The Shadow of the Gaze

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Storia e implicazioni dell’ombra come mezzo di autorappresentazione nella fotografia

THE SHADOW OF THE GAZE

a cura di Lara Macrini

THE SHADOW OF THE GAZE

Storia e implicazioni dell’ombra come mezzo di autorappresentazione nella fotografia

Lara Macrini, 910260

Tesina di fotografia

Storia dell’arte contemporanea e linguaggi della comunicazione visiva Politecnico di Milano - Scuola del design Design della Comunicazione

Docenti Paolo Castelli, Sergio Giusti

A. A. 2020/2021

INDICE L’ombra dello sguardo P. 2 Ombra e fotografia: tra icona e indice P. 4 L’ombra dell’artista entra nella cornice P. 6 Un mezzo di autorappresentazione Bibliografia, sitografia, iconografia P. 14 P. 44
1. 2. 3. 4.

Nel 1908 il sociologo e fotografo statunitense Lewis Hine ritrae con uno scatto uno strillone all’angolo di una strada trafficata di Indianapolis durante una giornata estiva (Fig. 1). Hine era solito utilizzare la macchina fotografica come strumento per testimoniare e narrare le grandi trasformazioni sociali dell’America del primo ‘900, ma lo scatto John Howell, an Indianapolis newsboy si contraddistingue per un elemento innovativo che aprirà le porte ad un nuovo linguaggio: l’ombra del fotografo con la sua macchina e il treppiedi nell’atto di catturare l’immagine. Secondo Victor Stoicha, questa fotografia rappresenta la prima fotografia contenente un autoritratto in ombra di cui abbiamo conoscenza: in essa si palesa l’ombra della mano creativa, rappresentando così l’osservatore esterno come il soggetto incluso nell’istante stesso della creazione dell’immagine, quella che viene definita the shadow of the gaze. Questo scatto è un esempio di come l’inclusione delle ombre aggiunga un potente e complesso simbolismo all’immagine. E, in particolare, ci mostra come il ruolo fondamentale nel caso dell’ombra dell’autore, sia proprio renderla una fotografia non sul soggetto, ma sull’atto di fotografare il soggetto. Quello che possiamo così definire autoritratto in ombra venne ripreso dapprima nella pittura e, successivamente, nella fotografia, con la quale l’ombra ha connessioni profonde a livello tecnico, storico, ma anche semiotico.

SHADOWS, INDEXICAL TRACES OF THE ACT OF OBSERVATION, LITERALLY THE SHADOW OF THE GAZE, INSCRIBE OBSERVATION, THEY ARE BOTH FIGURATIVE AND PARADOXICAL, A SYMBOL OF PRESENCE AND ABSENCE.

Elizabeth Edwards, Photography and the performance of history, 2001.

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L’ombra dello sguardo 1.
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Fig. 1 Lewis Hine, John Howell, an Indianapolis newsboy, 1908.

Ombra e fotografia: tra icona e indice

L’ombra è l’unico oggetto veramente bidimensionale e non astratto esistente. Immateriale, incolore, piatta, l’ombra presenta tutti gli attributi di un qualcosa che non esiste, come un’illusione o un fantasma. Un’area oscura creata bloccando la luce, esistente solo come assenza di essa, ma allo stesso tempo paradossalmente l’elemento senza la quale vedremmo il mondo piatto, privo di consistenza o profondità. Le ombre sono visibili ma allo stesso tempo non sembrano far parte del mondo materiale, perché mancano di solidità e sostanzialità: sono sia fisiche che eteree, sempre presenti come compagni inseparabili ma inafferrabili di oggetti solidi che occupano il nostro spazio vitale. L’ombra non ha infatti un’esistenza indipendente, ma esiste come estensione contigua e quindi, a livello semiotico, come indice: la sua presenza, forma e intensità dipendono dalla forma dell’oggetto che intercetta la luce, dal colore, dalla consistenza, dalla forma della superficie su cui cade e dalla sorgente che la crea. L’ombra ha però anche qualità iconiche, rappresentando l’oggetto talvolta in modo quasi esatto, talvolta in modo distorto, configurandosi pertanto come segno a cavallo tra le categorie semiotiche di indice e icona. Questa indicalità iconica, copre un’area affascinante della cultura visiva, inclusi alcuni dei media e delle forme d’arte più percettivamente e cognitivamente potenti come la fotografia, che combina gli effetti di iconicità e indicalità trovando molti punti di contatto con l’ombra. La dipendenza da un’estensione fisica dell’oggetto rappresentato rende questi tipi di media molto più efficaci nel riflettere il mondo esterno, e di conseguenza molto più potenti nel loro effetto emotivo sugli spettatori rispetto ai media puramente iconici, i quali si basano unicamente sulla loro connessione immaginaria piuttosto che reale con il mondo.

