati “poveri”. Infatti, nonostante il crescente benessere e una maggiore ricchezza, nel XIX secolo si riscoprì anche una cer ta sobrietà, l’attenzione ai sapori naturali e alle verdure. I borghesi, comunque, non si accontentavano di alimenti e bevande di scarsa qualità, delle osterie e delle locande, ma iniziarono a frequentare i ristoranti, locali ritenuti degni della loro posizione.

29

I ricettari A causa dell’analfabetismo diffuso, generalmente le preparazioni venivano tramandate oralmente. In alcuni casi, tuttavia, sono state ritrovate ricette scritte come, ad esempio, nei quaderni delle suore e dei monaci addetti alle mense o di qualche lavorante nelle cucine delle case benestanti. Alcune tracce della gastronomia marchigiana sono state rinvenute nel testo di Antonio Latini, Lo scalco alla moderna. Nato a Fabriano nel 1642, rimase orfano a cinque anni, imparò l’ar te della gastronomia guadagnandosi da mangiare in cambio di alcuni servizi di cucina presso varie case, fino a quando non venne assunto come sottocuoco a Roma dal cardinale Antonio Barberini, diventando “scalco della casa”, ovvero responsabile dei cuochi, della servitù, curatore della dispensa e soprintendente della cucina. Nella sua opera si univano la gastronomia della cor te dello Stato Pontificio con la cucina spagnola e francese, modelli d’obbligo presso tutta la nobiltà d’Europa. Nel suo libro Latini suggeriva diversi modi di utilizzare i prodotti giunti dal Nuovo Mondo, come patata, pomodoro e peperone, ma non mancava di rivalutare anche i prodotti locali, elencando le produzioni alimentari d’eccellenza delle varie zone del Regno delle due Sicilie.

Fondamentale è stato anche il contributo di Antonio Nebbia, autore de Il cuoco maceratese, un ricettario pubblicato per la prima volta nel 1779 e intitolato appunto a Macerata, città delle Marche in cui egli svolse la sua professione. Pur facendo ampio riferimento ai gusti della tradizione europea, egli risentì anche dei cambiamenti in corso nella società della sua epoca, ponendo l’attenzione sull’impor tanza dei prodotti del territorio e sviluppando nuove direttive nella gastronomia, non solo indirizzando la sua attenzione alle classi più aristocratiche, ma anche ai borghesi e ai più poveri, operai e contadini, ancora legati ai prodotti dell’or to e alla poca disponibilità di carne.

Egli dava indicazioni anche su come utilizzare e riciclare ogni prodotto, per evitare sprechi e fare economia. Il suo libro diventò rappresentativo, non solo della cucina marchigiana ma, più in generale, anche di quella italiana.

Nel 1891 vide la luce il famoso ricettario di Pellegrino Ar tusi, La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene. A lui va riconosciuto il merito di aver unifi30

cato le diverse tradizioni regionali, dando vita a un manuale di cucina italiana che ha a lungo influenzato la cultura gastronomica del Paese.

Le tecniche di conservazione degli alimenti La conservazione degli alimenti è uno dei processi fondamentali della trasformazione agroalimentare, la cui finalità principale è quella di preservare nel tempo il valore nutritivo di un prodotto, rendendolo edibile più a lungo possibile.

Nel XIX secolo si è assistito a un sostanziale progresso nelle tecniche di conservazione alimentare, anche se molti dei principi di base, pur essendo migliorati in termini di sicurezza, efficienza e qualità, sono rimasti gli stessi dei secoli precedenti come, ad esempio, la fermentazione del latte, la distillazione del vino e della birra, la lievitazione del pane, la disidratazione, la salatura e l’affumicatura dei cibi. Tuttavia, a cavallo tra Ottocento e Novecento, lo sviluppo della tecnologia permise di applicare rapidamente e su larga scala numerosi sistemi di conservazione alimentare del tutto innovativi: la pastorizzazione, la concentrazione, la sterilizzazione e la refrigerazione.

31

Uno dei maggiori problemi relativi alla sicurezza alimentare, riguardava possibili contaminazioni microbiologiche degli alimenti e un grande passo avanti venne fatto grazie alla pastorizzazione. Questo termine deriva da Louis Pasteur, il quale nel 1860 scoprì che il trattamento termico del cibo permetteva di distruggere tutte le forme patogene e la maggior par te di quelle vegetative dei microorganismi in esso presenti, oltre a disattivarne gli enzimi. Questo metodo venne applicato alla lavorazione del latte, che in quel modo poteva essere conservato più a lungo e messo a disposizione di un maggior numero di persone. Anche l’industria casearia trasse beneficio dalle scoper te microbiologiche di Pasteur, poiché egli riuscì a selezionare ceppi microbici utili a creare prodotti caseari nuovi o standardizzati.

Di fondamentale impor tanza fu l’invenzione delle conserve alimentari da par te del pasticcere francese Nicolas Apper t il quale, dopo vari esperimenti, comprese che i cibi si conservavano meglio in contenitori di vetro, immersi in acqua bollente, poiché il calore rallentava il loro processo di deterioramento.

I nuovi principi di conservazione vennero utilizzati per le derrate alimentari delle truppe napoleoniche.

A metà dell’Ottocento, l’inglese Peter Durant ebbe l’idea di conservare il cibo in contenitori di latta, dando inizio alla diffusione del cibo scatola, tanto che nel 1856 l’italiano Francesco Cirio realizzò il primo impianto per la lavorazione del pomodoro e dei piselli in scatola.

L’allevamento del bestiame subì dei cambiamenti vantaggiosi grazie all’eliminazione del carbonchio e l’introduzione di mangimi capaci di assicurare un buon appor to nutrizionale. La situazione migliorò anche nella lavorazione della carne. Se per secoli gli animali erano stati por tati nei luoghi di macellazione sulle loro gambe, lo sviluppo della rete ferroviaria permise traspor ti più veloci e, quindi, la macellazione nei luoghi di produzione e il successivo traspor to nei mercati destinati alla vendita. Inoltre, lo sviluppo delle tecniche di congelazione e refrigerazione, grazie all’invenzione delle macchine per la produzione di ghiaccio, permise di conservare la carne per lungo tempo e per lunghi tragitti.

Ricerche a cura delle classi 4^ HC e 5^ DC

32

‘‘RACCONTI DI CUCINA’’: LE RICETTE TIPICHE DELLA NOSTRA TRADIZIONE “Racconti di cucina” è il titolo dell’attività svolta dalla classe 2^ C della scuola secondaria di primo grado dell’Istituto comprensivo “G. Solari”, coordinata dalle professoresse Laura Falasco e Giuseppina Vantaggiato, al fine di conoscere la cucina tradizionale marchigiana dell’Ottocento.

Lo scopo fondamentale del lavoro è stato quello di promuovere e valorizzare le “vocazioni” territoriali delle Marche, dove tradizione, genuinità e qualità dei prodotti coesistono nella ricerca delle buone pratiche alimentari.

Gli studenti, con curiosa intelligenza, hanno ascoltato i “racconti di cucina” delle nonne e delle massaie del paese e poi, con impegno e bravura, sono riusciti a realizzare un ricettario, che propone alcuni piatti della cucina marchigiana dell’Ottocento, la cui preparazione predilige i prodotti genuini della campagna e dell’or to di questa fer tile terra collinare e costiera.

I ragazzi sono stati entusiasti di proporre il loro ricettario a tutti: studenti, genitori, enti del territorio e a quanti credono ancora nella fattoria, nei mercati con prodotti locali a “circuito breve” e nella filiera del “Made in Italy”.

PANCOTTO 12 fette di pane cotto a legna raffermo -1 hg di pancetta di maiale a dadini - Un pizzico di maggiorana - Pochi spicchi di cipolla - 2 uova Soffriggere la cipolla e la pancetta, poi aggiungere i pomodori a pezzetti e la maggiorana. Cuocere per circa 30 minuti a fuoco lento. Terminata la cottura, mettere il pane raffermo nel piatto da por tata. Quando il sugo è pronto, versarlo insieme all’uovo in un recipiente e mescolare. Una volta che il composto sarà ben amalgamato, servire in tavola.

33

LA POLENTA CON LA SALSICCIA 500 g di farina di mais - 250 g di salsiccia - 100 g di pancetta - 60 g di pecorino grattugiato - 40 ml di olio extra vergine di oliva - Un pizzico di sale In una padella rosolate la pancetta tagliata a dadini con l’olio. Spellate la salsiccia e tagliatela a pezzetti, poi unitela al soffritto. Continuate a rosolare, fino a quando la salsiccia sarà cotta. Cuocete la polenta e poi servitela in ciotole di coccio con sopra il sughetto.

34

RISO E POLENTA 500 g di riso - 2 cucchiai di olio d’oliva - 100 g di pancetta - 200 g di salsiccia - 1/2 litro di salsa di pomodoro - Parmigiano grattugiato - Farina di granturco - Sale - Pepe Ponete una casseruola sul fuoco con tre litri d’acqua salata. Quando si alzerà il bollore, versateci il riso e por tatelo a metà cottura. A questo punto unite tanta farina di granturco, quanta ne occorre per ottenere un composto denso, e terminate la cottura mescolando di continuo. In una padella con l’olio fate rosolare la pancetta a dadini e la salsiccia spellata e a pezzetti. Versate quindi la salsa di pomodoro, salate, pepate e fate cuocere la salsa ottenuta per mezz’ora. Infine por tate in tavola il riso con la polenta, conditi con il sugo e spolverizzati con abbondante parmigiano grattugiato.

FRESCARELLI 1 l di brodo di carne - 400 g di farina - 50 g di pecorino grattugiato - 50 g di pancetta - 2 spicchi d’aglio - 1 cipolla - 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro - 40 ml di olio extravergine d’oliva - Sale e pepe Su una spianatoia di legno stendete un velo di farina, poi spruzzateci sopra acqua calda. Strisciate la mano sulla spianatoia con movimenti circolari, fino a formare delle minute palline di pasta, simili a dei grumi. Ripetete l’operazione fino all’esaurimento della farina, poi setacciate i frescarelli per eliminare vari residui superflui.

Tagliate finemente la pancetta, l’aglio e la cipolla e metteteli in un tegame con l’olio. Rosolate il tutto e aggiungete il concentrato di pomodoro e due bicchieri di brodo caldo. Cuocete per 5 minuti, quindi unite i frescarelli a palline e il brodo rimanente. Continuate la cottura finché la pasta non sarà pronta, regolando eventualmente di sale e pepe, quindi spegnete il fuoco e lasciate riposare per altri 5 minuti. Servite con una spolverata di pecorino. Il risultato deve essere quello di una minestra molto densa, né troppo asciutta, né troppo brodosa.

35

CRESCIA CO’ LI SGRISCIULI 500 g di farina - 300 g di sgrisciuli - 100 g di strutto - 20 g di lievito di birra - 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva - 1 arancia - ½ cucchiaino di zucchero - Sale - Olio extra vergine di oliva per ungere la teglia In una terrina impastate 100 g di farina con mezzo bicchiere d’acqua, in cui avrete precedentemente sciolto il lievito e lo zucchero. Create una pagnotta morbida e compatta. Copritela e mettetela a riposare in un luogo tiepido per almeno mezza giornata o una notte intera. Passato il tempo necessario alla lievitazione, prendete la farina rimasta e mescolatela con acqua, sale e olio. Impastate bene fino ad ottenere un’ altra pagnotta. Unite i due pani impastando nuovamente e lasciate riposare al coper to. Dopo due ore, riprendete l’impasto e aggiungete gli sgrisciuli, il sale e la scorza grattugiata dell’arancia. Amalgamate bene e unite lo strutto a temperatura ambiente, impastando ancora un po’. Ungete la teglia da forno e stendetevi l’impasto con le mani. Spolverate di sale la superficie e infornate a 200°C per mezz’ora .

CRESCIA CON LE FOGLIE DI CAMPO, ANCHE DETTE AMARE ½ kg di farina - Acqua - Sale - Verdure di campo o amare (un tempo si usavano quelle di cui si disponeva) - Un po’ d’olio - Una striscia di pancetta Per cominciare, fare l’impasto e poi stenderlo dandogli una forma circolare con il mattarello, lasciando uno spessore di circa 2 cm. Poi riscaldare il “panaro” (nome dialettale per riferirsi ad una pentola con il fondo basso, di ferro e di forma circolare) e, una volta caldo, mettere sopra l’impasto. Durante la cottura, che deve avvenire lentamente, si strofina sopra l’impasto la pancetta per insaporire e non far essiccare troppo la pasta. Quasi a fine cottura, imbottire l’impasto con le verdure di campo, già lessate e condite con olio, quindi por tare a tavola.

36

PIZZA AL FORMAGGIO 350 g di farina - 80 g di parmigiano - 40 g di pecorino - 40 g di provolone - 40 g di groviera - 20 g di lievito di birra - 2 uova - 3 cucchiai di olio extravergine d’oliva - Sale- Olio extra vergine di oliva per ungere la teglia In una terrina impastate 100 grammi di farina con mezzo bicchiere d’acqua, in cui avrete precedentemente sciolto il lievito. Formate una pagnotta morbida e compatta. Copritela e mettetela a riposare in un luogo tiepido per almeno mezza giornata o una notte intera. Trascorso il tempo necessario, prendete la farina rimasta e mescolatela con acqua, sale e un cucchiaio d’olio. Impastate bene fino a formare un’altra pagnotta. Grattugiate la metà di ogni formaggio e tagliate a dadini il rimanente. In una terrina sbattete le uova e aggiungete il formaggio, quindi unite le due pagnotte di pizza impastando energicamente, fino a quando l’impasto si staccherà dalla spianatoia. Ungete una tor tiera alta e stretta e riponetevi la pizza. Lasciate riposare nuovamente al coper to, fino a quando avrà raddoppiato il proprio volume. Mettete la teglia nel forno già caldo a 200°C per mezz’ora. La pizza al formaggio, dalle sembianze di un panettone, è ottima servita calda e tagliata a fette. Questa gustosa ricetta si prepara nel giorno di Pasqua. Esiste anche una variante dolce chiamata pizza Pasqualina in cui, al posto del formaggio, si aggiungono 150 g di zucchero, 50 g di pinoli, un cucchiaio di cannella in polvere e la scorza grattugiata di un limone.

37

SUGO CON LE RIGAGLIE DI POLLO 250 g di carne di vitello - 250 g di passata di pomodoro - 150 g di rigaglie di pollo - 100 g di pancetta o di prosciutto grasso - 1 carota, 1 costa di sedano, 1 cipolla - 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro - 1 bicchiere di vino bianco secco - Sale e pepe

In una pentola capiente mettete a rosolare la pancetta tagliata a dadini.

Dopo un paio di minuti aggiungete la cipolla, la carota e il sedano tritati finemente e lasciateli appassire lentamente, sfumando ogni tanto con il vino. Quando le verdure saranno cotte e il vino assorbito, aggiungete le rigaglie di pollo e il vitello, sminuzzati. Tenete da par te il fegato che aggiungerete alla fine. Rosolate il tutto e incorporate la passata e il concentrato di pomodoro sciolto in un bicchiere d’acqua. Salate, pepate e coprite con il coperchio. Fate bollire a fuoco basso per un’ora e mezzo, mescolando ogni tanto per non far attaccare il sugo al fondo della pentola. Aggiungete il fegato tagliato a dadini e lasciate cuocere ancora per 20 minuti, fino a che la salsa non diventa densa.