3.
4

Ciò che unisce ombra e fotografia, oltre alla centralità della luce nella loro esistenza e l’esserne traccia, è la loro dipendenza diretta dalle proprietà visibili degli oggetti che rappresentano: entrambe catturano l’oggetto così com’è, senza influenze o interpretazioni. Certo i due fenomeni sono ovviamente diversi per molti aspetti, a partire dalla loro essenza: la prima, principalmente un effetto naturale, e la seconda, una tecnologia avanzata. Sono tuttavia storicamente connesse, in quanto la fotografia così come la conosciamo è emersa nel corso dei secoli come risultato di esperimenti ottici e forme di intrattenimento popolare che coinvolgono proiezioni di ombre.

AS INDEXES SHADOWS DO NOT HAVE AN INDEPENDENT EXISTENCE [...] IN ANALYZING THE COMMUNICATIVE FUNCTION OF CAST SHADOWS THE ICONIC DIMENSION IS ALSO IMPORTANT, BECAUSE SHADOWS ARE NOT ONLY INDEXICAL EXTENSIONS OF THEIR OBJECTS BUT THEY CAN ALSO RESEMBLE THEM IN VARYING DEGREES.

Pietr Sadowski, Between index and icon, 2016.
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L’ombra dell’artista entra nella cornice

Analizzare la storia che ha portato l’ombra dell’artista ad entrare nei dipinti, è utile per capirne il significato e il ruolo che ha acquisito successivamente con il suo ingresso nella fotografia. La pittura e la fotografia, tramite l’ombra, trovano infatti un punto d’incontro.

Fin dall’antichità l’arte occidentale ha sempre dipeso in maniera rilevante dalle ombre. L’origine stessa della pittura venne attribuita da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia ad un’ombra proiettata: la figlia del vasaio Butade Siciono, per conservare il ricordo dell’amato in partenza, ne tracciò il profilo ricalcando l’ombra del suo volto proiettata sul muro dal lume di una lanterna (Fig. 2, 3). Oltre all’antico mito, i contorni e le silhouette furono centrali nelle rappresentazioni su tombe egizie e vasi greci per un lungo periodo, fino al IV secolo, tuttavia l’ombra come chiaroscuro e ombreggiatura non fu utilizzata fino a molto più tardi. Gombrich scrisse che i greci sospettavano profondamente di tali tecniche ricordando come la parola che utilizzavano per definire la pittura illusionista era skiagraphia, “pittura delle ombre”. Platone, che utilizzò l’ombra come metafora della percezione imperfetta dell’esistenza nel mito della caverna, ritenne che i pittori di scenografia volessero ingannare il loro pubblico usandole. Anche Leonardo da Vinci, che studiò a fondo gli effetti delle ombre (Fig. 4), evitò di introdurle nelle sue opere, affermandone la disapprovazione da parte dei pittori e invitando gli artisti ad attenuarle il più possibile con l’introduzione di un certo grado di “nebbia” nei dipinti.

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4.
Fig. 2 David Allan, The Origin of Painting (‘The Maid of Corinth’), 1775. Olio su pannello, 31 x 38 cm. National Galleries of Scotland.
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Fig. 3 Joseph-Benoît Suvée, The invention of the art of drawing, 1791. Olio su tela, 267 x 131 cm. Bruges, Groeningemuseum. Fig. 4 Scuola di Leonardo da Vinci, Figures drawing cast shadows, ca. 1520. Penna su carta. New York, The Pierpont Morgan Library
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La paura delle ombre come distrazione continuò per molti secoli e solo a partire dal Quattrocento alcuni artisti iniziarono ad includere ombre forti nel loro lavoro, le quali diventarono via via sempre più accettate e di valore. Uno dei primi ritratti in ombra risale al 1553 ed è un dipinto di Martin van Heemskerk in cui l’ombra della mano di San Luca si riflette sulla tavola con la quale sta ritraendo la Vergine: l’inclusione dell’ombra della mano dell’artista trasforma potenzialmente il significato di questo dipinto, diventando, almeno in parte, un rimando all’artista e un discorso sull’atto di dipingere (Fig. 5). Lo stesso accade in artisti come Vicente Carducho e Marie-Louise Elisabeth Vigée-Lebrun (Fig. 6), la cui inclusione dell’ombra della mano creativa si traduce in un discorso più ampio sulla rappresentazione stessa.

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A sinistra, Fig. 5 Maarten van Heemskerck, St Luke Painting the Virgin, 1538. Olio su tela, 206 x 144 cm. Rennes, Musee des Beaux-Arts. A destra, Fig. 6 Élisabeth-Louise Vigée Le Brun, Self-portrait, 1790. Olio su tela, 100 x 81 cm. Firenze, Galleria degli Uffizi.

Fu nell’Europa del diciottesimo secolo che l’ombra iniziò ad avere un nuovo utilizzo tramite una pratica che in parte anticipò e portò un secolo dopo all’invenzione della fotografia. Si iniziarono infatti a diffondere i ritratti creati a partire dalle ombre dei profili tramite particolari macchinari, come la macchina per disegnare silhouette di Thomas Holloway (Fig. 7) o strumenti più avanzati che permettevano di realizzare ritratti ottico-meccanici come il Physionotrace. L’aiuto di un dispositivo ottico-meccanico che consentisse di prelevare in modo “automatico” l’ombra direttamente proiettata dal soggetto, comportava la presunta garanzia di realtà oggettiva che poi divenne connotazione specifica della fotografia. Il fatto notevole è proprio questo: sebbene le sagome delle ombre non fossero così dettagliate e colorate come i dipinti tradizionali, furono considerate più veritiere dell’aspetto (e della personalità, si pensi alla fisiognomica portata avanti in quel periodo da Johann Caspar Lavater) di una persona rispetto a quest’ultimi.

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Fig. 7 Thomas Holloway, A sure and convenient Machine for drawing Silhouettes, 1792. Incisione stampata su lino, 285 x 224 cm.

SHADES ARE THE WEAKEST, MOST VAPID, BUT, AT THE SAME TIME, WHEN THE LIGHT IS AT THE PROPER DISTANCE, AND FALLS PROPERLY ON THE COUNTENANCE TO TAKE THE PROFILE ACCURATELY, THE TRUEST REPRESENTATION THAT CAN BE GIVEN OF MAN. - THE WEAKEST, FOR IT IS NOT POSITIVE, IT IS ONLY SOMETHING NEGATIVE, ONLY THE BOUNDARY LINE OF HALF THE COUNTENANCE. THE TRUEST, BECAUSE IT IS THE IMMEDIATE EXPRESSION OF NATURE, SUCH AS NOT THE ABLEST PAINTER IS CAPABLE OF DRAWING, BY HAND, AFTER NATURE. WHAT CAN BE LESS THE IMAGE OF A LIVING MAN THAN A SHADE? YET HOW FULL OF SPEECH! LITTLE GOLD, BUT THE PUREST.

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Johann Caspar Lavater, Essays on physiognomy, 1789.

Nel XIX secolo le ombre nella pittura si avvicinarono più che mai alla fotografia per intenti e concetti. Charles Baudelaire descrisse l’arte moderna come una magia allusiva che contiene sia l’oggetto che il soggetto, il mondo al di fuori dell’artista e l’artista stesso, e ne fu un perfetto esempio Auguste Renoir. Dipingendo tra il 1867 e il 1868 la sua Parigi in Le Pont des Arts, creò una metodologia e un’estetica che sarebbe stata replicata dai fotografi di strada che lo seguirono, inserendo sé stesso nel paesaggio in cui si sentiva a casa tramite l’ombra (Fig. 8).