38

STRACCETTI IN BRODO 1,2 l di brodo di carne - 5 uova - 1 limone non trattato - 1 cucchiaio di pan grattato - 1 cucchiaio di parmigiano grattugiato Un pizzico di noce moscata - Sale e pepe Mettere a bollire il brodo in pentola e nel frattempo mescolare in una terrina il parmigiano, il pecorino, la buccia grattugiata di un limone e le uova, aggiungendone una alla volta e mescolando con cura. Infine, salare, pepare e profumare con la noce moscata. Por tare la ciotola sul bordo della pentola con il brodo in leggera ebollizione, poi versare a filo la crema di uova, mescolando velocemente con una frusta. Lasciare cuocere per un minuto sempre mescolando, poi servire subito in tavola.

TAGLIATELLE, PAPPARDELLE E TAGLIOLINI (dose a persona) 100 g di farina - 1 uovo Mettete la farina sulla spianatoia di legno e al centro create un incavo con un pugno. Aggiungete le uova e iniziate a lavorare l’impasto, fino a ottenere una bella pagnotta omogenea e morbida. Se l’impasto è troppo duro, potete aggiungere un po’ d’acqua, mentre se è troppo morbido, unite un po’ di farina.

Cominciate a stendere la pasta con il mattarello in modo uniforme. La sfoglia dovrà risultare grande, tonda e dello spessore di circa un millimetro.

Dalla sfoglia si ottengono, a seconda del taglio e in funzione del condimento che si vuole utilizzare, tre tipi di pasta: tagliatelle, pappardelle e tajulì (tagliolini).

Ripiegate la sfoglia su se stessa a formare una sorta di rotolo. Tagliate il rotolo in strisce perpendicolari di 5 millimetri di larghezza per fare le tagliatelle e in strisce molto sottili, di un millimetro, per fare i tajulì. Se lasciate la sfoglia un po’ più spessa e la tagliate in strisce di un centimetro, otterrete le famose pappardelle. Cuocete la pasta in abbondante acqua salata e, quando sale in superficie, scolatela e conditela. Le tagliatelle sono buonissime con i ragù di carne, di selvaggina, con il sugo ai funghi o con burro e scaglie di tartufo. Le pappardelle si 39

sposano bene con tutti i ragù di carne, specie di cacciagione, mentre i tagliolini sono buonissimi in brodo o con sughi di pesce.

CONIGLIO IN PORCHETTA 1 coniglio - 200 g di finocchio selvatico - 60 g di pancetta - 50 g di prosciutto crudo - 50 g di salame - 20 g di strutto - 2 spicchi d’aglio - 1 bicchiere di vino bianco secco - 50 ml di olio extravergine d’oliva - Sale e pepe - Spago da cucina Pulite bene il coniglio svuotandolo e lavandolo con cura. Asciugatelo e strofinatelo all’esterno con sale e pepe. Tenete da parte il fegato che servirà per il ripieno. Pulite il finocchio selvatico dai fiori e lessatelo nell’acqua insieme all’aglio.

Nel frattempo mettete da parte una fetta di pancetta e tritate il resto insieme al salame e al prosciutto crudo. In una padella rosolate il battuto di carne con poco olio. Scolate e strizzate il finocchio selvatico eliminando l’aglio e tenendo da parte l’acqua di cottura. Aggiungete al soffritto il finocchio e il fegato del coniglio tagliato a pezzetti. Cuocete a fuoco basso per 10 minuti, fino a quando gli ingredienti si saranno amalgamati fra loro. Massaggiate l’interno del coniglio con lo strutto, il sale e il pepe. Arrotolate il ripieno nella fetta di pancetta rimasta e inseritela all’interno del coniglio. Cucite l’apertura con lo spago per non far fuoriuscire la farcitura e adagiate il tutto in una teglia da forno. Irrorate con l’olio e sfumate con il vino. Cuocete il coniglio nel forno già caldo a 180°C, girandolo spesso e bagnandolo ogni tanto con l’acqua di cottura del finocchio, affinché non asciughi troppo. Quando il coniglio sarà completamente dorato, estraetelo dal forno e servitelo tagliato a pezzetti con il suo ripieno accanto.

I DOLCI IL CIAMBELLONE 400 g di farina - 400 g di zucchero - 3 uova - 1 bicchiere di latte - 1 bustina di lievito 40

Rompere le uova in una terrina, aggiungere lentamente lo zucchero e poi unire il latte, la farina e il lievito e continuare a mescolare fino a ottenere un impasto omogeneo. Imburrare lo stampo e mettere dentro il composto. Mettere in forno a 180°C per 40 minuti. Quando il ciambellone diventerà dorato, abbassare la temperatura a 140°C e finire di cuocerlo. Sfornare e servire in un piatto, decorandolo con zucchero a velo.

FRUSTENGA 250 g di farina di mais - Pangrattato - 50 g di uva passa - 6 fichi secchi - 6 noci - 3 cucchiai di “vino cotto” - Olio d’oliva - Sale Preparate una quantità d’acqua sufficiente per preparare una polenta e quindi versatevi la farina di mais e il sale. Quando sarà cotta, fatela raffreddare e unitevi i fichi secchi e l’uva passa, precedentemente fatti rinvenire in acqua tiepida, strizzati e poi tritati. Versate nel composto il “vino cotto” e tre cucchiai d’olio.

Mescolate e poi unite i gherigli di noce, precedentemente scottati in acqua bollente, pelati e tritati. Continuate a rimestare fino a ottenere un composto perfettamente omogeneo, che verserete in una teglia unta con l’olio e cosparsa di pangrattato. Ungete anche la superficie del dolce, copritelo con un foglio di carta oleata e infornate alla temperatura di 180°C. Servite la frustenga fredda.

SCIUGHITTI MARCHIGIANI: CON MOSTO E NOCI

POLENTA

DOLCE

1 litro di mosto appena fatto - 100 /110 g di farina di mais macinata fine - 80 g di noci sgusciate Schiacciate l’uva con l’aiuto di un passaverdure, filtrate il succo ottenuto e fatelo bollire a fuoco vivace, fino a che non si riduce almeno di un terzo rispetto alla quantità iniziale. A questo punto filtrate di nuovo il mosto cotto e lasciatelo raffreddare. Rimettetelo sul fuoco e, quando si è riscaldato bene, iniziate 41

a versare a pioggia la farina di mais, mescolando come per fare la polenta, per circa 30 minuti. Se il composto dovesse risultare troppo duro, aggiungete un po’ di mosto, se troppo lento, aggiungete invece altra farina. Unite poi le noci tritate grossolanamente e mescolate. Versate la crema in una teglia bassa e larga, leggermente unta e lasciate raffreddare. Una volta fredda, si trasformerà in una mattonella gelatinosa, che taglierete a quadratini da gustare come piccoli “cioccolatini”.

CIAMBELLE DI PASQUA È un dolce della tradizione pasquale marchigiana. Sono semplici ciambelle con un aroma di anice o mistrà.

500 g di farina - 70 g di zucchero - 25 ml di olio di semi - 65 ml di mistrà - 1 limone - 2 cucchiaini di lievito per dolci - Sale - Una busta di zucchero a velo e una fialetta di rum per la glassa Versate in una ciotola le uova, lo zucchero, l’olio, un pizzico di sale, la buccia grattugiata del limone, poi cominciate a unire la farina un poco alla volta. Mentre l’impasto inizia a diventare più consistente, aggiungete anche il mistrà e il lievito. Impastate poi sulla spianatoia e, quando il composto sarà ben amalgamato, cominciate a formare le ciambelle. Nel frattempo fate bollire l’acqua in una pentola e poi versatevi un filo d’olio e un po’ di sale, calatevi le ciambelle, aspettate che salgano a galla e lasciatele cuocere per altri 5 minuti circa. Una volta pronte, scolatele e adagiatele sopra un canovaccio, incidetele tutt’intorno facendo dei tagli abbastanza profondi, fino ad arrivare vicino al bordo interno. Foderate la leccarda con car ta forno e adagiatevi le ciambelle. Mettetele in forno già caldo a 220°C per 15 minuti, poi abbassate la temperatura a 200°C e por tate a cottura per circa un’altra mezz’ora. Una volta pronte, sfornate le ciambelle e lasciatele raffreddare su una gratella. Se volete, potete ricoprirle con la glassa e, quindi, mettete in una ciotola lo zucchero a velo setacciato, aggiungete due-tre cucchiai di acqua calda, mescolate e profumate con la fialetta di rum. Infine versate la glassa sulle ciambelle e decorate a piacere.

42

IL RAPPORTO TRA CULTURA ED ENOGASTRONOMIA Nell’ambito del presente progetto, è sembrato doveroso fare riferimento ad alcuni illustri personaggi marchigiani, per comprendere quanto sia impor tante il legame tra cultura ed enogastronomia. L’amore per la cucina e per una sana alimentazione ha avuto una par te fondamentale nella vita di eminenti personalità come quelle di Antonio Nebbia, autore di un celebre ricettario che documenta tra l’altro i cambiamenti sociali ed economici della sua epoca; Giacomo Leopardi, famoso in tutto il mondo per i suoi scritti poetici, ma amante della buona tavola e dei sapori genuini, come testimoniato da un suo manoscritto autografo in cui egli aveva annotato le sue ricette preferite; Gioacchino Rossini, musicista e compositore, in grado di unire gli ingredienti dei suoi piatti con la stessa abilità con cui abbinava le note delle sue arie più celebri. Gli studenti, hanno quindi analizzato la vita e le opere di questi autori, non solo dal punto di vista letterario, ma mettendo soprattutto in luce il loro interesse per la cucina, svelando quindi il profondo rappor to che esiste tra mondo dell’enogastronomia e mondo della cultura.

43

44

Antonio Nebbia Antonio Nebbia visse a Macerata nella seconda metà del XVIII secolo, lavorando come cuoco presso molte famiglie della nobiltà locale. Nel 1779 pubblicò per la prima volta un libro di ricette intitolato Il cuoco maceratese, che ottenne uno straordinario successo, tanto che venne riproposto in tutta Italia per oltre un secolo, fino all’avvento dell’Ar tusi.

Secondo le intenzioni dell’autore, il suo volume avrebbe dovuto essere un vero e proprio manuale di cucina per imparare a preparare ”ogni sor ta di vivande, tanto di grasso che di magro; imbandir mense secondo la nuova moda, e l’ultimo buon gusto […]. Opera utile e vantaggiosa non solo a’ giovani Servitori, e Donne di cucina, ma anche a tutti quei, che intendono applicare a simil mestiere…”

Il suo libro quindi venne molto apprezzato dalla società dell’epoca, poiché rappresentava un punto di riferimento per la gastronomia delle nuove classi sociali, fissando le regole moderne dell’alimentazione. Dietro ogni sua ricetta non vi era improvvisazione, ma una grande professionalità e una notevole esperienza: egli trovò gli espedienti per raggirare le precarie condizioni economiche di alcuni strati della popolazione, invitando a riciclare tutto il possibile.

Per la storia della gastronomia l’opera di Nebbia rappresenta un punto fermo, non solo per la cucina regionale, ma anche per quella nazionale.

Egli cercò di evitare spezie, erbe aromatiche e persino il pomodoro, or taggio capace di incutere un cer to timore, dato che solo il frutto era commestibile, mentre il gambo e le foglie risultavano velenosi. Anche la patata da lui non veniva utilizzata, mentre il mais veniva relegato soltanto a un paio di ricette, poiché la polenta, secondo lui, non rappresentava un piatto adatto per una tavola di uomini civili. Nel suo libro comparve il reper torio del nuovo gusto regionale: timballi di maccheroni, gnocchi verdi, gnocchi di riso cotti nel latte.

L’elemento dominante della sua cucina non era l’olio, ma il butiro, cioè il burro, elemento essenziale per le salse grasse, che accompagnavano carni e pesci e che presero il posto delle salse acide e speziate della cucina rinascimentale, ponendo fine all’antico gusto agrodolce.

Il merito del Nebbia fu, in particolar modo, quello di riuscire a valorizzare gli 45

alimenti della sua terra, che dovevano essere ben conservati e quindi consumati in base alle stagioni. A tal proposito, egli scrisse: ”ogni stagione ha le sue erbe, i suoi pesci e la sua frutta”.

Nebbia fu anche colui che codificò una ricetta ritenuta fondamentale nella tradizione gastronomica marchigiana: i vincisgrassi. Secondo alcuni, il termine “vincisgrassi” deriverebbe dal nome di un generale, tale Windisch Graetz, che nel 1799, durante le guerre napoleoniche, era di stanza ad Ancona e al quale il cuoco personale dedicò il famoso piatto.

Questa ipotesi è stata rivista dato che, già 20 anni prima dell’arrivo in Italia del generale austriaco, ne Il cuoco maceratese apparivano i “Princigrass” (grasso dei principi). Sembra dunque che i famosi vincisgrassi derivino più probabilmente dal piatto del Nebbia ed è altrettanto probabile che, partendo dalla sua ricetta, le “vergare” abbiano rielaborato la versione “rossa” con gli ingredienti disponibili nelle campagne.

I “Princisgrass” del Nebbia: «...Prendete una mezza libra de persciutto, facetelo a dadi piccoli, con quattr’once di tartufari fettati fini; da poi prendete una foglietta e mezza di latte, stemperatelo in una cazzarola con tre once di farina, mettelo in un fornello mettendoci del persciutto, e tartufari, maneggiando sempre fino a tanto che comincia a bollire, e deve bollire per mezz’ora; da poi vi metterete mezza libra di pana fresca, mescolando ogni cosa per farla unire insieme; da poi fate una perla di tagliolini con dentro due ovi e quattro rossi; stendetela non tanto fina e tagliatela ad uso di mostaccioli di Napoli, non tanto larghi; cuoceteli con la metà di brodo e la metà di acqua, aggiustati con sale; prendete il piatto che dovete mandare in tavola: potete fare intorno al detto piatto un bordo di pasta a frigè per ritenere in esso piatto la salsa, acciocché non dia fuori quando lo metterete nel forno, mentre gli va fatto prendere un poco di brulì; cotte che avrete le lasagne, cavatele ed incasciatele con formaggio parmiggiano e le andrete aggiustando nel piatto sopraddetto, con un solaro de salsa, butirro e formaggio e l’altro de lasagne slargate, e messe in piano, e così andrete facendo per fino che avrete terminato di empire detto piatto; bisogna avvertire che al di sopra deve terminare la salsa con butirro e formaggio parmiggiano e terminato, mettetelo in forno per fargli fare il suo brulì... » 46

Giacomo Leopardi Giacomo Leopardi, uno dei più grandi poeti ottocenteschi, viene comunemente ricordato per il suo pessimismo “cosmico”. Questa idea è stata parzialmente confutata da alcuni critici, secondo i quali il suo atteggiamento verso la vita era invece improntato a un sano realismo. In Leopardi, infatti, grande era il desiderio di vivere, l’entusiasmo per le persone, la perenne ricerca di una felicità non banale, ma completa, e l’amore per i piacere della vita, tra cui quelli legati alla buona tavola. A testimoniare questo suo amore per la buona cucina, è un manoscritto autografo contenente una lista di quarantanove pietanze, stilata dal poeta e custodita presso la Biblioteca nazionale di Napoli. Quando, infatti, Leopardi morì nel 1837, le sue car te rimasero in possesso del fidato amico dei suoi ultimi anni di vita, Antonio Ranieri, che le custodì e le lasciò in eredità proprio alla biblioteca par tenopea.

Come sostiene Domenico Pasquariello, nel volume Leopardi a tavola (2008), la lista rappresenta “una summa, anche se non esaustiva, di qualcosa che potremmo già definire una cucina italiana prima ancora della riformulazione ormai classica dell’Artusi”, ed è una testimonianza impor tante della scoper ta da par te del poeta delle gioie del cibo, fino ai suoi ultimi momenti di vita.

Leopardi trascorse gli ultimi anni della sua esistenza ospite di Ranieri e di sua sorella Paolina, al cui servizio lavorava il cuoco Pasquale Ignarra, il quale spesso cucinava per lui, soddisfacendo i suoi capricci gastronomici. Egli infatti aveva alcune manie, come mangiare avidamente gelati e granite, e adorava i confetti, tanto che c’è chi sostiene che sia mor to per un’indigestione di cannellini. Tuttavia, la causa della sua scomparsa, accreditata dalla maggior par te degli studiosi, fu il colera che imperversava a Napoli proprio nel 1837, anche se l’ipotesi ufficiale rimane quella di Antonio Ranieri, secondo cui l’amico morì di idropisia polmonare.

La passione di Leopardi per l’enogastronomia è confermata anche da Tommaso Lucchetti, autore del volume Il poeta e la sua mensa. Memorie e sapori nella vita e nell’opera di Giacomo Leopardi (2012). Lucchetti è andato alla ricerca, tra gli scritti del poeta, di tutte le frasi e i pensieri che facevano riferimento all’alimentazione, dimostrando che c’è uno stretto legame tra il poeta e l’eno49

gastronomia, dalla sua giovinezza fino alla mor te. Leopardi aveva un par ticolare talento per scoprire le segrete emozioni che può provocare il buon cibo.

Nelle sue opere infatti si rinvengono numerosi riferimenti alla campagna e alla benevolenza delle sue provviste, al cibo e al confor to della buona tavola.

Nel suo epistolario il poeta spesso faceva riferimenti puntuali alle sue abitudini alimentari giornaliere, ai piatti delle feste di famiglia e alla sua terra, rimarcandone la tipicità distintiva e il valore delle eccellenze produttive, di cui si vantava di essere un divulgatore presso “prestigiose tavole bolognesi”.

Quando il poeta viveva a Recanati, ambiva a oltrepassare i confini del suo «borgo selvaggio», mentre quando era lontano, a Bologna o a Firenze, provava nostalgia per la sua terra e aveva il desiderio di rivivere con i suoi cari le tradizioni di famiglia, per poter gustare le uova sode a Pasqua, i cappelletti e le cialde a Natale, i dolci fritti a Carnevale e la “bragiola” durante la festa dei Cappuccini.

Leopardi sapeva apprezzare anche le squisitezze gastronomiche di altre regioni, rivelandosi un buongustaio. Tra queste, il “lattemiele”, conosciuto durante il suo soggiorno bolognese e considerato una vera squisitezza, le schiacciate, tipici dolci pisani, e le varie prelibatezze napoletane.

Il suo primissimo ricordo è legato al piacere goloso, comune a tutti i bambini, rappresentato dalle «pere moscardelle», ma anche all’antipatia per i piatti giornalieri, nutrienti ma monotoni, come la minestra, piatto cui dedica un’ode: “Apri, o canora Musa, i boschi di Elicona, e la tua cetra cinga d’alloro una corona. Non or d’Eroi tu devi, o degli Dei cantare, ma solo la Minestra d’ingiurie caricare. Ora tu sei, Minestra, de’ versi miei l’oggetto, e dir di abbominar ti mi appor ta un gran diletto. Ah se potessi escluder ti da tutti i regni interi; sì cer to lo farei contento, e volentieri. O cibo, invan gradito dal gener nostro umano!

Cibo negletto, e vile, degno d’umil villano!”.

Il poeta oscillava tra due teorie dietetiche contrapposte: in alcuni periodi non voleva saperne di carne, mentre avrebbe voluto perire di pesce e di vegetali, in altri, al contrario, non soppor tava il pesce e i vegetali, ma avrebbe voluto mangiare soltanto carne e brodi densi come la panna. Egli prediligeva riso, cappellini al burro, polenta e gnocchi.

50

La pasticceria, la gelateria e l’ar te dolciaria erano per lui un ricorrente conforto all’esistenza. Infatti nella sua tavola i dolci non mancavano, nonostante i medici gli avessero vietato di mangiarli. Non sapremo mai se è stata davvero questa la causa della sua mor te. Va sottolineata comunque l’impor tanza che cer te dolcezze hanno avuto per lui, con il loro potere di confor to, nei momenti difficili trascorsi durante il soggiorno par tenopeo.

Leopardi aveva anche una passione per i liquori. Secondo il poeta, l’uomo apprezza il buon bere, non per avidità, ma perché famelico di sensazioni piacevoli. Inoltre, secondo lui, il cibo e il vino a tavola provocano una sorprendente vivacità di spirito, nuove idee. Il vino produce anche uno straordinario vigore del corpo e della testa e non giova solo all’immaginazione, ma anche all’intelletto e all’ingegno.

Nello Zibaldone Giacomo riflette sul significato del nutrimento in termini fisiologici e soprattutto culturali, mettendo in rilievo l’impor tanza del banchetto conviviale per gli antichi, come momento di ritrovo, pur sottolineando che egli preferiva mangiare in solitudine, per godersi nel modo migliore il suo pasto.

DUE RICETTE AMATE DA LEOPARDI FRITTELLE DI BORRAGINE 3 fasci di borragine - 300 g di farina - mezzo panetto di lievito - 100 g di pecorino romano grattugiato - Sale e pepe q.b. - 2 l di olio per frittura Pulire la borragine lasciando le foglie ai gambi, farla bollire pochi minuti in acqua salata e metterla in acqua fredda. Scolare l’acqua. Asciugare con car ta assorbente. Con la farina, il formaggio, il lievito e l’acqua necessaria, preparare una pastelle morbida, lasciandola lievitare per un’ora in un luogo caldo. Nel frattempo, dopo aver passato le foglie della borragine nella farina, immergerle nella pastella e friggerle nell’olio. Salare, pepare e servire.

51

BODIN DI RICOTTA 600 g di ricotta di bufala - 150 g di zucchero a velo - 100 g di gocce di cioccolato - Un bicchiere di rum - Un bicchierino di maraschino - 4 tuorli d’uovo - 10 gherigli di noce - 150 g di canditi (cedro, scorzette d’arancia) In una ciotola setacciare la ricotta e lavorarla con lo zucchero a velo e i tuorli d’uovo, aggiunti uno alla volta. Unire i liquori con i canditi a pezzetti e i gherigli di noce. Disporre nelle ciotoline, lasciare per minimo 3 ore in frigo e quindi servire.

Gioacchino Rossini “Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d’una bottiglia di champagne. Chi la lascia fuggire senza averne goduto è un pazzo”.

Queste parole di Gioacchino Rossini, famoso compositore marchigiano, rivelano quanto egli fosse amante e cultore della buona cucina. Nato a Pesaro nel 1792, visse in Italia fino al 1824 per poi trasferirsi a Parigi, dove morì nel 1868.

Famoso per le sue opere liriche, in realtà ebbe anche il pregio di essere un gran gourmet. Egli era molto goloso e non si faceva scrupolo di realizzare abbinamenti tra cibi molto calorici e sapori all’apparenza molto lontani tra loro.

Aveva anche un gusto estremamente raffinato in fatto di vini e una golosità che lo rendeva insaziabile. Si racconta che da bambino facesse il chierichetto per bere il vino della messa e che da giovane spesso avesse problemi di denaro, perché non sapeva resistere alla tentazione di ristoranti o vini eccellenti.

Amava i tar tufi, le olive, il burro, le carni, gli stufati, gli zamponi, il fois gras. Probabilmente fu il più grande esper to di culinaria tra gli ar tisti del pentagramma, inventando anche sette ricette, sette come le note, spaziando dai “Tournedos” alla “Torta Guglielmo Tell”, personaggio protagonista anche di una sua celebre opera. La sua abilità era quella di accostare prodotti impor tati da mezza Europa: da Napoli faceva arrivare i maccheroni, da Siviglia il prosciutto, da Gorgonzola il formaggio, da Milano il panettone.

Quando Rossini si trasferì a Parigi, preceduto dalla sua fama di genio, entrò in contatto con il più famoso cuoco del tempo, Antonin Carême, che gestiva le cucine dei Rothschild, con il quale iniziò un’amicizia fatta di stima e di affetto.

Carême gli consigliava i piatti più prelibati e quando Rossini tornò in Italia, il cuoco ne fu molto rattristato dato che, secondo lui, nessuno al mondo poteva capire la sua cucina meglio del compositore. Si racconta che, una volta che Rossini era a Bologna, Carême, forse per nostalgia di un così fine intenditore, gli inviò per corriere diplomatico un pasticcio di fagiano ai tar tufi accompagnato dal messaggio: «Da Carême a Rossini». II Maestro rispose con una composizione musicale intitolata “Da Rossini a Carême”.

Uno dei piatti preferiti di Rossini era il tacchino farcito, tanto che in una sua 55

celebre frase disse: “Ho pianto tre volte nella mia vita: quando mi fischiarono la prima opera, quando sentii suonare Paganini e quando mi cadde in acqua, durante una gita in barca, un tacchino farcito ai tar tufi”. Anche la pasta ripiena per lui rappresentava uno squisito manicaretto, al punto da personalizzare la ricetta nei “Maccheroni alla Rossini”, farciti con tar tufi, che preparava con uno spirito cerimonioso.

Egli aveva anche una forte passione per il vino, tanto che conosceva anche i problemi della vinificazione e della conservazione, come si evince da una lettera indirizzata al padre, in cui gli dava consigli sul sistema per chiarificare. Inoltre, si dimostrava molto esigente anche nell’abbinamento tra cibo e bevande. Presso la Biblioteca Laurenziana Medicea di Firenze è custodito un menu, redatto dallo stesso compositore, in cui egli, con molta cura, sceglie il vino per ogni portata, associando il Madera ai salumi, il Bordeaux al fritto, il Reno al pasticcio freddo, lo Champagne all’arrosto, l’Alicante e il Lacrima a frutta e formaggio.

MACCHERONI ALLA ROSSINI 200 g di maccheroni - 100 g di burro - 100 g di parmigiano grattugiato 50 g di groviera grattugiato - 1 e 1/2 l di brodo - 10 g di funghi secchi - 2 tartufi tritati - 100 g di prosciutto magro tritato - 1 pizzico di quattro spezie - 1 mazzetto di odori - 1 pomodoro - 2 dl di panna - 2 bicchieri di champagne - Un po’ di arancia amara - Pangrattato.

Preparare la salsa con il burro, il parmigiano grattugiato, il brodo, i funghi secchi, i tartufi tritati, il prosciutto magro tritato, un pizzico di quattro spezie, un mazzetto di odori, un pomodoro, la panna, due bicchieri di champagne, lasciandola cuocere a fuoco basso per un’ora circa. Lessare i maccheroni in un brodo in piena ebollizione, passato e filtrato, dopo avervi aggiunto un cucchiaio di panna e un pizzico di arancia amara. Scolare bene. In un tegame di terracotta imburrato, versare uno strato di salsa, uno di maccheroni, uno di parmigiano e di gruviera grattugiati, un po’ di burro. Proseguire a strati e ricoprire l’ultimo con un po’ di pangrattato e qualche fiocchetto di burro. Infine, gratinare in forno.

Ricerche a cura delle classi 5^ ARP, 4^ BR e 4^ HC 56

57

(capitolo 4) LE TIPICITÀ

59

I PRODOTTI TIPICI DEL TERRITORIO Il “prodotto tipico” è un prodotto agricolo o agro-alimentare, i cui metodi di lavorazione, conservazione e stagionatura risultano consolidati nel tempo e legati a par ticolari zone geografiche che, per le loro peculiarità ambientali, sociali e storiche, lo rendono unico nel suo genere, con una differenziazione qualitativa riconosciuta a livello locale.

La regione Marche, grazie alla peculiarità del territorio e alle tradizioni secolari, presenta una grande varietà di prodotti tipici. L’ambiente appenninico e collinare, caratterizzato dalla cultura contadina, ha dato origine a carni pregiate e a deliziosi salumi, mentre i pastori hanno creato formaggi squisiti, alcuni dei quali stagionati in grotte di tufo. I prodotti del bosco, a par tire dai funghi fino ad arrivare ai tar tufi, meritano una menzione par ticolare, mentre nelle valli assolate pedemontane e pianeggianti sono protagoniste varie specialità or tofrutticole. Il mare Adriatico, che bagna la Regione, offre pesci di pregiata qualità, sapientemente cucinati dagli abitanti della costa, secondo la tradizione marinara. Anche i vini e i liquori hanno una loro par ticolare impor tanza, tanto che oggi alcuni di essi sono noti in tutto il mondo.

I formaggi La storia dei formaggi marchigiani è secolare e suggestiva quanto quella della pastorizia. Da fonti antichissime si apprende che i formaggi tipici della nostra Regione erano molto apprezzati già nella Roma di Augusto. La varietà dei pecorini è molto vasta e caratterizza tutte le zone montane, ricche di pascoli. Nel nord della Regione è possibile trovare ancora un tipo di pecorino conservato in botti di rovere, barili o tini, in cui viene lasciato stagionare, avvolto in foglie di noce o disposto a strati insieme a erbe aromatiche o vinacce.

Tra i formaggi DOP troviamo “La casciotta d’Urbino”, che ha avuto tra i suoi estimatori anche Michelangelo. La casciotta si ottiene miscelando sapientemente latte di pecora e di vacca di provenienza locale, fatti cagliare a una temperatura di circa 35°C. Il formaggio ottenuto viene posto in appositi stampi, dove viene pressato manualmente con una par ticolare tecnica. La crosta sottile è indice di una maturazione breve (15-30 giorni), che permette di ot60

tenere un sapore dolce e delicato, simile a quello del latte. La pasta di questo formaggio è bianco-paglierina, compatta, molto friabile e con lievi occhiature.

Si produce nella provincia di Pesaro e Urbino ed è stato il primo formaggio marchigiano a fregiarsi della denominazione di origine protetta.

Il formaggio di fossa di Sogliano segue, ancora oggi, un’antica tradizione, nata per difendere il prodotto dai saccheggi dei soldati. Il formaggio, infatti, viene posto in sacchi di tela e collocato in fosse di tufo, che vengono poi chiuse con coperchi di legno e gesso. Dopo tre mesi, le fosse vengono riaper te e le caciotte si presentano profondamente trasformate, assumendo un colore quasi dorato, come l’ambra, e un aroma intenso, con sentori di zolfo e tar tufo. Dal novembre 2009 al formaggio di fossa di Sogliano è stata riconosciuta la DOP.

I salumi Nelle antiche famiglie marchigiane veniva posta molta attenzione all’alimentazione degli animali allevati e nutriti con ghiande e pastoni. La macellazione avveniva d’inverno, quando il cibo proveniente dalle altre attività rurali scarseggiava e quando le basse temperature consentivano una migliore conservazione delle carni. L’uso di non sprecare alcuna par te del maiale e l’esigenza di utilizzare al massimo anche il lardo hanno dato vita ai due salumi più tipici: il salame di Fabriano e il Ciauscolo, diffuso nel sud della Regione. Nel ciauscolo, specialità a marchio IGP, il lardo viene finemente macinato e amalgamato alla carne magra, formando una pasta omogenea e morbida, tanto da risultare facilmente spalmabile sul pane. Questo procedimento è soprattutto utilizzato nell’alto maceratese e nell’entroterra fermano e ascolano, dove la percentuale del grasso è maggiore. All’impasto vengono aggiunti vino bianco, aglio e pepe, dopodiché il composto viene insaccato nel budello gentile.

I Salamini Italiani alla Cacciatora DOP, meglio conosciuti come “Cacciatori”, sono prodotti con carni magre di suino, grasso suino duro, sale, pepe a pezzi e/o macinato, aglio. Sono così denominati, perché i cacciatori dell’Italia centro-settentrionale avevano l’abitudine di por tarseli nella bisaccia durante le loro escursioni, per fare uno spuntino. Oggi sono diffusi e apprezzati in tutto il mondo.