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Fig. 8 August Renoir, Le Pont des Arts, 1867-1868. Olio su tela, 60 x 100 cm. Los Angeles, Norton Simon Museum.
TO THE CONSUMMATE FLÂNEUR, THE ENTHUSIASTIC OBSERVER, THERE IS NOTHING MORE EXHILARATING THAN TO CHOOSE TO LIVE IN AMONGST THE PEOPLE, THE ACTION, THE ELUSIVE AND THE INFINITE. IT IS AN INSATIABLE SELF OF THE NON-SELF.
Charles
Baudelaire, Le Peintre de la vie moderne, 1863.

Non era la Parigi dell’élite ma dei suoi comuni cittadini impegnati in attività quotidiane, temi che vennero ripresi anche nella fotografia di autori come André Kertész, Henri Cartier-Bresson, Elliot Erwitt, Bill Brandt e innumerevoli altri. Quando il nuovo mezzo di rappresentazione visiva venne annunciato nel 1839, fu sicuramente influenzato dalla pittura, ma il suo impatto sulla società moderna fu immenso e il mondo dell’arte, a sua volta, ne fu coinvolto: quella che era iniziata come una competizione si rivelò un’alleanza di visione che cambiò radicalmente il modo in cui gli artisti, in particolare gli impressionisti, guardavano il mondo e rappresentavano la realtà. La pittura influenzò quindi la fotografia, ma allo stesso modo ne venne influenzata, ritrovandosi così in uno scambio reciproco che ci permette di passare facilmente dalla storia dell’autoritratto in ombra nella pittura a quella nella fotografia.

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Fig. 9 Claude Monet, La Promenade, 1875. Olio su tela, 100 x 81 cm. Washington, National Gallery.

Un mezzo di autorappresentazione

Nonostante tutto il realismo visivo che i mezzi fotografici introdussero e permisero, un suggestivo ritratto in semplice ombra continuò a mantenere la sua potenza e ad arricchirsi di significati e possibilità, come nella già citata fotografia di Lewis Hine. Dopo di lui moltissimi sono stati i fotografi che hanno deciso di autorappresentarsi tramite la propria ombra, come a volerle attribuire un significato più profondo, un modo per testimoniare il momento dello scatto e che può dire molto sull’intento e la visione del fotografo. Alfred Stieglitz, nel 1916, scattò Shadows in Lake (Fig. 10), dove emerge per la prima volta in una fotografia l’idea della superficie dell’acqua che passa da essere una superficie riflettente a una proiettata, un tema che trova un rimando alla storia di Narciso di Ovidio. Lo stesso accade in uno scatto di Claude Monet di pochi anni dopo (Fig. 11), il quale si allontana dagli intenti del mito di Narciso inserendo se stesso, tramite la propria ombra, senza dominare il paesaggio, ma immergendosi nell’immagine quasi per perdersi in essa. Al contrario dello scatto di Stieglitz, spinto forse più dal fascino per lo sfondo astratto che può rappresentare la texture dell’acqua a contorno delle due figure protagoniste e centrali, in quello di Monet la sua presenza è discreta ed è l’amato giardino d’acqua con le ninfee della sua casa a Giverny a rimanere il focus.

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IF, IN THE FINAL ANALYSIS, PHOTOGRAPHY WAS AN ALLEGORY OF PAINTING TO MONET, THEN TO STIEGLITZ, THE PHOTOGRAPH [...] WAS AN ALLEGORY OF PHOTOGRAPHY.
5.
Victor Stoichita, A Short History of the Shadow, 1997.
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Fig. 10 Alfred Stieglitz, Shadows in Lake, 1916. Fig. 11 Claude Monet, Monet’s Shadow on the Lily Pond, 1920.
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Fig. 13 Pablo Picasso, Jeune fille Frappé par la Tristesse, 1939. Olio su tela. Fig. 12 Pablo Picasso, L’Ombre, 1954. Olio e carboncino su tela, 130 x 97 cm. Parigi, Musée National Picasso.

Fu tra gli anni Venti e Trenta che, nonostante la sua complessità, l’ombra del profilo dell’artista divenne una vera e propria forma di autorappresentazione. Pablo Picasso fu uno dei principali artisti a rivoluzionarne la concezione: la sua pittura può essere effettivamente considerata come un tentativo di ridefinire l’intera tradizione dell’ombra della mano dell’artista che, se nell’estetica classica era come una traccia dell’autore nella sua opera, con lui simboleggia la cancellazione definitiva dei confini tra pittore e pittura. L’ombra dell’autore nasce dalle sue creazioni e si confronta con esse: i dipinti stessi in cui è presente la sua ombra (Fig. 12-14) vengono in realtà costruiti intorno all’idea che il suo creatore venga inserito nel mondo delle forme incorniciate.

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Fig. 14 Pablo Picasso, Silhouette de Picasso et de Jeune Fille Pleurer, 1940. Olio su tela. Parigi, Musée National Picasso.
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Fig. 17 Walker Evans, Shadow self-portrait, 1927. Fig. 15 Walker Evans, Shadow self-portrait, 1927. Fig. 16 Walker Evans, Shadow self-portrait, 1927. Fig. 18 Walker Evans, Shadow self-portrait, s.d.

Per i corrispettivi nella fotografia, pensiamo agli autoritratti di Walker Evans (Fig. 15-18) e Andrè Kertèsz (Fig. 19-21), i quali parlano al soggetto del creatore, dell’artista, dell’osservatore collocato all’interno della loro arte tramite una silhouette d’ombra, sottolineandone la profonda connessione. Queste fotografie ricoprono un ruolo fondamentale nel tracciare l’utilizzo dell’ombra per i ritratti proprio perchè collegano la fotografia moderna alla storia dell’ombra nell’arte. Da lì in avanti, l’autoritratto in ombra continuò ad apparire occasionalmente sia nella pittura che negli scatti fotografici fino agli anni ‘70, quando le porte verso questo linguaggio si aprirono definitivamente..

MANY PERSONS START OBJECTIONS AGAINST SILHOUETTE LIKENESSES, AND EXCLAIM “WHAT CAN YOU SEE IN THEM? THE EYES, EARS, AND MUSCLES OF THE FACE ARE LOST, AND THERE IS MERELY THE FORE HEAD, NOSE, MOUTH, AND CHIN TO BE SEEN.” IT IS TRUE, THAT THERE IS LITTLE IN THE PROFILE OF THE FACE; BUT IT IS EQUALLY TRUE, THAT THIS LITTLE, IS QUITE SUFFICIENT TO AFFORD A RESEMBLANCE OF THE MOST SATISFACTORY DESCRIPTION.

19
Augustin Amant Constant Fidèle Edouart, A Treatise on Silhouette Likenesses, 1835.
20
Fig. 19, 20 André Kertész, Self-portraits, 1927.
21
Fig. 21 André Kertész, Lion and Shadow, 1949.

Pensiamo agli autoritratti in ombra di Vivian Maier (Fig. 22-47), un gioco infinito tra la fotografa ed il suo doppio in cui è difficile non leggere quell’amore per la fotografia che l’ha portata a scattare migliaia di foto nella sua vita ma sempre nella totale solitudine. O quelli di Lee Friedlander (Fig. 48-54) in cui l’ombra, a volte minacciosa e possessiva quando imposta su un’altra persona, a volte giocosa e sproporzionata o a volte con la macchina fotografica davanti agli occhi come fosse la versione fotografica dell’abbattimento della quarta parete, viene trattata come ospite d’onore sfruttandone la compagnia e trovando instancabilmente modi per adattarla agli eventi e alla sua vita. E come loro, ritroviamo scatti della propria ombra portata negli autoritratti di Beese Lotte (Fig. 56), Umbo (Fig. 55), Jean Moral (Fig. 58), Olive Cotton (Fig. 57), Louis Farer (Fig. 62), Imogen Cunningham (Fig. 59-61), Ansel Adams (Fig. 67), Daido Moriyama (Fig. 65, 75, 77, 80), Henri Cartier-Bresson (Fig. 78) Jeanloup Sieff (Fig. 70-71) Ed Ruscha (Fig. 63), Elliott Erwitt (Fig. 73, 74), Giacomo Brunelli (Fig. 81-92) e molti ancora, in alcuni casi rappresentando scatti sporadici o unici, in altri vere e proprie collezioni inerenti al tema dell’autoritratto in ombra.