61

Altri prodotti che dimostrano come in passato del maiale non si buttasse nulla, sono la Coppa di Testa e il Mazzafegato. Tra i salumi più “nobili”, va senz’altro ricordato il prosciutto di Carpegna, che ha ottenuto nel 1996 la denominazione di origine protetta (DOP). Anche se la zona di produzione è limitata al solo comune di Carpegna, la sua diffusione è ormai senza confini, dato che viene apprezzato in tutto il mondo per il suo gusto delicato e fragrante.

La pasta La disponibilità di grani teneri e grani duri hanno favorito nel corso del tempo la crescita e lo sviluppo di pastifici ar tigianali, tuttora diffusi nel territorio marchigiano. Le aziende attualmente presenti nella Regione utilizzano materie prime di qualità, trafile in bronzo e sono attente ai lunghi tempi di essiccamento.

Le paste della tradizione sono: le cresc’ tajat, ruvidi quadrelli di sfoglia a base di farina di mais, ottimi con fagioli, ceci e fave; i tajulì pilusi, ovvero i tagliolini pelosi, pasta senza uova, tagliata lunga a sezione quadrata o rettangolare, così denominata per il velo superficiale che si forma dopo la cottura, causato dalla scarsa coesione dell’impasto; i Maccheroncini di Campofilone, prodotti esclusivamente nell’omonimo paesino fermano, la cui ricetta secolare è stata tramandata inalterata fino ai nostri giorni. L’impasto dei Maccheroncini, preparato con le migliori farine di grano duro e uova fresche, senza l’aggiunta di acqua, viene steso in sottili sfoglie e tagliato in fili sottilissimi disposti ad asciugare su caratteristici fogli di car ta. Grazie alla sottigliezza della sfoglia e al taglio finissimo, caratteristiche che contraddistinguono i Maccheroncini dalle altre paste alimentari, il loro tempo di cottura è molto ridotto; basta immergerli un solo minuto nell’acqua bollente o cuocerli direttamente nel condimento, senza necessariamente lessarli in precedenza. Sono ottimi conditi con il ragù o con il sugo di pesce. Nel 2013 i Maccheroncini di Campofilone hanno ottenuto il riconoscimento I.G.P.

62

Le carni

Le montagne marchigiane possiedono una varietà di essenze vegetali e di pascoli spontanei, favorevoli all’allevamento della razza bovina marchigiana che si è evoluta grazie all’incrocio con la chianina e la romagnola. Il risultato, anche grazie a una curata alimentazione, è la razza gigante, il “Vitellone bianco dell’Appennino centrale”, le cui carni, considerate fra le migliori per genuinità e pregio, sono tutelate dal marchio I.G.P. Questo fattore è sinonimo di garanzia per la tutela della salute di coloro che hanno la for tuna di includere la carne di “Vitellone” nella propria dieta quotidiana.

L’ambiente, il clima dolce e i pascoli incontaminati sono ingredienti fondamentali per una buona qualità delle carni, per cui pure la carne equina, il cavallo del Catria, è di qualità superiore.

Anche l’Agnello del Centro Italia ha ottenuto il riconoscimento IGP-PTN. Con questa denominazione si fa riferimento all’agnello nato e allevato nel territorio dell’Italia centrale, ottenuto da una popolazione di ovini storicamente presente in questa zona, dalla quale si sono ottenute le attuali razze locali, che danno origine a un agnello dalla carne di ottima qualità.

63

Il pesce La Regione si affaccia sul mare Adriatico, molto ricco di pesce, ma anche di storia e di cultura. I marinai che nei secoli ne hanno solcato le acque hanno saputo valorizzare le risorse ittiche a loro disposizione, creando piatti prelibati che sono entrati a far par te della tradizione gastronomica e riproposti oggi dai ristoranti della costa. Brodetti alla marinara, frutti di mare succulenti, come vongole e mitili, lumachine di mare e Garagoi, seppie, merluzzi e sgombri, sogliole e cannocchie, proposti in padella, alla griglia, al car toccio, in crosta e persino al sale, sono i prodotti tipici della zona costiera.

L’altro protagonista della tavola marchigiana è il pesce azzurro, commercialmente poco considerato, ma dalle preziose proprietà nutritive, l’alta digeribilità e la ricchezza di grassi insaturi. Uno dei piatti tipici di Ancona è lo Stoccafisso all’Anconetana, caratterizzato da una lunga cottura, dalla presenza di patate, abbondante vino e olio, e insaporito con un trito di acciughe, sedano, cipolla, carote, capperi, olive nere, pomodori maturi e rosmarino.

I legumi Cicerchia, Fagioli Solfì, Ceci Quercia, Roveja e Fave di Fratte Rosa sono tutte varietà autoctone marchigiane, fonte eccezionale di proteine e sali minerali.

Consumati in combinazione con i cereali, formano un piatto completo, dato l’appor to di amminoacidi necessari al sano funzionamento del nostro organismo. Alimenti considerati poveri per lungo tempo, in realtà contengono una percentuale di proteine analoga alla carne (20 g/100g).

Tra i legumi tipici marchigiani, è necessario ricordare anche la lenticchia di Castelluccio di Norcia (PG), che viene coltivata nell’altopiano omonimo per una superficie di 20 Kmq, tra il territorio dei comuni di Norcia e di Castelsantangelo sul Nera (MC) con altitudine media di 1400 metri s.l.m. Questa varietà di lenticchia ha un colore variegato che va dal verde screziato al marroncino chiaro, con presenza di semi tigrati. L’inconfondibile sapore, le dimensioni molto piccole, la resistenza ai parassiti e la coltivazione esclusivamente biologica ne fanno oggi un prodotto ricercatissimo.

64

La frutta e gli ortaggi La frutta è un alimento fondamentale per mantenere un giusto appor to di vitamine, sali minerali e fibre. Nelle Marche, lungo le dorsali collinari e le valli, sono presenti ampi frutteti, come i pescheti della Val d’Aso, in provincia di Fermo; le qualità più diffuse sono le profumatissime pesche classiche e le nettarine a pasta gialla. Aree a orientamenti colturali specializzati sono le valli del Metauro, dell’Esino, del Tronto e dell’Aso, oltre che le pianure costiere, destinate principalmente alla produzione di susine. Altra produzione tipica, presidio Slow Food, è la mela rosa dell’Appennino.

Nel territorio della provincia di Pesaro-Urbino un frutto tipico è la visciola di Cantiano, una par ticolare ciliegia selvatica, di forma ovale e di colore rosso scuro che, grazie al suo profumo e al suo par ticolare sapore, è utilizzata in una vasta gamma di produzioni gastronomiche. Nella stessa zona, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno, si hanno anche abbondanti produzioni di ciliegie.

La Pera Angelica è tipica della verde e prospera campagna che circonda Serrungarina, caratteristico borgo medievale che sorge nella Valle del Metauro.

Il frutto, di colore giallo e rosso, è dolce e succoso, tanto da rendere il suo sapore delizioso. Le pere vengono raccolte tra la fine di settembre e l’inizio del mese di ottobre e anticamente venivano messe nel tradizionale “melaro”, cesto di paglia, posto sulla sommità di un gelso.

Rimanendo sempre in provincia di Pesaro-Urbino, è possibile trovare un’altra specialità agroalimentare: la pesca di Montelabbate. Il clima mite della zona di produzione, che include anche altri comuni limitrofi, rende favorevole la coltivazione di queste pesche dal sapore fruttato, molto gustoso e zuccherino, dalla polpa succosa, particolarmente ricca di potassio, calcio, ferro, e con buon contenuto di fibre e di vitamina C e B. La pesca di Montelabbate, oltre ad essere consumata fresca durante la stagione estiva, è utilizzata per la produzione di succhi di frutta, gelati, sorbetti, dolci e tor te.

Tra le tante varietà di or taggi marchigiani, degni di par ticolare menzione sono il carciofo di Montelupone, oggi presidio Slow Food, il carciofo di Jesi, la Cipolla di Suasa, coltivata nell’area di Castelleone di Suasa (AN) e di San Lorenzo in Campo (PU), e la patata rossa di Colfiorito. Introdotta nella seconda metà 65

del XVIII secolo dalle truppe imperiali durante il loro passaggio nello Stato Pontificio e dalla successiva occupazione francese nel periodo napoleonico, nel giro di pochi anni soppiantò completamente la coltivazione della patata bianca, essendosi rivelata par ticolarmente adatta alle condizioni climatiche e ambientali dell’Altopiano omonimo. La patata rossa di Colfiorito appar tiene alla varietà olandese Désiré ed è riuscita ad ambientarsi perfettamente nella zona, perché predilige aree piovose, terreni sabbiosi e temperature basse; ha inoltre un’ottima resistenza ai parassiti e alle malattie. Nel 2015 questo prodotto è stato insignito del Marchio europeo IGP. Un’altra specialità è l’Oliva Ascolana Tenera, buona, di facile digestione, tanto da essere considerata la miglior oliva verde da tavola del mondo. Il suo habitat ideale è vicino ad Ascoli Piceno, anche se la zona produttiva è più vasta. Dal 2006 l’Oliva Ascolana è tutelata dal marchio DOP, sia nella versione in salamoia sia nella versione ripiena da friggere.

Negli ultimi anni, nella Regione si sta espandendo la coltura della frutta e della verdura biologica, grazie al par ticolare orientamento di molte aziende agricole. Fino a qualche anno fa, la maggior par te della produzione biologica marchigiana era destinata all’espor tazione, ma l’aumentato interesse dei cittadini verso un’alimentazione salubre ha spinto molte aziende biologiche a effettuare la vendita diretta tramite spacci aziendali e/o la consegna a domicilio.

66

Tartufi I tar tufi sono relativamente rari, in quanto la loro crescita dipende da fattori stagionali, oltre che ambientali. La regione Marche è ricca di tutte le principali specie di tar tufi, sia bianchi che neri. Il più pregiato dei tar tufi è il Tar tufo Bianco (tuber magnatum Pico), che si trova in par ticolare nella zona di Acqualagna, sede del più attivo mercato di tar tufi a livello nazionale e internazionale, e in quella di Sant’Angelo in Vado. L’uso del tar tufo in cucina è molto vario e porge l’occasione di cucinare salse e piatti squisiti.

Miele Le Marche sono una delle poche regioni italiane in cui l’apicoltura è diffusa in maniera capillare da tempi remoti, diventando un punto di riferimento impor tante per la stessa apicoltura italiana. Il miele marchigiano è di qualità elevata, soprattutto quello prodotto nelle zone alto-collinari e montane, dove è ancora praticata un’agricoltura estensiva, dedita alla coltivazione delle piante foraggere, che forniscono alle api una grande quantità di nettare. Par ticolarmente pregiati sono i “Millefiori”, dalla personalità variegata: legati alla diversità botanica e all’andamento climatico, cambiano gusto a ogni stagione, in base ai mutamenti della flora. Alcuni comuni marchigiani fanno par te dell’Associazione Città del Miele: Belfor te all’Isauro (PU), Matelica (MC), Ostra (AN), Pievebovigliana (MC) e Montelupone (MC), cittadina in cui ogni estate si svolge la “Mostra Mercato del Miele e dei prodotti naturali” e il “Premio qualità”, dedicato ai migliori mieli marchigiani.

L’olio Nella nostra Regione la coltivazione dell’olivo e la molitura delle olive ha origini antichissime e già nel Medioevo l’olio della Marca era molto apprezzato dalle altre zone d’Italia. Ancora oggi viene prodotto un olio extra vergine di oliva di grandi qualità organolettiche, frutto della combinazione di fattori diversi: la varietà utilizzata, che unisce al Frantoio e al Leccino alcune specie locali, le par ticolari caratteristiche ambientali e climatiche, le antiche tecniche agronomiche e la tradizione frantoiana. L’olio tipico marchigiano è caratteriz67

zato da un sapore fruttato medio-leggero, tendenzialmente dolce, con note di amaro e piccante. Tra le varietà autoctone, circa venti, vanno ricordate la Coroncina, il Piantone di Falerone, il Piantone di Mogliano, la Rosciola, il Sargano di Fermo, l’Orbetana, la Mignola, la Carboncella, la Raggia e la Raggiola, anche se un ruolo di primo piano va riconosciuto all’unica DOP regionale dell’olio, quella di Car toceto.

I vini Sono i Greci siracusani a diffondere la coltura della vite nella Regione, gli stessi che fondarono Ancona e che crearono scambi commerciali con i por ti del Mediterraneo. Durante il periodo dell’Impero romano, il vino delle Marche diventò famoso con l’appellativo di “vino Piceno”. Nel Medioevo furono i monaci a valorizzare la coltivazione della vite e della sua trasformazione in vino.

Attualmente, la viticoltura è una delle attività agricole più impor tanti delle Marche, favorita dal clima par ticolarmente adatto alla vite, caratterizzato da brezze che dal mare soffiano verso l’interno, percorrendo le assolate colline marchigiane. Nel corso dei secoli questo habitat ideale ha por tato alla selezione di par ticolari vitigni e alla nascita di vini di pregio, tra cui cinque vini DOCG (Castelli di Jesi Verdicchio Riserva, Conero, Offida, Verdicchio di Matelica Riserva, Vernaccia di Serrapetrona) e diciannove DOC (Bianchello del Metauro, Colli Maceratesi, Colli Pesaresi, Esino, Falerio, I Terreni di Sanseverino, Lacrima di Morro d’Alba, Pergola, Rosso Conero, Rosso Piceno, San Ginesio, Serrapetrona, Terre di Offida, Verdicchio dei Castelli di Jesi, Verdicchio di Matelica).

69

Liquori La distillazione nelle Marche ha origini molto antiche e si è diffusa in par ticolare grazie ai monaci che, a par tire dal XV secolo, si sono dedicati con passione e talento alla creazione di bevande rigeneranti.

Tra i liquori tipici della Regione spiccano quelli ottenuti attraverso la distillazione di alcol di vino e aromatizzati con l’anice verde dei monti Sibillini, come il mistrà Varnelli e l’Anisetta Meletti.

Il mistrà Varnelli è un liquore secco all’anice, prodotto dalla Distilleria Varnelli che ha sede a Muccia (MC). Fondata nel 1868, grazie all’esperienza di Girolamo Varnelli, è la più antica casa liquoristica marchigiana. Il Varnelli si presenta con un colore limpido, un gusto secco e una gradazione alcolica del 46%. Può essere bevuto liscio o utilizzato per correggere il caffè e viene usato anche in molte ricette, nei desser t e in abbinamento con il cioccolato fondente.

L’Anisetta nasce nella città di Ascoli Piceno nel 1870, grazie a Silvio Meletti, allora proprietario dello storico Caffè Meletti, il quale ebbe il merito di ideare un originale sistema di distillazione, per reggere il confronto con le costosissime anisette estere. Silvio Meletti, infatti, dopo una lunga serie di studi di trattati italiani e francesi sulla distillazione e di ricerche nel campo delle materie prime, mise a punto un alambicco “a bagno maria”, che permetteva un processo di evaporazione lentissimo, allo scopo di ottenere un alcoolato il più aromatico possibile. Il liquore che se ne ricava è dolce, gradevolissimo liscio o nel caffè, dissetante con ghiaccio e acqua, ideale per la realizzazione di dolci e cocktails.

Il Vino Cotto è un altro prodotto tipico del territorio, ottenuto dalla lunga bollitura del mosto di vari tipi d’uva. La produzione del Vino Cotto è legata alle usanze delle famiglie contadine, che preparavano questa bevanda per i lavori più faticosi, come la mietitura, o per occasioni par ticolari come la nascita di un figlio. In passato veniva consumato come un normale vino da tavola, oggi invece, a causa della sua gradazione alcolica elevata, viene bevuto come vino da desser t. Ha un colore variabile, dal rosso al rosso ambrato, odore intenso e caratteristico e al gusto si presenta corposo, con un retrogusto sapido mentre, nella versione dolce, con percezione di caramello.

70

Dalla prolungata e ulteriore bollitura del mosto di uva bianca o rossa, si ottiene uno sciroppo denominato Sapa. Si abbina in maniera squisita ai formaggi stagionati e saporiti, si accompagna molto bene come condimento per l’insalata, come salsa per i gelati di crema e di panna e come ingrediente di prodotti dolciari. A Rosora, in provincia di Ancona, nella seconda metà di ottobre si svolge la “Festa della Sapa”.

Un’altra squisita specialità è il vino di visciole di Pergola, ottenuto dalle visciole, una varietà di ciliegia selvatica, fatte fermentare con vino rosso strutturato, secondo quanto prescritto da un’antica ricetta. Il suo colore rosso intenso, l’odore di visciola e frutti di bosco, la buona gradazione alcolica, sono le caratteristiche che lo rendono inconfondibile. Conosciuto anche con il nome di Visner, Visciolì e Visciolata di Pergola, è apprezzato come delizioso nettare da meditazione, da accostare a ciambelle e pasticceria secca.

I PRESÌDI SLOW FOOD Per garantire la tutela di alcune produzioni eccellenti, salvare dall’estinzione razze autoctone e antiche varietà di or taggi e frutta che rischiano di scomparire, anche nelle Marche sono nati alcuni presìdi Slow Food. Essi riguardano: il carciofo di Montelupone, il pecorino dei Sibillini, la mela rosa dei Sibillini, il mosciolo selvatico di Portonovo, la cicerchia di Serra de’ Conti, il lonzino di fico, il salame di Fabriano.

71

Il carciofo di Montelupone Noto come scarciofeno, questo tipo di carciofo cresce in provincia di Macerata. Ha dimensioni più piccole rispetto alla media, colore violaceo con striature verdastre e non ha peluria interna, né spine esterne. Pur essendo di ottima qualità, la sua resa produttiva è più bassa della media, motivo per cui è conosciuto solo a livello locale ed è distribuito in una zona limitata. Il suo gusto è saporito e dolce e ciò lo rende protagonista di molti piatti tipici, come le tagliatelle ai carciofi, i carciofi fritti e i carciofi alla giudìa. A Montelupone, i capolini più grandi sono cucinati in padella interi con finocchio selvatico, foglie di aglio fresco, varie erbe aromatiche locali, olio, sale e vino bianco, mentre quelli più piccoli sono scottati e poi messi sott’olio.

Il Pecorino dei Sibillini Nel corso dei secoli nei monti Sibillini si è sviluppata una civiltà pastorale che ha dato luogo all’omonimo pecorino. Ci sono due produzioni differenti: la prima prodotta tutto l’anno con il latte pastorizzato dai caseifici industriali; l’altra realizzata con latte crudo, semicotto e stagionato in modo naturale, sostenuta dal Presidio. Il formaggio ottenuto da quest’ultima produzione può essere consumato dopo circa 60 giorni ma, senza dubbio, il risultato migliore si ottiene facendolo stagionare alcuni mesi, in modo da avere forme dalla crosta dorata, ocra o nocciola, dalla pasta giallo carico, compatta e lievemente grassa, con una consistenza granito-scagliosa, un odore aromatico e potente, spesso di fungo e tar tufo, un sapore deciso, piccante e molto persistente. Il periodo di produzione del Pecorino dei monti Sibillini va dalla primavera, dopo lo svezzamento degli agnelli, fino al mese di ottobre.

La mela rosa dei Sibillini Le mele rosa dei Sibillini vengono coltivate da sempre nelle zone comprese tra i 450 e i 900 metri di altitudine, a cavallo tra le province di Fermo e Ascoli Piceno. In passato erano considerate preziose soprattutto per la loro capacità di conservarsi a lungo: raccolte a ottobre, ad aprile erano ancora integre e buone da mangiare. Inoltre, la polpa acidula e zuccherina e il profumo intenso e aromatico hanno reso queste mele perfette anche per la preparazione di tor te e dolci. In genere sono piccole, irregolari, leggermente schiacciate e con un peduncolo cor tissimo. Queste loro caratteristiche non le rendono competitive sul mercato, dove sono presenti mele più grandi, regolari e con colori più brillanti. La loro coltivazione era stata quasi completamente abbandonata, ma da qualche anno è stata ripresa, grazie al lavoro della Comunità Montana dei Sibillini.

Il mosciolo di Portonovo Con il termine “moscioli”, nel dialetto anconetato, vengono indicati le cozze o i mitili “selvaggi”, cioè quelli che si riproducono spontaneamente sugli scogli della costa del monte Conero, in par ticolare sullo scoglio del Trave e su pochi 73

altri scogli e secche tra Pietralacroce e Sirolo. Fino al secondo dopoguerra la pesca era effettuata con barche a remi, le batane, e l’attrezzo che veniva utilizzato per strappare i moscioli dagli scogli, simile a un forcone, non era par ticolarmente dannoso. Col passare del tempo invece venne adottata la cosiddetta “moscioliniera”, una lunga per tica con in fondo dei denti di ferro ricurvi, con la quale si raschiavano gli scogli dalla barca, strappando però sia i moscioli grandi che quelli piccolissimi. For tunatamente questo tipo di pesca, all’apparenza dannosa, ha reso possibile la proliferazione dei moscioli in quasi tutti gli altri scogli sommersi del Conero, poiché quelli più piccoli, ributtati in mare, sono riusciti a sopravvivere e a colonizzare nuove zone. I moscioli sono ottimi da mangiare appena pescati, quando ancora conservano il profumo del mare. I pescatori li cuociono aper ti su una lastra posata sul fuoco, senza alcun condimento, oppure alla marinara, aper ti in pentola con aglio, prezzemolo, olio e pepe. Il periodo di pesca del mosciolo è estivo e va da aprile a ottobre.

La cicerchia di Serra de’ Conti La coltivazione di questo legume è stata abbandonata per anni, sostituita dalla cicerchia insipida prodotta dalle multinazionali. Per for tuna la tradizionale produzione della più saporita cicerchia di Serra de’ Conti è stata ripresa dagli agricoltori locali. In passato questo legume aveva rappresentato un’importante fonte di nutrimento per le popolazioni contadine: una buona scor ta di cicerchie era una garanzia per l’inverno. La cicerchia di Serra de’ Conti è una varietà minuta e spigolosa, con colorazioni che vanno dal grigio al marrone chiaro maculato. Ha una buccia poco coriacea e un gusto meno amaro delle altre varietà di cicerchie e non ha dunque bisogno di lunghi tempi di ammollo e di cottura. Può essere utilizzata come contorno dello zampone oppure come ingrediente in ottime zuppe o minestre, mentre con la sua farina si possono preparare maltagliati e pappardelle.

74

Il lonzino di fico Il lonzino di fico viene realizzato con fichi essiccati, amalgamati con mandorle, piccoli pezzi di noce e semi di anice stellato, impastati con un poco di sapa o di mistrà. Il preparato, avvolto in foglie di fico, assume la forma di “lonze” o “lonzini”. Questa ricetta è nata dalla necessità di conservare a lungo i fichi che si coltivavano in abbondanza e maturavano tutti nello stesso periodo, poco prima della vendemmia. I lonzini venivano legati con un filo di spago o di lana e duravano tutto l’inverno, fino a primavera, accompagnando le merende dei ragazzini e i fine pasto delle feste. Oggi si trovano in commercio confezionati anche sottovuoto, in modo da averli freschi tutto l’anno. Sono ottimi abbinati a un formaggio non molle e di media stagionatura e a un calice di vino passito.

Salame di Fabriano

Il salame di Fabriano è ritenuto un salume estremamente pregiato. Lo si trova citato in una lettera firmata da Giuseppe Garibaldi, mentre nel 1877 l’intellettuale marchigiano Oreste Marcoaldi lo definì «una specialità fabrianese, come di Bologna è la mor tadella e di Modena lo zampone». Il salame di Fabriano viene prodotto macinando il prosciutto ovvero la par te più nobile del maiale.

La ricetta, indicata da Marcoaldi per sommi capi, prevede che si tagli il lardo della schiena, ritenuto il migliore, in cubetti poco più grandi di mezzo centimetro, salati e rimescolati con cura; si provvede poi alla preparazione delle par ti magre, tagliate e tritate finissime. L’impasto viene quindi amalgamato e condito con sale e pepe e, se la ricetta lo prevede, aglio. A questo punto viene insaccato nel budello gentile, ritenuto il più adatto alle lunghe stagionature, e legato alle estremità con lo spago. Il periodo di stagionatura dura almeno 60 giorni.

Ricerche a cura della classe 4^ HC

75

LE RICETTE TIPICHE DEL TERRITORIO

I PRIMI PIATTI Minestra di ceci e maiale Ingredienti per 4 persone: 300 g di ceci - 200 g di scarola - 3 costine di maiale - 200 g di prosciutto tagliato a dadini - 400 g di pomodoro - Aglio - Cipolla - Prezzemolo - Olio - Sale - Pepe - Sedano Se usate dei ceci secchi, teneteli a bagno in acqua fredda per almeno 24 ore prima dell’utilizzo. In caso contrario potete procedere direttamente con la preparazione. Prendete l’aglio e la cipolla e tritateli insieme a un bel mazzetto di prezzemolo e al prosciutto. In una casseruola (l’ideale sarebbe utilizzarne una di terracotta) fate rosolare il trito ottenuto, aggiungendovi i ceci quando gli ingredienti avranno preso colore. Fate cuocere il tutto per 5 minuti a fuoco lento, mescolando con delicatezza con un cucchiaio di legno. Aggiungete almeno 2,5 litri di acqua e portate a ebollizione il tutto. Nel frattempo mondate sedano e scarola, tagliate a pezzi la carne di maiale e versateli nella casseruola, aggiungendovi anche la polpa di pomodoro. Lasciate cuocere tutto a fuoco molto basso e lentamente per circa 3 ore. Una volta che la scarola e la carne saranno cotte, trasferite il tutto in una zuppiera nella quale avrete già inserito i ceci preparati in precedenza. Aggiungete una spolveratina di pepe e servite con fette di pane tostato e pecorino grattugiato.

Passatelli in brodo

Ingredienti per 4 persone: 300 g di pane secco grattugiato - 150 g di parmigiano grattugiato - 8 uova intere - Buccia grattugiata di un limone Sale - Noce moscata - Brodo di carne Prima di tutto, per realizzare questa ricetta dovete preparare del brodo di carne: ottimo si rivela l’utilizzo del pollo o della gallina, che potrete utilizzare come seconda por tata.

76

Su un piano di lavoro impastate insieme il pane secco grattugiato, il parmigiano grattugiato e la buccia di limone grattugiata e poi spolverate con un pizzico di noce moscata l’impasto che, a fine lavorazione, dovrà risultare ben sodo.

Ove risultasse facile allo sgretolamento, correggetelo aggiungendo un goccio di latte. Ponete quindi la pasta ottenuta in frigorifero, coper ta da un telo, per almeno un’ora. Prendete quindi l’apparecchio per passatelli o uno schiacciapatate a fori ampi e fatevi passare l’impasto. Tagliate i passatelli con un coltello man mano che escono, regolandone la lunghezza a circa 10 cm. Fate cuocere nel brodo e serviteli caldi.

Spaghetti mari e monti Ingredienti per 4 persone: 400 g di spaghetti - Aglio - Olio - Sale - 400 g di calamari - 400 g di pomodori ciliegini o pachino - 400 g di funghi misti Pulite i calamari avendo cura di eviscerarli perfettamente. Fateli a pezzetti e poi rosolateli insieme ai funghi, in un soffritto di aglio e olio. Quando avranno preso colore, sfumate con il vino e, una volta che quest’ultimo sarà evaporato, aggiungete i pomodorini tagliati in quattro pezzi, lasciandoli cuocere a fiamma viva. Lessate gli spaghetti, scolateli, saltateli nella padella con il condimento e serviteli aggiungendo del prezzemolo tritato e del peperoncino.

Tagliatelle al tartufo Ingredienti per 4 persone: 600 g di tagliatelle - Olio - Aglio - 60 g di burro - Parmigiano - 1 tartufo bianco di Acqualagna In una padella scaldate l’olio insieme al burro, sciogliendo quest’ultimo a fuoco dolce, e poi fatevi imbiondire uno spicchio d’aglio. Quindi rimuovetelo con una forchetta, spegnete il fuoco e aggiungete le scaglie di tar tufo precedentemente affettate. Lasciate insaporire il condimento a fuoco spento, mescolando delicatamente le scaglie di tar tufo, e nel frattempo cuocete le fettuccine all’uovo in abbondante acqua salata. Scolatele al dente e tuffatele nel condimento, quindi mescolate accuratamente aggiungendo, se occorre, dell’acqua di cottura della pasta. Servite il piatto con abbondante scaglie di tar tufo bianco di Acqualagna.

77

Tajulì pilusi Ingredienti per 4 persone: 500 g di farina - Acqua q.b. - sale - 100 g di ritagli di lonza e prosciutto - 50 g di lardo - 250 g di pomodori pelati Cipolla - Carota - Sedano - Maggiorana - 30 g di pecorino grattugiato

Preparate un impasto con la farina, l’acqua quanto basta e due cucchiaini di sale. Lavoratela per qualche minuto fino a che non otterrete la giusta consistenza. Preparate una sfoglia, tiratela e tagliate dei tagliolini con l’ausilio di un coltello o della macchina apposita. Lasciateli asciugare per un’oretta. Nel frattempo mettete a soffriggere in un tegame il lardo, la lonza e il prosciutto tagliati a dadini insieme alla cipolla, il sedano e la carota tritati finemente.

Dopo che gli ingredienti si saranno rosolati, aggiungete il pomodoro e fate cuocere per qualche minuto a fuoco vivo. Una volta che il sugo sarà pronto, aggiungete un pizzico di maggiorana. Cuocete i tagliolini in abbondante acqua salata e conditeli con la salsa preparata, spolverando il tutto con del pecorino grattugiato.

Zuppa di cicerchie Ingredienti per 4 persone: 320 g di cicerchie - 1 spicchio d’aglio - 50 g di lardo di maiale - 50 g di pancetta - 100 g di pomodori pelati - Sale q.b.

- Pepe nero q.b.

Mettete le cicerchie a bagno in acqua per una notte (almeno 8 ore), aggiungendo, se volete, un cucchiaio di bicarbonato per favorire l’ammorbidimento. Il giorno seguente, scolatele e sciacquatele in acqua corrente. Lessatele per circa 35 minuti e, a fine cottura, salatele. Fate soffriggere del lardo battuto in un tegame di terracotta, poi unite le cicerchie, dopo averle scolate, e fate cuocere per qualche minuto. Aggiungete la passata di pomodoro, il sale e il pepe. Frullare una parte delle cicerchie, aiutandosi con un poco di acqua della loro cottura. Versate la purea ottenuta nel tegame e mescolate. Lasciate cuocere per altri 15 minuti.

Servite la zuppa ben calda con un giro d’olio a crudo e una macinata di pepe.

78

Lumachelle dell’urbinate Ingredienti per 4 persone. Per la sfoglia: 350 g di farina - 3 uova - un pizzico di sale. Per il condimento: 2 rape - 250 g di cavolo cappuccio - 2 capi di salsiccia di suino fresca - 100 g di fegatini di pollo - 250 g di pomodori pelati a dadini - 60 g di burro - 1,5 l di brodo di carne - 70 g di parmigiano - Sale e pepe Disponete la farina sulla spianatoia, creando un cratere e, quindi, incorporatevi le uova, il sale e impastate. Se occorre, aggiungete un cucchiaino d’acqua tiepida. Lavorate a lungo fino a ottenere un impasto liscio e sodo. Avvolgetelo in una pellicola per alimenti e lasciatelo riposare per circa 30 minuti. Tirate poi una sfoglia non troppo sottile e ricavate delle fettuccine della larghezza di circa 1 cm. Avvolgetele attorno a un bastoncino del diametro di mezzo centimetro.