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Fig. 22 Vivian Maier, Self-Portrait, s.d.
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Fig. 23 Vivian Maier, Self-Portrait, 1955. Fig. 24 Vivian Maier, Self-Portrait, s.d. Fig. 25 Vivian Maier, Self-Portrait, s.d. Fig. 26 Vivian Maier, Self-Portrait, 1954.
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Fig. 27 Vivian Maier, Self-Portrait, s.d. Fig. 28 Vivian Maier, Self-Portrait, s.d. Fig. 30 Vivian Maier, Self-Portrait, 1960 ca. Fig. 31 Vivian Maier, Self-Portrait, 1968.
25
Fig. 29 Vivian Maier, Self-Portrait, 1956. Fig. 33 Vivian Maier, Self-Portrait, s.d. Fig. 32 Vivian Maier, Self-Portrait, 1954. Fig. 34 Vivian Maier, Self-Portrait, s.d.
26
Fig. 35 Vivian Maier, Self-Portrait, s.d. Fig. 37 Vivian Maier, Self-Portrait, 1959. Fig. 39 Vivian Maier, Self-Portrait, 1971. Fig. 38 Vivian Maier, Self-Portrait, 1970.
27
Fig. 36 Vivian Maier, Self-Portrait, 1955.
28
Fig. 41 Vivian Maier, Self-Portrait, 1959. Fig. 42 Vivian Maier, Self-Portrait, s.d. Fig. 43 Vivian Maier, Self-Portrait, s.d. Fig. 40 Vivian Maier, Self-Portrait, 1954.
29
Fig. 44 Vivian Maier, Self-Portrait, 1967 ca. Fig. 45 Vivian Maier, Self-Portrait, 1970. Fig. 47 Vivian Maier, Self-Portrait, s.d. Fig. 46 Vivian Maier, Self-Portrait, 1970.
30
Fig. 48 Lee Friedlander, New York City, 1966. Fig. 49 Lee Friedlander, Self-Portrait, s.d.
31
Fig. 50 Lee Friedlander, Shadow Self-Portrait on Maria, 1966.
32
Fig. 51 Lee Friedlander, Wilmington, Delaware, 1965. Fig. 52 Lee Friedlander, Westport, Connecticut, 1968.
33
Fig. 54 Lee Friedlander, Canyon de Chelly, Arizon, 1983. Fig. 53 Lee Friedlander, San Francisco, 1970.
34
Fig. 55 Umbo (Otto Umbehr), Self-Portrait, 1930 ca.
35
Fig. 56 Lotte Beese, Self-Portrait, 1927. Fig. 58 Jean Moral, Self-Portrait, 1934. Fig. 57 Olive Cotton, The Photographer’s Shadow, 1935. Fig. 59 Imogen Cunningham, Self-Portrait, 1946. Fig. 62 Louis Faurer, Self-Portrait, 1947. Fig. 63 Ed Ruscha, Royal Road Test, 1967. Fig. 64 Martine Franck, Self-portrait, s.d. Fig. 60 Imogen Cunningham, Self-Portrait, 1946.
36
Fig. 61 Imogen Cunningham, Self-Portrait, 1957. Fig. 66 Ilse Bing, Self-Portrait with Staccato, 1967.
37
Fig. 65 Daido Moriyama, Self-Portrait, 1960s.
38
Fig. 70 Jeanloup Sieff, Self-Portrait, s.d. Fig. 69 Kenneth Josephson, Matthew, 1963. Fig. 68 Martin Martincek, Self-Portrait, 1960. Fig. 67 Ansel Adams, Self-Portrait, 1958.
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Fig. 72 Erich Hartmann, Self-Portrait, 1981. Fig. 74 Elliott Erwitt, Ireland, 1991. Fig. 71 Jeanloup Sieff, Self-Portrait, s.d. Fig. 73 Elliott Erwitt, Amagansett, 1991.
40
Fig. 76 John Vink, Self-Portrait, Colorado, 1986. Fig. 75 Daido Moriyama, Self-Portrait, s.d. Fig. 77 Daido Moriyama, Self-Portrait, s.d.
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Fig. 80 Daido Moriyama, Self-Portrait, 1997. Fig. 79 Robert Frank, New York City, 7 Bleecker Street, September, 1993. Fig. 78 Henri Cartier-Bresson, Alpes de Haute-Provence, Near Cereste, 1999.
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Fig. 81-92 Giacomo Brunelli, Self-Portraits, 2010-2012.