Fate rotolare il bastoncino due o tre volte sul pettine, poi sfilate le lumachelle e mettetele ad asciugare su un vassoio infarinato. Spellate le rape e fatele a dadini. Lavate e tagliate a striscioline il cavolo. Affettate le salsicce e tritate i fegatini. Fate sciogliere il burro in una casseruola, unite i fegatini e la salsiccia e fate rosolare mescolando. Aggiungete le rape e il cavolo, coprite e lasciate appassire le verdure, poi unite i dadini di pomodoro. Salate, pepate e proseguite la cottura per 30 minuti fino a quando le rape saranno tenere. Allungate il sugo con il brodo, coprite e por tate a ebollizione a fuoco basso. Lessatevi le lumachelle, scolandole al dente. Versate tutto nella zuppiera e cospargete con abbondante parmigiano.

Vincisgrassi Ingredienti per 8 persone. Per la pasta: 400 g di farina tipo 0 - 260 g di semolino - 5 g di uova di media grandezza - Un cucchiaio di olio di oliva - Un pizzico di sale. Per il ragĂš: 50 g di pancetta a cubetti - 50 g di lardo - una cipolla media - una carota - una costa di sedano - 5 cucchiai di olio di oliva - 40 g di burro - 600 g di carne tritata (manzo e maiale) - 150 g di fegatini di pollo - 80 g di prosciutto crudo a dadini - 100 ml di vino rosso 500 ml di acqua - un cucchiaio di triplo concentrato di pomodoro - 100 ml 79

di latte - un rametto di rosmarino - sale e pepe q.b. Per il condimento: 1 l di besciamella fluida - 100 g di parmigiano grattugiato - qualche fiocchetto di burro Preparate la pasta: disponete la farina a fontana, dopo averla setacciata, aggiungete il semolino, il sale, le uova e impastate fino a ottenere un panetto omogeneo. Avvolgetelo con una pellicola per alimenti e fatelo riposare per almeno 30 minuti. Trascorso questo tempo, formate delle sfoglie sottili, lessatele per un minuto in acqua bollente e poi lasciatele asciugare e raffreddare su un canovaccio pulito.

Nel frattempo, preparate il ragù: in una casseruola capiente dai bordi bassi fate soffriggere, in olio e burro, la cipolla, il sedano, le carote, il lardo e la pancetta tritati finemente. Unite quindi la carne, il prosciutto a dadini e i fegatini tritati grossolanamente. Insaporite con sale e pepe e fate rosolare molto bene a fuoco vivo (anche per 10-15 minuti se necessario). Sfumate, quindi, con il vino rosso. A questo punto, aggiungete metà dell’acqua calda, in cui avrete sciolto il concentrato di pomodoro. Coprite e lasciate cuocere a fiamma bassissima per circa 90 minuti. Imburrate una teglia rettangolare e formate gli strati in questo modo: pasta, ragù, besciamella e grana grattugiato. Terminate con un ultimo strato di besciamella, abbondante formaggio e qualche fiocchetto di burro. Infornate i vincisgrassi a 200° C per circa 30 minuti, fino a quando non saranno dorati in superficie. Sfornate, lasciate assestare per qualche minuto e servite.

I SECONDI PIATTI Olive all’ascolana 500 g di olive di tenera ascolana - 200 g di carne di manzo magra - 200 g di carne di maiale - 150 g di carne di pollo - 100 g di parmigiano grattugiato - 60 g di cipolla - 60 g di carota - 40 g di sedano - Noce moscata - 1 chiodo di garofano - 200 ml di vino bianco secco - 4 uova - 150 g di farina per l’impanatura - 350 g di pangrattato per l’impanatura - Olio extravergine d’oliva - Sale q.b. - 1 limone per guarnire In una casseruola versare 3 cucchiai di olio, aggiungere le verdure e rosolare i tre tipi di carne, sfumare con il vino, aggiungere sale e lasciare cuocere a fuoco dolce. Nel frattempo snocciolare le olive tenere ascolane. Una volta terminata la cottura del ripieno, macinarlo e aggiungere due uova, il parmigiano, la noce moscata, regolare di sale e mescolare. Prendere ogni oliva, riempirla con il ripieno, passarla nella farina, poi nell’uovo sbattuto, infine nel pangrattato. Friggere le olive in abbondante olio.

81

Lumachine di mare in porchetta 2 kg di lumachine di mare - 6 cucchiai di olio d’oliva extra vergine - Un bicchiere di vino bianco - Prezzemolo - Qualche rametto di finocchietto selvatico - 2 spicchi d’aglio - Salsa di pomodoro - 1 peperoncino piccante - Sale q.b.

Lavate accuratamente le lumachine sotto l’acqua corrente e poi fatele soffriggere nell’olio caldo. Dopo circa un quar to d’ora alzate il fuoco, bagnatele con il vino bianco e spolverate con un trito di prezzemolo, finocchietto e aglio.

Quando il vino sarà evaporato, aggiungete la salsa di pomodoro, il peperoncino piccante e salate quanto basta.

Stoccafisso all’anconitana Ingredienti per 4 persone: 1 kg di stoccafisso già bagnato di prima qualità (preferibilmente Ragno) - 5 acciughe lavate e dissalate - 2 coste di sedano verde - 1 cipolla di media grandezza - 3 carote - 3 rametti di rosmarino - 1/2 etto di capperi dissalati - 1/3 di litro di vino Verdicchio dei Castelli di Jesi - 1 peperoncino (facoltativo) - 1 etto di olive nere - 1 kg di 82

pomodori maturi a grappolo - 1 kg di patate - 1/2 litro di olio extra vergine di oliva - Sale q.b.

Pulire lo stoccafisso togliendo la spina centrale, tagliarlo a pezzi e metterlo in una teglia dal bordo alto. Macinare sedano, carota, cipolla, capperi, acciughe e condire, con la metà del trito, lo stoccafisso, aggiungendo sale q.b. e circa mezzo litro di olio extra vergine di oliva. Tagliare le patate a spicchi di media grandezza e metterle sopra lo strato di stoccafisso fino a coprirlo totalmente.

Condire il tutto con l’altra metà del trito rimasto, peperoncino, sale, pomodori a pezzi, il vino Verdicchio, acqua fredda e olive nere. Lasciar cuocere lo stoccafisso a fuoco lento per circa 2 ore.

Brodetto in bianco di Porto Recanati 2 kg di pesce assortito per zuppa (triglie, sogliole, merluzzi, seppie, palombo, pescatrice, canocchie) - 1 cipolla - 1 bicchiere d’olio extra vergine d’oliva - 2 bustine di zafferano - 2 bicchieri di vino bianco secco - Fette di pane casereccio - Brodo di pesce - Sale - Pepe Pulite bene i pesci e lavateli sotto l’acqua corrente. Lavate una cipolla piuttosto grande, tritatela, aggiungete un po’ di olio e fatela soffriggere. Unite le seppie tagliate a pezzetti e coprite con il brodo di pesce e con l’acqua in cui avrete sciolto lo zafferano. Aggiungete sale e pepe e poi anche gli altri pesci. Mettete il vino bianco e fate cuocere per 15 minuti, mescolando delicatamente di tanto in tanto. Servite il brodetto caldissimo, accompagnato dalle fette di pane.

Pollo in potacchio 2 cipolle piccole - 2 spicchi d’aglio - 300 g di pomodori freschi - 1 rametto di rosmarino - 1/2 bicchiere di vino bianco - Olio d’oliva extra vergine q.b.

- Burro q.b. - Sale q.b. - Pepe macinato q.b.

Fate rosolare pochi minuti la cipolla e l’aglio e poi aggiungete il pollo, facendolo rosolare a sua volta, fino a che non assumerà una bella colorazione 83

dorata. Salatelo leggermente e bagnatelo con il vino bianco. Nel frattempo, fate soffriggere in due cucchiai di olio la seconda cipolla tritata e il rosmarino anch’esso tritato, poi unite i pomodori privati della pelle. Versate la salsa sul pollo, unite ancora qualche fiocchetto di burro e passate la casseruola in forno caldo per circa 20 minuti.

I DOLCI Le sfrappe o chiacchiere Conosciute in tutta Italia sotto diversi nomi, le sfrappe sono il tipico dolce di Carnevale, par te della tradizione culinaria marchigiana da tempo immemore.

400 g circa di farina - 4 uova - 2 cucchiai d’olio - 4 cucchiai di mistrà Qualche goccia di succo di limone - Sale - Strutto o olio per friggere Alchermes - Zucchero a velo Preparate un impasto con la farina, le uova, l’olio, lo zucchero, il mistrà e qualche goccia di limone. Aggiungete un pizzico di sale e lavorate la pasta fino ad ottenere un impasto simile a quello che si utilizza per la pasta all’uovo. Stendete una sfoglia sottile e dividetela a strette losanghe con l’ausilio di una rotella dentata.

Mettete a scaldare dell’olio per friggere o dello strutto e friggetevi le losanghe.

Fatele asciugare ponendole sopra della carta assorbente: spruzzatele quindi con qualche goccia di alchermes e spolverizzatele con lo zucchero a velo.

Cicerchiata 250 g di farina - 1 cucchiaio di zucchero - 150 g di miele - 4 uova - 2 tuorli d’uovo - 30 g di burro - Scorza d’arancia - 15 g di mandorle - 15 g di gherigli di noci - 1 l di olio di arachidi Setacciate la farina e disponetela a fontana, aggiungete il burro, le uova intere, i tuorli e lo zucchero. Impastate gli ingredienti fino ad ottenere un impasto bene amalgamato.

84

Dividetelo in tanti bastoncini, a loro volta tagliati in piccoli gnocchetti. Fateli friggere in abbondante olio caldo, fino a quando avranno assunto un bel colore dorato. Versate il miele in una casseruola e aggiungetevi la buccia grattugiata d’arancia. Ponete la casseruola sul fuoco e mescolate gli ingredienti fino ad ottenere un composto ben amalgamato. Aggiungete quindi gli gnocchetti fritti precedentemente, mescolate con delicatezza e continuate la cottura fino a quando il miele sarà stato assorbito dagli gnocchetti. Versate il tutto su una spianatoia e modellatelo nella forma desiderata.

Pizza di pasqua 6 uova - 50 g di lievito di birra - 1 kg di massa di pane - 250 g d’olio 250 g di canditi - 250 g d’uva passa - Una bustina di vanillina - Buccia grattugiata di un limone - 1/2 litro di latte - 2 cucchiai di mistrà - Un bicchiere d’acqua - Zucchero a velo Prendete una ciotola e sciogliete l’impasto del pane al suo interno, con l’ausilio di un bicchiere di acqua tiepida. Mescolate il tutto fino a che non raggiungerà la consistenza morbida di una pastella. Aggiungete due uova, una spolverata di farina e lasciate riposare fino al mattino senza mescolare. La mattina dopo aggiungete il lievito di birra disciolto nel latte, l’olio, l’uva passa, la vanillina, i canditi e il mistrà, fino a che non avrà raggiunto nuovamente la consistenza di un impasto del pane. Distribuite l’impasto ottenuto in diverse teglie ma riempiendole solo fino alla metà per permettere una nuova lievitazione. Quando sarà completata, mettete tutto in forno per 45 minuti, facendo cuocere per qualche minuto a 160° C e completando la cottura a 180° C. Ricerche a cura della classe 4^ HC

85

(Capitolo cinque) LA TRASPARENZA E LA TRACCIABILITÀ

IL CONVEGNO “MADE IN ITALY” La prima fase del progetto “Youth health, the Italian food way” si è concretizzata attraverso l’organizzazione di un convegno, cui hanno preso par te alcuni esperti del settore enogastronomico, al fine di approfondire lo studio degli alimenti, le loro caratteristiche nutrizionali, la loro valorizzazione e gli aspetti relativi al marketing. Vista la finalità educativa del progetto, al convegno sono state invitate tutte le classi coinvolte, le quali hanno avuto l’oppor tunità di illustrare il lavoro svolto fino a quel momento, creando un’impor tante occasione di scambio tra i diversi Istituti.

Il Dirigente scolastico dell’Istituto capofila, Prof. Gabriele Torquati, ha avuto il compito di moderare il dibattito, mentre il Prof. Elio Carfagna, presidente dell’I.R.A.S.E, ha introdotto il contenuto e le finalità del progetto. Sono quindi intervenuti il Dott. Tommaso Lucchetti, insigne storico della cultura gastronomica e dell’arte conviviale e autore del libro Dall’aia al ristorante. Storia di un modello di cucina, prima contadino poi “tipico”, che ha parlato dell’impor tanza di un’alimentazione sana e genuina, par tendo dalle antiche tradizioni marchigiane; il prof. Angelo Serri di “Tipicità”, che ha trattato lo stesso argomento, facendo però riferimento al mondo attuale; la dott.ssa Dafne Per ticarini, giornalista e autrice del volume Red in Italy. Il Made in Italy nella prospettiva internazionale, la quale ha sviluppato il tema dell’enogastronomia italiana secondo il punto di vista del consumatore straniero, analizzando stereotipi e miti dell’italianità nel tentativo di capire cosa ci sia di vero in essi.

A conclusione del convegno, è stato organizzato un pranzo preparato con i prodotti coltivati dall’Istituto Agrario e cucinato dagli studenti dell’Alberghiero.

Il menu si è articolato nelle seguenti por tate: pasta lorda di frumento “Bologna” con ceci, zucchine e carote; polenta di mais “Ottofile” con bocconcini del cor tile e fave; varietà di crostate con confettura di kiwi e mele e con ricotta e cioccolato, preparate il giorno precedente all’evento dagli alunni dell’I.C. “Solari” con l’aiuto degli studenti dell’Alberghiero. A conclusione del pranzo, è stato proposto un grog all’orzo mondo, al profumo di vaniglia e anice stellato.

89

Servizio di Ricevimento: Proff. Sabrina Bucci e Tamara Tavianini Classe: 4^ BR Servizio di Cucina: Prof. Walter Borsini Classe: 5^ GC Servizio di Sala: Prof. Cesare Lapadula Classe: 3^ EB

La filiera dei prodotti dell’Istituto Agrario “Salvati” Dato che una delle finalità del programma “Made in Italy” è far conoscere e valorizzare le peculiarità delle eccellenze produttive del nostro Paese, l’Istituto “Salvati” ha deciso di trattare i prodotti agroalimentari tipici, analizzandone la filiera produttiva, nell’ottica della trasparenza e della tracciabilità. Hanno partecipato al progetto le classi Terze dei Servizi per l’agricoltura e lo sviluppo rurale le quali, durante lo scorso anno, hanno conseguito la qualifica regionale, che permette di acquisire competenze sulle produzioni agricole principali e sulle possibili trasformazioni in prodotti agroalimentari.

L’Istituto intende diffondere l’idea di una sana alimentazione, costituita dai prodotti realizzati dalle aziende del luogo, e il potenziamento del turismo rurale, che equivale, tra l’altro, a creare lavoro e reddito. La possibilità di reperire prodotti locali influenza il risparmio delle risorse energetiche (Km 0).

Non spopolare o abbandonare le zone interne significa controllare in modo migliore un territorio che troppo spesso è soggetto al dissesto idrogeologico e una minore concentrazione di persone in ambienti a volte troppo inquinati.

L’azienda agraria della scuola, su un’area di circa otto ettari di superficie, crea prodotti con la tecnica dell’agricoltura biologica, quali frutti misti, farro, frumento tenero, cece, orzo e mais. Questa modalità richiede molto impegno, ma alla fine si ottengono produzioni che non sanno di “chimica”. Infatti, non vengono utilizzati concimi chimici e antiparassitari di sintesi e le colture sono curate con interventi meccanici, soluzioni naturali e altri materiali consentiti.

Un organismo di controllo cer tifica che questa metodologia venga rispettata.

Già nelle classi prime gli studenti iniziano a studiare le colture tipiche, che da tempi remoti vengono praticate nel nostro territorio. Grazie alla regione Mar90

che, è stato approfondito l’argomento incontrando tecnici dell’A.S.S.A.M. e alcuni “agricoltori custodi”, che hanno il compito di tramandare la biodiversità agraria della nostra Regione. Per la realizzazione dei suoi prodotti, l’Istituto si avvale dell’aiuto di due partner impor tanti: la Cooperativa “La Terra e il Cielo” e il Molino Spoletini, entrambi di Arcevia. La prima è una realtà impor tante per la produzione, trasformazione, valorizzazione, confezionamento e commercializzazione dei prodotti tipici biologici. Il secondo produce sfarinati con un tradizionale molino a pietra, che funziona con la forza dell’acqua. Presso queste aziende vengono effettuati stage per l’alternanza scuola-lavoro. Acquistando i prodotti dell’Istituto non si hanno dubbi sulla loro provenienza e genuinità, dato che tutti i passaggi della filiera, dalla semina al confezionamento, sono gestiti dalla scuola.

Aderendo al progetto “Youth health, the Italian food way”, le due classi coinvolte hanno trattato alcuni prodotti dell’azienda agraria dell’I.P.S.A.A. “Salvati”, utilizzati dagli studenti dell’I.I.S. “Einstein-Nebbia” per la realizzazione dei piatti proposti in occasione dell’evento “Made in Italy”. I prodotti scelti sono stati il mais “Ottofile”, l’orzo mondo e il cece. La classe 3^ B si è occupata degli aspetti relativi alla produzione, la classe 3^ A di quelli relativi alla trasformazione.

Il mais o granoturco (Zea mais L.) L’”Ottofile” di Pollenza si distingue per la granella vitrea dal colore giallo-oro; avendo solo otto ranghi per formare una piccola spiga, la sua capacità produttiva è molto più bassa delle moderne varietà ibride coltivate e, quindi, il prezzo del prodotto trasformato varia di conseguenza. La coltura da rinnovo a ciclo primaverile-estivo si avvale della letamazione e di un’accurata preparazione del letto di semina, che avviene successivamente alla raccolta del frumento o dell’orzo.

All’inizio di aprile, si semina a file con la seminatrice di precisione, in modo che possa essere eseguita successivamente la sarchiatura per il controllo delle erbacce e la rincalzatura per l’irrigazione a infiltrazione laterale, da effettuarsi a cavallo tra la fioritura e la coltura. La mietitura, a fine settembre, viene fatta eliminando le spighe danneggiate dai parassiti animali e dalle muffe, responsabili delle pericolosissime micotossine. Lo scorso anno la raccolta è stata fatta a mano, a voler 91

rievocare la tradizionale spannocchiatura; infatti, nelle nostre campagne, prima della diffusione della mietitrebbiatrice, era frequente lo scambio di manodopera tra contadini e la sera, finito il lavoro, si vivevano insieme dei momenti in allegria.

Dopo la spannocchiatura, il mais viene fatto asciugare al sole e successivamente sgranato. Riempiti i sacchi di granella asciugata, il mais viene portato al mulino a pietra dove, dopo la pulitura, viene ridotto a farina per polenta. Confezionata in sacchetti da 1 Kg, la farina viene poi etichettata a scuola e venduta quasi tutta nel periodo natalizio, in pacchi regalo, insieme agli altri prodotti. Questo è, probabilmente, l’articolo più richiesto, sia per la qualità della farina sia per la tecnica di produzione, che punta sulla salubrità dell’alimento.

Il cece (Cicer arietinum L.) Il cece è un legume ricco di proteine, ottimo per l’alimentazione umana. La leguminosa è par ticolarmente adatta all’agricoltura biologica, in quanto nella coltivazione, alternata al frumento o all’orzo, si possono evitare appor ti di concimi azotati. Il cece si adatta ai terreni non eccessivamente fer tili ma ben drenati, ha un ciclo primaverile-estivo ed è resistente alla siccità. La preparazione del terreno inizia con un’aratura estiva, mentre la semina avviene in primavera, finito il rischio di brinate tardive. Si può seminare a file lontane cinquanta centimetri l’una dall’altra, distanza che permette un successivo controllo meccanico delle erbe infestanti. La raccolta viene eseguita quando le piante sono completamente secche, tra luglio e agosto, con la mietitrebbiatrice appositamente regolata per evitare le perdite e la rottura dei semi. Se la coltura è par ticolarmente inerbita, è preferibile effettuare lo sfalcio alla maturazione, per poi procedere alla trebbiatura mediante un apposito raccoglitore, che va a sostituire la normale testata di raccolta. Annualmente si possono ottenere venti quintali di prodotto a ettaro. Il cece non necessita di par ticolari trasformazioni; tuttavia, è impor tante allontanare con macchine vagliatrici le par ti estranee, come terra, altri semi e pezzi di pianta. A questo punto, si procede al confezionamento in sacchetti di plastica con atmosfera azotata, per garantire un lungo periodo di conservazione, e poi si esegue l’etichettatura. La varietà sultano ha il seme piccolo che, resistendo alla cottura, non si sbuccia.

92

L’orzo nudo o mondo (Hordeum vulgare L.) A differenza dell’orzo usato in zootecnica e per la produzione della birra, l’orzo mondo presenta cariossidi svestite e adatte, quindi, all’alimentazione umana. Con l’orzo coltivato a scuola, si ottiene del buon “caffè” naturale o all’anice. La coltura è a ciclo autunno-vernino, che si alterna alle colture miglioratrici da granella e foraggere. La preparazione del terreno consiste in una minima lavorazione. Come il frumento si semina in autunno, ma in alcuni casi l’orzo può essere seminato anche a marzo, dato che la sua fittezza contrasta lo sviluppo delle erbe infestanti. In terreni troppo concimati, si può allettare alla maturazione, causando perdite alla raccolta e scadimento qualitativo.

L’orzo si raccoglie a giugno con una normale mietitrebbia, quando l’umidità della granella non supera il 13%. La paglia ottenuta può essere utilizzata come lettiera per il bestiame o interrata per migliorare la fer tilità del terreno, come avviene in genere per tutti i residui colturali. La granella di orzo, dopo essere stata ripulita, può essere addizionata con semi di anice. Segue la torrefazione, facendo attenzione a non bruciare le cariossidi, e poi una grossolana macinatura, per rendere il prodotto utilizzabile dalle macchine da caffè. L’orzo viene confezionato in sacchetti di plastica-alluminio per mantenere la fragranza nel tempo. Una volta etichettato, è pronto per la vendita.

93

GLI ASPETTI NUTRIZIONALI DEL MENU “MADE IN ITALY” Il menu del pranzo, preparato il 17 maggio 2016 in occasione dell’evento “Made in Italy”, è stato realizzato cercando di valorizzare ed esaltare le qualità delle materie prime messe a disposizione dall’Istituto “Salvati”. Inoltre, i piatti sono stati preparati tenendo conto dell’impor tanza di alimenti da sempre alla base dell’alimentazione povera del nostro territorio marchigiano. Gli studenti della classe 4^ HC dell’Istituto Alberghiero, coordinati dallo chef prof. Walter Borsini e dall’insegnante di Alimentazione prof.ssa Bianca Mayer, non si sono limitati alla trasformazione delle materie prime fornite, ma si sono interessati anche agli aspetti nutrizionali degli alimenti utilizzati, in considerazione del fatto che, per condurre uno stile di vita più sano ed equilibrato, è necessario conoscere ciò di cui ci si nutre. Gli studenti hanno quindi effettuato una ricerca concentrandosi, in particolare, sui ceci, sul grano tenero varietà “Bologna”, sul mais “Ottofile” e sull’orzo mondo.

IL MENÙ • Pasta Lorda di frumento “Bologna” con ceci, zucchine e carote • Polenta di mais “Ottofile” con bocconcini del cortile e fave • Varietà di crostate con confetture di kiwi e mele e con ricotta e cioccolato • Grog all’orzo mondo al profumo di vaniglia e anice stellato

ANALISI DEI PIATTI PROPOSTI Pasta lorda di frumento “bologna” con ceci, zucchine e Carote Il grano tenero “Bologna” Nella nostra alimentazione quotidiana non dovrebbero mai mancare pane, 96

pasta o altri prodotti a base di cereali, meglio se integrali, ricordando di non aggiungere al loro consumo troppi condimenti. Il frumento, infatti, è un’importante fonte di energia (circa 350 kcal per 100 gr) e contiene molti carboidrati, proteine, fibre, vitamine del gruppo B, vitamina E, nonché minerali. La farina che se ne ricava è adatta sia per panificare che per fare la sfoglia.

I cereali andrebbero consumati, come viene proposto in questo piatto, in associazione con i legumi; in questo modo è possibile coprire il totale fabbisogno proteico giornaliero, fornendo tutti gli AAE (amminoacidi essenziali). Inoltre, sostituendo le proteine animali con quelle vegetali, si riduce moltissimo l’assunzione di grassi saturi e colesterolo. A parità di peso iniziale, le proteine dei legumi sono molto più sazianti e meno caloriche, rispetto a quelle della carne.

Il frumento della varietà “Bologna” è di tipo tenero e, se macinato a pietra, mantiene tutte le caratteristiche naturali (proteine e vitamine), in quanto questo tipo di macinazione non surriscalda la farina, causando quindi la trasformazione delle sue proprietà nutritive. La grande stabilità produttiva e la straordinaria capacità di fornire un’eccellente qualità hanno fatto del “Bologna” una delle varietà di riferimento degli ultimi anni.

Il ruolo delle leguminose oggi Le leguminose stanno assumendo un ruolo sempre più impor tante nell’alimentazione umana, sia perché il consumo eccessivo di carne sta por tando a una crescente incidenza di certe patologie tumorali, sia perché la produzione di proteine di origine animale è, dal punto di vista economico ed energetico, molto costoso, oltre che dannoso per l’ambiente. Le leguminose rappresentano anche un’importante fonte di amido, fibre, vitamine e sali minerali (calcio, ferro, zinco ecc.), oltre a contenere poco sodio e una bassa percentuale di acidi grassi saturi. I legumi costituiscono inoltre un’ottima fonte di carboidrati complessi (amidi) a lento assorbimento, che non provocano innalzamenti troppo bruschi della glicemia dopo il pasto, grazie al loro basso indice glicemico. L’elevato contenuto di fibra di questi composti rallenta l’assorbimento dei carboidrati e dei grassi e svolge impor tanti effetti fisiologici sul senso di sazietà e sul transito intestinale, con un minor tempo di contatto con eventuali residui 97

tossici e un ruolo ipocolesterolemizzante. I legumi rappresentano anche una fonte fondamentale di vitamine del gruppo B, di folati e fitonutrienti (flavonoli, isoflavonoidi, antocianine) che hanno impor tanti proprietà antiossidanti.

Polenta di mais “ottofile” con bocconcini del cortile e fave Questo pietanza può essere considerata un piatto unico, in quanto in essa sono presenti i carboidrati, che derivano dal mais, le proteine, contenute nella carne, le vitamine e le fibre delle verdure e i grassi dell’olio. Il principio di base del piatto unico è fornire energia proveniente dai tre macronutrienti: 60% da carboidrati, 15% da proteine, 25% da grassi. Già nell’antichità si usava associare a una base ricca di amidi, come cereali e tuberi, e in par ticolare patate, alimenti proteici, ad esempio legumi, formaggio, uova, pesce o carne, e verdura.

Gli aspetti nutrizionali del mais I marchigiani sono stati grandi consumatori del cosiddetto “oro giallo”, la farina di mais che, all’inizio del secolo scorso, era il principale alimento di una cucina povera come quella dei contadini. Al giorno d’oggi la polenta è diventato cibo ricercato, ambito sulle tavole dei buongustai di ogni ceto sociale. Nella farina di mais è presente il 10% di proteine, il 7% di lipidi, l’83% di carboidrati.

Gli aspetti nutrizionali della carne bianca Le carni bianche sono generalmente ritenute più salutari rispetto a quelle rosse. Facili da digerire e povere di grassi, sono anche molto ricche di proteine nobili, amminoacidi essenziali e hanno anche lo stesso valore percentuale di ferro della carne di bovino. Le più magre e ipocaloriche sono quelle di pollo, coniglio e tacchino. Esse contengono il 67% di proteine e il 33% di lipidi.

Grog all’orzo mondo al profumo di vaniglia e anice stellato Come tutti i cereali, l’orzo presenta grandi quantità di carboidrati, che raggiungono l’83% del peso totale, ed è in assoluto il più ricco di fibre. L’orzo inoltre contiene una maggiore quantità di proteine rispetto ad altri cereali, mentre i 98

lipidi costituiscono meno del 2%. Ciò che rende questo cereale un alimento ricco di proprietà benefiche è la presenza di sali minerali, quali magnesio, fosforo, potassio, ferro, calcio, zinco e silicio, nonché una discreta quantità di vitamine, soprattutto del gruppo B ed E. L’orzo ha proprietà sia terapeutiche che estetiche. Per quanto riguarda le prime, questo alimento aiuta a tenere sotto controllo la glicemia, favorisce la digestione, previene l’osteoporosi, riduce i sintomi di colite, gastrite e ulcera, migliora la memoria e le funzioni cognitive, rinforza il cuore, stimola la produzione di latte materno; per quanto riguarda invece le proprietà estetiche, esso rende la pelle elastica e idratata, contrasta la caduta dei capelli, rinforza le unghie, aumenta il senso di sazietà, aiutando a mantenere il peso.

La dieta mediterranea e il territorio marchigiano: la tutela della salute e dell’ambiente nei prodotti a km 0 Al giorno d’oggi il mercato globalizzato prevede la possibilità di produrre e acquistare tutto ciò che si desidera in qualsiasi par te del mondo, ma due sono le cose che non s’improvvisano, né si possono espor tare, e che dunque fanno la differenza: il territorio, ovvero le peculiarità ambientali, paesaggistiche e monumentali, e l’identità culturale, intesa come storia, luoghi comuni, relazioni, profumi e sapori. Il territorio marchigiano rappresenta un patrimonio indiscusso, che necessita di una sua rivalutazione per contribuire in maniera adeguata a un corretto stile alimentare nel rispetto delle identità ambientali.

Nelle Marche, oltre ai salumi e ai formaggi tipici, si coltivano prodotti vegetali, quali leguminose e cereali, veri alimenti protagonisti della dieta mediterranea.

Le leguminose più coltivate sono rappresentate da fagioli, piselli, fave, lenticchie, ceci e dalla tradizionale cicerchia. Riguardo ai cereali ricordiamo le varie tipologie di mais “Ottofile” e cultivar antiche, come il grano “Jervicella”, e un cereale tipico marchigiano come l’orzo mondo, caduti in disuso, ma recentemente rivalutati grazie al recupero di specie minori e al ricorso a prodotti alimentari alternativi. Gli alimenti tipici della Regione costituiscono un patrimonio culturale di notevole impor tanza e di elevata qualità nutrizionale. Il loro consumo ha ricadute positive sia sulla salute che sull’ambiente, nel rispetto 99

della biodiversità. I legumi appar tengono alla “cucina povera” e sono par te della tradizione contadina marchigiana. La loro coltivazione, alternata a quella dei cereali, con la tecnica della rotazione agraria, migliora il terreno impoverito dal frumento o dall’orzo.