Ritroviamo così l’utilizzo dell’autoritratto in ombra ripetuto in tempi e contesti differenti, sì con innumerevoli sfumature di senso e intenti, ma accompagnato sempre da un dialogo implicito sul lavoro e sull’azione compiuta dal fotografo. L’inserimento dell’ombra offre infatti grandi possibilità di espressione: permette ad esempio di inserirsi in un paesaggio, di affermare il proprio passaggio, la propria appartenenza o il proprio attaccamento ad esso. Oppure può assumere un significato narrativo, permettendo al fotografo di raccontare una storia, di narrare relazioni, vite, contesti. Ma è inevitabile il rimando a un discorso più ampio sul mezzo e sull’output fotografico.

Includendo l’ombra dell’autore, i confini della fotografia diventano ambigui, perché ritagliano sì uno spazio determinato, ma contenente al suo interno anche parte di quello esterno, mettendo in scena il meccanismo alla base dello scatto. L’ombra va dunque oltre l’essere autobiografica e narrativa, oltre l’autoritratto e l’autorappresentazione, diventa un elemento della fotografia che racconta qualcosa sulla realizzazione della fotografia medesima. Costituisce, cioè, un elemento metafotografico, tramite il quale una rappresentazione parla di se stessa, sfondando la quarta parete e mostrandoci il “di qua” della scena.

Questo ci ricorda una cosa in particolare: la fotografia è enunciata da un corpo che ha preso posizione nel mondo. Il fotografo non è mai un soggetto disincarnato in uno spazio altro e tenuto a distanza; il fotografo è essenzialmente un soggetto-corpo collocato in una situazione della quale lui, che sta scattando la foto, è uno degli elementi. Capiamo quindi come la fotografia offra qualcosa che i pittori non poterono mai realizzare: l’impronta dell’atto stesso che dà origine all’immagine. Allo spettatore viene a mancare dunque l’illusione di star guardando una scena della vita reale, una registrazione distaccata e impersonale, un documento oggettivo, ma gli si rende evidente l’artificiosità (in quanto farsi) della rappresentazione.

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Bibliografia

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Casati, R. (2003). The Shadow Club. London.

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Currell, D. (2007). Shadow Puppets and Shadow Play. Ramsbury.

Edouart, A. A. C. F. (1835). A Treatise on Silhouette Likenesses

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Gombrich, E. H. (1995). Shadows. The Depiction of Cast Shadows in Western Art. London.

Jappy, T. (2013). Introduction to Peircean Visual Semiotics. London-New York.

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Sitografia

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https://stevemiddlehurstcontextandnarrative.wordpress.com/2015/05/24/the-mysterious-shadow/

· Finestre su arte e cinema (s.d). Articoli sull’Ombra. [online]

https://finestresuartecinemaemusica.blogspot.com/search/label/Ombra

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https://streetphotography.com/the-shadow-knows-by-lee-friedlander/

· Iles, C. (s.d). The Shadow of the Gaze. [online]

http://slaterbradley.com/uploads/production/10926/the-shadow-of-the-gaze-illes.pdf

· Avedon, E. (s.d). Self-Portrait: My Impressions of Vivian Maier. [online]

https://www.lesdoucheslagalerie.com/usr/documents/exhibitions/press_release_url/116/ pk_vivian_maier_self_portraits.pdf

Iconografia

· Norton Simon Museum

https://www.nortonsimon.org/

· Museum of Modern Art

https://www.moma.org/

· National Gallery of Art

https://www.nga.gov/

· Science Museum Group

https://collection.sciencemuseumgroup.org.uk/

· National Galleries of Scotland

https://www.nationalgalleries.org/

· Fraenkel Gallery

https://fraenkelgallery.com/

· Vivian Maier

http://www.vivianmaier.com/

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THE SHADOW IS AS IMPORTANT AS THE REAL THING
Man Ray

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