In particolare il ricorso ad alimenti a Km 0 soddisfa i requisiti di un’alimentazione il più possibile ecosostenibile, con indubbi vantaggi dal punto di vista: • ambientale, con riduzione della CO2 grazie alla diminuzione dei traspor ti, il risparmio di acqua ed energia e l’eliminazione degli imballaggi di plastica e car tone, fattori che rendono queste produzioni ecosostenibili; • nutrizionale, visto il ricorso a prodotti di stagione e del territorio e il breve trasporto e stoccaggio, che ne mantengono inalterate tutte le caratteristiche organolettiche e i principi nutritivi; • della sicurezza alimentare, in quanto nella filiera lunga sono molte le produzioni ad essere impor tate da Paesi lontani con normative meno rigorose di quelle italiane in termini di controlli igienico-sanitari, con conseguente maggior rischio per la salute; • economico, poiché l’eliminazione delle intermediazioni e dei traspor ti abbatte il costo al consumatore; • del controllo sul prodotto, che grazie al rappor to diretto produttore-consumatore consente un acquisto più consapevole e trasparente.

Nel 2010, l’UNESCO ha dichiarato la ”Dieta mediterranea” Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità, riconoscendola come modello tradizionale per eccellenza, in quanto rappresentativa di un insieme di competenze, conoscenze, pratiche e tradizioni strettamente legate al paesaggio, alla tavola, alle colture, al raccolto, alla pesca, alla conservazione, trasformazione, preparazione e consumo di cibo.

Dall’analisi della doppia piramide alimentare-ambientale, emergono due obiettivi diversi, ma altrettanto rilevanti, perseguibili attraverso l’adozione della “Dieta mediterranea”: la tutela della salute e la tutela dell’ambiente.

Per quanto riguarda la tutela della salute, i principi fondamentali possono essere riassunti nei seguenti punti: • maggiore consumo di proteine vegetali rispetto a quelle animali; 100

• riduzione dei grassi saturi a favore di quelli vegetali insaturi; • riduzione della quota calorica globale; • aumento dei carboidrati complessi a sfavore di quelli semplici; • elevata introduzione di fibra alimentare; • riduzione del colesterolo; • maggiore consumo di carne bianca rispetto a quella rossa (una o due volte la settimana); • maggiore consumo di pesce e legumi; • consumo occasionale di dolci.

La dieta mediterranea rappresenta la miglior difesa naturale contro molte malattie e alcune forme di cancro. Il consumo di frutta, verdura e cereali integrali, ricchi di antiossidanti, aiuta a rinforzare il cuore e svolge un’azione protettiva contro molte patologie di origine cardiovascolare. Essendo ricca di vitamine, sali minerali e fibre non digeribili, la dieta mediterranea è anche indicata per prevenire malattie come arteriosclerosi, iper tensione e ictus. Impor tante è anche l’azione disintossicante e anticancerogena, grazie all’elevato appor to di vitamine degli alimenti suggeriti. L’alto valore nutritivo è assicurato inoltre da pane, pasta, olio di oliva e pesce. Altro componente fondamentale è la fibra alimentare che stimola il senso di sazietà, svolge un’azione regolatrice e protettiva sull’apparato gastro-intestinale e regola le funzioni intestinali, metaboliche e quelle riguardanti l’assorbimento dei nutrienti.

Per quanto concerne la tutela dell’ambiente, recenti studi hanno dimostrato che la dieta mediterranea, oltre ad essere buona, sana e completa, è anche sostenibile ed ecologica.

Questa dieta, quindi, possiede spiccate qualità salutistiche ed è anche la migliore dal punto di vista dell’impatto ambientale, rilevato attraverso l’analisi delle tre “impronte ecologiche“: le emissioni di gas serra, il consumo di acqua e lo sfruttamento del suolo. Ne consegue che la piramide alimentare prevede al ver tice la presenza di pietanze ad alta densità energetica, mentre la piramide dell’impatto ambientale appare esattamente rovesciata, con alla base le carni, che hanno invece un elevato impatto ambientale.

101

La “nostra” piramide alimentare Nell’ Istituto “Einstein-Nebbia” si è iniziato un percorso che prevede la progressiva sostituzione dei prodotti presenti nelle macchinette distributrici di merendine e bevande con prodotti più salutari.

Il progetto interpreta le numerose sollecitazioni ricevute dal MIUR e dalla regione Marche in relazione al tema dell’educazione alimentare. Per tanto, raccomanda, in par ticolare, la diffusione dei principi riguardanti l’impor tanza dell’assunzione di stili di vita sani e sostenibili, nell’ottica di un miglioramento della qualità della vita, nel rispetto dell’ambiente che ci ospita, allo scopo di agevolare e incoraggiare il consumo di prodotti salutari.

Inoltre, prevede lo sviluppo di comportamenti ispirati a uno stile di vita sano, con particolare riferimento alla corretta alimentazione dei giovani, nel rispetto di quelle che sono le “Linee guida per l’educazione alimentare 2015” proposte dal MIUR. Le “Linee guida” sollecitano la diffusione nelle scuole delle pratiche corrette già menzionate, allo scopo di prevenire le patologie legate all’alimentazione e i rischi connessi ai disturbi alimentari, quali anoressia e bulimia, intendendo educare all’uso e al consumo consapevole di cibi sicuri, buoni e sani.

Il progetto intende offrire una variazione nell’offer ta di cibi e bevande acquistabili dai distributori automatici presenti nei due edifici scolastici.

Propone, quindi, la sostituzione degli attuali prodotti alimentari con frutta fresca in vaschette, yogur t, snack con parmigiano e cracker, snack con frutta secca e oleosa, cioccolato del mercato “Equo e solidale”, tramezzini; prevede anche la presenza di prodotti specifici per celiaci.

Fra le bevande, in sostituzione delle attuali, propone acqua, tè, succhi di frutta, e liofilizzati di caffè, cioccolato “bio” ed “equo”. Include inoltre la possibilità di sospendere la somministrazione di bibite gassate e dolcificate, nonché di patatine e altri prodotti dolciari ritenuti non salutari.

La scuola può offrire ad alunni e famiglie quelle informazioni essenziali per effettuare scelte alimentari consapevoli, nel rispetto anche delle tradizioni culturali e gastronomiche. L’educazione alimentare deve aiutare i giovani a prendere coscienza dei loro bisogni, dei loro consumi e degli impulsi che li condizionano.

È un progetto di educazione alimentare fondato sull’informazione ma, soprattutto, sulla formazione dei giovani consumatori, che deve tenere nella giusta considerazione i nessi che collegano l’agricoltura, l’ambiente, l’alimentazione e la salute.

(capitolo sei) LE MARCHE ROMANTICHE

LE “MARCHE ROMANTICHE”: L’EVENTO Nella splendida cornice di Villa Salvati di Monte Rober to, venerdì 25 novembre 2016, si è tenuto il Gran galà “Le Marche romantiche. L’evento ha avuto lo scopo di celebrare, attraverso la musica, la poesia, il ballo e i piatti della tradizione, l’Ottocento, secolo sul quale si è concentrato il lavoro svolto durante l’intera durata del progetto, in quanto rappresentativo delle tradizioni millenarie del nostro territorio, prima dell’avvento della Rivoluzione industriale.

La serata ha anche fornito l’occasione per celebrare impor tanti personaggi della cultura marchigiana, come Antonio Nebbia, Giacomo Leopardi e Gioacchino Rossini.

Il galà si è aper to con una polonaise d’ingresso su musiche di Rossini, in cui docenti e studenti, vestiti in abiti ottocenteschi, hanno sfilato nel salone principale, dando il benvenuto agli ospiti. Dopo il saluto delle autorità, la presentazione del progetto e del lavoro svolto dai par tner, si è aper to l’aperitivo buffet. Succesivamente alcuni studenti in costume d’epoca hanno interpretato il rituale di coreutica, etichetta e corteggiamento tipico di un gran ballo ottocentesco, danzando alcuni balli tradizionali. Lo spettacolo è stato intervallato dal reading di alcuni scritti di Leopardi, in cui il poeta esaltava il fascino della danza e l’indissolubile legame tra ballo e vita. Prima di salire alle sale superiori per gustare la cena, gli ospiti hanno brindato sulle note di Libiam ne’ lieti calici di Giuseppe Verdi. Durante la serata è stato possibile assaporare i piatti ispirati al manuale del Nebbia Il cuoco maceratese, cucinati dagli studenti dell’Alberghiero con i prodotti forniti dall’I.I.S. “Salvati”. Il menu è stato presentato da una studentessa, che ha interpretato il ruolo di un cuoco seguace del Nebbia, utilizzando, per rimanere in atmosfera, il linguaggio arcaico ottocentesco. Il banchetto è stato allietato da performance musicali e da canti lirici.

107

Servizio di Ricevimento Prof.ssa Marina Giacometti Classe 4^ AR Servizio di Cucina e Pasticceria: Proff. Walter Borsini, Paolo Piaggesi, Giacomo Santini, Matteo Alessandroni, Cesare Patronelli, Costantino Casali Classi: Terze, Quarte e Quinte degli indirizzi Cucina e Pasticceria Servizio di Sala Proff. Roberta Mengascini, Vittoria Castignani, Cesare Lapadula Classi: 4^ DB 4^ CB 4^ EB. Coreografie Prof.ssa Raffaella Lodovici Canti Lorella Barboni Assistenza tecnica Prof. Gilberto Ombrosi Crediti fotografici Riccardo Pesaresi, Francesco Rocchetti

116

Bibliografia AA.VV., Guide d’Italia. Le Marche, Touring Editore, Milano 1997 M. Montanari Cibo gastronomia ospitalità. Vol. 2, Laterza, Roma-Bari 2015 AA.VV., Passato futuro. Percorso di storia dell’enogastronomia e dell’ospitalità alberghiera, SEI, Torino 2012 V. Calvani, Storia e progetto. Percorsi di storia dell’alimentazione e dell’ospitalità, A. Mondadori Scuola, Milano 2015 A.Tubelli, D. Pasquariello, Leopardi a tavola: 49 cibi della lista autografa di Giacomo Leopardi, Fausto Lupetti Editore, 2008 T. Lucchetti, Il poeta e la sua mensa. Memorie e sapori nella vita e nell’opera di Giacomo Leopardi, Il Lavoro Editoriale, 2012 A. Nebbia, Il cuoco maceratese, Remondini tipografo ed editore, Bassano 1820

Sitografia www.sapere.it/enciclopedia/Marche.html www.storienogastronomiche.it www.cronologia.it www.leonardo.it www.alimentipedia.it www.mednat.org/alimentazione/alimenti_storia www.lacucinaitaliana.it www.latavolaitaliana.org www.fondazioneveronesi.it www.federalimentare.it www.ilgiornaledelcibo.it www.taccuinistorici.it

www.gastronomiamarchigiana.it (Fabio Galeazzi) www.prodottitipicidellemarche.it www.fondazioneslowfood.com www.turismo.marche.it www.tipicoascoli.it www.picenopen.it www.assam.marche.it www.accademiadellostoccafisso.com www.intrage.it www.fondazioneveronesi.it

Indice (capitolo uno) INTRODUZIONE

3

Il Programma ministeriale “Made in Italy” e il progetto “Youth health, the italian food way”

5

(capitolo due) IL TERRITORIO

7

La regione Marche: caratteristiche storico-geografiche, ambientali e culturali

9

PRESENTAZIONE DEI PARTNER E DEL LORO RUOLO NEL TERRITORIO

13

L’Istituto d’Istruzione Superiore “Einstein-Nebbia” L’Istituto d’Istruzione Superiore “Salvati-Pieralisi” L’Istituto Comprensivo “G. Solari” L’Enfap Marche

13

(capitolo tre) LE TRADIZIONI

21

L’alimentazione nell’Ottocento

23

“RACCONTI DI CUCINA”: LE RICETTE TIPICHE DELLA NOSTRA TRADIZIONE

33

IL RAPPORTO TRA CULTURA ED ENOGASTRONOMIA

43

Antonio Nebbia Giacomo Leopardi Gioacchino Rossini

45

(capitolo quattro) LE TIPICITÀ

59

I prodotti tipici del territorio

60

LE RICETTE TIPICHE DEL TERRITORIO

76

(capitolo cinque) LA TRASPARENZA E LA TRACCIABILITÀ

87

Il convegno “Made in Italy” La filiera dei prodotti dell’Istituto Agrario “Salvati”

89

GLI ASPETTI NUTRIZIONALI DEL MENÙ “MADE IN ITALY”

96

La dieta mediterranea e il territorio marchigiano: la tutela della salute e dell’ambiente con i prodotti a Km 0

99

(capitolo sei) LE MARCHE ROMANTICHE

105

“LE MARCHE ROMANTICHE”: L’EVENTO

107

15 18 19

49 55

90

Progetto editoriale Lara Corvatta Progetto grafico e impaginazione Lucia Alfieri Testi a cura di Lara Corvatta Illustrazioni Walter Angelici Foto Riccardo Pesaresi, Francesco Rocchetti, Vincenzo Paoletti, I.I.S. “Salvati-Pieralisi”

Hanno collaborato al progetto I.I.S. “Einstein-Nebbia” – Loreto Prof. Gabriele Torquati Dirigente scolastico Prof.ssa Cristina Filipponi, Prof. Luigi Frati Collaboratori del Dirigente scolastico Dott.ssa Veneranda Ottaviani D.S.G.A. I docenti Renato Bonanno, Lara Cor vatta, Walter Angelici, Bianca Mayer, Filippa Calafati, Walter Borsini, Cesare Lapadula, Rober ta Mengascini, Vittoria Castignani, Marina Giacometti, Sabrina Bucci, Tamara Tavianini, Raffaella Lodovici, Paolo Piaggesi, Giacomo Santini, Cesare Patronelli, Costantino Casali, Matteo Alessandroni, Gilber to Ombrosi Il personale A.T.A. Monia Filipponi, Emanuela Filipponi, Maria Rosaria Leveque, Lorella Barboni, Daniela Boccoli, Eliana Fratoni, Mario Savino, Bruno Palumbo Le classi 4^ AR, 4^ BR, 4^ CB, 4^ DB, 4^ EB, 4^ HC, 5^ AR-P a.s. 2015/2016, 5^ DC, 5^ GC a.s. 2015/2016 I.I.S. “Salvati-Pieralisi” – Pianello Vallesina Prof. Mario Crescimbeni Dirigente scolastico a.s. 2015/2016 Prof. Francesco Savore Dirigente scolastico a.s. 2016/2017 Dott.ssa Tiziana Rocchetti D.S.G.A.

I docenti Tiziana D’Amico, Massimo Saturni, Piero Rocchetti, Lores Conti, Francesca Sellari, Stefania Scor tichini, Andrea Di Sebastiano Personale A.T.A. Enrico Cantiani, Mario Pittori, Gilda Giorgini, Michela Pergolini Le classi 3^ A e 3^ B

I.C. “Solari” – Loreto Prof.ssa Milena Brandoni Dirigente scolastico a.s. 2015/2016 Prof.ssa Angela Massaro Dirigente scolastico a.s. 2016/2017 Prof.ssa Anna Maria Longhi Collaboratrice del Dirigente scolastico Dott.ssa Cinzia Fioretti D.S.G.A. I docenti Laura Falasco, Giuseppina Vantaggiato, Corrado Razzano La classe 2^ C Scuola secondaria di primo grado Enfap Marche Prof. Elio Carfagna Dott. Vincenzo Paoletti

Finito di stampare da Tecnostampa Pigini Group Printing Division - Loreto, Trevi nel mese di Giugno 2017

Made in Italy I.I.S.”EINSTEIN-NEBBIA” Loreto (AN)